L'illustre attore Ermete Zaccone mi ha chiesto un monologo: glielo ho mandato; ma, siccome non lo reciterà, lo trascrivo qui.
Ella è ancora lì dentro (indicando la porta a sinistra), certamente senza fare nulla, ma nemmeno oggi verrà a passeggio. Se glielo chiedessi implorando, sarebbe sempre la stessa risposta, sempre quello sguardo fisso, enigmatico, che io solo intendo. Che cosa vede ella in me? Eppure non era presente allora... Arrivò dopo, mentre guardavo quell'altra per terra, ma il sangue non le usciva ancora dal busto; soltanto nello sforzo, che ella fece per alzarsi, vidi sul pavimento alcune gocce rosse, rotonde. Anche in quel momento io vedevo... Non è vero che, commettendo certe cose, si perda la ragione: si vede, si capisce, si vuole come nemmeno ce ne saremmo creduti capaci. È un'altra cosa: pare quasi che una seconda anima si levi in noi, penetrando violentemente, con un'altra logica, nella nostra solita ragione per condurci dritti, inflessibili ad un'altra meta senza nome.
Perchè feci così? Ci avevo pensato prima? So almeno adesso di averne avuto il diritto? Questo solamente so, di avere tutto capito, tutto voluto, con una lucidezza, con una giustizia, nella quale il mio sacrificio non era meno intero del suo.
[160] Anche adesso che ella mi ricompare sul volto di Livia, adesso che sono più solo di lei nel sepolcro, la mia vita e il mio spirito non hanno altro ricordo.
Mio padre e mia madre non mi amavano, benchè fossi figlio unico: ero un fanciullo malinconico, caparbio, che soffriva già dell'essere povero, e al quale ogni più piccola ingiustizia faceva un male profondo. Me ne ricordo ancora: non bisognerebbe essere così. La mia vita somigliò apparentemente a quella de' miei compagni sino al giorno che la vidi, lei bianca, superba, povera come me, quantunque nata di una migliore famiglia, sdegnosa e sdegnata della vita, che la circondava. Mi parve che qualche cosa di sonoro, di lampeggiante, mi avviluppasse; provai come un senso di essere arrivato... Dopo ho dovuto pensare per molti anni a tale momento senza potermelo spiegare... L'amavo io seriamente, era lei, la donna che dovevo amare, o piuttosto non era ella stata per la mia anima che un motivo fatale, una di quelle rivelazioni, nelle quali scopriamo noi stessi? Allora me la sentivo dentro il cuore, come anche adesso mi sento il cuore nel petto; non mi suiciderei se lo strappassi? Mi sono suicidato così uccidendola.
Ero quasi arrivato colla mia prima impresa d'ingegnere alla ricchezza: vivevamo soli; anche lei figlia unica era sola, giacchè sua madre aveva sposato in seconde nozze un giovane impiegato nelle miniere di Cesena. La nascita di Livia non aveva modificato i nostri rapporti: io l'adoravo sempre così ciecamente, con quella passione di amante, che non deve capire per durare. Diventando padre s'impara di essere marito; io ero sempre l'amante. Ella invece rimaneva chiusa in se stessa: si era fatta più bella e pareva felice, ma i suoi occhi in certi giorni mi guardavano così freddamente che mi sentivo diventare uno straniero davanti a lei. E allora mi si rinnovava nel fondo del cuore quella sofferenza di coloro che hanno durato troppo nella miseria, quel dubbio di se stessi, della propria inferiorità, che pare un presentimento [161] di nuove miserie. Io non avrei voluto che amare, essere amato, niente altro che essere amato come tutti lo sono da qualcuno nella vita: ma forse è anche questa una vana pretensione.
Ella povera mi aveva sposato povero, e io l'avevo già fatta quasi ricca: perchè dunque sposarmi? Lo sanno nemmeno le donne perchè si sposino? Passano dal convento al matrimonio col primo sconosciuto senza curarsi di riconoscerlo: e dopo?
Tradiscono? Mutano solamente? O sentono di andare incontro alla verità amando, e dimenticano intrepidamente tutto?
Ella diventava ogni giorno più imperiosa e più bianca.
La sua bellezza non era di quelle che la gente vede: bisognava intenderla per subirla. Talvolta aveva dei trascoloramenti, delle illuminazioni, dalle quali la sua fisonomia usciva come da un velo: in altri momenti me la sentivo passare sull'anima come, di primavera, certe emanazioni mattinali della terra ci passano sul volto, e per un minuto ce lo fanno ritornare giovane.
La mattina del suo ultimo onomastico, porgendole il solito regalo, le chiesi sorridendo se amava più Livia o me.
— Ma Livia! — rispose col suo sguardo freddo; — non vedi come mi somiglia? —
Infatti è tutta lei, così bianca, superba, bionda, con un sorriso anche più enigmatico, con uno sguardo anche più fisso: non mi ama, nessuna delle due mi ha mai amato. Ecco il mio torto, l'inferiorità, che nessun codice può togliere. Che importa il matrimonio? La società, Dio, impongono di amare, e il cuore non ama: allora la legge diventa tirannica, e la tragedia si compie. Perchè? Vi è un perchè?
Ella morì col proprio segreto: forse avrei potuto indovinarglielo sul volto nel primo momento della sorpresa, se la mia anima fosse stata davvero presente a se stessa... invece non si può, si sente che tutto vi crolla dintorno, [162] si ha la coscienza di quanto si sta per fare, ma non è possibile analizzare gli altri.
Avevo sempre quella lettera nel pugno.
La lettera era crudele, villana: un altro avrebbe potuto non tenerne conto, io ne fui colpito a morte. Corsi sul luogo: la strada era lunga e deserta, il sole l'incendiava. Non vidi nulla dapprincipio, le finestre erano socchiuse, le porte silenziose: dal selciato e dai muri mi venivano delle fiamme sul volto. Quella casa aveva al primo piano una sola finestra aperta; mi dissi: — Sono là! — E mi spinsi quasi a corsa, perchè avevo già veduta la porta aperta, quando ella mi apparve vestita di bianco, colla piuma bianca sul grande cappellino di paglia. Sentii freddo.
Ella si arrestò sugli scalini, guardando dal lato opposto al mio.
Ebbi un'idea: egli se n'è andato prima, per di là.
Non mi chiesi nemmeno chi potesse essere: ella non mi aveva ancora visto, ma i miei occhi ardevano più del sole. Avevo già notato tutto sul suo volto, il languore, un sorriso, che le era rimasto sulle labbra. Ella discese i due scalini, io mi avventai.
Vedendomi la lettera nella mano, diventò pallidissima.
Prima di parlare era già tutto finito: ma ella tremò per la prima, rivolgendosi a guardare per dove egli si era allontanato.
— Siete sola? — chiesi a denti stretti.
— Sì.
— Siete stata in questa casa?
— Sì.
— Con lui?
— Sì. —
Chi era lui? Io non lo sapevo, la lettera non lo nominava.
Ella si avviò senz'altro.
Le andavo dietro incantato nel suo vestito, dentro al suo profumo, che mi avviluppava tutto come una ingiuria: [163] avevo la coscienza di non essere più io. Ella camminava come se non la seguissi; sentivo il suo disprezzo di donna, che non vi vuole, quella superiorità micidiale di chi si vendica finalmente di aver dovuto lasciarsi amare.
Un fiacre sbucò da un vicolo.
— Ferma! — gridai.
Nel fiacre mi parve che fra noi la distanza crescesse. Ella si era atteggiata al solito, elegantemente, guardando come se fosse sola; io traballavo dentro, capendo che avrei fatto inesorabilmente, irresistibilmente, qualche cosa. Ero solo: quella donna doveva uscire dalla mia vita, perchè nessuno estraneo può restare dentro la vita di un altro. Chi era ella? mi feci questa domanda: perchè era con me? Ancora?
Appena in casa ella andò dritta nel salotto a spalancare la finestra: vi si sporse un momento, e tornò a mostrarsi fra le tende, così bianca, col volto marmoreo.
Sentii la morte passare fra noi.
Avevo bisogno di urlare. Notai che un riccio le cadeva disfatto sull'orecchio sinistro; poi mi accorsi che mi era cacciato la mano nella tasca destra dei calzoni stringendo il piccolo revolver.
— Chi è? — gridai finalmente.
Ella seguitava a guardarmi.
— Chi è? Rispondete o vi uccido. —
Ero costretto a farlo.
Un sorriso enigmatico le passò sulle labbra pallide: le avevo spianato la rivoltella al petto, ma quel sorriso mi fece male: indietreggiai tremando più di lei; il suo sguardo mi sferzò con un lampo, e allora gridai dallo spasimo:
— Chi è? —
Tirai il grilletto.
Era caduta colla testa dietro la tenda: ebbi la sensazione di un abisso che mi sprofondasse ai piedi: poi feci due passi per scostare la tenda, quando un urlo terribile [164] mi percosse, e Livia e la serva mi spinsero da parte.
— Mamma, mamma! —
— L'assassino! — urlava la serva fuggendo.
Uscii che le scale erano già piene d'inquilini per andare alla questura colla rivoltella in tasca: non avevo che una idea dinanzi: ella era morta.
Il mio racconto fece poca impressione al delegato, che mi domandò subito chi fosse quel signore. Io non potevo rispondere, ma sentii che vi era una intenzione cortese in quella parola «signore». Ero esaurito. La notte dormii prima di avere riordinato le mie idee; la mattina, svegliandomi, fui sorpreso io stesso della mia calma; non avevo rimorsi, io che non ho mai potuto far soffrire alcuno, non soffrivo dell'aver ucciso. Quell'altro mi rimaneva indifferente.
Poi seppi che la vecchia zia Matilde aveva ricoverato Livia. Ci vollero molti giorni prima che m'interessassi di lei e di me stesso, malgrado gli interrogatorii col giudice e col cancelliere, che mi sembravano seccati del mio caso. Da una frase capii che sarei assolto, e che consideravano quindi come inutile tutto quel lavoro; ma avrebbero anch'essi voluto sapere chi era quel signore. Gualtieri, il mio compagno di scuola, volle che lo scegliessi fra gli avvocati, che mi si profferivano allettati dalla teatralità della causa: però nemmeno a lui dissi più che al giudice, perchè sentivo di non poter essere compreso. Avevo fatto di quella donna la mia vita, ella lo aveva acconsentito: era mia appunto perchè sarei morto per lei in qualunque momento, per qualunque ragione. Ella doveva dunque dirmelo prima, e mi sarei ucciso: mi aveva tradito, avevo diritto di ucciderla.
Ma ciò era inintelligibile.
Nel processo parlai poco. Conoscevo un giudice e parecchi giurati, anch'essi mariti come me, ma lo sapevano e sopportavano; quindi assolsero in me un coraggio, che forse non avevano avuto, e segretamente stimavano [165] grande. Di tutto il processo non mi rimase che l'impressione di un fatto assurdo. Poi, al momento di uscire dal portone delle assisie, ebbi una sensazione violenta di dolcezza, mentre la gente mi guardava con una simpatia, nella quale indovinai una diffidenza. Ero stato assolto, ma per loro ero un assassino.
Da quell'istante cominciò il martirio.
Tornai solo nella mia casa vuota, perchè anche la serva si era licenziata, e non avevo voluto lasciar salire con me Gualtieri, troppo felice del proprio trionfo. Le tracce di lei erano dappertutto, solamente nel salotto mancava la tenda bianca. Scappai di casa: quando mi trovai davanti a quella della zia Matilde, non avevo più forza. Per fortuna non incontrai alcuno sulle scale, respinsi la zia Matilde, che mi aveva aperto, e corsi colle braccia spalancate a Livia.
La fanciulla gettò un grido di terrore, che mi arrestò.
La zia Matilde la portò sulle braccia nell'altra camera.
Quanto tardò a tornare? Mi ricordo il suo discorso freddo, pesante: Livia aveva di me una paura, un orrore, che avrebbe potuto metterla seriamente in pericolo; io non dovevo riprenderla, e siccome ella stessa non poteva tenerla presso di sè, bisognava metterla in convento.
Non seppi rispondere, era troppo vero.
Tornai a casa cangiato. Avevo finalmente capito, non mi restava più nulla nel cuore, avevo fatto il deserto intorno a me. Mi ostinai a non mutare appartamento, perchè mi sarebbe sembrato di mostrare paura davanti alla morta: quindi rimasi nella nostra camera, sopra quel letto, nel quale per molte settimane credetti finalmente che sarei morto se mi fossi addormentato. Un orgoglio assurdo mi sorreggeva; però la maggior parte degli amici mi evitava, e per essere salutato da qualcuno dovevo sottomettermi a tutte le critiche della sua compassione.
Se mi fossi ritirato, tutti avrebbero detto che confessavo il mio torto. Vissi solo con una vecchia serva, che [166] aveva avuto il coraggio di tornare con me, ripresi il lavoro, misi Livia presso le suore dorotee, che mi fecero capire di accettarla per misericordia. L'ostinazione a voler vivere diede al mio carattere una forza, della quale non mi sarei creduto capace; ma quel fatto mi si allargava sempre più nello spirito, lo vedevo sempre più chiaramente appena cessavo di lavorare.
La morta mi possedeva più di prima, non avrei amato un'altra donna.
E siccome Livia le somigliava, volli che Livia mi amasse per vendicarmi di sua madre nella vittoria di un amore più puro.
La società mi aveva assolto al tribunale delle sue leggi, condannandomi a quello del suo costume: mi aveva assolto, perchè la società poggia appunto sulla soggezione della moglie al marito, mentre io avevo ucciso come un amante, il quale non era riuscito a farsi amare.
Ecco il mio torto.
Il mio orgoglio di uomo vinto, condannato segretamente da tutti, si nutrì di collere, di rimpianti, di dispregi, invocando di nascosto, indarno, soccorso da tutti.
Perchè Livia non amasse sua madre mi feci piccolo per meglio indovinare tutti i suoi sentimenti, adorai, soffersi, disperai senza cedere.
Ah! la morta mi riappariva sul suo volto coi medesimi occhi azzurri, più grandi, che mi guardavano come lei mi aveva guardato l'ultima volta. Le suore cercavano sempre di abbreviare il nostro colloquio, io tremavo quando vedevo passare un brivido sotto quella sua pelle di camelia, e avrei voluto urlarle tutto sul volto, benchè ella lo sapesse già. In qual modo glielo avevan dunque raccontato?
Sentivo che con lei non avrei potuto mai spiegarmi: come dire certe cose ad una fanciulla di quindici anni? Capirebbe nemmeno? È impossibile, è impossibile!
Un giorno imparai che una compagna le aveva gridato in un litigio: — Tu sei la figlia dell'assassino! —
[167] Che cosa diventa un padre per la figlia, alla quale uccise la mamma? Tutta la pietà è per la morta: come provare che essa ebbe torto?
Io lavoravo a diventare ricco, perchè Livia mi dovesse almeno ciò: avevo comprato una casa, mutato i mobili, cancellato tutte le tracce, ottenuto che la zia Matilde venisse a stare con me per trarre Livia dal convento: e invece la zia morì prima.
Un'altra volta Livia mi disse con voce tremante dinanzi alla suora di volere uscire subito subito: compresi che quella ingiuria le era stata ripetuta, ma ella mi fissava con uno sguardo così enigmatico che dovetti abbassare la testa.
Due lagrime, io che non potevo più piangere, mi caddero dagli occhi.
— Mi ami, Livia? — gridai aprendole le braccia.
— Sì, bisogna che amiamo i genitori, — mi rispose senza muoversi.
Ah! io non sarei perdonato mai, mai. Il padre non può aver ucciso la madre della propria figlia: l'amante solo può uccidere. Ma il padre, che non sa immolarsi come marito, non sa essere padre: lo capisco, è la mia condanna, è la giustizia di Dio e di mia figlia, la giustizia vera.
Ella vorrebbe amarmi e non può: somiglia tutta a sua madre, sono sicuro che non ha nemmeno avuto bisogno di perdonarle, mentre io invece le faccio orrore. Mi accorgo che talvolta mi guarda le mani: ogni mia piccola collera anche con estranei diventa per lei una minaccia di morte, in ogni sua resistenza sento una rivincita di quell'altra.
La morta compie il proprio trionfo, uccidendomi come padre dopo avermi ucciso come marito: di noi due chi è dunque l'assassino?
Livia mi fuggirà, non può durare a vivere così, sempre sola con me e la vecchia Geltrude; accetterà il primo marito che si presenti, senza amarlo, solamente per mutare [168] nome e casa, per non uscire più nella strada con me. E dopo? Se amerà un altro come sua madre?!
Se suo marito fosse anch'egli come me!
Dio! Dio!
Ella non parla quasi mai, ma i suoi occhi mi dicono tutto (si accosta origliando alla porta).
È lì dentro senza fare nulla: trema che io la chiami perchè esca a passeggio con me; non verrà, dirà, come ieri, che non si sente bene.
— Livia, Livia! (seco stesso, a bassissima voce) tua madre non ti avrebbe amata quanto ti amo io! (rimane perplesso davanti alla porta, quindi si ritira tristamente).
— Sempre così! La stessa donna in tutte le donne, che dobbiamo amare anche quando non ci ama, e che nemmeno colla morte possiamo uccidere nel nostro cuore.
CALA LA TELA.
[169]