— Qu'est-ce que ça prouve? —
Domandava un abate uscendo dall'Opera dopo avervi udito l'Orfeo di Gluck.
E siccome egli era uno studente di matematica, tutti gli uomini di spirito si credettero in diritto di sbertarlo: quindi gli artisti, nel loro orgoglio di anime incomprese, consacrano quella sua interrogazione alla gloria di esprimere tutto il ridicolo della pedanteria scolastica.
Eppure non è così.
Da oltre mezzo secolo le teoriche della musica drammatica hanno cambiato. Confondendo dramma e musica, si volle che questa dovesse significare l'epoca, il carattere, l'azione, tutti i moti di quello: non si riconobbero più differenze tra la frase scritta e la frase fonica, anzi si giudicò l'una meno viva dell'altra. La musica diventava così il linguaggio delle passioni e delle idee, precisandone i gradi, distinguendone le contradizioni, anche nel loro più repentino coagularsi o nella loro più lenta dissoluzione.
La musica invece non può rendere nè una idea, nè un uomo, nè un'epoca; il suo linguaggio non oltrepassa l'espressione di sentimenti rudimentali ed universali, vaghi sempre, perchè la sua è appunto una voce dell'indefinito. Aprite qualunque spartito senza leggerne il [24] titolo, e provatevi dalla musica ad indovinarlo: scegliete un melodramma, mutatene l'epoca, i personaggi, l'azione, e nullameno seguiterà ad essere bello, se in questa mutazione avrete rispettato il rapporto primordiale dei sentimenti e delle sensazioni, non gettando un gruppo di frasi melanconiche su parole allegre, o adagiando una scena nella concitazione di un crescendo.
Quell'abate, uscendo da uno dei nostri teatri lirici, avrebbe ancora ragione di ripetere la stessa domanda a tutti i melomani, che parlano di ambiente, di color locale, di dramma storico e mitico, di commedia antica e di idillio moderno, di musica sacra e profana: qu'est-ce que ça prouve?
Invece l'idillio, la commedia, il dramma, la tragedia diventano davvero una prova, rivelando tutta l'anima umana in pace o in guerra contro il destino nell'immutabile carattere della propria individualità, nel giudizio supremo della coscienza sulle opere, che vi si compiono. Ma che cosa prova la musica, dopo tanta vanteria di teoriche ed esplicazione di critici e credulità di pubblico cogli ultimi melodrammi, pei quali le spese di rappresentazione sorpassarono i limiti più lontani della fantasia? Tutta l'opera e tutti i personaggi sono nella esteriorità del costume e della scena: chi potrebbe davvero, chiudendo gli occhi, distinguere nel canto la gelosia di un baritono mascherato da generale egiziano da quella di un altro baritono vestito da crociato o da gentiluomo del rinascimento? Come indovinare la collera della gelosia fra tutte le altre della superbia o dell'avarizia, se il baritono non la spieghi colle parole? Poichè in ogni amore vi sono momenti di purità divina, come riconoscere l'invocazione alla fanciulla adorata da una preghiera alla mamma? Come la musica potrebbe non confondere nella propria espressione la gioia suprema di un ritorno con quella di un riconoscimento?
Il finale della Norma rimane ancora il più bello dopo l'altro del Tristano e Isotta, ma nessuno dei tanti letterati, [25] che hanno scoperto nella musica di Wagner così profonde significazioni filosofiche e drammatiche, ignorando i due libretti, indovinerebbe la differenza della morte fra le due coppie egualmente tragiche di amanti.
La musica fu e sarà sempre lirica e non esprimerà mai nè caratteri, nè situazioni, nè epoche, nè figure, nè la coscienza, nè la intelligenza, nè la religione di Dio o una qualunque altra. La sua qualità, contradittoria a tutte le arti, sta appunto nella espressione senza imagine; laddove architettura, scultura, pittura non esistono che per questa, e la poesia stessa colle parole la riconduce nella memoria o la suscita nella fantasia. Mentre i segni si aggiungono ai segni e le parole alle parole dinanzi ai nostri occhi, che dalla loro permanenza finiscono coll'accoglierne la intera visione, le note invece cessano una dopo l'altra al nostro orecchio, che non può intenderne la frase se non dal loro successivo dileguarsi. La musica si rivela morendo in ognuno dei propri suoni: ed ecco perchè ci appare immateriale ed indefinita.
Il suo linguaggio subisce le leggi dei numeri, ma la sua significazione non può essere tradotta da alcun altro. L'orecchio, più spirituale dell'occhio poichè non vi passano le imagini delle cose, ripercuotendo i suoni nell'anima, lascia che ella vi si libri leggera; e l'anima, sospinta da una voce senza parole e senza idee, si sente come dissolvere nell'incantesimo di una rivelazione misteriosa. Già qualche cosa manca ad ogni linguaggio. Quello dell'architettura, il più povero, non esprime che una categoria dell'intelletto, l'ordine nella misura; la scultura è senza colore e senza ambiente; la pittura non ha che una superficie; la poesia è costretta a richiamare l'imagine colla parola, lasciando fuori di questa i pensieri troppo grandi e le sensazioni troppo piccole; mentre la musica aiuta di se stessa tutti i linguaggi, ma parla solamente sul confine, ove questi si arrestano.
Ascoltatela nella solitudine, magari evocandola dal pianoforte, il più odioso degli strumenti che la perversione [26] dell'arte abbia concesso ai dilettanti. Il pianoforte è la cassa mortuaria dell'arpa; coloro, che vi martellano sopra, mi fanno pensare alle commemorazioni dei grandi morti declamate da piccoli vivi sulla folla scempia dei partiti.
Una musica dorme in tutte le parole: sollevatele, disponetele secondo la prosodia, e ne uscirà una vibrazione tenue e possente, lunga come un'eco o improvvisa come uno scoppio. I poeti lo sanno bene quando dicono che il verso è tutto, ed invece è solamente quella musica che la poesia può contenere, mentre questa è ben altro. Infatti il dramma, una delle sue forme più vive e profonde, si attenua nel verso e vanisce nel canto, perchè basta appena il linguaggio reale per rivelare colla più ricca molteplicità di espressioni le antitesi morali dei caratteri. Shakespeare alternava prosa e verso, quasi trattando questo come quella, ma il suo Otello e il suo Amleto messi in musica non sono più che due manichini, dal ventre dei quali qualcuno canta. Non avendo letto Shakespeare, chi indovinerebbe le due tragedie dai due melodrammi? Che cosa è diventato il Faust di Goethe in quello di Gounod o nel Mefistofele di Boito o nella Cantata di Berlioz, pur superiore ad entrambi nell'impeto della passione e nella originalità dell'ingegno?
I grandi poeti non amano la musica.
Essi pensano inconsciamente per imagini, e l'eccellenza deriva in loro dal vedere ciò che gli altri non veggono dal vederlo più intensamente. Tutto si personifica nella loro fantasia, le idee più astratte e le cose più morte: prestano un'anima alla materia, i caratteri umani a tutte le anime, quindi cercando l'essenza s'indugiano nella scoperta e nell'adorazione di ogni forma. La musica non è per loro che una vibrazione della parola, come pei pittori l'ombra è un prolungamento dei corpi. La musica vera, che canta sopra sillabe slegate, effondendosi in un infinito vuoto e palpitante, finisce per irritarli: il loro occhio cerca involontariamente i contorni [27] di una figura, la loro passione si condensa in un carattere, le loro idee si atteggiano in una scena.
I grandi poeti hanno la precisione dei grandi scultori; i grandi retori invece prediligono le apparenze capziose del colore nel labile incanto della visione: ecco la prima differenza fra Dante e Victor Hugo. Per i poeti il canto non può oltrepassare mai la parola: essi vivono nel verbo, e gli chiedono ad ogni istante una resurrezione.
Non credete quindi, signora, ai poeti che vi dicono di amare la musica, e sopratutto guardatevi dallo stimare Wagner un poeta per avere raffazzonato nei propri libretti alcune vecchie saghe.
Un poeta vero sentirà sempre che un melodramma non può essere un dramma: avvolgere questo nella musica sarà per lui come immergere un quadro nell'acqua: i colori si squagliano e le figure si confondono. L'anima nel canto si abbandona ad una esultanza di liberazione da tutti i vincoli della vita reale; nel dramma invece i caratteri debbono irrigidirsi disciplinando le forze nella necessità della lotta, e poichè la morte vi diviene la prova suprema della vita collo spezzare coloro che questa non sa mutare, uno spietato egoismo di naufragio rivela dalla scena l'ultima verità delle anime.
Se il canto sale spesso dal dramma, non può esserne il linguaggio continuo: qualcuno avrà forse cantato anche nelle mischie più atroci, ma nessuna musica espresse mai il tumulto della loro strage. Leggete una battaglia di Erodoto o di Tolstoi, e confrontatene in voi stessa le sensazioni con quelle del famoso coro delle Walkirie; dalle pagine dei due grandi scrittori vi verrà il freddo della morte, nelle voci delle nordiche amazzoni non sentirete che una minaccia festante e spavalda.
Ma il pubblico, dimentico di ogni altra arte, diserta tutti i teatri per quello dell'opera.
Nel nostro tempo la poesia e la scultura non sono più intelligibili che a pochi iniziati, la pittura non lusinga in noi che un bisogno di decorazione: le esposizioni si [28] ripetono come mercati di privilegi e privilegiati, pellegrinaggi di piacere, un affare politico o industriale, quasi sempre losco, raramente fortunato. Il lusso effimero e volgare della nostra vita non ci consente la passione dei capolavori; il nostro spirito, saturo di scienza, d'incredulità, di noia, di vizi e di dolori, non si contempla più che nella prosa, e non chiede alla musica che una distrazione. Quella vera, che canta sul confine della poesia, sarà sempre solitaria ed individuale: sul teatro invece diventa come la folla, si confonde colla pittura e col ballo, rende inintelligibile la parola sopraffacendo la voce del cantore cogli istrumenti dell'orchestra, mentre il pubblico, sedotto dalla verità dei costumi, crede di riconoscere i personaggi ed applaude a se stesso per aver saputo riunire così facilmente la magìa dell'indefinito alla bellezza plastica del verso e alle evocazioni del dramma.
L'opera condensa oggi tutte le arti nel teatro come il romanzo riassume tutta la letteratura; ma se il romanzo può essere talvolta vero, nessuna sua falsità di fatto o di scuola uguaglierà mai quella di un melodramma. Beethoven non scrisse che il Fidelio, e prima e poi non mise che un numero per titolo alle proprie opere: Wagner invece pretese di rinnovare tutta l'arte moderna col più mostruoso adulterio della poesia colla musica, immolando questa ultima alla tortura di significare resurrezioni storiche e mitiche, dogmi di teologia e di morale, espiazioni di re e di penitenti, eroismi pagani e cristiani, passioni di bruti e di arcangeli, bufere di oceani e catastrofi di paradisi, olocausti di eroi e suicidii di dèi. Evidentemente era troppo. Il suo teatro per vivere avrà, come certi alberi, bisogno di una scapezzatura; ma poichè in lui il musicista riscattava le follie del drammaturgo e le insensatezze del critico, resterà grande fra i più grandi nella memoria della moltitudine per le ineffabili canzoni salienti dall'intrico della sua coreografia.
Mentre il dramma, così vivo nel romanzo, non ha saputo ancora rioccupare la scena, l'opera invece potrà [29] per il diletto del pubblico restarvi eternamente. Oggi la musica è quasi sempre la poesia di chi non ne ha altra: sono poche le signore che non suonino il pianoforte, credendo così di avere nell'anima qualche cosa d'indicibile da esprimere. In fondo al gusto musicale del pubblico non vi è che un pianoforte, e questo insopportabile strumento è nullameno quanto di più spirituale si è potuto persuadere alla volgarità della gente. Peggio quindi se non vi fosse.
La musica vera si è fatta più rara.
Nemmeno le anime capaci di sentirla arrivano spesso ad indovinare quelle capaci di esprimerla. Parrebbe quasi che queste vivano dentro un vapore, ascoltando al di là dei sogni, al disopra di ogni parola, le lunghe sillabe di un'altra rivelazione: ma se intendono e ripetono, non sanno. Qui comincia l'espiazione della loro superiorità. Trovano una bellezza pura dei suoni come già lo scultore trovò quella delle forme, e mettono una spiegazione nell'accento di una vocale come egli pose lo sguardo nell'occhio vuoto e bianco della propria statua. Talvolta invece esprimono cogli acuti e coi bassi le contradizioni della nostra sensibilità come il pittore imprigiona nei colori e nelle ombre la mobilità di tutte le apparenze; raggruppando le note nella frase, come il poeta fa colle parole nel verso, dominano la nostra memoria col fremito di sonorità simile all'abbarbaglio di una visione.
La poesia declama quanto il suo occhio temerario ha potuto vedere nel mistero, la musica canta tutto ciò che il suo orecchio indiscreto è riuscito a sorprendervi; ma le indiscrezioni dell'una turbano spesso più che le temerità dell'altra.
E tuttavia la musica non sa quello che dice.
Le sue frasi più cupe possono diventare allegre solamente allargandone o stringendone il tempo, i suoi impeti più diritti piegarsi a qualunque ritornello, perchè nella musica l'efficacia consolatrice deriva appunto dalla sua facilità a subire qualunque alterazione. I suoi motivi [30] nella nostra memoria, come le ombre nel sole, si fanno gravi o leggieri, mentre le figure di un quadro o le parole di una scena resistono invece nella immutabilità della loro espressione. La musica contenta tutti perchè ognuno la riempie di se stesso: non vi è quindi vera differenza fra quella profana e quella sacra. Tutti gli oratorii sulla morte di Cristo sembrerebbero egualmente belli per la morte di Adone, i canti famosi di certi salmi biblici commetterebbero non meno bene molte strofe del Ramayana o altri versetti del Corano: siamo noi, sono le nostre idee poetiche e filosofiche che fanno il loro contenuto. Certamente uno spirito arido di scienziato come il Lalande non avrebbe nella Creazione di Haydn saputo trovare le idee religiose, che questi credeva di avervi messo, mentre uno spirito panteista come Hugo vi avrebbe udito le voci di tutte le mitologie, e un'anima mistica come Gerson non vi avrebbe sentito che l'estasi di una unica adorazione.
Ma se la musica è uno dei bisogni più insaziabili dell'anima, alla quale toglie colla ondulazione dei ritmi e l'indistinto significato delle voci, la coscienza dei limiti, quando l'idea fiammeggia e la passione scoppia, questa brama si muta quasi in ripugnanza. Nelle grandi tragedie la rivelazione è al tempo stesso così profonda e precisa che ogni musica la falserebbe, giacchè, nel momento di spezzarsi la vita, condensa tutti i ricordi in una visione, mentre il cuore si restringe nello sforzo di riunire le speranze dinanzi alla suprema interrogazione del pensiero.
Allora la musica non basta più.
Quali note potrebbero davvero esprimere le ultime due parole di Gesù: Consummatum est?
Quale romanza significare il dolore di Napoleone immobile colle braccia conserte guardando dal lido di Sant'Elena oltre l'Oceano?
E poichè si volle trascinare sul teatro la Bohème di Murger, come avrebbero potuto Puccini e Leoncavallo [31] tradurre quel ritratto così breve e così vivo di Musette: «Ella appena nata domandò certamente uno specchio»? Come pretendere ad una nuova commedia musicale dopo il Barbiere di Siviglia, che nemmeno esso è una commedia, se la musica non può nè ridere nè piangere? Come ridere delle sue figure fatalmente indistinte, mentre il riso non erompe che dalla evidenza di un difetto senza dolore? Nel Barbiere di Siviglia il riso scatta dai lazzi della favola non dai motivi del canto, che vi passa attraverso con una andatura da ballo e la solita prosodia dei recitativi.
Che cosa vi è da capire nella musica? Nulla.
Da sentire? Tutto.
E voi, signora, che ne pensate?
Le donne amano quasi sempre nella musica una poesia, che dispensa dalla azione, una raffinatezza ottenuta senza nè disciplina nè epurazione del pensiero: e così possono credersi superiori alla gente, che si dibatte nella vita come in una tragedia grondante di lagrime e di sangue.
Conosceste mai qualche illustre maestro o suonatore? Studiaste mai il loro carattere? Una sensibilità pronta e labile, una inconsistenza timida ed inetta. La poesia ebbe dei forti, la musica non avrà mai che dei delicati.
Nella nostra vita moderna essa rappresenta quindi un ideale di sensi e di fantasia, senza efficacia sul carattere e senza attrazione sul pensiero. I teatri lirici hanno oramai esaurito i temi di tutti gli altri teatri, senza che l'arte drammatica abbia potuto arrestarsi sulla lubrica parabola della propria decadenza; la musica popolare invece non ha trovato per la grande rivoluzione francese e per la bella rivoluzione italiana che la Marsigliese e l'inno di Garibaldi, due marcie da saltimbanchi.
Oggi la originalità della musica pare esausta come quella della architettura. Verdi, ingegno dispari, grossolano e malinconico, violento e monotono, promosso dalla vecchiaia agli onori del genio, ha voluto mostrarsi [32] anch'egli capace di significare tutta la vita, e si è attaccato a Falstaff, uno dei tipi più bassamente comici, perchè di una comicità tutta istintiva e sensuale. Mancava la commedia al suo repertorio, ma troppo altro mancava alla sua arte. Quindi ne uscì una musica scolastica fra una resurrezione di vecchie forme, senza fremito di riso, senza freschezza e senza colore. Per essere felice a Falstaff bastava di accarezzare il contorno di un'anca femminile o di una mezzina da bettola; ma se la sua giocondità di bruto sarebbe rimasta un mistero per Verdi giovane, più elegiaco che tragico come tutti i romantici, a Verdi vecchio doveva parere una mostruosità ripugnante. E così, nel suo spartito, Falstaff non è più che uno sciocco noioso, tuffato in una favola opaca come una nebbia, fra personaggi che sembrano cantando assoggettarsi ad un saggio di concorso.
Tutte le aristocrazie d'Europa sursero ad applaudire l'ultima opera del vecchio grande maestro, mentre il popolo, più sincero, non ne imparò invece alcun motivo, e seguita a cantare le proprie canzoni anonime.
Qu'est ce que ça prouve?
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