I.

Benchè una voce stentorea avesse già gridato più volte: — Partenza! Partenza! Partenza! — il treno non s'era ancora mosso che i miei compagni di viaggio, tutti soci più o meno valorosi del Club Alpino, mi avevano già messo due limoni sulla bocca dello stomaco, un barometro e un contapassi nei taschini del panciotto, una bussola nella borsetta del tabacco, e due carte geografiche nelle saccocce della giacca: due maledette carte geografiche, le quali, quando per disgrazia mia venivano aperte non c'era più modo di poterle richiudere. Tutto questo materiale scientifico di cui i miei amici mi avevano infarcito mi fece pensare subito che io forse m'ero messo con soverchia leggerezza in una impresa troppo difficile per le mie gambe, e mentre la voce stentorea seguitava a gridare: — Partenza! Partenza! Partenza! — fui vinto dal vile pensiero di scendere e di squagliarmi; ma, ohime! proprio quando il mio pensiero stava per tramutarsi in azione, il treno sussultò, prese a muoversi piano piano, uscì dalla stazione e principiò a galoppare per la campagna.

Alea jacta est, mormorai fra me e me per darmi coraggio; guardai col cuore stretto la cupola di San [164] Pietro che correva a nascondersi dietro gli archi di un acquedotto alla cui ombra riposavano alcuni buoi, e mi addormentai. I sogni che funestarono il mio sonno furono orribili. Prima mi parve di essere inseguito da un orso bianco il quale mi divorava con tutte le carte geografiche e le bussole che avevo indosso, cagionandomi il grandissimo dispiacere di non saper più da qual parte orientarmi; poi mi sembrò di essere non so più a quante migliaia di gradi sotto lo zero e diventare una granita di limone; da ultimo sognai di cadere da una montagna altissima in una valle bassissima: per l'effetto della caduta il barometro si spezzava, il mercurio scappava via e io dietro, di corsa, cercando di raccattarlo col cappello. E la corsa non fu breve davvero! Figuratevi che io il mio mercurio non lo potei ripigliare se non nella stazione di Frosinone, ove il treno si fermò ed io mi svegliai.

Fuori della stazione di Frosinone stavano ad aspettarci due vetture; vi salimmo, e dopo di aver percorsa una pianura gialla, ove scintillavano qua e là i falcetti dei mietitori, e di avere attraversato alquanti colli rivestiti di ulivi, di olmi, di querce e di pioppi arrivammo in Alatri. Colà ci ristorammo con un piatto di spaghetti eccellenti; visitammo le mura ciclopiche, eccellenti anche esse; entrammo in qualche chiesa; ci fermammo davanti agli avanzi di alcuni edifici gotico-romani; leggemmo due o tre iscrizioni latine; ci riposammo un momento nel Caffè della Dodicesima Legislatura e ripartimmo subito per Guarcino.

A Guarcino ci fermiamo in mezzo a una piazza, piena di bambini e di galline, per dare un po' di respiro ai cavalli; ed io ne approfitto per avvicinarmi a un omnibus verde, carico di attrezzi da circo, su cui [165] leggo questa misteriosa iscrizione: Compagnia Cavallerizza Colorita. Accanto all'omnibus verde un cavallo bianco, magro e gobbo dorme sulle quattro zampe, e due saltimbanchi, curvi su una caldaia nera, rimescolano una broda giallastra. Quando lasciamo Guarcino il cielo si copre di nuvole, la pioggia cade e ci segue fino all'Osteria d'Arcinazzo. Quivi lasciamo le vetture, e mentre il cielo ritorna sereno, incominciamo a salire pian piano verso Vallepietra. A destra sotto di noi dal fondo della valle, il cui verde, velato dall'ombra del giorno morente, incupisce, s'ode venire un continuo rumore d'acque cadenti. È il Simbrivio, il quale appena nato scende già frettoloso verso Cominacchio per ivi finire la sua vita breve nelle acque dell'Aniene. Mentre il Simbrivio scende e noi saliamo per la ripida via mulattiera, da lontano, fra i rami degli alberi, vediamo brillar qualche lume. Poco dopo udiamo anche qualche voce e ci troviamo in mezzo a una torma di pellegrini che sale al santuario della Trinità.

— Da quale paese venite? — dimando a un'ombra, passandole accanto, e l'ombra mi risponde: — Da Ferentino.

— E quando ci arriverete alla Trinità?

— Domani.

E domani ci arriveremo anche noi; poichè noi non ci siamo mossi da Roma soltanto per fare dell'alpinismo, o, per esser più precisi, dell'apenninismo; ma anche per assistere ad una cerimonia sacra e caratteristica che si celebrerà dopo dimani nel santuario della Trinità; santuario fondato nel quinto secolo dai monaci di San Benedetto sur una rupe del monte Autore, poco lungi da Vallepietra, a mille e trecento metri di altezza. La cerimonia sacra a cui assisteremo [166] si chiama Il Pianto delle zitelle: ed è, a quel che mi dicono, una rappresentazione della passione e morte di nostro Signore: un rimasuglio, forse, di quei componimenti ispirati quasi sempre dalla Bibbia, i quali, come tutti sanno, fin nel più lontano medio evo venivano recitati prima in forma di dialogo e poi come veri e propri drammi, e servivano con l'allettamento dell'arte a tener viva nei cuori la fede nei dogmi e ferma nelle menti la memoria delle leggende e dei miracoli della nostra religione. Cotesta rappresentazione ha luogo ogni anno nella domenica seguente alla Pentecoste, e per vederla migliaia e migliaia di pellegrini si partono dalle città, dai paesi e dai borghi del Lazio, dell'Abruzzo e della lontana Campania e salgono al santuario.

Ma il Pianto lo sentiremo piangere dalle zitelle dopo dimani; per intanto ci lasciamo dietro i pellegrini che salgono il monte lentamente, cantando di tempo in tempo giaculatorie, e dopo un altro po' di cammino arriviamo a Vallepietra. È già notte buia. Traversiamo il paese e andiamo subito a trovar l'arciprete, amico nostro e del Club Alpino, che gli ha affidato la direzione di un osservatorio termo-pluviometrico. Egli ci accoglie a braccia aperte, e dopo un po' di conversazione rallegrata da parecchi bicchieri di un vinetto squisito e riscaldata da un focherello scoppiettante in un enorme camino, ci conduce in una stanza, apre una finestra e ci mostra il suo osservatorio: due vasi di matricaria, un vasetto di basilico, un cassettoncino di pomidori, un piccolo recipiente di zinco ed un termometro.

Appena la finestra dell'osservatorio si richiude, la porta della stanza si riapre e appare ai nostri occhi la figura corpulenta e gioconda del signor [167] Gazzetti, l'oste di Vallepietra, il quale col più dolce dei suoi sorrisi ci dà l'annuncio che la cena è pronta e ci invita a seguirlo. Lo seguiamo subito, ed egli appena è in istrada, prima ci manifesta tutta la sua allegrezza per aver ottenuto dalla sezione di Roma l'alto onore di poter fregiare la propria taverna con lo stemma del Club Alpino Italiano; e poi ci dice che volendo di cotesto onore rendersi degno ha pensato di recarsi nella prossima estate sulla cima del monte Velino da dove si gode un colpo d'occhio impossibile, perchè da una parte si vede il mare e dall'altra l'istesso. Noi lo incoraggiamo a tentare l'ardua ascensione, ed il buon uomo tutto ringalluzzito ci precede a gran passi, ansando; ma arrivato a una piazzetta, con la scusa di farci osservare due lunghi pali di faggio, innalzati davanti a una chiesa, si ferma. I due pali secondo un'antichissima consuetudine vengono confitti nel terreno dai fanciulli e dai giovinotti del paese, ogni anno, nel primo giorno di maggio e sono chiamati Kalendi. Il più alto è quello dei giovinotti ed ha sul vertice un ramo di frassino, l'altro ha la punta ornata da una frasca di ginepro. Sulla piazza vediamo anche un palazzo nero, e sul cielo palpitante di stelle una torre quadrata e merlata, costruita sei secoli addietro da un nipote di Bonifacio ottavo. Torre e palazzo appartennero già ai Caetani, poi agli Astalli, quindi ai Marefoschi ed ai Piccolomini, e ora sono dei Troili, i quali ne dividono le proprietà coi topi, coi pipistrelli, coi gufi e le civette. Il Gazzetti ci fa ancora ammirare, accanto a una delle finestre del palazzo, una vecchia trave infissa nel muro, la quale nei suoi bei giorni serviva a distribuire i tratti di corda a quei vallepietrani che se ne erano resi meritevoli; e poi ci conduce nella [168] sua taverna, ove finalmente troviamo imbandita la cena, il cui piatto principale consiste in uno squisito arrosto di vitella con la barba, ovverosia di capra.

L'oste, servendoci in tavola, non perde una sillaba dei nostri discorsi, i quali su per giù, ma più giù che sù, si riferiscono a varie ascensioni e discese di aspre montagne, e ne rimane tanto entusiasmato da non saper più trattenersi dal confessarci il desiderio suo di salire il Gran Sasso: e quando la cena è finita egli, salendo col pensiero anche più in alto, non sa nasconderci la speranza di potere in un avvenire non troppo lontano recarsi su qualche vetta delle Alpi. Noi gli auguriamo di gran cuore che le sue speranze si realizzino; beviamo ancora un bicchiere e usciamo dalla bettola. L'oste ci segue e dopo qualche passo si avvicina a uno di noi, e trattenendolo per la giacca, con una circospezione grandissima, gli sussurra all'orecchio che il barlometro è di una difficoltà impossibile.

— Ma non hai letto il libro che ti è stato mandato? — gli chiede il nostro compagno.

L'ho letto — ripiglia l'oste, aprendo le braccia — ma non ci ho potuto capirci la più piccola parola.

— Vuol dire che non lo hai letto con attenzione. Capirai, sono cose scientifiche.

Ho capito. — balbetta allora il povero oste. — Ho capito. — E ripetendo fra sè: — Sono cose scentifiche! — ci augura la buona notte, e si allontana lentamente a testa bassa, cogitabondo.

* * *

La dolorosa e commovente istoria dell'oste di Vallepietra e del suo barometro vale la pena di essere [169] tramandata ai posteri non soltanto per rallegrarli, ma anche per insegnar loro di quanto male sia cagione il cibarsi del pane della scienza quando non si possegga lo stomaco adatto a digerirlo.

Qualche mese addietro due alpinisti della sezione romana, scendendo dalla cima dell'Autore, si fermarono nell'osteria del Gazzetti; e stanchi ed accaldati com'erano, per godere un po' di frescura, si tolsero le giacche e deposero sopra a un tavolino due binocoli, una macchina fotografica, alcune carte topografiche, qualche libro, un termometro ed un barometro aneroide. L'oste, mentre i due giovinotti gli chiedevano un po' di vino, di pane e di prosciutto, non seppe dominare la curiosità di cui gli era cagione la vista dell'aneroide, e appena ebbe messo dinanzi ai due tutto quello che gli avevano chiesto, dimandò loro timidamente a qual razza di orologi appartenesse quell'orologio del quale egli non aveva mai visto l'uguale.

— Ma questo non è un orologio. — gli rispose sorridendo uno dei due giovinotti, pigliando in mano l'aneroide — Questo è un barometro.

Ho capito. — balbettò l'oste — Questo è un barlometro. — E tolto dalle mani dell'alpinista l'aneroide, dopo di averlo esaminato da ogni parte con grandissima attenzione, se lo avvicinò agli orecchi, e non sentendolo palpitare, esclamò: — Si ha fermato! Bisogna caricarlo.

— Ma il barometro non si carica.

Ho capito. Nun se carica, ma però, si lui nun se carica, come cammina?

— Ma non deve camminare. — ribattè il giovinotto, e soggiunse, ridendo: — Basta che cammini quello che lo porta.

[170]

Ho capito. Nun deve camminà'. Ma però si lui nun cammina che ve ne fate?

Allora l'alpinista, incominciando a divertirsi della curiosità del buon uomo, fra un sorso e l'altro di vino e fra una fetta e l'altra di prosciutto, prese a spiegargli come il barometro non servisse per distinguervi le ore, ma sì bene per misurare l'altezza dei monti e per prevedere il tempo buono e il tempo cattivo, il sereno e la pioggia.

Ho capito! — esclamò l'oste, spalancando gli occhi — Ho capito! — E, dopo qualche istante di silenzio, chiese: — Dunque uno de noi, con uno de questi giocarelli in mano, lui potrebbe sapé' quando che piove?

— Potrebbe.

E per comprà' uno de questi giocarelli quanto si impiega?

— Mah, una quarantina di lire.

Ho capito. E dove se vendeno?

— Dall'ottico.

Ho capito. Dal lottico. — balbettò ancora l'oste.

E non fiatò più. Ma da quel momento decise irrevocabilmente che non appena gli si fosse presentata l'occasione di andare a Roma avrebbe comperato un barlometro. Difatti qualche settimana dopo, avendo dovuto scendere nell'Urbe per sbrigare alcune faccende, si recò da un lottico ed acquistò un aneroide. Naturalmente il lottico, prima di consegnarglielo gli spiegò il modo di servirsene; ma alle parole dell'uomo della scienza l'uomo dell'ignoranza ci badò poco; e tutta la parte che si riferiva al modo di leggere i diversi gradi delle altitudini, come gli entrò da una orecchia così gli uscì dall'altra. Il barlometro non l'aveva comperato per questo! A lui il sapere [171] di trovarsi un metro più su o un metro più giù importava poco; quello che gli importava moltissimo era il poter prevedere le variazioni dell'atmosfera, e, per precisar meglio il suo pensiero, il poter sapere prima degli altri quando il tempo sarebbe stato bello e quando brutto. E per capir questo non occorrevano spiegazioni. L'aneroide con la sua bella lancetta lustra e con le sue belle parole stampate sulla mostra parlava da sè. E l'oste, sbrigate le sue faccende, se ne partì da Roma felice e contento.

Ma, ahimè, la sua felicità e la sua contentezza dovette lasciarle per istrada; poichè lungo il viaggio da Roma a Frosinone e da Frosinone all'Arcinazzo, benchè il tempo fosse bellissimo, egli vide l'indice del suo barlometro inclinarsi su quel punto dove si leggeva: pioggia; e quando arrivò a Vallepietra, mentre il sole cadeva in una gloria di luce, s'accòrse con sua grande maraviglia che il suddetto indice non solo era sceso ancora, ma s'era fermato su quella parte della mostra ove si leggeva scritta a grandi lettere la parola: tempesta. Come mai? Che l'aneroide si sia guastato? — si domandò il pover uomo; ma si rispose subito: — Impossibile! — E allora? Allora come egli aveva dinanzi il barlometro, così si pose dinanzi le corna del seguente dilemma: — Va avanti lui o va indietro il tempo? Accomodò le cose pensando che l'aneroide anticipasse più di quanto avrebbe dovuto l'annuncio della burrasca; e, sicuro del fatto suo, andò attorno profetizzando agli amici e conoscenti che l'indomani sarebbe stato un tempo da lupi. Tutti credettero che scherzasse, e qualcuno arrivò perfino a dimandargli se non si fosse impazzito; ma il profeta, incrollabile nella sua fede, rispose agli increduli: — Ce ne riparleremo a domani! — E se ne [172] tornò a casa. Quivi riprese in mano l'aneroide. Segnava sempre: tempesta. Prima di andarsene a letto esaminò a parte a parte il cielo per vedere se per caso qualche nuvoletta non incominciasse già a turbare l'immacolata serenità del firmamento; ma, pur troppo, dovunque ei rivolse gli occhi scrutatori non vide che un infinito scintillare di stelle. Si coricò e passò la notte sognando che molti diluvii universali e parecchie cascate del Niagara gli annacquavano il vino in tutte le botti della sua cantina, e quando i galli incominciarono a cantare e la prima luce del giorno nascente fugò le tenebre e i sogni, corse alla finestra, l'aprì e vide dinanzi a lui tutti i monti che circondano Vallepietra, come un vasto anfiteatro, alzare le cime azzurre e ridenti nell'aria serena; vide a poco a poco tutto il cielo divenire di porpora e d'oro; e vide finalmente sorgere il sole: non il solito sole di tutti i giorni; ma, direi quasi, un sole festivo: un sole talmente bello, radioso e abbagliante quale egli non l'aveva mai visto.

E il barlometro? Il barlometro segnava sempre: tempesta.

Per cercare di spiegarsi il procedere scandaloso del suo aneroide il povero oste le pensò tutte; ma non ci riuscì: non ci riusci perchè le pensò tutte meno una: quella cioè che tali barometri sogliono spostare il loro indice a seconda dell'elevazione dei luoghi ove vengono portati: così che se la lancetta del suo aneroide non s'era più mossa dalla parte ove era stampata la parola tempesta, ciò avveniva perchè cotesta maledetta parola trovavasi scritta proprio in quel punto della mostra ove l'indice doveva necessariamente fermarsi per segnare l'altitudine di Vallepietra.

[173]

Tutto quello che il povero oste soffrì per causa del suo barometro ve lo lascio immaginare.

Alfine, non ne potendo più, pensò di scrivere ai signori del Club Alpino perchè gli mandassero una istruzione che fosse bona a far camminare il suo barlometro, il quale subbito che era arrivato a Vallepietra, abbenchè il tempo fosse splentito, si aveva fermato con la sua sfera sulla tempesta e non c'era caso di farlo più movere.

Un'anima perversa gli mandò un vecchio opuscolo, pubblicato dalla Reale Accademia dei Lincei.

Il pover'uomo lo lesse, non ci capì nulla; ma concluse che il barlometro è di una difficoltà impossibile.

* * *

Ieri sera avevo già spento il lume, quando nella stanza vicina alla mia udii risuonare una voce femminile la quale dimandava che cosa fosse il Glubbe Albino. Dopo qualche istante di silenzio un'altra voce, maschile, le rispose gravemente così: — Il Glubbe Albino, cara Filomena, è una cosa che qui a Vallepietra poco se conosce: ma in quelle parte dove che lei è conosciuta la conoscheno tutti.

[174]

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