Avevo smesso di andarli a trovare in casa loro, dove anche Cate passava un’ora al pomeriggio. Avevo smesso perché Fonso e Nando erano sempre fuori – fuori città, addirittura – e perché queste cose o si fanno davvero o non ha senso cominciarle. Compromettersi per gioco è troppo stupido. Ma dappertutto c’era rischio ormai. Viviamo in tempi che nessuno – per quanto vigliacco – è sicuro di svegliarsi domani nel letto. Come per le incursioni. E ha ragione la vecchia. Hanno ragione i preti. Abbiamo colpa tutti quanti; tutti dobbiamo pagare.
Chi pagò per primo fu il piú innocuo, Castelli. Malgrado l’irrequietezza dei ragazzi e i discorsi melliflui del preside, malgrado una nuova feroce incursione che ci cacciò in cantina come topi, i grandi corridoi delle aule, il cortile spoglio e i silenzi consueti facevano ancora della scuola un rifugio e un conforto come un vecchio convento. Pareva strano che qualcuno pensasse di trovare altrove la pace e la buona coscienza. Ma Castelli, ormai succube di quell’assurdo Lucini, Castelli che dava già qualche lezione privata, non chiese a Lucini come mai non se ne andasse anche lui. Passeggiavano insieme nell’atrio e Lucini s’accigliava, piccolotto e aggressivo, mostrava i denti, annuiva. Castelli ebbe una breve seduta col preside, e un bel giorno presentò la sua domanda.
Me lo disse la segretaria, dubbiosa, commentando: — Beati i diabetici —. Ma la cosa non andò liscia. Fui convocato in presidenza anch’io. Dal tono del preside capii che qualcosa bolliva. Non era un’inchiesta, per carità. Non gli pareva fosse il caso. Voleva soltanto sentire se qualcosa sapevo della decisione di un collega, se non s’erano fatti discorsi, se ritenevo che motivi estranei... Poi s’indignò. — Tutti vorremmo stare a casa. Farebbe comodo a chiunque in questi tempi. Bella scoperta. Ma non tutti possiamo. Noi presidi siamo i piú esposti. Dobbiamo dar conto di ogni nostra e ogni vostra parola... — Mi ricordai di quella volta, l’anno prima, che ci aveva parlato in consiglio della bella fiducia che, in quell’ora difficile, doveva regnare tra noi e la presidenza. Allora Lucini era ancora fascista.
Non mi tenni, e feci il suo nome. Poi mi morsi la lingua. Ma il preside si rabbuiò e insieme si mise a ridere. — Lucini è Lucini, – mi disse. – Sappiamo tutti chi è Lucini.
— Ma non si parlava di lui? — dissi brusco.
Ci guardammo intontiti. Allora il preside cacciò un sospiro, come davanti a uno scolaro troppo scemo.
— Castelli, – mi disse. – Castelli. Andiamo, via.
Strinsi le labbra in una smorfia e lo guardai.
— Castelli? – gli feci. – Ma è un santo.
Quell’altro si alzò in piedi e andò alla porta; la toccò e tornò indietro leggero. Si fermò a un passo e si toccò la fronte. Cacciò un sospiro d’impazienza. — Castelli mi ha fatto un discorso imprudente, – disse. – Qui nasce un guaio, sicuro. Il pericolo sono i ragazzi. Voi non sapete se ha parlato coi ragazzi?
— Soltanto Lucini può dirlo. Sono sempre a braccetto.
— E smettetela, – scattò. – Non possiamo immischiare Lucini.
— Perché no? — dissi con l’aria divertita.
Allora il preside mi diede un’occhiata sorniona. Tornò a sedersi dietro il tavolo, congiunse le mani e se le strinse sul panciotto. Parve perfino rassegnato.
— Voglio parlarvi apertamente, – disse adagio. – Abbiamo tutti i nervi scossi, di questi tempi. Quel che un collega dice a un altro, quel che ci diciamo in questa stanza a quattr’occhi, non esce di qui. Oso credere che insieme facciamo una sola famiglia. Ma abbiamo un dovere, una missione da compiere. Davanti ai ragazzi, davanti alle famiglie, e anche davanti alla nazione, a questo disgraziato paese, siamo tenuti a dar l’esempio, mi spiego? Fare gesti inconsulti, assumere un atteggiamento arrischiato... della coscienza parleremo poi, se volete... può avere effetti... attirare... coinvolgere. Gli occhi di molti, non solo dei ragazzi, ci stanno addosso... Mi spiego?
Della coscienza non parlammo. Nessuno dei due ci teneva. Gli promisi soltanto che avrei cercato di persuadere Castelli a ritirare la domanda. Andai invece da Lucini e gli chiesi serio serio come andava la salute. Lucini capí e s’indignò. Disse subito che questi non erano tempi da stare in pantofole e che chi aveva fegato doveva compromettersi.
— Compromettersi come?
— Questa guerra, – mi disse, – non è stata capita. Siamo partiti con un regime ch’era marcio. Tutti tradivano e tradiscono. Ma la prova del fuoco ci vaglia. Stiamo vivendo una rivoluzione. Questa repubblica tardiva...
Non concluse gran che ma concluse. La sua idea era che i tempi stringevano, che bisognava prender parte alla battaglia e salvare la patria stando con quello dei contendenti che avrebbe fatta la rivoluzione e dettata la pace.
— Ma chi vincerà? — brontolai.
Mi guardò stupefatto e si strinse nelle spalle.
Accompagnai Castelli a casa, e gli descrissi le paure del preside. Mi ascoltava compunto. Gli parlai di Lucini e gli chiesi se avevano fatto insieme la domanda. — Tanto valeva, – gli dissi, – che un bel giorno tu smettessi di venire a scuola. A che ti serve far sapere a tutti quanti che sei stufo?
Gli serviva che aveva bisogno di quel mezzo stipendio. — Lucini, – mi disse, – non può chiedere l’aspettativa perché, quando uscisse lui dai ruoli, a chi potrebbe dar lezione? C’è ancora qualcuno che tiri di scherma?
Questa storia era sempre piú assurda. Gli spiegai che mai nessuno si sarebbe sognato di rinfacciarci che avessimo servito quel governo. — Tutti allora dovrebbero smettere, – dissi. – I tranvieri, i giudici, i postini. La vita si fermerebbe.
Lui pacato e testardo mi disse che ci voleva proprio questo. — Ma allora lascia lo stipendio. Sono quattrini del governo.
Scosse la testa e se ne andò. Tornai a casa agitato e scontento. Vidi la faccia delle donne, di Cate, se avessi fatto un gesto simile. Ma forse le sarebbe piaciuto. Anche all’Elvira sarebbe piaciuto, per un’altra ragione. Ecco, pensai tutta la sera, chi arrischia, chi agisce davvero, è cosí, non ci pensa. Come un ragazzo che si ammala e non sa di morire. Non si specchia in se stesso, non rinuncia nemmeno ai quattrini. Crede di fare il suo interesse come tutti, come un altro.
In quei giorni, mi scrissero da casa per le feste. Scriveva mia sorella, mi dava conto delle terre, si lagnava che stessi in città anche quell’anno. Certo i viaggi erano brutti, e i treni scomodi, agghiacciati. La vita è brutta dappertutto, diceva, qui non ci sono novità. La lettera era chiusa in un cestino di frutta e di carne; c’era anche il dolce di Natale.
Metà del cestino lo portai alle Fontane per una cena di fine d’anno che con Cate c’eravamo promessa. Dovevano venire tutti. La nonna e le ragazze lavorarono un giorno a cucinare; Dino girò con me la collina per cardi e castagne. Era un giorno brullo, dorato; quest’anno la neve non s’era ancora vista. Dino mi raccontò che in città era stato a vedere il marciapiede dove avevano fucilato tre patrioti; c’erano ancora le macchie di sangue: se arrivava il giorno prima, vedeva i cadaveri. Qualche passante si voltava e sbirciava quel punto. Gli dissi di smetterla e pensare alle feste. Lui disse ancora che nel muro si vedevano i segni delle pallottole.
Alle Fontane lo aspettava un pacchetto di libri e una lampadina tascabile; li avrebbe trovati al ritorno. Cate mi aveva già ringraziato. Non ero certo che a Dino il regalo sarebbe piaciuto. Non ne avevo mai fatti a un ragazzo. Ma si poteva regalargli una pistola?
Rientrammo intirizziti e contenti. Nella cucina faceva un buon caldo. C’erano i vecchi, Fonso, Giulia, Nando, tutti. — Quest’è un posto sicuro, – dicevano. – Non ci si vive con l’affanno come a Torino.
— Pensare, – dicevano, – che in cantina c’è tanto da metterci al muro tutti quanti. Anche voi, nonna.
Le ragazze ridevano e portarono in tavola. — Adesso è Natale, smettiamola, — disse qualcuno.
Parlammo di Tono. Era in Germania, allo sterminio. Parlarono di altri, che non conoscevo, di fughe, di colpi di mano. — C’è piú gente in montagna che a casa, – disse la moglie di Nando, – chi sa come faranno Natale.
— Sta’ tranquilla, – brontolò Fonso, – gli abbiamo mandato anche il vino.
Io guardavo il vecchio Gregorio che tranquillo, in panciotto e spalle curve, masticava i bocconi. Non parlava, sembrava ascoltasse, guardava tranquillo, come se quei discorsi li sentisse ogni giorno da quando era nato. L’inquietudine della nostra allegria non lo toccava. Mi ricordava il mio paese. Di tutti noialtri era il solo che fosse sempre vissuto in collina.
— Con la bella stagione, – diceva Fonso, – scenderemo dalla montagna.
— Faranno presto a farvi fuori, – dissi subito. – In montagna sarà meglio restarci.
Anche Cate mi dava ragione. — Quest’altra estate, – disse Fonso, – verranno loro a cercarci lassú. Non dobbiamo lasciargliene il tempo.
— Finché gli inglesi non ci aiutano, – disse Nando ridendo, – non avremo armi buone. Tedeschi e fascisti sono il nostro arsenale. Se non ce le portano, dobbiamo scendere a pigliarle.
— Che guerra, che guerra, – gridò una ragazza. – Vince chi riesce a scappar prima.
Si rideva e si vociava e allora Dino, che aveva bevuto, cominciò a fare il matto e correre intorno alla tavola, puntando la lampadina come un’arma e accendendocela addosso. Io dissi che i tedeschi da quattro anni erano esperti di guerriglia e non c’era da farsi illusioni.
— Che dovessimo vederli a casa nostra, — disse Nando.
— Meglio questo che prima, — tagliò Fonso.
— Puoi dirlo.
Nessuno parlò della fine. Nessuno faceva piú i conti col tempo. Nemmeno la vecchia. Dicevano «un altr’anno» o «l’estate ventura» come se nulla fosse stato, come se ormai la fuga, il sangue e la morte in agguato fosse il vivere normale.
Quando in tavola venne la frutta e la torta, si parlò del mio paese e delle bande di laggiú. Cate mi chiese dei miei vecchi. Fonso che organizzava a Torino e in montagna, disse qualcosa del lavoro clandestino sulle colline. Non ne aveva grandi notizie, era un altro settore, ma sapeva che era un maledetto paese dove troppi sbandati s’erano messi a lavorare la campagna e non pensavano alla guerra.
— Sono colline come queste, – dissi allora. – Si può nascondersi in collina d’inverno?
— Si può dappertutto, – mi disse. – È necessario per dividere le forze attaccanti. Quando ogni casa, ogni paese, ogni collina abbia i suoi, mi dici come i neri potranno far fronte?
— Ogni tedesco che agganciamo, – disse Nando, – è uno di meno che combatte a Cassino.
Pensai incredulo alle vigne e alle colline di quassú. Che anche qui si sparasse, si tendessero imboscate, che le case bruciassero e la gente morisse, mi parve incredibile, assurdo.
— Mi saprete poi dire, – uscí la moglie di Nando, – se gli inglesi vi diranno grazie.
— Va’ là, – disse Fonso. – Non combattiamo per gli inglesi.
La stanza sapeva di fumo e di vino. Anche Cate accese una sigaretta. Apersero la radio. Il baccano aumentò, e si stava bene in quel calore, appoggiati alla stufa, ascoltando le voci. Ero uscito un momento prima nel cortile, con Dino, e mentre lui s’accovacciava nel buio, m’ero perso un momento nelle stelle e nel vuoto. Le medesime stelle di quand’ero ragazzo, le medesime che balenavano sulla città e sulle trincee, sui morti e sui vivi. Non c’era su quelle colline un cantuccio, un cortile di pace, donde almeno per quella notte guardare senza batticuore le stelle? Dalla porta veniva il brusio della cena e pensai che avevamo la morte sotto i piedi. Poi Dino mi chiamò, rientrammo in casa, e il calore ci avvolse. Le ragazze cominciarono a cantare.
Scesi a Torino il giorno dopo. Passai da scuola e ci trovai Fellini col berretto negli occhi. Chiacchierò delle feste, poi disse: — C’è qualcuno che ha fatto un Natale di merda.
Fellini parlava cosí, con un ghigno insolente. Attesi il resto, e venne subito.
— Non lo sapete di Castelli? L’hanno sospeso e messo dentro.