Stemmo cosí molto tempo. Da un pezzo ormai s’era sentito il motore riattaccare, e un contrasto di voci tra gli alberi. Poi il rombo si era allontanato.
Spuntò una donna alla svolta. Scendeva correndo. La attesi in mezzo alla strada e le chiesi che cos’era successo. Mi guardava atterrita. Aveva sul capo lo scialle. Anche il vecchio dei buoi sporse la faccia dalle canne. La vecchia gridò qualcosa, si strinse le mani alle orecchie; io le chiesi: — C’è gente lassú? — Lei annuí, senza parlare, col mento.
Sbucò alla svolta un giovanotto in bicicletta. Veniva giú a rotta di collo. — Si può passare? — gli gridai. Lui buttò a terra un piede scalzo, stette su per miracolo, mi gridò di rimando: — Ci sono morti, tanti morti.
Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete, s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi.
Uno – divisa grigioverde tigrata – era piombato sulla faccia, ma i piedi li aveva ancora sul camion. Gli usciva il sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo, imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto di cenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigidito ginocchioni contro il fildiferro, pareva vivo, colava sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di cera coronato di spine.
Chiesi al prete se i morti erano tutti di quelli del furgone. Il prete energico, sudato, mi guardò stravolto e mi disse non solo ma nelle case piú avanti era pieno di feriti. — Chi aveva attaccato?
Partigiani di lassú, mi disse, che li aspettavano da giorni. — Loro ne avevano impiccati quattro, — strillò una vecchia che piangeva e agitava un rosario.
— E questo è il frutto, – disse il prete. – Adesso avremo rappresaglie da selvaggi. Di qui all’alta valle del Belbo sarà un falò solo.
L’agguato era stato teso dietro due roccioni, che permettevano di defilarsi. Non uno dei neri s’era salvato. Con l’altro autocarro i partigiani avevano portato via i prigionieri, ma prima li avevano schierati contro un muro e minacciati: — Potremmo ammazzarvi come fate voialtri. Preferiamo lasciarvi alla vita e alla vostra vergogna.
La gente faceva fagotti e cacciava fuori le bestie. Nessuno avrebbe osato dormire alle Due Rocce. Qualcuno saliva al santuario, sperava nel luogo; qualche altro andava chi sa dove, pur d’andare. C’era tempo fino a notte avanzata, perché il ragazzo in bicicletta, che mi aveva gridato, correva a dare la notizia dei feriti al telefono, al posto di blocco, per salvare il salvabile. L’indomani quelle strade e stradette sarebbero state una rete di morte.
Il prete era corso in casa: un ferito moriva. Io rimasi tra i morti, senza osare scavalcarli. Guardavo il campanile lassú e sapevo che prima di domani non arrivavo a casa. Un istinto mi tirava all’indietro, alla strada già corsa, a mettere tra me e la tempesta il paese incolpevole, il Tinella, la strada ferrata. Laggiú c’era Otino che almeno poteva nascondermi. Se prima di notte ripassavo le stazioni tedesche, potevo aspettare con lui che la furia finisse.
Senza guardare un’altra volta al suolo, ripartii, passai davanti al villano dei buoi che aspettava a bocca aperta davanti al canneto, tirai dritto, e un’ora dopo salivo l’ultima collina, nel cielo già fresco, oltre la quale ci doveva esser la valle del Tinella. Rividi parte delle creste del mattino. I campanili, i casolari mi facevano senso; mi chiedevo se a casa sarei sempre vissuto in mezzo a simili spaventi. Intanto andavo per la strada, sempre teso alle svolte, agli sbocchi, non sporgendomi mai contro il cielo. Sapevo cos’era uno sparo e il suo sibilo.
Nel crepuscolo feci il Tinella e la ferrata. Mentre aspettavo nella melma fra gli ontani, sentii lo stantuffo del treno. Passò adagio, ansimante, un lungo merci locale, e intravidi qualche grosso soldato tedesco in piedi sui predellini. Che viaggiassero mi parve buon segno, voleva dire che la zona era ancora tranquilla.
Saltai la ferrata e cercai la collina di Otino. Tra le gaggie era difficile orientarsi, ma le creste stagliavano nette. Presi un sentiero che mi parve il buono e lo salii, tendendo l’orecchio sulle voci dei grilli se udissi passi o scrosciare foglie. Intanto in alto pullulavano le stelle.
Otino non lo trovai ma la collina era quella. Ero stanco, affamato, strascinavo le scarpe sui solchi. Mi vidi innanzi un casotto in una vigna, di quelli per guardia dell’uva. Questo casotto era fatto in muratura, senza porta; c’entrai nel buio e, vincendo il ribrezzo, mi sedetti per terra. Mi appoggiai sopra il sacco.
Mi svegliai ch’era notte profonda, intirizzito e indolorito la schiena e la nuca. Non lontano un cane abbaiava, lo immaginai randagio nella notte e attanagliato di fame. Dalla porta non entrava tanta luce da veder la campagna. In quel buio la voce del cane era la voce di tutta la terra. Nel dormiveglia sussultavo.
Per non essere visto uscir fuori, me ne andai prima dell’alba. Si levava la luna. M’accorsi volgendomi indietro che il casotto era una semplice cappella abbandonata; restava ancora un vetro rosa screpolato. «Nemmeno a cercarla», pensavo. Dissi in silenzio una vecchia parola.
Dietro alla luna venne l’alba, e avevo freddo, avevo fame e paura. Stetti accucciato in un campo di grano, maledicendo la rugiada, pensando a quei morti e a quel sangue. «Pensarci è pregare per loro», dicevo.
A luce chiara ritrovai le case basse, diedi alle donne la notizia. Otino era andato in campagna. Chiesi il permesso di aspettarlo in un fienile. Mi diedero pane e minestra, e mangiando tranquillavo le donne sulla portata della strage. — Rastrelleranno solamente oltre Tinella, – dicevo, – tant’è vero che ho potuto passare.
Seguirono giornate di vento che spazzavano i versanti, e di lassú si vedevano le creste successive, gli alberelli minuti, le case, i filari, fino ai boschi lontani. Otino m’indicò il campanile del santuario, e un gomito della strada dov’era avvenuto l’eccidio. Lui girava i pianori di cresta, vedeva gente, parlava e faceva parlare. Un mattino vedemmo tra i boschi una colonna di fumo; la sera stessa si sentí in paese che c’era stato un altro scontro verso il Tanaro, che una colonna di tedeschi e fascisti s’era buttata sul versante e bruciava, sparava, rubava.
La notte dormivo in fienile; m’avevano prestato una coperta. Verso sera quel ventaccio cadeva, e si tendeva l’orecchio se venissero spari, clamori. Con Otino restavamo sul campo, sotto le stelle mai vedute cosí vive; e nell’urlio dei grilli scrutavamo nel buio, cercavamo gli incendi, i falò. Accadeva di scorgere accenni di fuoco, sul gran nero dei colli. — Fate attenzione, – mi diceva Otino, – passerete di là. Dove han bruciato, non c’è piú sorveglianza.
Volevo pagargli qualcosa di ciò che mangiavo. Sua madre non disse di no; soltanto si chiedeva sospirando perché la guerra non finiva. — Durasse anche un secolo, – dicevo, – chi sta meglio di voi? — C’era ancora sotto il portico la chiazza di sangue di un coniglio sgozzato. — Vedete com’è, – disse Otino, – questa fine la dobbiamo fare tutti.
Me lo condussi nella vigna dov’ero entrato quella notte, e gli dissi che mi pareva un bel rifugio. Bastasse dormire in chiesa per stare sicuri, disse Otino, le chiese sarebbero piene. — Qui non è piú una chiesa, – risposi, – ci han pestato le noci e acceso il fuoco per terra.
— Ci venivamo da ragazzi a giocare.
C’entrammo discorrendo di com’era in paese, e che tutti vivevano nella paura che anche lungo la ferrovia toccasse una fucilata a un tedesco o fermassero un camion. — Ne hanno incendiato delle chiese? — feci a un tratto. — Bruciassero queste soltanto, – disse lui, – sarebbe niente.
Una sera raccogliemmo tutti i rami che si trovarono, e con vecchi cartocci di meliga buttati accendemmo un fuoco, nel cantuccio sotto la finestra. Poi seduti davanti alla fiamma, fumammo una sigaretta, come fanno i ragazzi. Dicevamo scherzando: — Per dar fuoco, sappiamo anche noi —. In principio non ero tranquillo, e uscii fuori a studiare la finestra, ma il riflesso era poco e, di piú, parato da un rialto. — Non si vede, no no, — disse Otino. Allora parlammo un’altra volta delle facce del paese e di quelli che avevano paura peggio di noi. — Anche loro non vivono piú. Non è vivere. Lo sanno che verrà il momento.
— Siamo tutti in trincea.
Otino rideva. Lontano scoppiò una fucilata.
— Incominciano, — dissi.
Tendemmo l’orecchio. Ora il vento taceva e i cani abbaiavano. — Andiamo a casa, — dissi. Quella notte la passai rivoltolandomi, tremando ai pensieri. Lo scroscio del fieno mi pareva che riempisse la notte.
Di nuovo l’indomani studiai la barriera di colline che mi attendeva. Erano bianche e disseccate dal vento e dalla stagione, nitide sotto il cielo. Di nuovo mi chiesi se il terrore era giunto fino ai boschi, fin lassú. Salii la stradicciola, a comprare del pane in paese. La gente mi guardava dagli usci, sospettosa e curiosa. A qualcuno facevo un cenno di saluto. Dalla piazza in alto si vedevano altre colline, come banchi di nuvole rosa. Mi fermai contro la chiesa, sotto il sole. Nella luce e nel silenzio ebbi un’idea di speranza. Mi parve impossibile tutto ciò che accadeva. La vita sarebbe un giorno ripresa, sicura e ferma com’era in quest’attimo. Da troppo tempo l’avevo dimenticato. Sangue e saccheggio non potevano durare in eterno. Stetti un pezzo con le spalle alla chiesa.
Ne uscí una ragazza. Si guardò intorno e discese la strada. Per un istante entrò anche lei nella speranza. Scendeva guardinga nel vento sui ciottoli scabri. Dalla mia parte non si volse.
Sulla piazzetta non vedevo anima viva, e i tetti bruni ammonticchiati, che fino a ieri m’eran parsi un nascondiglio sicuro, adesso mi parvero tane da cui si fa uscire la preda col fuoco. Il problema era soltanto di resistere alla fiamma finché un giorno fosse spenta. Bisognava resistere, per ritrovare la pace.
La sera vennero voci di un’azione nella vallata accanto, contro un paese di donne e di vecchi. Cosí giuravano. Difatti non s’era sentita nemmeno una fucilata: le stalle erano state saccheggiate, e i fienili incendiati. La gente, fuggita nei burroni, sentiva i suoi vitelli muggire e non poteva accorrere. Era stato sul tardo mattino, proprio nell’ora ch’io guardavo dalla chiesa.
Otino mieteva nei campi e sentí la notizia e continuò la mietitura.
— Tanto vale, – esclamai, – che mi riprovi a passare.
Si raddrizzò e passò la mano sopra gli occhi. — Vacci di notte che fa meno caldo.
Ne riparlammo quella notte e conclusi ch’era meglio seguire il Tinella che non buttarmi sulle colline. Partii l’indomani, e la sera ero a casa coi miei, di là dai boschi e dal Belbo.