Una sera di quell’autunno ci fu un banchetto del giornale, dove con Masino venne anche Hoffman – redattore di un reparto di cronaca giudiziaria. Masino c’era andato rassegnato e Hoffman osservò beffardo: — Vedrai che orgia intellettuale.
Erano amici molto intimi i due e non l’avevan mai saputo, tranne forse Hoffman. Masino sentiva crescersi continuamente innanzi la ricchezza umana e la straordinarietà di Hoffman e non era ormai piú un ragazzo che la spregiudicatezza dell’altro gli potesse far perder terreno. Ma prima, prima Masino ci aveva lasciato la carne e il sangue.
Incontrare Hoffman e valere qualcosa per meritare che Hoffman s’interessi di voi, ma per difetto d’esperienza non essere ancora intero il proprio individuo, è come cadere in acqua nel paese dei nuotatori l’ultimo giorno di carnevale e non sapere nuotare. Risate, spunzonate, gorghi, salti vertiginosi, schiaffi, calci, tutto questo l’intelligenza di Hoffman aveva inflitto all’intelligenza di Masino.
I due avevano discusso milioni di cose e Masino aveva un po’ veduto via via le idee d’Hoffman formarsi. Condensarsi come nebulose, perché, malgrado certe fissità di punti che parevano i meno importanti, ad Hoffman come un film scorreva nella testa l’universo.
Facevano paura queste idee a Masino. Alcune parevano cosí definitive – soluzioni alla vita – che Masino non poteva pensarci senza sentire la sua personalità recalcitrare a una corrente irresistibile. La quale personalità – aveva pianto Masino – malgrado tutti i colpi d’ironia e di beffa inflittile da Hoffman, non era mai ancor riuscita a esser nulla. Ma non da un po’ di tempo, Masino era diventato quel piemontese inteso a scoprire le proprie energie nella razza che eccettera e giudicava di Hoffman alla pari. Il che non toglie che una volta fosse arrivato a pensar d’ammazzarlo e ancor ora soffrisse, sorridendo, a vederlo cosí strapotente da imporre sempre il suo umore all’ambiente e – lui triste – buttare in faccia a tutti la malinconia o, altrimenti, litigare.
Al banchetto Masino disse: — Almeno ci divertiremo a sentire le fessate dell’oratore –. E Hoffman: — È piú fregno star a sentirle che dirle, alle volte –. Poi, con voce finta misteriosa: – Stanotte, ho voglia di orgiare, – e tirò su le labbra in un gesto di grossa compiacenza.
Il banchetto fu un capolavoro di respirazione artificiale. A un certo punto Hoffman voleva andarsene, Masino lo trattenne a fatica per la giacca e lui: — Divertimi, allora.
Lí vicino c’eran colleghi, redattori, cronisti, quasi tutti conoscenze. Stavano facendo un discorso assennato. Hoffman si cacciò nel discorso.
Diceva un tale: — Manca solo che il personale di un giornale lo facciano stare insieme come in una caserma a mangiare e dormire per venire che si pensi tutti allo stesso modo. La vita moderna toglie a poco a poco ogni libertà –. Era il gruppo delle persone ragionevoli. E uno, coll’aria di chi fa un’obiezione giocosa che non tocca per nulla la serietà della proposta, osservò: — Allora lei non sarebbe qui a mangiare questo ottimo pranzo, signor Caldi! – Risero tutti e si divertivano molto.
Chiese Hoffman: — Crede che se invece di andare a mangiare a un ristorante che s’immagina di scegliere tra mille, ma dove la chiacchiera cogli altri è regolata sempre dalle stesse muraglie di licet e tabú, lei mangiasse dietro un tavolone di caserma-giornale e fosse vestito come tutti e avesse un numero alla spalla e i capelli tagliati e tutto cosí, non crede che sarebbe piú libero nei suoi giudizi, piú produttivo nel suo lavoro mentale, piú uomo che non è ora?
Il signor Caldi era famoso per la sua virilità. – Io non so cosa c’entrino il licet e il tabú…
Ma finiva il banchetto. Hoffman piantò l’interlocutore, saltò alle spalle di due altri redattori giovani, raccolse Masino e tirò tutti via. — Fuori, fuori che si scoppia.
— Andiamo noi ora al banchetto. Noi, noi che dobbiamo agli Dei l’espiazione per l’abominazione della sera passata a mangiare quando si doveva ruttare, a bere quando si doveva tracannare, a parlare quando si doveva agire –. Questo gridò agli altri tre sulla porta del locale. Era notte. – Abominio! abominio!
Masino propose: — Andiamo a bere in qualche posto –. Nessuno al banchetto s’era potuto ubriacare. Gli altri due erano incerti: — Dove andiamo?
— Dovunque! – strillò Hoffman, – dovunque noi andremo quivi sarà la gioia!
Uno dei redattori cominciò a ridere.
— Quest’è niente, – entrò Masino. – Stasera conoscerete una bevuta degli Dei.
Dopo un po’ di tentativo di corsa per i viali che le altre due piattole non vollero accettare, Hoffman si mise a discutere, perfettamente calmo. Solamente che ogni tanto camminando faceva un saltetto. E Masino pensava che quell’uomo, ridotto a storpio, a cieco, a lebbroso, a qualunque dannazione, avrebbe ancora saputo godere la vita, dare ai suoi atti un valore supremo, anche al piú umile, al piú inutile: la piú straordinaria figura d’uomo che aveva mai incontrato. Ora Masino sorrideva. Sapeva com’era. Ma un tempo aveva rimuginato di ucciderlo.
— Qui ci vuole dell’alcool! – scoppiò di nuovo l’ebreo, dopo una gran risataccia drammatica che fece fermandosi di colpo e atteggiandosi tra i due. – Satana parla in me! Tracannare! – Consigliò a voce bassa uno dei redattori ridendo: — Piú piano. Poi andremo a puttane.
Hoffman afferrò Masino per un braccio. — Eccoli! Rifiuto dell’umanità. Piccoli uomini! Per godere non sa che parlare piú piano e finire a puttane! No! no! no! Questa sera io voglio danzare la danza del sangue. Fuori le ipocrisie dei piccoli uomini! Parlare piú piano? Questa sera sveglieremo il Padre Eterno a rutti e assaliremo le donne per strada e le violenteremo nel ferro e nel fuoco…
Il viale era deserto, ma i due si volgevano intorno preoccupati, ridendo nervosi e dando colpi sulle spalle di Hoffman. Masino non credeva che Hoffman non fosse capace di far quello che diceva. Ma non aveva paura. Aveva visto l’amico già fradicio insultare le guardie e cavarsela svelto.
— Bere! bere! – gridò anche lui. Era una specie di pazzia comune che li prendeva, per gioco, e Masino si lasciava trasportare dal torrente d’Hoffman. Ma da solo non sapeva far nulla.
Entrarono con Hoffman blaterante, in una tampa. Qui Hoffman tacque. Accumulava le energie. E nella sua esaltazione a bianco conservava sempre una grande ragione, che dominava sulle piccole paure di chiunque.
Bevvero chissà quanto. Vinaccio di botte robusto. Masino che gli ripugnava il colore del vino, si diede ai liquori, tra gli insulti di Hoffman. E allora seccato si gettò sopra il fiasco e buttò giu da principiante. Anche i due redattori adesso stavano bene. Cominciarono a cantare. Hoffman li zittí, fece un urlo e saltò sulla tavola. Accorse il padrone. Qualche carrettiere ch’era lí, giú a ridere. Ridevan anche come meloni i due colleghi. Masino fumava colle tempie ronzanti.
L’oste mostrò il cartello e Masino sillabò: — Sono vietate le discussioni politiche e il cant… – commentando: – Alla Camera ci vuole l’avviso, non qui –. Hoffman saltò il fiasco e gli urlò: — A morte la piccola politica e chi ce ne parla.
Poi ragionò coll’oste. — Sono una botte. Il vino è nel mio ventre. Lascia bollire il mio vino –. I due soffocavano. Masino ammirava.
Rotolarono poi fuori. I redattori continuavano ancora a cantare, come avevan sempre visto fare nelle sbronze. Hoffman prese la corsa e saltò una panchina del viale doppia. — Gambe! – gridò Masino. – C’è il civico –. Nessuno gli badò.
In un attimo furono a Po. Qui Hoffman cominciò a insultarli: — Andiamo al centro. Non qui dovete finire. Vigliacchi! Non qui! Ma i palazzi e le chiese debbon vederci e tremare!
I due redattori sbronzi com’erano non volevano saperne e ciondolavano emettendo boati. Masino che aveva un grandioso taglio di gambe, ma la ragione sempre lucida, gli seccava andare al centro a fare gesta, perché lui nella sbronza non riusciva a esaltarsi e il mondo gli appariva sempre nelle stesse proporzioni.
Hoffman fece un discorso. I redattori fecero rutti. Masino guardava il cielo.
Poi si volsero al ponte. Arrivava dalla collina una comitiva di giovanotti bevuti, con garofani all’occhiello e chitarra. Masino sentí voci. Gli parvero meridionali. Gesto di disgusto.
Hoffman fece due passi. Ascoltò. Gli altri si avvicinarono vociando. Improvvisamente Hoffman prese la corsa e saltò in mezzo al gruppo, gridando un nome.
Seguirono feste. Venne fuori (piú tardi) che quelli erano stati colleghi di Hoffman ai tempi che Hoffman aveva fatto il tornitore. Perché Hoffman era stato come Cristo anche operaio.
I due redattori scomparvero definitivamente. Masino non vide che una faccia tra i meridionali e non disse parole.
Il chitarrista strimpellando, vicino al monumento dei Mille fece la solita proposta: — Pigliamo l’accetta a Garibaldi e poi andiamo a Porta Nuova a tagliar la testa a D’Azeglio –. Masino brontolò: — Tagliare a te qualcos’altro, – ed era un uomo superiore agli odii di razza.
Hoffman stava bene dappertutto. Comandava.
— Tu sei un idiota, Gesú. Questa sera trucidiamo gente viva. Saccheggiamo un armaiuolo e facciamo le barricate. Domani saremo i padroni del Piemonte –. Ma i meridionali non capivano.
Ricominciò allora la corsa per i viali. Saltando le panche, arrampicandosi sui pali, dando calci alle saracinesche, vociando, cantando: queste cose il gruppo della chitarra le capiva e rideva sgangherato e aiutava.
Masino avvicinò l’amico per sentire se ce n’era ancora per un pezzo. Hoffman disse: — Non ancora. I miei tempi non sono ancora maturi, – e prese una corsa vertiginosa dietro a un cane. Masino dietro. E tutti gli altri.
Volevano ancor bere. Cercarono nel centro un luogo aperto. Masino era stufo. I meridionali sapevan ridere meglio dei due redattori, eran piú schietti, piú ignoranti – ma anche loro non sapevano ballare la tregenda. A fatica Hoffman li muoveva.
In piazza San Carlo benché a quell’ora fosse quasi deserta, cominciarono le dissidenze. Anche il gruppo degli operai si guardavano ormai intorno intimiditi dalle enormità che si riprometteva ad alta voce Hoffman. Uno di loro che non lo conosceva disse: — Cosa vuole quel fesso? – Masino gli tirò un calcio dietro. Il chitarrista diede torto a Masino. Hoffman a qualche passo gridava: — Lasciali andare: chi non è degno di me, resti nella sua melma.
Si fermò alla porta di un caffè. Arringò con gesti scalmanati un ometto che passava e che lo stette ad ascoltare istupidito. Ma quando entrò nel locale gridando — Iddio lo vuole! – non entrarono con lui che Masino e un altro.
Ora, in tre non è lecito far baccano. Cacciano fuori o peggio, in un momento. Non è come quando si invade un locale a forza, a piaga d’Egitto.
Hoffman sentí il momento critico. Masino venne verde. E l’altro ciondolava. Un cameriere accorse. Hoffman ricominciò a vociare: — Chi è qui dentro il responsabile? Si presenti, si presenti per Dio! – Lasciò andare una botta su un tavolo. Il cameriere indietreggiò. – Sangue e dannazione, voglio il responsabile! Dov’è il padrone?
I camerieri aumentavano. Venne un maggiordomo che non ne sapeva nulla.
— Il signore?…
— Dov’è il padrone? – gli rombò ancora Hoffman.
— Io… – disse l’altro, – …i reclami… ho l’incarico… Se il signore…
— Il signore… – entrò qui Masino freddamente, – i signori… desideriamo un caffè –. E pensò di essere stato magnifico.
— Idiota! – gridò Hoffman. – Vile! – e riuscí ad afferrare un bicchiere su un vassoio che passava, e tracannare.
— Sei stato di spirito, Masino, – giudicò Hoffman giorni dopo, mentre salivano su per la collina. – Peccato che come tutte le cose di spirito che fai tu, quella era fuori posto.
Masino sopportò. Era soddisfatto di aver dopo tutto salvato il collega tirandolo via dalla mischia. Hoffman aveva ancora una mano bendata. Si voltò a considerar Torino dalla costa, tra gli alberi, che si raccoglieva vasta là sotto nella pianura.
— È ancor lontana la villa del miracolo? – incalzò Hoffman. Masino gli aveva proposto di portarlo a discorrere con un sacerdote di sua conoscenza, un grand’uomo – diceva lui – un’energia da medioevo, viva e operante.
— Adesso ci siamo, – e voltò per un sentiero fangoso, tra l’erba. Hoffman dietro.
— Guarda gli alberi come se ne infischiano di noi, – osservò l’amico. – La santa natura. E noi del resto ci infischiamo degli alberi.
Al cancelletto il solito cane cominciò a dar nelle stelle. — St! St! brutta bestia.
Arrivò un vecchio senza barba, curvo e bavoso.
— Cerchiamo don Rione –. Entrarono e videro una signorina in bianco scomparire sotto una pergola.
Davanti alla porta della villa – muri rossicci, macchiati di verderame – attesero un momento.
— Questo prete insegna alle figlie e al figlio del padrone, – spiegò Masino. – È stato spretato e poi ricomunicato – qualcosa cosí – e dev’essere mezzo in punizione. Un bel tipo.
Hoffman fece una smorfia. — I preti liberi pensatori sono la genia peggiore sotto il sole, – disse definitivo.
Tornò il vecchio bavoso. Salirono una scala. Attraversarono stanze, vecchie stanze dipinte a pannelli sulle porte. Roba del settecento. C’era silenzio e tranquillità. Da una finestra videro un pezzo di verde. E all’invito di una voce profonda il vecchio li fece entrare in uno stanzone.
— Salute don Rione, – gridò Masino gioviale. Il prete – capelli in aria, occhi fermi, un uomo – si alzò da un tavolino e venne incontro. In piedi, nel corpo ossuto, era solenne. Masino vedendolo pensava sempre a qualche apostolo martirizzato.
Si sedettero intorno al tavolino. C’era sopra, tre libri, un breviario e fogli. Il resto della camera conteneva un letto, e una stufa, spenta.
— Bravi giovani, mi son venuti a trovare, – disse il prete sorridendo. – Ebbene, Ferrero?
Masino svolse un libro che aveva portato e lo tese a don Rione.
— Letto. Ecco.
Un libro bianco-crema con segnapagine rosso. Sopra, inciso in oro, Eptameron.
— Ebbene, l’ha interessata sant’Ambrogio? – chiese il prete.
— Buono, – disse Masino per dir qualcosa. – Un’ingenuità francescana –. Poi si pentí di averlo detto.
Hoffman aveva preso il libro e l’esaminava con aria critica. Gli altri due attesero.
— Mi sa spiegare perché è tanto in voga adesso lo spirito finto francescano? Non le pare un po’ imbecillità?… parlo latino.
Don Rione si aggiustò sulla sedia. A Masino venne freddo.
— …Sí, – continuò Hoffman, – vanno tutti in brodo i liberi pensatori laici per quattro sciocchezze sentimentali. Non certo questo è che fa la grandezza della Chiesa.
Don Rione fu combattivo dall’inizio.
— Ma nemmeno soltanto la spada. O meglio, – continuò infervorandosi, – abbiamo qui le due facce di una sola realtà, l’amor di Dio. Come è stato concepito da san Paolo…
Masino non si orientò piú. Hoffman invece ribattè svelto.
— No, non parliamo del passato o della spada. Io ho dinnanzi una religione che dovrebbe esser fondata su una bruciante carità. Amore di Dio e amore delle creature. E se la considero agli effetti, trovo che tutto si riduce a una nebulosa tenerezza verso entità nebulose, l’umanità, il bambino, la vergine. Dov’è il vero amore di Cristo?
La questione era posta. Masino pensava stupito che, per venire a parlare di religione lui col prete, aveva messo dei mesi. E Hoffman dopo quattro parole era già al punto.
— Questa, – rispose don Rione, – è la domanda angosciosa di ogni santo. Questa è la perfezione cui in terra non ci è dato pervenire, se non muniti di una grazia speciale, illuminante. Noi, per mezzo della Chiesa, perpetuiamo sulla terra in forma tangibile l’ideale che negli istanti di santità è balenato a pochi uomini…
— Ma Cristo, – tagliò Hoffman, – e Cristo? Che cosa ci sta a fare allora il figliuolo di Dio?
Masino comprendeva a sprazzi solo, ma qui ebbe un’idea. Perché don Rione parlava soltanto di uomini? Quell’accidenti di Hoffman! doveva averlo già toccato.
— Giovanotti, – riprese don Rione, agitandosi ancora sulla sedia, – vedo che loro sono tipici rappresentanti di una mentalità contemporanea. Certo loro sono superiori a molti pregiudizi e posso quindi parlare senza tema di venir malinteso. Dirò dunque: la Chiesa comanda, a noi spetta ubbidire. Convinti che siamo, della verità della Fede, non abbiamo che da umiliarci, da rintuzzare il Satana che è dentro di noi, accettando ciecamente l’ordinamento che della vita spirituale ci dà la Chiesa… voluta del resto da Dio..
«Quel del resto, – pensò Masino: — qua c’è puzza d’eresia».
— …la nostra Fede è tutta carità…
— No, no, no, – interruppe brusco Hoffman. – Umiliarci dinnanzi a che cosa? O la Chiesa è un edificio perfettissimo, cementato dall’amore vero di Cristo, oppure quest’amore vive operante nel mondo, malgrado la Chiesa. O lei mi giustifica anche il piú sciocco e inutile degli atti del culto o butta la tonaca alle ortiche.
Don Rione rimase grave fissando la finestra. E Masino guardava per terra e lavorava d’intelletto.
Diceva don Rione:
— È l’eresia contemporanea rinnovata da secoli. Nulla di nuovo sotto il sole. Gli iconoclasti o gli albigesi parlino. L’orgoglio matto che tutto vorrebbe perfetto. Ma la carne è imperfetta per natura. Se non fosse imperfetta a che cosa varrebbe questa prova della vita? Le tende d’Israele si mostreranno soltanto nella vita futura. È il fondamento della vera religione.
Hoffman taceva. Disse Masino palpitando:
— È questo che non soddisfa noi moderni. Abbiamo sete di realizzazione noi. Rimandare a un lontano futuro ciò che nulla impedirebbe di attuare sulla terra, ci brucia, – e guardò di sottecchi Hoffman assorto.
Disse don Rione sforzando una risatina:
— Se pare a loro tanto facile attuare sulla terra, perché dunque non l’hanno mai fatto?
E Masino: — Ma nostra vita è la ricerca.
Hoffman disse per suo conto: — Non ho compreso mai a che servano quelle piccole dosi di misticismo bolso che la Chiesa somministra ai fedeli sotto forma dei culti minori. Dov’è finito l’amore di Cristo?
— Ma questi sono i gradi della scala all’amore di Cristo. Il fedele comune non è il santo. Le ho detto che la santità è di pochi.
— Senta, – gli fece Hoffman senza nessuna reverenza, – questo sistema che ha la Chiesa di condurre l’umanità mi ha l’aria di una coppia di cavalli che trascina un’automobile. Se lei che è sacerdote mi conferma che la Chiesa non è che un accorgimento organizzativo, riconosca allora che la fede approvata consiste in sottintendere che Dio non esiste e poi adorarlo…
Qui don Rione interruppe e guardò in aria con un occhio ispirato.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nel tardo pomeriggio ch’era già semibuio i due vennero giú dalla collina. C’era Masino seccato delle violenze dialettiche del collega e Hoffman ogni tanto parlava di questo e di quello, indifferente. Alla fine venne al punto.
— Gran coglione quel tuo prete.
Masino strinse i pugni. Quando mai una persona che gli era parsa intelligente o importante, aveva incontrato l’approvazione di Hoffman? Certo don Rione non s’era difeso troppo bene. Ma Masino era diverso da Hoffman: cosa importava se un uomo s’era o no difeso bene in discussione?
— Quel prete è un grand’uomo, – ribattè. – È uno che ha passato tutte le idee e le ha sofferte tutte e se si è fermato a Cristo è perché non poteva piú andare avanti.
— Bravo, – sghignazzò Hoffman, – bravo –. E cominciò lui a parlare dell’amore di Cristo.
— Non avremo mai piú la ricompensa dei cieli. Non saremo che poveri uomini che nascono e muoiono. Dimenticheremo le vanità della superbia e della speranza. Ripeteremo entro di noi la vita di Cristo, ingigantendolo fino a farne un uomo. Non daremo piú il soldo al mendicante, ma impiegheremo la vita a distruggere il soldo che ha creato il mendicante. Non diremo piú, a chi soffre, di morire per rifarsi della vita, ma impiegheremo la nostra a consolarlo. Infrangeremo la prigione, la caserma e il lupanare per trarne le creature e indirizzarle alla vita…
Continuò per mezz’ora. Dava un tono cadenzato, profetico alle frasi, per incitarsi a pronunciarle, per salvarsi le spalle e sogghignava talvolta, ma alla fine gli splendevano gli occhi e per tutta la faccia gli parlava una solennità commossa.
E Masino risenti voglia di ucciderlo – o di adorarlo.