Aveva detto Masin: — Turin ten caôd. Andôma ’n mes aj pacô.
Da tre mesi viveva coi pacô e le cose non andavano troppo bene. Autorimesse ce n’erano, ma c’eran anche giovanotti che sapevan lavorarci. Aveva scelto. Santo Stefano nella valle del Belbo per esser sicuro della riuscita. Di Santo Stefano Belbo era un meccanico della Fiat, che ai suoi tempi disgustava tutti col suo torinese grosso: — Dës, porta quë r̂’acumur̂ator̂ –. In quel paese doveva esser facile regnare, aveva pensato Masin. Trovò invece da fare il garzone lattoniere. In un’autorimessa dove aveva provato, un ragazzino di quattordici anni, Gôsto, ne sapeva almeno quanto lui. E per giunta il padrone possedeva terre e non gli dispiaceva se i dipendenti a un’occasione piantavano olio e ferri e venivano a dargli una mano nei lavori di campagna. Masin provò a tagliare il fieno, ma rischiò di portar via una gamba a una ragazza. Lasciò allora la falce e le automobili.
Vivere in paese saldando e martellando le grondaie non dava molte soddisfazioni. Ma era almeno vicino alla censa e il padrone-lattoniere sapeva farsi piacere. Bisogna dire che Santo Stefano, all’imbocco della vallata del Belbo, è un poco la metropoli delle Langhe. Il paese ha su di sé di rappresentare dinnanzi alla provincia di Alessandria che confina, tutti i vanti e le virtù dei contadini retrostanti. E mônssú Rôss, il padrone, amava far confronti ed emettere giudizi: — Adesso voi venite da Torino e parlate italiano e ci dite che noi siamo della Granda, ma noi non siamo le piú sucche.
Mônssú Rôss dava il vitto e l’alloggio al dipendente «pr nen cô andeissa pr lë» oltre a un magro salario che tratteneva promettendo un interesse. A queste condizioni il torinese aveva protestato, ma il padrone tanto aveva detto e consigliato sul risparmio, sulla vecchiaia, su tutto, che Masin per aver pace ora ci stava.
Era un accidenti quel padrone e in fatto di linee rette non si poteva fargliela. Le grondaie avevan sempre qualche scarto e dopo gran parole la discussione finiva: — Amprende, fanciôt. Lo ch’j vor̂e savej ’d canâ a Tur̂ën ch’j ej tute ar̂ quârt pian?
Anche mônssú Ross aveva beni ma tutto si riduceva al ciabòt con qualche pergola di viti, messo da parte chi sa come; e il padrone vi conduceva volentieri il lavorante alla domenica quando, con tutta la famiglia, due figliole e una moglie, saliva a far merenda. Si trovava a mezza costa di una collina la cascinetta – una di quelle colline bianchicce quasi isolate, dove tutto è viti e nell’estate, dicono, i pampini si coprono di zucchero tant’è generosa la natura della terra.
Masin nei giorni di lavoro vestiva la camicia nera da macchinista, sua antica eleganza. Si poteva sporcarla che non si vedeva. Alla domenica, idem, perché in quei paesi non valeva la pena di aver troppi riguardi.
Le prime domeniche Masin dové combattere una battaglia. Il padrone lo chiamavano anche don Rôss perché era pieno di unzione, parlava qualche volta in italiano e sapeva comandare a tutti. Don Rôss era molto di chiesa e quando porgendo la pancia salutava i paesani o toccava l’acqua santa e se la portava alla fronte col grosso pollice teso, pareva un imperatore romano o un papa.
Aveva poi don Rôss fama di essere un tremendo pasticcione e truffatore e con tutte quelle belle parole non pareva improbabile.
Cosí, quando la prima volta una domenica Masin disse: — Stamatin j vadô a ’Canej, – il padrone, approvando con aria paterna: — Ô peu ’ndè a Mëssa a r̂a Capela dër Grâssie. A resta… – Masin stette a sentire e non andò alla cappella.
La domenica dopo, sempre con un’aria da esercizio spirituale, il padrone chiese a Masin: — Venlô a Mëssa con nôj, ancheú? – Masin lí per lí non seppe cosa dire. Poi fece lo spiritoso: — L’ultima messa ch’j l’aj sentí mi, l’è staita quande pare e mare a sôn mariasse –. L’altro allungò le labbra: — No, venta pa-no scherssè. Dess quë j sôn libër̂ ’d fe tucc côme ch’j veuro, ma tucc j ôma r̂a nostr̂a crôs. Che cos’è l’uomo senza la fede nel Signore? E chiel ôn-a debsògn dr̂a fede: âr̂o nen di crusse dr co chiel?… – Continuò un pezzo e Masin disse male dei preti e spiegò un po’ di storia universale e dell’inquisizione in particolare, parlando secco e definitivo. Ma fu il padrone che concluse:
— Venta pa-no giudiché da r̂a perssona r̂a cossa. Sôma tucc pecadôr… Adess ancheú cô vâga pura pr j prâ, ma chiel ô me smia ’n brâô fanciòt, ô r̂e ’n der̂mâge vastesse…
Masin se ne andò bollendo. Il giorno della conversione non giunse mai perché don Rôss l’aveva capita. Ma un bel pomeriggio di maggio che fuori era tutto fresco e nuvolette, quello lo condusse a riparare una tubatura in sacrestia, passando dalla chiesa. E si fece un gran segno della croce, don Rôss e mostrò a Masin tutti i vetri istoriati, chiedendo poi di parlare «côn ’l sôr arciprete» che – spiegò al dipendente – era vicario foraneo in qualche parte e cameriere di Sua Santità.
Lo lasciò solo in chiesa a meditare e quando uscí coll’arciprete, un bel parroco alto, cogli occhi minuti, questi lo salutò e gli chiese di dov’era.
Finí che ritornando Masin chiese a bruciapelo al padrone: — E chiel përché a l’è nen fasse preive?
— r̂a vôcassiòn, fanciòt, Nosgnôr ó r̂a nen dâ-me r̂a vôcassiòn.
Masin non andò mai a messa, ma alla domenica quando tornava a mangiare a mezzogiorno si sentiva malsicuro e preferiva non incontrare gli occhi autorevoli di don Rôss e di tutta la famiglia che lo trattava ora un po’ freddo.
— Pieve vârdia, fanciòt… – predicò un giorno don Rôss a capotavola trinciando il bollito e guardava Masin. – Pieve vârdia dar̂ vën e dar̂ dâne. Chi dice donna dice danno. Schërdive nen, perché j sej giâà, ’d pôrté ’r̂ capèl côme ch’j veur̂e…
Masin stava a sentire un po’ beffardo. Quel dialetto era proprio da pacô. Ma come, come lui era rotolato in quel paese?
Però i consigli erano buoni. Gli dispiaceva tanto la provincia che a Masin ripugnava anche di cercarsi lí una pischerla. E ne sentiva il bisogno. Certe ragazze sode del paese, che gli passavano accanto guardandolo, gli crepavano gli occhi. Si scoperse un giorno che fissava le gambe alla figlia del padrone – quattordici anni.
Fu cosí che decise di andare a Canelli – Parigi – e spendere quel che ci voleva. Era l’unico mezzo per non capitolare in paese. Chiese un giorno di libertà e cinquanta lire di saldo a don Rôss che lo avvertí che sprecava – lasciar fruttificare i capitali – poi forse comprese e borbottò qualcosa.
Alla sera Masin ritornò. Stanchissimo, con quindici lire in tasca. Disse in negozio che non aveva fame e uscí a girare. Gli mancava qualcosa a Masin, qualcosa che non sapeva. Si sarebbe preso a calci quella sera. Era i primi di giugno e già nell’aria pesava l’afa del grano maturo, mista a un forte sentore di terra. La luna sul paese era piena e inondava le colline sovrastanti d’uno splendore quasi rosso.
Masin camminò per lo stradone di Cossano. Poi si sentí che era stanco. Tornò allora e andò a sedersi, fuori, all’Albergo della Posta, dove chiese del vino. Di dormire non ne aveva ancor voglia. Gli mancava qualcosa quella sera.
Dall’albergo uscivan suoni allegri. Una chitarra, gente giovane, risate, parole. Masin cominciò a bere: un vino guasto come sempre nelle osterie dei paesi che lo fanno buono.
Pure, un fondo di robustezza restava nel bicchiere e Masin cominciò a sentirsi piú sicuro, dimenticò la Langa e ascoltò piú attento la chitarra.
— A Côssèn sônôma tucci pr par̂ej. Tin, vâte ’n festa a Car̂òss?
—In.
— Maledetti, un altro dialetto, – bestemmiò Masin; eppure eran ragazzi come lui.
Entrò nella stanza dov’era la chitarra. Il suonatore aveva un cappello illustrato da pezzi variopinti di carta e da una piuma, e una giacchetta marrone. Era un giovane dalle mascelle forti e dava risposta a tutti. Intorno, due o tre altri giovani canterellavano; due contadini in un angolo guardavano sorridendo beati e fumando la pipa; l’oste raccomandava ogni tanto il silenzio. Il suonatore benché gioviale pareva preoccupato. Masin s’accorse allora che era a pezzi e aveva con sé un sacco a viveri.
— ’Dess ’n dô ch’j ’ndeve a sônè? – chiese uno dei contadini. – Elô nen mej si travajeisse ’n campâgna?
L’altro fece un gesto di disgusto.
— Fa pa-no debsogn. J eissa ’n clarën ’nsëm, fass j sôd a caplà. Na vâta j nassiva ’n fanciòt, ’m ciamevô a sônè. ’Dess j an tucci r̂a crise.
Masin riconobbe in quel giovanotto finalmente un suo simile. Entrò nel discorso:
— D’andôa a l’è chiel? – ma sentì che il torinese stonava. L’altro fu svelto e gli parlò in torinese.
— Sôn si de stè côliñe, ma j sôn stait ’n pess a Turin.
Il pubblico, giovanotti e contadini, allargarono gli occhi. I due erano ora il centro della sala.
Masin si sentí meglio. Offerse da bere al chitarrista. Quello accettò spiegando che era stato da militare a Torino. Masin disse: — Mi sôn staje a Napôli sôt naja. Che ’d teron! – L’altro rise. Si chiamava Talino. – J piasla la chitara? – chiese poi conciliante. – ’Na volta j savija bin gratela, – dichiarò Masin ch’era ormai nel suo centro. – Ch’a fassa prôvè.
Ebbe la chitarra. Bevve un bicchiere. Tutti attendevano. Dimenò le dita e le sentí a gioco. Attaccò Ramona. Qualche nota s’impigliò, ma il tango nel suo insieme gli uscí come mai s’era sentito in quella sala. I contadini fumavano pietrificati. Un giovanotto che orecchiava si fermò.
— Bravô! – scoppiarono tutti quand’ebbe finito. Gli chiesero il bis. Masin provò simpatia persino per i pacô. Ma Talino, Talino era il suo pubblico. Era una teppa, quello.
Bevvero ancora. Talino gli parlava in confidenza. Gli spiegò che in quel mestiere si faceva la fame. Masin, grave, lo comprendeva. Si diedero del tu. — Penssa ch’j l’aj ’ntenssiôn ’d vende fiña la chitara e dè man a la sâpa –. Non era perfetto quel torinese ma Masin si sentiva contento. Chiese come si facevano i soldi suonando, da quelle parti.
— ’N ter̂ feste… – spiegò Talino, – …a r̂a spôsa, a sfôjè d’istà, ’n tle piole. Ma a j’è pi gnun ch’a scaja, – e qui rise sottolineando il bel vocabolo vasco.
Passò presto la sera. Uscirono ch’era oltre mezzanotte. Masin pensava seccato alla faccia di don Rôss quando lui sarebbe rientrato a quelle ore. L’avrebbe licenziato? Ebbe un’idea.
Talino cercava un socio col clarinetto.
— Dis, Talino, ti t’ses propi ’m nume a rôa, – che bel torinese! si sfogava quella volta, – mi l’aj idea ’d deje ’l gir al baôdro… Butômsse ’nsema.
Talino meditò. Poi lo guardò di sotto in su. Camminavano sulla strada di San Sebastiano dove Talino dormiva nel fienile. Sotto la lea di platani, erano.
— Me idea, – rispose poi, – saria ’d vende la frôja. Am va pi nen sa vita. ’Dess j’è ’d travàj ’n campagna, fiña a la vendemmia. Fôma l’afè?
Masin preso alla sprovvista tentennò. Gli dispiacque soprattutto di non poter trattenere Talino. — E lassa perde, ven ’n gir, – supplicò. L’altro era della Langa. – Ah! n’aj basta. ’T veule prôvè ’n poc tin adess?
Masin si toccò in tasca. Aveva undici lire. Ma certo era un’idea. La chitarra era ottima. Almeno uscire dalle grinfie di Don Rôss. Disse: — Sí, ma j l’ai pa ’d gran –. E Talino: — Cosa ’d veure deme?
— Dis ti, la frôja a l’è boña.
— Sent lire e ’na bôta ’d dôssèt. – Risero.
— J aj pa sent lire, – rispose Masin.
— Cosa ’t lâs? – chiese Talino.
— ’N sacocia, ôndes lire. J’aôtri a j’à mônssú Ross, pa tanti.
— Ah, ’t ses côn mônssu Rôss?
— Cônôsse?
— ’N tuta la vallâda j r̂o ô. Cosa ’t veur̂e stè con côn piantabâle? Cômpra la frôja e bat la côliña.
— Dame la chitara –. Talino gliela porse. Masin giocherellò sulle corde, tentò un motivo: la pënna, la pënna!
— Sa, fôma ’n pressa. ’T dagô sessanta lire, si j aj.
— Poch, poch, – disse Talino, e dimenticando completamente il torinese: – ’Na veuj ar̂meno ôtanta.
Discussero sotto la luna. Sulla porta del fienile di S. Bastian, col cane che latrava, giunsero a un accordo. Settanta lire da consegnarsi domani al negozio di Don Rôss. Si salutarono.
— E ’ndôma a beive ’na volta peuj, – gli gridò dietro Talino, lasciandogli subito la chitarra. Pensò Masin: «’S fida nen ’d poch» e camminò a casa, sotto la luna, strimpellando.
Talino era stato pagato. Al mattino sul fresco erano usciti, avevan bevuto una volta alla Posta e i denari avevan cambiato tasca. Masin stette a sentire tutto contento Talino che gli spiegò il segreto di un accordo.
Poi si lasciarono calorosamente. Talino disse che andava a cercar lavoro nella Piana di Canelli. — ’N côliña a l’è pi fatiga.
Due ore dopo mentre Masin stava litigando con don Rôss, Talino ricomparve. Prese da parte Masin che sussultava dalla rabbia e gli chiese confidenzialmente se poteva prestargli un pomeriggio la chitarra, che gli era capitata un’occasione di suonare a un ballo privato e poteva guadagnarsi venti lire.
— Sent, – gli sibilò Masin, – dagô ’n caôss a ’sta boita e veñô anche mi.
Disse Talino: — Ma ’t sâj, a r̂e ’na festa privà, seu nen… mej ch’a vaga sôl: fôma parej, fôma mecia dël prôfit… Vâlô ben?
— L’è pa per lon, – continuava Masin. – Penssa mach. Ma j l’aj sto spagneul si ch’a-m ten caôd. A dev ancôra deme ’d sold…
— Ben… – tagliò corto Talino, che pareva non avesse troppa voglia d’incontrare mônssu Rôss, – …ô veu dí ch’ass beutôma d’acorde stasseir̂a. Trôvômsse ar̂ Pont dôa Stassiôn a neuv ôre?
Se ne andò colla chitarra. Masin ritornò nel negozio e disse secco: — Bin, de-me ’l me sold, fôma pi nen ’d parole, ma j seve ’na carogna.
Don Rôss lo guardò desolato di dietro al banco come se a lui, Masin, fosse capitata una disgrazia. Era capitato che al momento di vedersi liquidare lo stipendio, Masin s’era sentite ritenere dieci lire per domenica in conto dei pasti che, spiegò don Rôss, erano estra. I pasti compresi nello stipendio eran soltanto quelli dei giorni feriali. Incredulità di Masin. E don Rôss suadente e severo gli aveva fatto notare che il vitto era sempre stato onesto e quello domenicale, suntuoso. Soltanto, bisognava pagarlo.
Masin parlò persino della papessa Giovanna. Don Rôss gli gettò diversi anatemi e si turava le orecchie. Ci fu un momento che Masin afferrò una mazza e la levò per sfondare, ma la mano gli urtò ad uno spigolo, e ritornò in sé.
Si calmò. Non valeva la pena di farsi mettere dentro. Tanto quel gesuita non gli avrebbe dato un soldo di più, neanche in punto di morte. In quel momento era sopraggiunto e partito Talino.
Tornato in negozio Masin ebbe i pochi quattrini che ancora gli spettavano, detratte le domeniche. Sentì una gran voglia di darli in faccia a qualcuno. Don Rôss scuoteva il capo.
— Fanciôt… – volle cominciare, e Masin cacciò un ruggito. – …Piantla, côtìn, l’è a sente mëssa ch’j ’t ses drissate.
Quando fu uscito col suo fagotto, Masin si guardò attorno. Dove andare? Ah, l’appuntamento per la sera alla stazione. La chitarra di Talino. Storse la bocca a un tratto. S’era dimenticato di farsi dire dove era andato a suonare. Così, se non lo trovava quella sera non l’avrebbe visto mai piú.
Era giunto sulla piazza del paese, sotto il sole, e tremava ancora di rabbia. Quel porco d’un padrone. Pancia, aria santa, onestà, consigli. Gente onesta non ce n’è che in prigione. Come può uno che ha famiglia, che è legato col mondo, essere onesto? Deve fare tutti i versi della scimmia, e i piú vergognosi, per tirare avanti nel mondo e assicurarsene i mezzi e il rispetto. Gente onesta non c’è che sulle strade o in prigione.
A questo punto delle sue meditazioni, Masin tornò a fermarsi. Paese fottuto. Sembravan stupidi e poi fregavano. E sotto c’era una paura nuova. S’era accorto a un tratto Masin, che anche Talino era di quelli. Talino che aveva i soldi e la chitarra.
«Ma no, a Tè ’n fieul drit…» Ma chiunque, anche una civica, colla merce e i soldi in tasca taglierebbe la corda.
La rabbia della certezza cominciò a bollirgli. Masin cercò di spiegarsi come avesse consegnato la chitarra tanto ingenuo. E non trovò. Soltanto ricordava di esser stato tutto in furia, di aver urlato, di aver quasi ucciso un uomo. Quel maiale!
E gli dispiacque, ebbe quasi paura di dover dar tra poco quel titolo anche a Talino. Si fermò all’orlo della strada presso un palo del telegrafo. Ma no, Talino non poteva. Sí, Talino poteva. Ma no, Talino…
— Diô faôss! – urlò di colpo sulla strada. Vide chiaro che era stato giocato.
Anche gli ultimi soldi erano andati. S’appoggiò al palo e chiuse un attimo gli occhi, perché avrebbe voluto fosse notte e non vedere piú quelle colline. Invece il sole tutt’intorno trionfava.