Patria italiana sul teatro

A Gerolamo Rovetta.

Per qual ragione credete voi che il vostro nuovo dramma «Romanticismo» sia così ben accolto sui teatri di città in città d'Italia e dia alla nostra letteratura il conforto che un lavoro drammatico applaudito e piaciuto, nel pieno senso della parola, sia questa volta un lavoro italiano? Voi non pecchereste d'immodestia, rispondendomi che gli è perchè lo avete fortemente concepito e datagli una forma appropriata, con sentimento di verità e d'arte. I vostri personaggi son persone vive che operano e parlano in un ambiente reale: i caratteri sono quali, nelle rispettive condizioni di vita e d'ufficio, erano i caratteri del Lombardo-Veneto, triste vocabolo di austriaca memoria, mezzo secolo fa; gli affetti, quali nei cuori degl'Italiani di codesta nobile e visceral parte della patria nostra si venivano formando e nella vita si effondevano, in quel sacro decennio fra il '49 e il '59, che maturò, fermentante dal 1821, la libertà d'Italia. Il vostro conte Vitaliano Lamberti aveva nei decennii antecedenti portato il nome di Federico Confalonieri, di Giovanni Arrivabene, degli Arconati, degli Arese, dei Trecchi, dei Porro. Quella borghesia eroica che nella farmacia di Giovanni Ansperti riceveva l'epico giuramento dei fedeli al verbo mazziniano, e dava, serena e impenitente i suoi confessori e martiri alle forche di Belfiore, accolse il medico, il libraio, il prete, il patrizio, che non si chiamavano Ansperti, Fratti, Strassèr, Morelli, Lamberti, ma Scarsellini, Maggi, Maisner, Montanari, Finzi, Grioli, Zambelli, Speri, Penna, Ottonelli, Tazzoli. La povera Giuditta Ansperti, che muore di crepacuore un mese dopo esserle stato impiccato il marito, fu, in quella stessa Como, e in una farmacia, con dissomiglianza di vicenda e di fibbra, la forte donna il cui affetto tenace segue fino alle terribili carceri di Venezia Luigi Dottesio, e che è sopravvissuta, fino a sei anni fa, quasi nonagenaria, a quel dramma d'amore e di patria e di sangue. Dalle montagne del confine elvetico, che Ugo Foscolo inaugurò al rifugio dell'idea italica sotto l'egida delle libertà repubblicane; fra quelle balze, esercitate dal contrabbando politico, di mezzo alle quali il vostro conte trafuga in salvo il vecchio farmacista e si trova a dover ammazzare il tristo gendarme, che italiano, si fa gioia e vanto delle lacrime e del sangue degli italiani ribelli al suo imperatore; dalle balze di quelle montagne erano passati in una tempestosa notte del '22, a lume di torcie, l'Arrivabene, l'Ugoni, lo Scalvini, scampando allo Spielberg che ingoiava il Pellico, il Maroncelli, l'Oroboni, il Pallavicino, il Castillia, il Borsieri. Di quelle dame austriacanti, madri di figliuoli liberali; di quelle spose che avevano fatta una cosa sola dell'amore coniugale e della devozione all'Italia; oh quante la storia, la più inedita, del cuore di donna, quante ne avrebbe potuto consacrare alla compassione o al disprezzo, ovvero (come già per Teresa Confalonieri) al culto reverente, di noi che allora eravamo giovanetti! E il vostro consigliere imperiale, che divide la sua fedeltà tra l'aula della Cancelleria Cesarea e i recessi d'una di quelle alcove maledette nel verso del Berchet e del Nicolini, lo abbiamo avuto, mutati nomi e proporzioni, anche noi nella Toscana lorenese: salvo che qui la tragedia si assottiglia pianamente nel comico, che il Giusti di tra le quinte dell'allusione motteggevole ritraeva in iscorcio; nel modo stesso che la ferocia del gendarme Baraffini ingoffiava in qualche inocuo pupazzetto militare, tirato pe' fili della sestina scettica del Guadagnoli. Ma il pallido Ortis del romanticismo di tutta la penisola si disegnava con chiaroscuri lunari lungo le linee, sulle quali voi avete tracciata la figura del venturiero Rodolfo. E non piuttosto di Lombardia che di altra qualsiasi regione d'Italia era il marchese Giacomino, da voi ritratto con arguzia e festività goldoniane, quando dalla regione designata per la riscossa rivarcava il Ticino, sotto la bandiera tricolore, non più fatuo giovanotto quasi inconsapevole de' suoi stessi sentimenti di naturale amor patrio, ma soldato di Vittorio Emanuele alle cariche di Palestro e di San Martino.

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E tutta questa vita vera di quel periodo della nostra storia Voi l'avete atteggiata con arte sapiente; sì per quel che avete condotto espressamente sulla scena, sì per quello che fra atto e atto avete trascorso. La morte della vedova Ansperti, quanto è più pietosa risaputa dopo! e come drammatico lo scontro dei patriotti coi gendarmi sul confine svizzero, nella penombra del racconto senza indugiarvisi sopra! E il suicidio espiativo dell'Ortis denunciatore, che Voi con audace novità fate raccontare dal marito alla moglie, e può da quella coppia pura avere generoso compianto; e il duello patriottico tra Giacomino e il Grosso ufficiale austriaco che ci pare aver conosciuto nonostante che voi non gli abbiate fatto l'onor della scena; sono tratti di artista possente, che sa risparmiarsi alle parti culminanti dell'opera meditata, e in queste poi eccellere luminoso.

Dico nel primo atto tutto intero, che non si dimentica; e (per quanto dallo avervi ascoltato può essermisi impresso nella memoria) nella scena, che mi parve bellissima su tutte, nella quale moglie e marito si rivelano, tardi ma in tempo, a se medesimi, e nella religione della patria riconsacrano e sublimano l'amor coniugale; e dove a quella religione il conte mazziniano inizia il marchesino, che d'ora innanzi avrà coscienza di ciò che sin allora solamente sentiva; e le arti poliziesche della suocera e del consigliere intorno alla giovane sposa magnanima; e il castigo che alla vecchia dama si viene, lungo tutto il dramma, apparecchiando nella diserzione d'ogni più caro e legittimo affetto, e nel supremo dolore, in cui ella ritrova colle lacrime materne se stessa, dell'arresto del figliuolo; e nella temperanza con la quale avete ritratto e lei e l'imperiale amico suo senz'aggravarli di troppo foschi colori, anzi lasciando che ancor egli, pur rimanendo inflessibile nell'aulica sua devozione contro l'idea italiana, e contro il «romanticismo» della rivoluzione impossibile, abbia tuttavia alcuno di quei tratti generosi a cui nessun cuore umano che non sia de' pochi affatto snaturati e perversi, rimane chiuso con sigillo inviolabile.

Questi sono pregi nobilissimi del vostro lavoro. Ai quali deve pur aggiungersi la sincerità della lingua e dello stile che mi parvero non peccare nè di trascuranza delle proprietà dell'idioma che ci è testimonio di nazione, nè di quella preziosità che sotto altre penne (e alcun'altra volta scusate sotto la vostra stessa) aliena dallo schietto quotidiano linguaggio il conversar delle scene. Grave questione cotesta, nella quale credo che autori ed attori avrebbero ancor molto da fare, qui fra noi, per conseguire al teatro nostro la virtù somma, che dovrebb'essere, in tutti i sensi ed aspetti, la verità.

Della verità storica poi, di fatti e d'ambiente, lumeggiata in modo squisito dalla valentia dei vostri interpreti e dallo sceneggiamento e dal costume, così fossero i drammaturghi sempre in sicuro possesso come siete stato Voi nell'interrogarne un'epoca, della quale i testimoni viventi rimangono, drappello di seniori, ancora in buon numero! Ahimè quanto falso medioevo sulle scene moderne! e non di scrittori italiani solamente; anzi, diciamo piuttosto, quanto falso medioevo italiano in lavori teatrali, che è sotto tale rispetto «peccato nostro e non natural cosa» tradurceli e accettarceli con plauso e, in certo modo, sottoscriverceli noi Italiani, sui teatri d'Italia! Voi avete dato un esempio, da augurarne imitatori. Ho riletto, dopo la rappresentazione del vostro «Romanticismo», le scene maestrevoli che la Sand desunse pel suo «Cadio» dalla storia della Vandea; nè le vostre mi paiono da meno: oltre poi il vantaggio, di averle Voi commisurate a scenica rappresentazione: chè il teatro parla a più e di più specie, persone che non il libro; parla a coloro ai quali non vorremmo non averci a pentire di aver insegnato a leggere il libro e il giornale; e parla, il teatro, il linguaggio del cuore, nel quale tutti anche e letterati e analfabeti, dovremmo saperci intendere e sentirci uniti nel bene. E si avverta che quanto è più facile lo adire le fonti del vero d'un'età a noi vicina, tanto più stringente è l'obbligo d'attingervi schietto: e più grave dunque il carico che Voi vi eravate addossato.

Proseguite animosamente, anche perchè - questo vi dico per ultimo, ma sopra tutto mi preme che vi sia detto; e per questo principalmente ho preso fiducia di scrivervi in pubblico - anche perchè voi avete fatto, signore, un'opera buona. E ciò pure io credo (e rispondo alla dimanda che Vi proposi in principio) sia legittimo titolo del lieto successo che avete incontrato. La Poesia civile, la quale, e romantica e classica, cooperò con tanta efficacia a conquistarci la libertà nazionale, è richiamata sotto le armi a difenderla: difenderla da nemici tanto più pericolosi in quanto essi pretessono in nome della libertà umana, mentre uccidono consapevoli o no, il sentimento della patria. Io ho pur una volta sentito, come da giovane, echeggiare il teatro di applausi patriottici: ve ne ringrazio di cuore. La grande istoria della servitù d'Italia e del suo risorgimento Vi offre, da tutto il secolo decimonono, altri degni argomenti a trattare o riproducendo con nomi storici o, molto meglio, dal complesso dei particolari, com'era avete fatto, idealizzando fedelmente al vero persone ed avvenimenti. Vi preghiamo - lasciatemi parlare in nome della generazione con la quale io discendo - Vi preghiamo, Voi che ascendete, non sia questo il solo lavoro con cui facciate rivivere sulle scene, a memoria, ad ammonimento, a conforto, la santa immagine della patria italiana.

Firenze, Settembre 1902.

Isidoro Del Lungo.

(Dal Giornale d'Italia: - Roma - Sabato 4 Ottobre 1902).

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