A GIUSTINA SAFFI

VEDOVA DAL POZZO

Poichè nè le condoglianze degli amici, nè la lunghezza del tempo non hanno potuto ancora riconfortarti l’animo per la perdita del tuo consorte amatissimo, ho pensato, che non sarebbe al tutto fuor di ragione il mandarti a donare questa mia scrittura quasi in alleggiamento del tuo dolore. Nè già m’ardisco di pronunciar questo per alcuna presunzione ch’io abbia del fatto mio, ma solo per l’opinione ch’io porto, negli avversi casi, l’ammaestramento degli esempi, più assai che le parole di conforto, giovi a rattemperarcene l’amarezza. Troverai leggendo una donna singolarissima del suo tempo, cui la fortuna avendo fatto dono di preziosi beni, e quasi per mano condotta al sommo d’un invidiabile gloria, l’abbandonò poi a mezzo alla via, e fattalesi nemica, prese a percuoterla crudemente, e di più maniere. Del quale esempio, rinvenendo tu in memoria d’altre infinite donne sventuratissime ch’avrai conosciuto per istoria, o vero vedute cogli occhi propri, prenderai spero a guardare l’infortunio tuo con l’animo alquanto men nuovo delle avversità della vita, e acquisterai forza a sopportarlo senza strepito di querele pazientemente. E che! vorrai tu mettere regola e modo all’operare della fortuna, dalli cui vari ravvolgimenti, niuna cosa, tranne la virtù sola, potè sottrarsi! Io ti prego, dolcissima sorella mia che tu ti voglia dar pace una volta, e accomodarti al costei imperio il più che sappia da virtuosa, da forte: chè contristandoti così lungamente e fuor di modo, oltre che non dai mostra di animo rassegnato, nè anche porgi compenso alla tua sventura.

E ti consola, addio.

Di Bologna alli 19 agosto 1830

I. Di quanti fra cultori e ammiratori dell’arti belle ha l’Italia, non è alcuno a mio credere, o Bolognesi, che ignori quel che valesse nello scolpire la giovine donna Maria Properzio De’ Rossi; bensì da moltissimi si fan querele, che delle virtù sue appena fra soli pochi dell’arte mantengasi viva la ricordanza. Ma il costei infortunio doloroso sovra tutti parmi abbia a riuscire a voi, o signori, a voi che vi avete con essa di comune la patria. Ed in vero se si venisse a tor via quello che n‘han detto insieme il Vasari, e indi appresso il Cicognara nelle loro istorie, non so in qual modo potessimo ora risovvenirci di un tanto onor vostro. La quale ingiuria, o Bolognesi, se io non mi dessi a credere, aver dovuto ella soffrire più per certa indolenza di mal augurati tempi, che per incuria de’ vostri padri, i quali ebbero sempre in onore ogni maniera d‘arti o di scienze; volentieri vorrei qui farmi del novero di coloro, che un giustissimo sdegno gl’infiamma contro quelle male ordinate città, le quali, o per disconoscenza del buono, o per poco amore delle virtù, o per disleale ingratitudine, o per infingardaggine rea, o per qualsivoglia altra biasimevol cagione, sopportarono non senza grande vergogna, che insieme col corpo andasse sepolto il nome di que’ loro egregi cittadini, che per opere d’ingegno pregiabilissime meritaron d’essere nel cospetto del mondo perpetuati. Nè alcuno certo vorrebbe tassarmi di orator baldanzoso e irriverente, perchè libero e franco mi fossi ardito alla presenza vostra parlare il vero: considerando, che gli spiriti eccelsi per un acceso desiderio di gloria sempre studiarono con ogni maggiore sforzo e fatica di condurre l‘opere loro alla più perfetta bellezza, sì per essere onorati in vita, sì per lasciare a’ posteri durabile fama d’ogni rara loro eccellenza. Che sebbene molti di questi per così laudabile studio e desiderio abbiano colto in vita dalla liberalità de’ principi, premi ed onori, con aumento grandissimo di fortune; non di meno l’essersi passati con silenzio da chi per solo debito di cittadino, o per semplice cortesia avrebbe dovuto celebrarne le meritate lodi, è cosa così vituperevole e indegna, come l’aver tentato di sbarbicare dal mondo la più nobile gloria quella cioè, che in esempio degli avvenire mantiene eterna la fama de’ sommi ingegni. Laonde poiché questo ufficio di solenne orazione è dato a lodare le liberali arti, e a incoraggiare questi giovani valorosi, i quali tutto han posto in esse il loro studio; ho stimato, toccando a me oggi l’onore del favellare, che potesse la mia voce esser da voi più benignamente ascoltata, se io la userei in avvivar la memoria e l’industria di questa lodatissima artista, cittadina vostra. Argomento, secondo che m’avviso, non discaro a voi uomini, che qui vi accoglieste per ottimo intendimento che avete di queste arti: non a voi, cortesi donne, che vi rinfresca la memoria di una Quistelli, d’una Anguisciuola, d’una Fontana, d’una Sirani, e di quante altre levarono alto la gloria del gentil sesso. Verrò dunque rimemorando, in quel modo che per me si potrà meglio, da prima l’ingegno e l’ottima indole ch’ella sortì da natura; dappoi i prodigiosi avanzamenti in ogni suo studio, massime quello dello scolpire; per ultimo la fama grande in che salse, le traversìe che le incontrarono nella vita, e la morte, lacrimata da’ suoi cittadini, da’ maestri d’arte, da tutta Italia.

II. In quel fiorito secolo, che per dovizia di chiari ingegni, e pei favori di due Monarchi di elevati spiriti (Carlo V. e Clemente VII.) crebbe in tanto onore d’arti e di lettere questa nostra comune patria, trasse Properzia di onesti parenti suo nascimento.( ) Dotata d’ingegno perspicacissimo, e in tanta prosperità di ogni liberal disciplina, potè, non altrimenti che nobile pianta in addomesticato terreno, produrre frutti di più che ordinaria bontà. Subitamente ancor fanciulletta per certe sue particolarità e suoi genj die’ a divedere quanto da natura fosse alle cose del disegno inclinata. Conciossiachè fra suoi fanciulleschi trastulli, quello di tutti a lei più gradito, era il gir disegnando varie fantasie, e comporre di creta figure o d’uomini o di animali,( ) il tutto con sì buon garbo, e tanto al di sopra di quella piccola età, che anche gl’intendenti lodavano molto, e grandi e belle concepivano di lei le speranze. Col crescere degli anni, a questo innato amore alle cose del disegno, si accompagnò quello ancor della musica ( ): e ciò fu allora che si avvenne per prima volta a gustarne la cara soavità. Quest’arte giocondatrice, quest’arte prima fra le più elette delizie, potè tanto con sue attrattive in quell’anima gentilissima, che volle subito farla suo principale studio. Attese dunque in prima a sonare probabilmente di liuto, e indi a poco a cantare; e siccome oltre alla complessione e gli spiriti a quello studio abilissimi, aveva ancor tratta da natura perfetta voce, così con poca fatica, e in breve corso si portò tanto avanti, che non era altra di sua città, che nel suono e nel canto le si eguagliasse. Tanta virtù in una freschissima giovanezza, la qual si rendeva ancor più cara dalla grazia dell’avvenenza, non potendo starsi ammirata fra soli pochi intendenti, cominciò spandersi per la città, intantochè non era adunanza di compagnevol brigata, non festeggiamento di liete nozze, non straordinario spettacolo di pubblica gioja, dove non fosse bramala universalmente quest’angioletta.

III. E qui fammisi a dir cosa, o signori, del tutto nuova e maravigliosa: a questo acquisto di pubblico onore, a questa invidiabile gloria che ogni altra donna avrebbe fatta lieta ed altera, Properzia, ben lontana dal giubilarne, dall’invanirne, sentiva dirsi continuo al cuore: Quella di musica non esser gloria di gran momento; o se non altro, la più manchevole e passeggera: volersi da una grand’anima ambirne altra più splendida e duratura. Nel qual vivissimo desiderio cresciuta più sempre la giovinetta, si dispose in fine di dare opera alle arti del disegno, per le quali com’è già detto, aveva mostro sin da primi anni dispostissimo ingegno. Presi dunque, come vogliono alcuni, dal famoso intagliatore Marc’Antonio Raimondi( ) i primi avviamenti nel disegnare, cominciò attendervi con assai profitto, e indi a poco per la dispostezza della mente a mostrarsi così esperta nell’arte, che le invenzioni di sua mano, e alcune opere in ispecie fatte di penna, e ritratte dalle cose di Raffaello( ) bastarono a darle grido di molto valente disegnatrice.

IV. Per cosi bello incominciamento, preso Properzia maggiore animo, e seguitando la naturale inclinazione per la scultura, si provò prima a intagliare in grande nel legno( ). Poscia, come portava il gusto di que’ tempi, sopra noccioli di pesche( ), facendovi figurine e storiette con assai grazia e precisione, e in taluno persino la passione tutta di Cristo, i Crocifissori, e gli Apostoli con una folta di gente. Ma di così complicato e così stupendo lavoro sembra, che non ce ne sia rimasto alcuno; atteso che que’ pochi noccioli che si hanno quivi in casa de: Conti Grassi, veggionsi ciascuno con alquanto più semplice intaglio. Fu dunque per questa sottilità dì lavori commendata moltissimo, e ne destò meraviglie, parendo a tutti un prodigio, che quella medesima giovane tanto lodata per musicale perizia, si fosse mostra ora agli occhi dell’universale con eccellenza d’ingegno e di arte tutta dall’altra differentissima.

V. Colti ella intanto que’ primi onori, le venne voglia di provarsi nell’arte della Pittura( ). Nella quale sebbene non possiamo lodarla di alcuna opera che sia vissuta sino a ricordo de’ nostri padri, tuttavolta fidati alle parole di accreditati Scrittori, possiamo affermare, che anche in questa mostrò diligenza e buon giudicio. Ma, o che non si tenesse in quella troppo contenta di se medesima: o che, com’è verisimile, più dello scolpire che del dipignere si dilettasse, fatto è, che attesovi quel solo tanto che le potè bastare a darne alcun saggio, non bramò altro, e tornò da capo all’intaglio; dove seguitando con molta sua lode, passò poi allo incidere in rame,( ) nel quale studio, secondo che abbiamo, valse pure moltissimo. Insomma non era arte di che costei s'invogliasse, che per solo porvi l’ingegno, non si traesse fuori con molta lode.

VI. Fatta poi di anni e di senno alquanto matura, allargando il cuore a più alte speranze, deliberò fra se stessa di tentare per ultimo a lavorare nel marmo. Nel qual proposito si attenne ella con sì maschia fermezza, che anche in pensare alle nuove e grandi difficoltà che avrebbe incontrate a mezzo la via, appena era che pur lievemente si sgomentasse; tanto le prometteva onorata riuscita quel sentirsi un’anima in petto tutta ardente di gloria, e insiem capace di ogni gran cosa. Mi gode l’animo d’esser venuto a questo punto colle parole, sì perchè ci sembra essere alquanto fuori di quella nebbia oscurissima, nella quale stava dirci quasi sepolta ogni memoria di questa donna; sì anche perchè avendo ella nel marmo più che in altra materia lasciate opere che tuttora durano intatte, le lodi che le verremo dando per questa parte, saranno in certo qual modo da testimoni incontrastabili i rifermate.

VII. E dal lodarla dovrem pur qui subito cominciare, parendo cosa superiore a donnesco animo l’essersi ella volta a questuarle per fatiche di corpo e di mente tutta maschile, e con sì grande fiducia di se medesima. Chè questo è appunto quello che si trova essere proprio de’ grandi ingegni: avvisare con occhio intrepido qualsivoglia impresa difficoltosa; mettervisi entro con tutto l’animo arditamente; non dar mai addietro per ismarrimento o diffidanza: in una parola, durare imperturbato senza sgomentarsi d’ogni più grandissimo ostacolo. La quale altezza di spiriti dimostrò Properzia assai bene nell’essersi posta a operare nel marmo comunque donna e di fresca età, nell’aver tirato innanzi in quell’arte senza che mai per fatica o per altra qualsivoglia cagione rallentasse l’animo: nell’essersi infine fra picciol tempo nella patria, e fuori acquistata celebre rinomanza. E in verità, che dovunque era amore di gentili arti si faceva grandissimo dire che una bella giovane bolognese, fra l’altre assai doti che l’adornavano, avesse ancor questa rarissima e tutta nuova, dì scolpire nel marmo stupendamente.

VIII. Che se taluno facesse stima, che il modellar sulla creta, il discarpellar sassi, il trattar le seste, le squadre, e altri stromenti che fanno all’arte, non fosse opera molto dicevole alle delicate mani di giovinetta donna, noi francamente il riprenderemmo d’insufficiente estimator delle cose. Perocchè ci sembra, che quanto è più raro il trovar donna che abbia posta opera in arte difficilissima, tanto più s’abbia a tener singolare e ammirando l’esservi alcuna d’esse riuscita perfetta. Aggiungi, che essendo ottimo intendimento di queste arti il ritrarre le valentìe de’ grandi uomini, la scultura, che di gran lunga soprastà all’altre nella durata, vuole avere vanto di maggior pregio, e in sì fatto ufficio essere guardata come la più desiderabile agl’immortali ingegni. Onde che mi fo a pensare, che greci e romani le più insigni virtù civili e militari volessero anzi con istatue, che con altra maniera d’arti rimeritare; molto saviamente argomentando, che così più a lungo durerebbe ne’ posteri, e la memoria de’ magnanimi fatti, e il grato animo del comune, e la invincibile forza dell’esempio, e quella virtù santissima di tutte l’altre, la carità della patria. Per le quali cose si fa vedere, che non è persona di qual sia sesso, di qual sia grandezza di nascimento, cui l’esercizio della scultura non solamente non disconvenga, ma che non le torni per opposito in grandissimo onore.

IX. Ma ritornando a Properzia, e agli avanzamenti che l’andava facendo in quest’arte, quando ella si vide arrivata al segno di reggere al paragone cogli altri artisti, si determinò professarla. Non si sa certo, se a ciò la movesse mezzanità di fortune, ovvero una ragionevole brama di comparire agli occhi del pubblico in qualità di maestra. Comunque fosse, certo che a moltissimi ne parve bene, estimando che senza pur conoscerla di veduta, la sola offerta di prezzo sarebbe bastata a dar loro nelle mani alcuna sua opera, che altrimenti avrebbero forse sperato indarno. E così fu per appunto: che quanti v’erano ammiratori delle sue virtù, tanti le si mostrarono desiderosi d’ottenerne alcun saggio. Ed ella senza avere considerazione più per questo, o per quello, ma a tutti soddisfacendo con eguale amore, con egual prontezza e diligenza, veniva sempre più crescendo estimazione a se stessa, e desiderio negli altri di darle continuo da operare nell’arte. Se non che quel soverchio logorarsi gli spiriti in fantasie senza mai frammezzarvi qualche riposo; quel faticare le braccia ed il petto così incessante da non reggervi complessione la più robusta, non che quella sua, come di donna, delicatissima, la dovettero poi consigliare di andar più a rilento ad accettare le ordinazioni e di alcune ancora a sottrarsene mal suo grado. Non potè però a meno di non consentire, anzi di non abbracciare con tutto il cuore ciò che da personaggio ragguardevolissimo le fu richiesto operare nella sua patria. Era il chiedente Monsignor Goro Geri in ufficio allora di Vice-Legato in Bologna. Uomo di vita la più irriprensibile per ogni verso, apprezzator grande d’ogni civile cultura, e nel ministero che sosteneva interissimo. Questo reverendo prelato per lasciare alcuna memoria degna di se, e in qualche modo gradevole ai cittadini che governava, poich’ebbe fatta ristorare e abbellire di portico la chiesa di S. Maria del Baracano, volle che vi avesse per entro qualche lavoro di Properzia, il cui nome sonava ai bolognesi sommamente caro e riputato. Fecevi ella adunque alla capella maggiore, dov’è l’immagine di Nostra Donna( ), tutti quegli ornati che si veggiono per ogni faccia delle pilastrate dell’arco; cioè arabeschi, e candelliere; e intorno queste intrecciamenti di fogliami, con fiaccole, uccelli, leoni, sfingi, e cose simili; il tutto ritratto su pietra viva cosi pulitamente e alla leggiera, che non è artefice, il qual si faccia a mirarlo, che per lavoro d’intaglio nol reputi degno di molta lode. L’approvazione poi, e l’allegrezza che mostrarono di quest’opera i suoi cittadini, non accade dire quanto fu grande. Appena si seppe da qualche bocca essere il lavoro venuto a termine, una folla di gente trasse alla chiesa. Alcuni andavano spinti dal desiderio di vedere un’opera in marmo fatta per mano di giovinetta donna lor cittadina, altri condotti, oltre alla curiosità del vedere, da una calda brama di farsi lodatori alla bella artista; moltissimi poi da un cotal senso di maraviglia che destava loro l’andar vedendo ogni giorno novelle prove di quel vario e gagliardo ingegno.

X. Ma Properzia sentiva nel suo interno di potere aggiugnere a più alta estimazione nell’arte, perocchè quanto le pareva d’essere riuscita a buon punto nell’operare d’ornato, altrettanto, e più ancora si prometteva in ritrarre figure, dove il genio suo la portava con più di amore. Tiratasi dunque avanti a perfezionarsi in questa parte, studiava i dì e le notti incessantemente, perchè la mano e lo scarpello obbedissero ognora più ai disegni dello intelletto. E quante volte per soverchia fatica sentiva raffreddarlesi alquanto del solito ardore, si portava il più tosto a riguardare le opere de’ gran maestri, e sopra tutto quelle quindici storie di basso rilievo, con che lo stupendo ingegno di Jacopo Della Quercia recò tanto grande splendore alla prima facciata di S. Petronio. Quivi la dispossata donna tutta per allegrezza si rinfrancava: quivi attentamente mirando, si rinfervorava nell’arte, si rinvogliava del faticare: e quasi sospirasse di segnalarsi ella pure per simil guisa, coll’anima tutta in Jacopo assorta, sembrava dire: O fortunato ingegno! quanto è invidiabile la gloria che tu n’hai colta! Le tue fatiche in questa materia durissima collocate, serberanno intatta quella bellezza che loro hai data. Ad ogni secolo, un nuovo popolo di gente le guarderanno, le ammireranno; e il nome tuo, o spirito eccelso, discorrerà famoso fra le generazioni che in infinito si succederanno. Così ella: e ripreso animo e forze, tornava a faticar da capo nel suo mestiere.

XI. Ma come da quella facciata per le istorie di Jacopo ebbe Properzia incitamento grande a farsi ancor più perfetta; così per quella medesima le si diede occasione di mostrare con nuove opere quanto maggiore eccellenza avesse acquistata nell’arte. Imperocchè venuto in animo agli Operaj di detto Tempio che si tirassero innanzi gli ornamenti di quella facciata a figure di marmo, e fatti venire (oltre a quelli del paese) alquanti artefici da varie bande, e fra questi Nicolò Tribolo, scultore in que’ tempi rinomatissimo; Properzia desiderando di mettere mano ella pure cogli altri valentuomini in quel pubblico lavoro, fece significare a detti Operaj questa sua brama. Ma eglino, o perchè non avessero veduto altro lavoro di marmo di sua mano, tranne quello di che si è parlato poc’anzi, o che si ritenessero alquanto di confidarsi all’ingegno e valore di giovine donna; non volendo così ad un tratto nè consentire, nè dinegare, risposero che volentieri; sì veramente che ella ne desse a veder loro in saggio qualche sua opera di marmo a figura. Ond’ella fatto subito un ritratto di finissimo marmo, e di tutto tondo( ), rappresentante il Conte Guido Pepoli di naturale, diello ad Alessandro figliuol di Guido, perchè il desse agl’intendenti da riguardare. Il quale busto, come si vede( ), sebbene per essere vestito di armatura non altro mostri d’ignudo che la testa (e l’arte sull’ignudo suol campeggiare assai) tuttavolta mirando insieme alla vivezza, all’espressione, e a un certo che di magnanimo che tiene nell’aria del volto, non si può a meno, per poco che sentasi in fatto d’arte, di non giudicarlo a prima vista una molto bell’opera. Piacque dunque infinitamente, e non solo a coloro che l’avevano richiesto in prova, ma anche a’ cittadini tutti, i quali non si potevano saziare di rimirarlo, tanto il trovavano condotto con arte maestrevolmente. Per che non è a dubitare quanto accetto si avesse dagli Operaj, e quanta festa e allegrezza ne facessero con Properzia, alla quale, senza frapporre indugio, allogarono parte di quel lavoro secondo che aveva desiderato.( )

XII. Qui non è possibile sapere di certo, quante fossero le opere che ella offerse di sua parte in quella concorrenza; imperocché, oltre alla molta distanza che è infra que’ tempi ed i nostri, si aggiunge ancora, che gli scrittori rispetto al noverarle sembrano essere alquanto discordi. Il Vasari, ed il Borghini dicono, ch’ella fece una tavolina di marmo, entro effigiatovi in basso rilievo il ripugnante Giuseppe coll’egizia matrona. Qualche scrittore di tempi alquanto più prossimi a’ nostri, non trovato questo quadretto in veruna porta della facciata, ma sì nell’interno dell’edilizio, e precisamente murato in una stanza dell’Opera; e vistovi a lato quello tre altri di marmo di somigliante grandezza, inclinò a credere, che tutti quattro fossero condotti di mano di Properzia.( ) Ma un moderno maestro( ) , tanto valente nell’arte, quanto per soavità di maniere amabilissimo, e che io nominerei qui volentieri, se la sua modestia lo sofferisse, statomi cortese della più minuta e diligente osservazione su la maniera di que’ rilievi, m’ha fatto entrare nell’opinione, che due soli, secondo ragioni dell’arte, si possano credere di Properzia; quel del Giuseppe cioè, e l’altro allatogli d’una reina Saba che vien nel cospetto di Salomone. E veramente mirando bene per entro que’ due, l’arie de’ visi, l’estremità de’ corpi, le capillature, e gli andari de’ panni tengono fra loro certa uniformità, che ne’ due altri non si ravvisa. La qualità poi del lavoro che si mostra dell’una e nell’altra delle due tavole, è di genere assai faticoso, poichè le persone presso che tutte spiccano fuori del campo con gran rilievo. Ambedue leggiadrissime, ambedue lavorate con assai studio e diligenza. Nella prima a mano manca vedesi quel gran Monarca seduto in trono con aspetto maestosissimo, e intorno ad esso, i grandi del regno, con guardie armate di scuri. A pie’ del trono, alquanto inchinata con un ginocchio, è una giovinetta offerente una veste di prezioso lavoro; più indietro la reina intorniata di ancelle, la qual con bell’atto, mezzo tra riverente ed allegra, sta aspettando che si termini l’offerta degli apportati doni.

XIII. Nella seconda poi, ossia quella del Giuseppe, ancora più che nell’altra è artificio e vaghezza, tal che ne fa credere quello che dicono; che Properzia mentre lavorava sì fatta istoria, si trovasse perdutamente invaghita di un molto bel giovane( ), il qual pareva che non troppo di lei sì curasse. Vedesi dunque nella detta tavola la sventurata donna egiziana, infuriata per la ripulsa dell’amato garzone; il quale in alto di raccorre in se tutta la virtù sua, non ode preghi o lusinghe, non fa parola, e fermo nel suo pensiero si fugge. Sono alcuni fra bolognesi, che per certa somiglianza dell’amore di Properzia con quello della moglie di Putifarre (in quanto che entrambe non ottennero corrispondenza di affetti) vogliono che nelle sembianze dell’egizia donna ella abbia inteso a ritrarre se stessa, e nell’effigie di Giuseppe, quello medesimo che non voleva donarle il suo amore. Ma chi di questo può farci fede, e levarsi mallevadore delle opinioni del volgo, che le più volte tortamente giudica, e favoleggia? Io per me appena mi accosto a credere, che ciò per isfogo dell’animo abbia nel solo Giuseppe operato; non mi potendo persuadere senza gran ripugnanza, che una donna di quell’ingegno e di quel grido che fu Properzia, volesse farsi spettacolo di pubblico biasimo. Ma passando oltre su questo, è il lavoro in ogni sua parte così ben condotto, cosi compito, che gli stessi scrittori che fanno menzione di Properzia, si accordano a celebrarlo con ampie lodi.( )

XIV. E qui taluni faranno per avventura le maraviglie, e domanderanno: per che cagione adunque queste due tavole, le quali tu lodi supremamente, non furono messe nella facciata, ma lasciate fuori d’opera, in luogo appartato, e di non pubblica veduta? È difficile per lo pochissimo che abbiamo di scritto intorno ai particolari dì Properzia, il rinvenire la cagione di questo fatto così per appunto, che vi si stia fidati pienissimamente; possiamo per altro andare congetturando, qual possa essere stata la più probabile, che è quello tanto che potrà bastare, se non a toglierne affatto d’ogni dubbiezza, almeno a quetare l’animo in qualche parte. Noi sappiamo, che fra gli Scultori che lavorarono a concorrenza con Properzia nella facciata di questo tempio, si trovò pure quel Mastro Amico Aspertini( ), che non usò mai di dir bene di persona, per virtuosa e fortunata che fosse: sappiamo ancora, che egli confortò sempre costei su la faccia, e dietro alle spalle, per l’invidia che lo coceva, sempre ne disse male: in fine, ch’ei fece tanto il maligno cogli Operaj, che alla misera donna fu pagato il suo lavoro un vilissimo prezzo. Ora domando io: che altro, di grazia, che altro ci bisogna egli per avere chiaro e incontrastabile, che i lavori di Properzia furono lasciati fuori d’opera per la costui invidia e reità? Strana cosa per vero dire, ma non inaspettata, non nuova: che io so certo, non essere alcun fra voi, o signori, a cui non sia incontrato di mirare più volte la sozza e stomachevole faccia dell’invidia. Ma di questo mostro abominato non altro; che per solo toccarne leggieramente, ogni buono e gentile animo si contrista.

XV. Seguitò dunque Properzia nell’arte sua, senza affliggersi più che tanto di questa non impensata calamità: che troppo bene sapeva ella d’avere a scontrarsi irreparabilmente nelle male arti degl’invidi. Pertanto si protestò di non voler fare più nulla per conto di detta Opera, e in ciò vi si tenne sì ferma, che se bene tutti insieme gli Artisti, tranne il malignoso Aspertini, la pregassero strettamente di seguitare in que’ lavori dove aveva incominciato con tanta sua lode, ella non si divolse punto dal suo pensiero, e volle essere sciolta da quella concorrenza di Artisti( ). Bene è da credere, ch’ella abbia avuto occasione di condurre altre opere, ma noi terremo cogli Scrittori, i quali non fanno ricordo di altra sua cosa, fuori solo di due angioli di marmo( ), di grandissimo rilievo. Questi però, secondo alcuni, o sono andati perduti con altre, chi sa quante sue opere, o probabilmente sono que’ stessi, che veggiamo ora, sebbene fuori di luogo, in una delle cappelle di S. Petronio, a lato una gran tavola di marmo dimostrante l’Assunta. Nè questo parere lo riporto io qui per averlo su colto dalle bocche degl’imperiti, ma si dal giudicio di quel medesimo valent’uomo, ch’ebbi accennato poc’anzi; il quale da certi tratti, e dal piegheggiare de’ panni, tiene che possano essere que’ medesimi che il Vasari, e il Borghini dicono fatti da Properzia. Nella quale opinione mi fa stare fermissimo il lavoro medesimo non abbastanza condotto a fine; mentre che vo pensando, che detti angioli essendo stati commessi dagli Operai in quella occasione medesima, indispettita ella della vile mercede ritratta dalla sua prima fatica, per disdegno gittati i ferri, lasciasse stare l’opera così come vedesi ora non ben finita.

XVI. Correva intanto per tutta Italia, e fuor d’Italia la fama grande di questa ingegnosissima donna, e il nome suo sonava caro e diletto a quanti erano amici delle virtù. A lei scrivevano di Roma maestri d’arte rinomatissimi; a lei si recavano viaggiatori stranieri per desiderio di visitarla; di lei, principi, e gran signori cercavan novelle. In Bologna poi, quanto non era grande la riverenza e l’amore che s’aveva acquistato? Non era ricca persona, che non si pregiasse di averla seco alla mensa, o fra piacevole conversare; non ricercatore di cose d’arti, che a lei per consiglio non ricorresse; non donna desiderosa di venire in qualche riputazione, cui Properzia non si ponesse ad esempio. In somma come se in lei fosse stato un non so che di divino, era da ognuno con ogni maniera di lodi, e di onori magnificata. Ma questa donna, al cui vivissimo ingegno riuscì agevole qual si fosse arte difficilissima; questa donna, il cui forte animo non poterono abbattere tanti stenti e fatiche, tante malignità dell’invidia, non ebbe forza e potere da sradicar dal cuore l’amorosa passione, che per essere infausta e disperata, non la lasciava in verun modo aver requie. Qual si fosse di nome cotesto suo amato; come, e in che modo prendesse ella ad amarlo, non è scrittore che ne favelli. Il solo che noi possiamo affermare senza eccezione si è, che quanto Properzia seguitò costante nel vano amore, altrettanto quel duro cuore stette ostinato nel non curarla. Sventurata Properzia! tanto giovane, tanto bella e virtuosa, aver toccata così deplorabile sciagura. E in verità non è a dubitare, che la passion sua non sia stata sopra ogni credere miseranda. Imperocché oltre al gran tormento di non trovar grazia negli occhi di quel medesimo, che per irresistibil forza di amore avea continuo innanzi al pensiero; dovea pur esserle cagione di fiero sdegno, che a niun prò avessero a riuscire presso quell’altiero e discortese, la freschezza degli anni, la celebrata bellezza, le virtù varie, l’estimazione, la gloria da infinite genti riscossa. Contro così terribile infermità cercò la misera per qualche tempo di mettere in campo con intrepidezza di cuore ogni argomento di ragione, ogni vigor di spirito per riscattarsene. Ma le forze che si ricercavano a tanta impresa, eran da troppo più grandi che non concede natura alle dilicate donne; onde che non dee recare meraviglia, se il costei animo, dalla gentilezza dell’arti reso ancor più gentile e più sensitivo, dovette per ultimo rimaner vinto.

XVII. Dio volesse, o signori, ch’ei mi fosse dato, facendo qui punto, di passar via ciò che dell’infelice Properzia mi resta a dire. Ma l’assunto che ebbi preso non mel consente, e m’è pur forza tirare innanzi sino alla lacrimevole e troppo indegna sua fine. E già di non esservi gran fatto da lungi se ne vedevano segni apertissimi. La bellezza, ch’era stata alle virtù sue, tanto caro ornamento, si disfiorava: la piacevolezza, la giocondità, l’allegria, cangiate in mal umore, in tristezza: la musica, e l’altre arti, delle quali s’era mostra sin dall’infanzia amantissima, poco meno che cadute in dimenticanza. Indi, siccome è solito in una viva e smisurata accension di amore, i sonni brevi, e funestati spessissimo da spaventi; continuo rompere in pianti, affannarsi, disperarsi. né mai un istante trovar riposo. Ella però con pazienza e rassegnatezza più che ordinaria, sopportò sino all’ultimo quel suo finire tormentosissimo. E come è proprio di una grand’anima, allorché si vide giunta all’estremo punto, supplicando a Dio pace per le affettuose compagne che piangenti la confortavano, per quel crudo suo amato che innanzi tempo la toglieva dal mondo, senza lacrime, senza sospiri passò di vita. Quanto acerba e dolorosa riuscisse a’ cittadini la costei perdita, non è da esprimersi con parole. Al primo sentore, alla prima novella che ne uscì fuori, si fe’ universale un compianto, non altrimenti che se ciascuno fosse rimaso tocco da propria disavventura. E fu in vero lode grande, lode invidiabile di quella virtuosa, che un’intera città, la qual per la solenne incoronazione di Carlo Quinto era stata poc’anzi tutta in feste, in tripudi; alla costei morte, scordasse il fasto de’ potenti, scordasse l’esultanza, si rattristasse. ( )

XVIII. Ma delle lodi di Maria Properzia essendosi ormai parlato per quanto si potette dalla mia debile voce, ora a voi, giovani egregi, a voi studiosi dell’arti volgerò l’estremo di mie parole; Vedeste costei, con che animo ardimentoso concepì l’alto pensiero di avere ella pure nella vostra schiera onorato posto, come stette ferma in quel nobile desiderio, intrepida nelle fatiche, costante nel buon volere. Vedeste il frutto amplissimo che ne colse nella estimazione, e nell’amore che s’ebbe da’ cittadini, dagli strani, da quanti udirono il nome suo. E di una benevolenza così sparta per ogni parte, e voi, ed io dobbiamo credere insieme, che le venisse non dalla sola eccellenza delle virtù, o perchè queste illustrate dalla caduca beltà del corpo: ma principalmente dall’aversi ella portato da natura oltre al bonissimo ingegno, certa gentilezza e soavità di costumi; con che le virtù sogliono rendersi al cospetto del pubblico amorosissime. Vedeste in fine come per colpa di sfortunato amore, cui ella non bastò reprimere, restasse preda di barbara morte ancor nel fiore di giovanezza, e con tante speranze di levare al più alto segno l’acquistata gloria. Siavi dunque, o giovani, in questi vostri verdi anni la costei vita di ammaestramento; non vi sgomentino le noie del faticare, non vi torcano dal buon cammino gli allettamenti delle fallaci passioni; stiavi sempre fisso al pensiero, che il premio ch’oggi v’è dato in compenso di belle prove, fu accompagnato dal comune voto, che per voi si mantengano in vita e in onore le care arti.

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