Pochi anni dopo che Alfonso di Lamartine pubblicò l’insulso Dernier chant du pélerinage d’Harold, un altro franco mascalzone appena sbarcato in Sicilia scrisse di noi: "Un peuple hideux pour la misère et l'ignorance". Egli era Constant Prevost, inviato dalla R. Accademia delle scienze di Parigi per osservare il vulcano sottomarino sorto fra Pantelleria e Sciacca nel 1831. Le città della Sicilia che visitò gli furono larghe d’ospitalità e di gentilezza, i dotti gareggiarono nell’accoglierlo e onorarlo; ma nulla valse a mitigare l’innata insolenza gallica di quell’accademico, che nel lanciare la sua non provocata invettiva prese le mosse dal misero stato in cui vivevano allora i poveri contadini siciliani. Forse il suolo gli scottava i piedi, perché ogni zolla, ogni sasso, ogni nome doveva ricordargli la tremenda sconfitta patita dalla sua gente in quell’epica gesta, durata un ventennio, che va sotto il nome di Vespro Siciliano , unico nella storia dei popoli. Forse nel guardare i nostri villici si risovveniva dei formidabili guerriglieri di Palmiero Abate e di Blasco Alagona, che avevano sfidato e vinto tutta l’Europa guelfa. Non a torto quindi un verseggiatore del tempo così rispose al Prevost:
Codardo! Egli mentì. Dessi al tapino.
Odio inonesto?...
Maledetto quel dì che l’Angioino
Sul crin de' padri avvicendò nefasti
Giorni d’infamia, e suscitò vendetta
Che volgere di secoli cotanti
Pur nei nepoti il sovvenir non scema.
Nessuno mette in dubbio che nella definizione dell’accademico francese vi è molta parte di verità: poiché non bisogna dimenticare che si viveva allora sotto i Borboni, degni eredi della dominazione spagnuola.
Ma la canaglia rurale della Francia non era migliore, anzi sotto certi aspetti era assai peggiore. Lo hanno detto e ripetuto in coro un vero esercito di scrittori francesi: romanzieri, poeti, storici, economisti, sociologi, fra i quali alcuni grandissimi. Basta nominare fra tutti il Balzac, il Maupassant, lo Zola. Da questa letteratura ne vien fuori il più tristo contadino che sia mai esistito su la faccia della terra: zotico, avido, litigioso, egoista, reazionario, perfido, crudele, fino al punto d’aver creato un proverbio senz’eguale: Qui terre a, guerre a. Al villano della Beauce di Emilio Zola fa degno riscontro il contadino normanno del Maupassant. che per la sua ubbriachezza, la sua testardaggine, la sua superstizione, la sua sordidezza e la sua brutalità occupa uno dei primi posti nella scala della degenerazione umana. I rurali delle altre regioni della Francia sono loro degni fratelli, e sembra che le molteplici rivoluzioni francesi non siano venute se non per fomentarne le male passioni e alimentarne i cattivi istinti. Prima dell’ottantanove essi tentarono molto di frequente qualche jacquerie al punto che Ippolito Taine ne Les origines de la France contemporaine, se mal non ricordo, ne novera centinaia; ma dopo la grande rivoluzione, che li cavò di servitù e permise loro di comprare un pezzetto di terra, sono diventati i più feroci mastini della borghesia, i più brutali alguazili dei preti. Se il tricolore di Valmy non dovesse servire che ad ammantare questa canaglia, ci farebbe ben trista figura, non dico davanti ai contadini siciliani, ma in mezzo agli stessi Crumiri della Tunisia e ai Canachi della Nuova Caledonia. Talmenteché possiamo concludere con Saverio Merlino: "In quanto a te, o lettore francese, se per caso tu fossi tentato di rallegrarti dei nostri mali, io ti direi: non metterti in fregola di chauvinisme, per carità! poiché, se tu sapessi leggere, t’accorgeresti ad ogni pagina di questo volume che, Mutato nomine, de te fabula narratur '' .
E passiamo ai tedeschi. Tanto nomini nullum par elogium, se per avventura non fossero finiti come i pifferi di montagna, che andaron per sonare e furon sonati.
Augusto Schneegans, scrittore tedesco e console imperiale a Messina, trent’anni or sono scrisse un bel libro su La Sicilia nella natura nella storia e nella vita. Vi si sente, al solito, la burbanza germanica, il rappresentante dell'impero di Carlomagno, il campione della schiatta predestinata d'Arminio. Ma quanto siamo lontani dal Lamartine, dal Prevost, dal Dorin e simile genia!
Costoro nella loro furiosa, inguaribile, perpetua paranoia disprezzano per alterigia, vilipendono per astio, denigrano per invidia, calunniano per partito preso; il tedesco invece con tutta la sua insopportabile megalomania kulturale, seguendo le orme immortali del Winckelmann, del Goethe, del Gregorovius, ammira il bello e il buono dove lo trova, tanto da scrivere con sincero entusiasmo:
"Molto si racconta e si scrive sull’ospitalità degli Scozzesi, divenuta ormai proverbiale sicché quando si vuol portare alle stelle l’accoglienza ricevuta in una casa straniera, si suole paragonarla all’ospitalità scozzese. Nello stesso modo, e forse anche più si potrebbe esaltare l’ospitalità siciliana, perché in nessun altro paese, neanche in Scozia, colui che è raccomandato ad una famiglia, viene accolto con una cortesia così squisita e premurosa in tutta l’estensione del termine, e con una gentilezza, che si potrebbe (servendoci della maniera di parlare un poco enfatica degli Italiani) chiamare anche amicizia. Verso il forestiere del tutto sconosciuto, o verso il viaggiatore che è soltanto di passaggio, si palesa questa gentilezza dei Siciliani. Anche nell’interno dell’isola, a torto screditato, il viaggiatore non picchia mai invano a una porta. Con molto garbo ottiene il permesso di visitare i giardini e le ville, o di fermarsi dove si gode una bella visuale: gli viene offerto del vino e della frutta, e quando è in compagnia di donne, de' bei fiori, rose e camelie".
Sennonché lo Schneegans ogni volta che s’incontra in contadini non vede che figure incappucciate di Beduini collo sguardo sinistro verso il forestiere, e col contegno poco rassicurante d’una banda di masnadieri; facce che portano impresso il fatalismo musulmano, l’apatia sciroccosa e il "dolce far niente" meridionale.
Nella stessa guisa un tedesco, impegolato di letteratura, presentemente internato in un paese della provincia di Palermo, due mesi fa scriveva altezzoso a Napoleone Colajanni ribadendo la puerile storiella della mafia, intesa come "istituzione (?) siciliana".
Lasciamo stare il fatalismo e il fanatismo sedicenti musulmani, che neppure gli arabi seppero che cosa fossero. È una leggenda ripetuta pappagallescamente dai dilettanti e dagli ignoranti, "fondata sopra un cumulo di errori", come nota un grande maestro di cultura semitica, Leone Caetani. Il fatalismo di cui parla lo Schneegans invece ognuno può riscontrarlo nel contadino tedesco, che fino al secolo ventesimo si è adattato senza mormorare a un ordinamento feudale da lungo tempo scomparso in Sicilia e che è stato precipua cagione dell’ultima spaventosa calamità abbattutasi sull’umana famiglia. Il fatalismo politico e sociale ha pesato come una cappa di piombo sui villici alemanni, massime sui prussiani, che nulla hanno mai tentato per scuoterlo. Costoro sono stati una vera sopravvivenza dei servi medievali, umili, sottomessi, incoscienti, che adoperano la macchina agricola più perfezionata e l’utensile più moderno solo perché il padrone li ha posti loro in mano.
Il fanatismo religioso, le superstizioni, i pregiudizii insanguinarono per secoli e secoli le terre germaniche; laddove il contado siciliano vide colare ben poco di sangue fanatico. In egual modo per trovare eserciti di masnadieri bisogna cercarli nei drammi dello Schiller e nella storia tedesca, che per quasi un millennio è storia di brigantaggio rurale e urbano.
Nel fatto dell’egoismo e della malvagità il contadino kulturato non la cede al mugick russo. Come questo, durante la terribile guerra in cui la sua patria giocava tutta sé stessa, egli nascondeva i viveri per farne turpe mercato. Nelle province renane, all’avanzarsi degli eserciti dell’Intesa per paura incominciò a cavarli fuori, facendone godere gl' invasori.
Non meno infame e calunniosa è la leggenda del "dolce far niente" e dell’apatia meridionale. Qui, dove sto scrivendo, da due anni abbiamo avuto prigionieri del più puro sangue teutonico, i quali sono rimasti sbalorditi della incredibile resistenza alla fatica del nostro contadino, che senza esagerazione non trova riscontro nel mondo intero. Il lavoro di questi prigionieri va da un minimo di otto ore nell’inverno a un massimo di dieci nell’estate, compreso il tempo, spesso non breve, che occorre per recarsi sul posto e poi ritornare; cosicché il minimo effettivo del lavoro in media si riduce a sette ore e forse meno, e il massimo ad otto o nove ore. Ebbene, i lavoratori agricoli del ceppo di Arminio lo trovano "eccessivo, insopportabile, micidiale". Figuratevi dunque come restano trasecolati quando veggono i nostri agricoltori (che nella maggior parte lavorano per conto proprio), mietere coll’arcaico falcetto sedici ore nette il giorno, curvi sul suolo arroventato come un forno crematorio e spesso avvolti dalle vampate dello scirocco che li investe senza tregua; ovvero zappare almeno per dodici ore sotto una canicola africana, ignota oltre il Faro. Lo scirocco in questo caso non è fattore d’apatia e stimolo al "dolce far niente"; ma indice di resistenza suprema e di adattamento eroico della stirpe. Le aquile germaniche in tale partita sono figure araldiche di pessimo gusto e sembrano cornacchie ladre e devastatrici al paragone dell’aquila autentica che adorna la bella bandiera rossa di Palermo, sventolata fra i turbini del Vespro.
Pochi lavoratori al mondo possono competere coi nostri contadini nelle fatiche delle miniere, delle cave, dei trafori. Là, sotto terra essi appaiono come i giganti della favola antica; abbrutiti quanto volete, ma non per questo meno giganti. Non per nulla il mito dei Ciclopi nacque in Sicilia: gli eredi dei Ciclopi oggi sono i campagnuoli siciliani, in tutto e per tutto, anche nella bestialità.
Vedendoli lavorare, mi tornano in mente i versi danteschi di Mario Rapisardi, il quale scriveva l'Ode al re quando i villici erano veramente "nati a viver come zebe":
Dalle glebe sudate, dalle cupe
Cave, dalle capanne erme, a l’incerto
Lume del dì, come assetate lupe,
Prorompono all'aperto.
Fantasme irsute, scheletri viventi
Che dànno ad ogni crollo orridi crocchi,
Che in fiera guisa digrignano i denti,
E lampeggian da gli occhi.
Uomini son di povertà sol rei,
Che non seppero mai gioja e riposo;
Che consacrano i putidi imenei
Giù nel sentier fangoso;
Madri e spose, nel cui macero petto
Sanguinose follie spira la fame,
Fanciulli a cui sarìa morbido letto
D'un tuo destrier lo strame.
Desiderosi d'un'ora di vita,
Una rossa bandiera a' venti eretta,
Corrono a celebrar la presagita
Pasqua della vendetta;
Ed affilate a' lunghi odj le falci,
Calan cantando dall’aspre pendici
A dispiccar, qual grappoli da' tralci,
Le teste de' felici.
Il fatalismo e l’apatia nella speculazione e nell’industria (non nel lavoro) sussistono, è vero in Sicilia, come sopravvivono l’aratro a chiodo e la trebbiatura cogli asini: ma se non abbiamo serbatoi per combattere la siccità, se molti comuni non hanno ancora visto arrivare ai loro piedi la strada rotabile e sono privi d’acqua e di fognatura, la colpa non è nostra, bensì di chi ci ha governati e dissanguati.
Disgraziatamente però siffatte cortesie, più o meno larvate, non ci vengono solo dai tedeschi e dai francesi transalpini, ma anche dai gallo-provenzali e dai longobardi cisalpini. L’altro giorno stupivo nel leggere l’arringa di Orazio Raimondo contro il disonorevole Toscano di Messina. Ad ogni piè sospinto par di udire un homo germanicus che pontifica in tribunale e canta le laudi della sua superrazza. Egli è vero, si rivolge ai cittadini messinesi, ma non per ciò è meno istruttivo.
"Signori, esclama ad un certo punto l’ocherina sfiatata di San Remo,io sono ligure, e quindi un po’ diffidente, un po’ cocciuto".
E chi dice di no? Non son forse queste belle qualità che Guy de Maupassant accolla anche ai degeneratissimi villani di Normandia? Chi è contento gode. L’altra sera, per esempio, udii un cafone ubbriaco che si vantava di essere più testardo dell’asino, ed io non potei fare a meno di applaudirlo.
"Signor Presidente, continua l’oratore, io sono ligure e i liguri sono parchi nell’elogio, il quale sempre è sincero".
Ecco, io ne dubito, e ne dubiterà anche Napoleone Colajanni, che stava per essere accoppato in piena Camera dai deputati liguri quando per un errore d’impaginazione (?) scrisse un articolo suIl Secolo contro Crispi e la sua maggioranza servile, all’avanguardia della quale stavano i disonorevoli liguri, degni emuli del Toscano. Eravamo allora, non si dimentichi, nel più folto della mischia impegnata da Felice Cavallotti contro il ladro e il corruttore siculo-albanese, nei cui escrementi si deliziavano a più non posso i rigidissimi medagliati della Liguria.
"Al mio paese, ci fa sapere il lepido avvocato, i pescatori dividono gli utili della pesca in tante parti più uno; quest’uno è il Santo protettore, Sant’Ampilio. Qui c’era Toscano, il santo Ampilio dell’istituzione Portuaria".
La notizia per il folklore dei pescivendoli e dei rigattieri può passare, e, s’io non mi sbaglio, qualche scrittore ligure l’ha tramandata alla posterità. Bisogna però aggiungere ad onor del vero che di santi Ampilii in Liguria se ne incontra uno ad ogni passo; sennonché non si tratta di porzioncine uguali a quelle del ladruncolo di Messina. Le porzioni dei santi protettori liguri sono mastodontiche: domandatelo all’avv. Murialdi e a cento e cento altri.
"Io non so: Messina ha centocinquantamila anime, conchiude il patriottico calandrino o calandrone che sia, è una capitale: come ha potuto tollerare questo turpe spettacolo per tanto tempo? Oh, ma ditelo che nessun altro che Toscano poteva agire in modo così vile! ecc.",
A quel che pare l’on. Raimondo è tanto facondo quant’è smemorato: smemorato a tal segno da non ricordare più quel che successe a Genova pochi anni e pochi mesi or sono. Non ricorda la "Portuaria" del Murialdi, che sta alla "Portuaria" del Toscano come il porto di Genova sta alla cala di Cefalù; ha dimenticato i contrabbandieri che per un anno e più rifornirono l’Austria e la Germania, intascando centinaia di milioni; ha dimenticato gli eroi canapini ecascamini, e tante e tante altre marachelle, per cui mezza borghesia ligure dovrebbe essere fucilata alla schiena. E come mai, domando io, la superba Genova con duecentocinquantamila anime, Genova città capitalissima, non distrutta da alcun terremoto, ha potuto tollerare questo turpe spettacolo, tanto scempio, tanta miseria, tanta bassezza?
Ahi genovesi uomini diversi
D'ogni costume, e pien d’ogni magagna.
Perché non siete voi del mondo spersi?
Neanche per i suoi concittadini il divino poeta trovò un’invettiva così atroce; né quelle contro Pistoia e Pisa valgono tanto, nella stessa guisa in cui Vanni Fucci e il conte Ugolino ci fanno inorridire meno di Branca Doria, degno omonimo dell’ex-direttore carcerario di Regina Coeli.
Ma queste son quisquilie forensi, buttate giù a casaccio, piuttosto per produrre effetto in tribunale.
Non scrisse però a caso Luigi Locatelli allorché sul patriottico e democratico Secolo di Milano versò il suo truogolo d’immondo gazzettiere borghese e di falsario prezzolato in quella sconcia prosa che portava il titolo di Italia scellerata, la quale non è altro che la Sicilia.
"Laggiù, scriveva la canaglia libica, ogni contadino ha il suo fucile, una doppietta, un moschetto, una carabina e lo porta come il bastone ovunque. La possibilità dell’omicidio è un pensiero consuetudinario che vive in fondo al cuore di tutti colle idee normali della vita ecc."
Peccato che i fatti non siano un’opinione, né la storia una cronaca longobarda o pedemontana! I fucili si vedono sulle spalle, ma le pistole e i coltelli in tasca non si possono scorgere; se in un dato momento però fosse possibile frugar tutti, se ne troverebbe di questi ultimi addosso ai milanesi e ai torinesi, per esempio, una quantità dieci volte maggiore almeno dei fucili che portano i contadini siciliani. Io son vissuto a lungo a Milano e a Torino e ho la certezza di non errare nel computo. Il contadino siciliano ha la piaga della mafia rurale, che per altro diminuisce a vista d’occhio; ma non occorre conoscere la storia per sapere che l’identica mafia imperversò lungamente nelle campagne longobarde: basta la semplice lettura dei Promessi Sposi. Né i barabba torinesi, con Enrico Ballor alla testa, né la teppa milanese possono vantare quel certo spirito di cavalleria, che alla mafia rurale vieta ordinariamente d’assassinare e stuprare le donne, e d’accoltellare senza motivo un passante qualsiasi nel cuore stesso di Milano. Qui, nei luoghi dove son nato e vissuto, nel bel mezzo delle Madonie e in moltissime altre contrade della Sicilia una donna, popolana, borghese o nobile e che sia, nel fiore della gioventù e della bellezza e carica di gioielli può sola, di giorno o di notte, girare per boschi e per monti senza incontrare un villico che le rivolga una parola sgarbata. Questo affermo con certezza assoluta e darei per sicurtà la vita. Anni or sono misi una scommessa con una giovane e ricca signora armena, venuta quassù a villeggiare, e la vinsi. Io pregai questa di partire di notte sola per recarsi in paese: e poiché il punto di partenza era in mezzo ai boschi che si stendono a piè delle montagne, la signora, avvezza ai costumi cosacchi, turchi e milanesi, dapprima esitò; ma finalmente si persuase e partì. Nel mezzo del cammino, essendosi smarrita, chiese d’indicarle la via a un boscaiuolo, il quale premurosamente e rispettosamente l’accompagnò fino all’abitato. La scommessa era stata improvvisa e perciò nulla poteva esservi di predisposto. Darebbero i nordici la stessa sicurtà per Milano, per Torino e per Genova? Certo è che il Mommsen "potè dichiarare di sentirsi più sicuro in Sicilia, che nottetempo nel Thiergarten di Berlino".
Cesare Lombroso , parlando di Sante Caserio, scriveva verso il 1895:
"E qui, fra parentesi, bisogna poi aggiungere che chi vive negli agri longobardi malmenati dai contratti agrari, dove il contadino muore se non di fame di pellagra, dove il proletario è in peggior condizione degli schiavi romani, capisce benissimo come in un intelligente contadino possa avvenire questo scambio (l’atto del Caserio). Il servo antico almeno era mantenuto dal padrone, ma il servo lombardo non raggiunge nemmeno tanto. Non si ribella; almeno pochissimo finora: e ciò si spiega per la sua troppa depressione, perché un certo grado di benessere ci vuole per reagire. E quindi da noi non è mai il contadino lombardo, che non ha più sangue nelle vene, ma il romagnuolo, che beve ancora qualche po' di vino e mangia carne".
Ebbene, fra i campagnuoli siciliani neppure nei tempi più tristi si ebbe tanta miseria e tanta abiezione. Nella stessa Romagna i contadini mezzadri sono stati più sfruttatori e più reazionarii che mai, e solo in tempi recentissimi i braccianti hanno dato segni di vita. Ma in Sicilia i fremiti della ribellione, siano pure incomposti e incoscienti, hanno sempre in ogni età agitato l’anima dei contadini. Quando i nordici erano compressi e incretiniti dalla barbarie druidica, qui i villici tentavano con Ducezio la prima vera rivoluzione sociale della storia; più tardi vi scoppiavano le rivolte servili e in età più recente il brigantaggio spesso assunse forme eroiche di vera guerra sociale. Qui il contadino ha mangiato sempre pane e perciò non conosce la pellagra dei bruti settentrionali. I suoi salari sono stati sempre superiori a quelli dell’Italia continentale, non escluso il periodo di maggiore sfruttamento e oppressione.
In uno dei cinquantadue processi imbastiti per gli scioperi agricoli dell’alta Lombardia trent’anni or sono, venne fuori un curioso documento, una rozza poesia in dialetto milanese, dovuta a una giovane contadina:
Quaranta ghei d’inverno, cinquanta d’estaa
Se ghe ie dassen saria poc maa,
Pur se ghi dassen, sti pover paisan
Nanca farien una pell de pan.
O donn! o donn! andemm, andemm!
Andemm in piazza a far bordell!
Han pientaa in pee sta rivoluzion
Tutt in grazia di noster padron.
La rivoluzion si l’han pientaa
Per faa calaa i fitt de caa
E pu pendissi de pagaa.
Ma el padron el dis insci
Che i paisan ia de mori;
La de fa mori, la de fa crepa
Ma la rivoluzion la se dev fa.
Tutta la mobiglia che gh' è in Milan
L'è tutta roba di poer paisan,
I poer paisan intanta in la aspetta
La lettera dell’America che la de riva.
Nella letteratura rurale siciliana non si troverebbe un lamento simile: Quaranta centesimi d’inverno, cinquanta d’estate, e sarebbe poco male se pur ce li dessero.
In quel tempo l’infimo oprante siciliano aveva una lira e trenta il giorno, un litro di vino, la minestra di maccheroni e spesso un po' di companatico. Oggi i salariati in queste parti vanno da un minimo di otto lire, oltre il vino e la minestra, a un massimo di lire quindici oltre il vino e il mangiare a volontà per i mietitori gl’innestatori e altri opranti specializzati. Il bifolco, con un aratro a chiodo tirato da muli o da asini, arriva a guadagnare trenta lire il giorno. E notate bene, qui da noi quasi ogni oprante ha il seminato e varie coltivazioni per canto proprio, che lo rendono agiato. Qual è dunque la razza superiore? Qual è la sudicia?
Ma è inutile predicare ai beoti del campanile: allorché questo suona, si perdono l’udito, la vista e il ben dell’intelletto; si ripetono supinamente e per partito preso gli stessi luoghi comuni fino a giungere alla canagliesca divisione etnica del pagliaccio rosso longobardo in nordici e sudici, e fino ad escludere dalla storia d’Italia la storia della Sicilia. "Questo non lo affermo io, scrive Maurus del Giornale di Sicilia; l’hanno stampato in una relazione cinque pezzi grossi, a proposito di un concorso universitario, per respingere un candidato che aveva avuto il torto di scrivere delle monografie, per esempio, sulla rivoluzione siciliana del 1820 o sugli avvenimenti di Sicilia del 1837". Il prof. Pullè infine e quell’idiota del Bellio relegarono i meridionali in genere e i siciliani in specie nell’ultimo gradino dell’arte. C’è poi da meravigliarsi che nella capitale morale e altrove la parola meridional sia pronunciata in senso di scherno e di disprezzo dal sudiciume cisalpino? Sembra che costoro siano tutti cascati dai lombi e dagli uteri di Apollo, di Minerva, di Mercurio, d’Alboino e di Teodolinda; divino incrocio degli dei dell’Olimpo cogli eroi Nibelunghi.
Per essi i monumenti, la storia, i fatti non contano nulla. Non contano neppure Il giorno di Parini, le commedie del Goldoni e del Ferrari, le satire del Porta, in cui l’Olimpo si trasforma in circo bizantino, e i Nibelunghi diventano marchesi Colombi.
Dunque le rovine di Siracusa, di Taormina, d’Agrigento, di Selinunte, di Segesta, di Solunto, di Pesto, di Pompei sono bagattelle volgari di popoli primitivi? E che cosa ha da opporre la stessa Toscana a quelle rovine che sembra abbiano dato asilo a schiatte di genii e di titani? Se Firenze domani dovesse, quod deus avertat, avere la sorte di Messina, i suoi avanzi, posti a fianco a quelli di Selinunte, farebbero ben misera figura. Non parliamo di Torino o di Milano: rassomiglierebbero a immensi baracconi distrutti.
V’è nulla nel Piemonte e nella Liguria che possa fare degno riscontro ai capolavori dell’arte arabo-sicula? Torino nel passato per avere qualche cosa di bello dovette ricorrere a due artisti siciliani, al Iuvara e al Serpotta; e ognun sa che il Piemonte fino a Vittorio Alfieri e a Luigi Lagrangia non diede né un artista di genio, né uno scrittore di valore, né uno scienziato di fama: il popolo eletto era la vera Beozia d’Italia, anzi qualche cosa di peggio della Beozia, perché non potè mai vantare né un Pindaro né un Epaminonda e fu più francese che italiano.
Potrebbe il settentrione contare una schiera di musicisti come il Bellini, gli Scarlatti, il Coppola, il Pacini, il Petrella, il Cimarosa, il Mercadante, il Paisiello, il Piccinni, lo Zingarelli, il Porpora e tanti altri? Solo l’Italia centrale riuscirebbe a contrapporne una simile.
È vero che per qualche tempo il mezzogiorno nella letteratura, nella pittura e nella scultura restò inferiore alle regioni centrali, non certo alle pedemontane; ma oggi com’oggi non teme più alcun confronto e non ammette alcuna superiorità. Nella letteratura dialettale e nella popolare poi la Sicilia tiene il primato assoluto. Giovanni Meli rimane e rimarrà insuperato, e insuperato resterà il nostro folklore. La stessa letteratura rurale si lascia indietro di molto i belati rustici toscani e d’altri luoghi.
Se infine entriamo nel campo dei pensatori, vediamo subito l’immensa superiorità dei meridionali sui continentali dal cranio alpino, che poi in fondo non è se non fratello del vero cranio germanico brachicefalo. I precursori, i novatori, gli assertori, i filosofi sovrani son venuti dalle terre che videro nascere Archimede, Empedocle, Caronda e i pensatori della Magna Grecia, Il Pomponazzo, il Telesio, il Giannone, il Bruno, il Vanini, il Campanella, il Vico, il Borelli, il Filangieri, il Genovesi, il Russo, il Caracciolo, il Pagano, il Cirillo, Tommaso Natale che precorse Cesare Beccaria, Nicola Spedalieri nonostante le sue contraddizioni, Francesco Ferrara, Michele ed Emerico Amari, il gigantesco stuolo dei giuristi napoletani, gli agitatori dell’idea sociale con Mario Rapisardi alla testa e Michele Angiolillo in schiera, formano una tale aureola da oscurare quella stessa che incoronò l’Ellade, la quale non vide i roghi luminosi di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini, né udì il canto profetico di Mario Rapisardi e di Eliodoro Lombardi.
La sola Sicilia, con poche migliaia di chilometri quadrati di suolo, ha una storia di lavoro così intenso e di civiltà così millenaria che gli annali di tutti i ducati di Milano e di tutte le contee di Savoia sembrano al paragone cronachette di popoli nuovi. Dai primitivi Pelasgi ai Siculi latini, dai Fenici ai Sicelioti greci, dai Saraceni ai Normanni, dagli Svevi agli Aragonesi essa nutrì molte genti fra le più attive, potenti e gloriose del mondo.
Ma che cosa andate a parlare di storia a mascalzoni borghesi che la storia manipolano come segue.
"L’epoca più florida della Lombardia e più fortunata per le sue armi si svolse nel sedicesimo secolo, allorché il Ducato di Milano aveva esteso i suoi Stati molto al di là degli attuali confini. I Lombardi o Longobardi (dalle lunghe aste) discesero dalla Germania e posero le tende sulle verdeggianti praterie, che furono poi occupate da altre genti di razza Celtica, le quali fondarono Mediolanum, parola corrotta poi in quella di Milano. Nel 220 avanti Cristo i Romani conquistarono il paese insino al Po e dopo un secolo gl’imposero il nome di Gallia Cisalpina. Nel quarto secolo dopo Cristo vari imperatori Tedeschi ebbero sede in Milano. In seguito i Goti occuparono il territorio lombardo, vi stettero due secoli ed innalzarono Pavia a Capitale, finché Carlomagno nel 774 li sottomise".
Sembra uno scherzo storico compilato dal Ferravilla sulla falsariga dellaBibliografia per ridere di Lorenzo Stecchetti . Vi si confonde la signoria di Giovan Galeazzo Visconti colla decadenza della dominazione spagnuola, l’impero romano coll’impero germanico, il regno goto col longobardo. Vi si fanno venire i Celti dopo i Longobardi; i quali, non avendo trovato né Milano né altro luogo abitato, si attendarono nelle praterie. Pavia vi si fa sede del regno goto, durato due secoli, e Carlomagno vi si pone in guerra con Totila e Teia. Insomma cose turche se non fossero meneghine, e che farebbero scorrere un fiume di vilipendio più largo del Po se fossero scritte a Napoli o in Sicilia.
Eppure lo credereste? Siffatto capolavoro di storia, di geografia e di lingua si legge nella prima edizione della Guida dell’Alta Italia, a pagina 120, pubblicata dalla celebratissima casa editrice dei fratelli Treves, onore e gloria di Milano. Quella stessa casa per oltre mezzo secolo non si stancò mai dal cantare la Germania, i suoi imperatori, i suoi eroi e la suakultur, tantoché ci regalò tradotte le opere del maresciallo Moltke e quattro splendidi numeri unici in occasione di viaggi di re italiani a Berlino e d’imperatori tedeschi a Roma, cominciando dal 1873. Ma scoppiata la guerra, d’un tratto virò di bordo e con una valanga di patriottici volumi gettò nella sentina Guglielmone, i Nibelunghi e il kulturato impero.
Et voilà comme on fait l'histoire, il patriottismo e la superiorità di razza!
Scusino i lettori se mi sono dilungato di soverchio su questo tema incresciosissimo, ormai trito e ritrito; essendoché in quest’ora in cui stanno per decidersi i destini del mondo, non nel congresso dei lupi a Parigi , bensì nei campi e nelle officine, è nostro dovere innanzi tutto spazzare le pesti che si annidano sotto la bandiera e il campanile; i quali, dopo avere coperto di sangue e di rovine la terra, minacciano, molto più dei bacati e dissanguati eserciti borghesi, di soffocare la rivoluzione sociale.
Ed ora un avvertimento ai contadini siciliani. Dopo l’armistizio ho sentito parecchi di loro venuti in licenza imprecare minacciosi contro Torino, Milano, Genova. Ne ho chiesto la ragione e mi hanno risposto concordemente: "Durante la guerra lassù sono stati rimpiattati nelle officine o imboscati un po’ dappertutto, e adesso cominciano a far cagnare inutili per lasciarci ancor penare in caserma. Ma stiano attenti!... Contro quei mangiapolenta hanno mandato alcuni reggimenti siciliani! Se ci verranno sotto, li conceremo meglio che nel 1898: troveranno bombe a mano e mitraglia a volontà". – "E chi vi ha contato tante frottole?" – ho domandato io. "Altro che frottole! hanno replicato i villici in divisa. I nostri ufficiali ci hanno assicurato che a Milano, Torino e altrove si commettono disordini senza costrutto e che perciò noi saremo costretti a restare in servizio chi sa fino a quando". – "Sentite, giovanotti, ho conchiuso io, mi pare quasi impossibile che un ufficiale sia tanto cretino e malvagio da spacciare fandonie così viscide e velenose; ma se fosse vero, rispondetegli con una tempesta di ceffoni, ché nessuno oserà condannarvi. E voi ricordate che i pretoriani romani, gli sciortieri omeiadi, i monteros spagnuoli, i mammalucchi, i giannizzeri, gli strelizzi e i cosacchi han fatto sempre trista fine; han finito cioè coll’essere tutti scannati come cani, e non ci mancherebbe altro che voi, o i sardi, o i calabresi pigliaste oggi il loro posto accanto ai carabinieri reali, ultimo avanzo pretoriano. Il motto: divide et impera, riuscì pel passato a governare lungamente il mondo e a tenere in piedi i mosaici delle tirannidi; ma oggigiorno esso non giova più a nulla. L’impero dei Kurdi è ridotto a brandelli, la Russia di Pietro il grande è caduta in frantumi come il colosso dai piedi d’argilla, il covo dei tirolesi è invaso, i panduri di Croazia hanno messo su bottega per conto proprio, i granatieri pomeranii e la guardia di Brandeburgo ripassano il Reno coi rosolacci socialdemocratici al petto. Presto verrà la volta dei Sikhs e dei Gurchas, degli zuavi e degli spahis, né a voi, per carità, venga l’uzzolo di prenderne il posto, se non volete essere eternati in una nuova Secchia rapita. La piaga del campanilismo, bisogna confessarlo a vostra lode, finoggi ha avuto ben poca presa nel contado siciliano; lasciate dunque che altrove affoghi nel proprio fango e nel proprio sangue.