§ 39.

Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono mettere in rilievo la parte soggettiva del piacere estetico, ossia il piacere stesso in quanto è gioia del puro, intuitivo conoscere come tale, in opposizione alla volontà – viene a collegarsi, essendovi direttamente connesso, lo studio di quella disposizione che s'è chiamata sentimento del sublime.

Già osservammo che il trasportarsi dello stato della pura intuizione più facilmente avviene, quando gli oggetti si fanno a questa incontro, ossia quando, per la lor varia e in pari tempo determinata e chiara forma, facilmente divengono i rappresentanti delle loro idee; nelle quali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste. Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa quindi anche all'uomo più insensibile almeno un fugace piacere estetico: anzi, è sorprendente come in particolar maniera il mondo vegetale inviti alla contemplazione estetica e quasi la imponga, sì che si potrebbe dire, questa facilità essere in relazione col fatto che gli esseri organici di quel mondo non sono essi medesimi, come i corpi animali, immediato oggetto della conoscenza, e abbisognano quindi d'un estraneo individuo intelligente, per entrare dal mondo del cieco volere in quello della rappresentazione; sì che quasi avevano la nostalgia d'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò che direttamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altro in disparte questo pensiero audace e forse confinante con la fantasticheria, poi che solo una molto intima e amorosa contemplazione della natura può suscitarlo o giustificarlo. Fin quando è codesto offrircisi della natura, con la significazione e l'evidenza delle sue forme (dalle quali facilmente parlano a noi le idee in noi individuate), che dalla conoscenza delle semplici relazioni asservite alla volontà ci trasporta nella contemplazione estetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere, liberi da volontà; fino allora è solamente il bello, che agisce su noi, e quel che si sveglia è sentimento della bellezza. Ma se appunto quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contemplazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere, quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –, ed a quella s'oppongono, e la minacciano con la lor forza superiore, che vince ogni resistenza, o davanti alla propria smisurata grandezza la impiccioliscono fino al nulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore non volge l'attenzione a questa premente mossa ostile contro la volontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola, conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre si discioglie con vigore dalla volontà e dalle sue relazioni e, tutto dato alla conoscenza, appunto quegli oggetti per la volontà paurosi contempla tranquillo come puro soggetto del conoscere; solo cogliendone l'idea, estranea ad ogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri a contemplarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra la propria persona, la volontà propria e la volontà in genere: – allora lo riempie il sentimento del sublime; egli è in istato di elevazione, e perciò si dice sublime anche l'oggetto che un tale stato ha prodotto. Ciò che adunque distingue il sentimento del sublime dal sentimento del bello, è questo: nel bello il puro conoscere ha preso senza lotta il sopravvento, mentre la bellezza dell'oggetto, ossia la conformazione di esso, che ne lascia facilmente conoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi inavvertitamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, che la serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questa sopravvivere come puro soggetto del conoscere, sì che della volontà non resta neppure un ricordo; invece nel sublime quello stato del puro conoscere è raggiunto solo mediante un conscio ed energico districarsi dalle relazioni di quello stesso oggetto con la volontà, riconosciute sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi, accompagnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra la conoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazione deve non soltanto esser guadagnata consapevolmente, ma anche conservata; l'accompagna quindi un continuo ricordo della volontà, ma non di un singolo, individuale volere, come sarebbe la paura o il desiderio, bensì il ricordo del volere umano in genere, in quanto esso è genericamente espresso per mezzo della sua oggettità, ossia del corpo umano. Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un pericolo proveniente dall'oggetto, ecco l'individuale volontà effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impossibile la calma della contemplazione, andar perduta l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi gioveranno molto a chiarire e rendere indubitabile questa teoria del sublime estetico; in pari tempo mostreranno la varietà dei gradi nel sentimento del sublime. Imperocché, poi ch'esso è nella sua principal determinazione tutt'uno col sentimento del bello (determinazione che consiste nel puro conoscere libero da volontà e nella conoscenza necessariamente concomitante delle idee, le quali stanno fuor d'ogni relazione dominata dal principio di ragione); e dal sentimento del bello si distingue solo per un'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il riconosciuto rapporto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà in genere; nascono così – a seconda che tale aggiunta sia forte, chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana, appena accennata – più gradi del sublime: anzi, passaggi dal bello al sublime. Credo più opportuno per la trattazione, questi passaggi e in genere i più deboli gradi del sublime porre dapprima in esempi davanti agli occhi; anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è molto grande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gli esempi, che più tardi seguono, dei gradi più alti e più chiari. A questi unicamente dovranno tenersi, ed i primi tralasciare.

Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro impulso del volere (indicato, quale suo vertice, dal polo dei genitali) ed eterno, libero, sereno soggetto del puro conoscere (indicato mediante il polo del cervello); così è il sole – conformemente a tale contrasto – nello stesso tempo sorgente della luce, ch'è condizione del più perfetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è condizione prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno della volontà nei gradi più alti di questa. Ciò che per la volontà è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce è quindi il più grosso diamante nella corona della bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la conoscenza di ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta; la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di ciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore aumentato il bello dell'architettura; il qual favore tuttavia da la maggior bellezza anche a ciò che v'ha di più insignificante. Immaginiamo ora nel duro inverno, nell'universale irrigidimento della natura, i raggi del sole basso all'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che quelli illuminano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo al più puro modo di conoscere e non alla volontà; la contemplazione del bell'effetto di luce su codesti massi ci trasporta, come ogni cosa bella, nello stato della conoscenza pura, il quale tuttavia per il tenue ricordo della mancanza di calore, e quindi del principio vivificante – ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già un certo elevarsi sopra l'interesse della volontà, contiene una leggera esortazione a rimanere nella conoscenza pura, rimuovendo ogni volere; ed appunto perciò viene ad essere un passaggio dal sentimento del bello al sentimento del sublime. Altro esempio quasi altrettanto debole è il seguente.

Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con illimitato orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, con alberi e piante nell'aria affatto immobile, nessun animale, nessun uomo, nessun'acqua scorrente, la più profonda quiete; tale spettacolo è come un richiamo alla gravità, alla contemplazione, a liberarsi dalla volontà e dalla sua miseria: questo è sufficiente per dare alla contrada, sol per essere solinga e immersa nella pace, una sfumatura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né favorevole né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un perenne aspirare e conseguire, rimane unicamente lo stato della pura contemplazione; e chi di questo non è capace, resta in preda al vuoto della volontà disoccupata, al tormento della noia, con vergognosa umiliazione. Quel paesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore intellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudine nostra a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Ci offre perciò un esempio del sublime nel grado minore, essendo davanti ad esso, alla sua tranquilla e pacata necessità, insito nello stato di pura conoscenza, come contrasto, un ricordo della soggezione e miseria della volontà per sua natura perennemente agitata. Questa è la specie di sublime, che si suole esaltare come prodotto dalla vista delle infinite praterie nell'interno dell'America Settentrionale.

Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale, spoglia anche delle piante, non mostri che nude rocce; già l'assoluta mancanza d'ogni essere organico necessario alla nostra sussistenza è angosciosa per la volontà; il deserto prende un carattere pauroso; la nostra disposizione si fa più tragica; l'elevazione al puro conoscere avviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse della volontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puro conoscere, comparisce palese il sentimento del sublime.

In grado ancor più alto questo può esser suscitato da un'altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce attraverso minacciose, nere nubi d'uragano; mostruose, nude, precipiti rocce, le quali chiudono in loro cerchia la vista; fragorose spumeggiami corrènti; assoluto deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso le gole. La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica, la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidente innanzi agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale non prende il sopravvento, finché noi restiamo in estetica contemplazione, ficca l'occhio dentro quella battaglia della natura, dentro quello spettacolo di volontà infranta il puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturbato, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee appunto in quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi e paurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del sublime. Ma più forte ancora è l'impressione, quando abbiamo in grande, davanti agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la possibilità d'udir la nostra stessa voce; – o quando ci troviamo sull'ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive, sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla, il mare mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima, nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come fragile manifestazione della volontà, che il più piccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme contro la possente natura, da tutto dipendente, preda del caso, meno che nulla di fronte a potenze mostruose; e d'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno, tranquillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condizione dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé questo mondo intero; la tremenda battaglia della natura non è che la sua rappresentazione, mentr'egli stesso contempla tranquillo le idee, libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa è la piena impressione del sublime. Qui la produce la vista d'una potenza, che minaccia all'individuo distruzione: potenza di lui, senza confronto, maggiore.

In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dal rappresentarsi nella fantasia una semplice grandezza di spazio e di tempo, tanto smisurata da impicciolire l'individuo, nel confronto, fino al nulla. La prima specie possiamo chiamare sublime dinamico, la seconda sublime matematico, conservando le denominazioni e la giusta distinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamente da lui nello spiegar l'intima essenza di quell'impressione, non riconoscendovi alcuna parte dovuta a riflessioni morali o a ipostasi tratte dalla scolastica.

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla. Ma in pari tempo, contro codesto fantasma della nostra propria nullità, contro codesta menzognera impossibilità si leva l'immediata conscienza, che tutti quei mondi solamente nella nostra rappresentazione esistono, solamente quali modificazioni dell'eterno soggetto del puro conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stessi non appena dimentichiamo l'individualità, e che è il necessario sostegno, la condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La grandezza del mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Ma tutto ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, si mostra come la coscienza appena sentita d'essere, in un senso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito), tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata grandezza non già schiacciati, bensì innalzati. È la conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimono ripetute volte in così vari modi, specialmente nella già citata sentenza: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, vol. I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo, sentimento del sublime.

In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in confronto dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e direttamente, agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la grandezza sua; la quale basta a render quasi infinitamente pìccola la proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non è capace uno spazio, che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindi uno spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circoscritto, sia direttamente percepibile in tutte le dimensioni: così un alto e grande interno, qual è quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione del sublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità del nostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondimeno d'altra parte sta solamente nella nostra rappresentazione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto conoscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrasto dell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quanto individuo, in quanto fenomeno di volontà, con la conscienza di quell'io in quanto puro soggetto del conoscere. Anche la volta del cielo stellato agisce – quando la si osservi senza riflessione – non altrimenti che quella volta di pietra; e non con la sua vera, ma sol con la sua apparente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizione eccitano il sentimento del sublime, perché – a causa della loro vastità, o della loro antichità, ossia della loro durata temporale – noi ci sentiamo davanti ad essi impiccioliti fino a sparire, e tuttavia ci inebriamo nel goderne la vista. Di tal fatta sono le altissime montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine di remota antichità.

Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostra spiegazione del sublime; ossia a quel che si suol designare col nome di carattere sublime. Poiché questo egualmente si ha, quando la volontà non viene eccitata da oggetti, i quali pur sarebbero atti ad eccitarla; e invece la conoscenza mantiene anche allora il sopravvento. Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo affatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che possono avere secondo la sua volontà. Osserverà per esempio i loro difetti, e perfino il loro odio e la loro ingiustizia verso di lui medesimo, senza per ciò sentirsi spinto a odiarli; li vedrà felici, senza provarne invidia; riconoscerà le loro buone qualità, senza desiderarne per questo di avvicinarli più intimamente; apprezzerà la bellezza delle donne, senza desiderarle. La sua individuale condizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttosto sarà come Orazio descritto da Amleto:

for thou hast been

As one, in suffering ali, that suffers nothing;

A man, that fortune's buffets and rewards

Hast ta'en with equal thanks, etc.

A. 3, sc. 2

Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie di questo, egli scorgerà meno il proprio fato individuale che non il fato dell'umanità in genere; e per conseguenza si comporterà piuttosto come quegli che conosce, anziché come quegli che soffre.

Share on Twitter Share on Facebook