Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione della volontà di vivere non è se non l'affermazione del proprio corpo, ossia esplicazione della volontà mediante atti nel tempo, fin dove il corpo, nella sua forma e natura disposta a' suoi fini, rappresenta la stessa volontà spazialmente – e non oltre. Codesta affermazione si dimostra sotto specie di conservazione del corpo, usando a ciò tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente la soddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appartiene a quella, in quanto i genitali al corpo appartengono. Perciò la volontaria, da nessun motivo determinata rinunzia alla soddisfazione di quello stimolo, è già un rinnegar la volontà di vivere, è una spontanea autosoppressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta conoscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnegamento del proprio corpo si presenta già come un'opposizione della volontà contro il suo proprio fenomeno. Imperocché sebbene qui il corpo oggettivi nei genitali la volontà della propagazione, questa non viene tuttavia voluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento o soppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è una grave e dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo sarà detto in seguito. Ora, mentre la volontà presenta quell'autoaffermazione del proprio corpo in un numero infinito d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoismo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un individuo andar oltre codesta affermazione, fino alla negazione della stessa volontà, manifestantesi in un altro individuo. La volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui affermazione di volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui corpo distrugge o ferisce, sia in quanto costringe le forze dell'altrui corpo a servir la volontà propria, invece della volontà che in quello stesso altrui corpo si palesa; come, per esempio, quando alla volontà, palesantesi in forma d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con ciò accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i termini naturali di questa; sì che afferma la volontà propria oltre il suo proprio corpo, mediante negazione della volontà manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere nei confini dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola ingiustizia. Imperocché le due parti interessate riconoscono istantaneamente la cosa; non già, invero, come l'abbiamo qui esposta in limpida astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce l'ingiustizia sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo proprio corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo estraneo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto e diverso dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione stessa, o dal rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che commette l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in sé, la volontà medesima, la quale anche in quell'altro corpo si manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza, da farsi negazione appunto della volontà stessa nell'altro fenomeno, oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue forze; quindi egli, considerato come volontà in sé, combatte per l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo, se medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cognizione istantaneamente, non già in astratto, ma come oscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa ingiustizia.
L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassinio: al cui compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo indicata or ora in maniera astratta e arida la significazione, immediatamente, con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito reca un colpo insanabile per la vita intera; essendo il nostro orrore per l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci davanti all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato attaccamento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto, quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male analizzeremo in seguito più distesamente, e innalzeremo alla limpidità del concetto). Sostanzialmente identica all'assassinio, e sol per grado diversa, è da considerarsi la consapevole mutilazione, o anche semplice lesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo infertogli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissione dell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e finalmente nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ove la proprietà stessa si consideri come frutto del lavoro dell'aggredito, è in sostanza identico al ridurre a schiavitù. La spoliazione sta alla schiavitù, come la semplice ferita sta all'assassinio.
Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomo senza ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia, esser soltanto quella che l'uomo ha conquistata con le proprie forze: strappandogliela, veniamo a sottrarre le forze del suo corpo alla volontà in codesto corpo oggettivata, per farle servire alla volontà oggettivata in un altro corpo. Invero l'autor dell'ingiustizia, mediante assalto non dell'altrui corpo, ma di una cosa inanimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavia nella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo in quanto con la cosa sono quasi confuse e identificate le forze e l'attività del corpo stesso. Ne segue che ogni genuino, ossia ogni morale diritto di proprietà, poggia in origine unicamente sull'acquisto mediante il lavoro; come già s'ammetteva press'a poco generalmente anche prima di Kant, e addirittura come già esprime chiaramente e bellamente il più antico di tutti i codici: «I saggi, cui è nota l'antica età, dichiarano che un campo coltivato appartiene a colui il quale ne rimosse gli sterpi, lo nettò ed arò; come un'antilope appartiene al primo cacciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44. Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmi tutta la sua dottrina del diritto, singolare intreccio di errori germinati l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli voglia fondare il diritto di proprietà sulla presa di possesso. Come mai potrebbe la semplice affermazione della mia volontà, d'escluder altri dal possesso d'una cosa, costituire a ciò un immediato diritto? È chiaro, che quest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una base di diritto; mentre invece Kant ammette ch'ella sia un diritto di per sé. E in qual modo allora agirebbe con ingiustizia, nel significato morale, colui il quale non rispettasse quelle pretese all'esclusivo possesso di un oggetto, fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione? Perché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? essendo tanto chiaro, e facile a comprendere, che non vi può essere alcuna legittima presa violenta di possesso, ma semplicemente una legittima approvazione, conseguimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che originariamente ci appartengono. Quando, per esempio, un oggetto viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, sia pur minimo, coltivato, migliorato, protetto contro i rischi, conservato, e si riducesse pur codesto sforzo a coglier dal ramo o sollevar dal suolo un frutto selvatico, è palese che chi s'attacca secondo a tale oggetto toglie al primo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso, e fa che il corpo di questi serva alla propria volontà, invece che a quella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sfera del fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro: ossia, commette ingiustizia. Viceversa il semplice godimento d'un oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del medesimo contro la distruzione, non costituisce diritto su di esso più che non costituisca diritto al possesso esclusivo l'affermazione della propria volontà. Se quindi una famiglia ha essa sola esercitata la caccia in una riserva, sia pure durante un secolo, ma senz'avervi introdotto alcun miglioramento, non può senza morale ingiustizia contrastarla a un intruso straniero, che voglia per l'appunto colà andare a caccia. Il cosiddetto diritto del primo occupante, secondo il quale per il semplice godimento avuto di un oggetto si pretende di avere in più anche una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al godimento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi su esso unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venuto opporre con molto miglior diritto: «Appunto perché tu già sì a lungo ne hai goduto, è giusto che ora anche altri ne godano». Di ogni cosa, che non si presti a lavoro alcuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro i rischi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fondato, se non mediante volontaria cessione da parte di tutti gli altri, o come ricompensa di servigi altrimenti prestati; il che già presuppone una comunità governata da convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di possesso moralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per sua natura al possessore un diritto sulla cosa posseduta altrettanto illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul proprio corpo; ne viene, ch'egli può trasmettere il suo possesso, per mezzo di cambio o donazione, ad altri; i quali allora posseggono l'oggetto col suo medesimo diritto morale.
Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazione dell'ingiustizia, questa può farsi mediante violenza, o mediante insidia; che, dal punto di vista morale, sostanzialmente sono la stessa cosa. In primo luogo è nell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo del pugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. I rimanenti casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fatto che io, con l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuo estraneo a servir la mia volontà, in luogo della sua; ad agir secondo la mia, e non secondo la sua. Tenendo la via della violenza, conseguo questo risultato mediante causalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguo invece mediante motivazione, ossia causalità procurata dalla conoscenza; col porre innanzi alla volontà altrui motivi illusori, in virtù dei quali l'individuo ingannato, credendo di seguir la volontà sua, segue la mia. Poiché il terreno in cui stanno i motivi è la conoscenza, io posso arrivare a quel risultato solo falsando l'altrui conoscenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa tende ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altrui conoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla conoscenza come mezzo, ossia in quanto determina la volontà. Imperocché il mio stesso mentire, procedendo dalla mia volontà, ha bisogno d'un motivo: ma tale può esser soltanto la volontà altrui, non l'altrui conoscenza in sé e per sé; poi che questa come tale non può aver mai un influsso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla, né essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essere unicamente l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenza invece non è tale se non mediatamente. Ciò vale non solo per tutte le menzogne sgorgate da un palese vantaggio personale, ma anche per quelle prodotte da pura malvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conseguenze d'un errore altrui da lei generato. Perfino la semplice fanfaronata mira, mediante l'aumento di stima che ne viene, o una più favorevole opinione da parte degli altri, ad esercitare un'influenza più o meno grande sul loro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità, ossia, in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto; mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzogna. Chi allo smarrito viandante si rifiuta d'additar la buona via, non gli fa alcun torto; glielo fa quegli che lo mette sulla via falsa. Da quanto s'è detto risulta che ogni menzogna, al pari d'ogni violenza è, in quanto tale, torto; avendo in quanto tale per fine di allargare il dominio della mia volontà su altri individui, cioè di affermar la volontà mia negando la loro, proprio come fa la violenza. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto; perché quivi tutte le determinazioni suriferite sono raccolte compiutamente e limpidamente. Invero, quando io stringo un patto, la prestazione che altri mi promette è, direttamente ed esplicitamente, il motivo della mia, che dovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiate consapevolmente, e in tutta forma. La verità della dichiarazione fatta con quelle da ciascuno si intende che stia in suo potere. Se l'altra parte rompe il patto, essa m'ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza motivi solo illusori, ha diretto la mia volontà secondo i propri fini, ha esteso il dominio della volontà propria sopra un altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e propria ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale e la validità dei contratti. Ingiustizia mediante violenza non è per chi la commette tanto obbrobriosa, quanto è l'ingiustizia mediante insidia; perché quella attesta forza fisica, la quale, in ogni circostanza, fa grande effetto sugli uomini; mentre questa, andando per via obliqua, è prova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì come individuo fisico che come individuo morale; ancor più lo abbassa, in quanto menzogna e inganno possono riuscire solo a condizione, che chi li adopra manifesti in pari tempo ripugnanza e disprezzo verso tali armi, per guadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi attribuire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnanza, che malizia infedeltà e tradimento destano ognora, viene dall'esser fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiunge esteriormente in unità la volontà sparpagliata nella folla degli individui, ponendo così un limite alle conseguenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento. Infedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincolo esterno, e aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismo un campo senza confini.
Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamo trovato il contenuto del concetto d'ingiustizia nella particolar natura dell'azione, con cui un individuo tanto allarga l'affermazione della volontà manifestantesi nel suo corpo, da farne la negazione della volontà manifestantesi nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con esempi affatto generici i limiti ove ha principio il dominio dell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni, dalle massime alle minime, con pochi concetti fondamentali. Da ciò risulta, che originario e positivo è il concetto dell'ingiusto: mentre l'opposto concetto del giusto è derivato, negativo. Imperocché non alle parole dobbiamo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe mai fatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il concetto di giustizia contiene semplicemente la negazione dell'ingiustizia, e in esso viene compresa ogni azione, che non sia trasgressione del confine su esposto, ossia negazione dell'altrui volontà per maggiore affermazione della propria. Quel confine partisce adunque, rispetto a una determinazione puramente e semplicemente morale, l'intero campo delle azioni possibili in azioni ingiuste o giuste. Un'azione che non vada a ficcarsi, al modo spiegato più sopra, nella sfera dell'affermazione della volontà altrui, tale affermazione negando, non è ingiusta. Perciò il negare aiuto in caso di stringente necessità altrui, l'indifferente contemplar chi muore di fame, mentre noi stiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, ma non è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza, che colui il quale è capace di spingere a tal punto la sua insensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non appena le sue voglie lo chiedano e nessuna costrizione l'impedisca.
Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può essere ingiustizia, bensì è diritto: anche se la violenza impiegatavi, considerata in se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e qui venga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto. Se un individuo nell'affermazione della sua volontà va tanto lontano, da irrompere nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona in quanto tale, e viene con ciò a negar l'affermazione mia, il mio difendermi da tale violenza è solo un negar quella negazione; e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la volontà per essenza e originariamente manifestantesi nel mio corpo, e già implicite esprimentesi col semplice fenomeno del corpo stesso: non è quindi ingiustizia, bensì diritto. Il che vai quanto dire: io ho allora un diritto, di negar quella negazione con ogni forza atta a toglierla di mezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare fino all'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a mio danno, quale premente violenza esteriore, può essere impedito mediante una reazione alquanto più forte di esso, senza commettere ingiustizia di sorta, e quindi con diritto; imperocché tutto quanto vien fatto da parte mia sta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona come tale, e già in lei espressa (sfera che è il teatro della battaglia); né irrompe nella sfera altrui: sì che è solo negazione della negazione, ossia affermazione e non negazione. Io posso adunque, senza ingiustizia, costringer la volontà estranea che nega la volontà mia quale si manifesta nel mio corpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conservazione, senza negare io perciò un'altrui volontà contenuta in eguali confini, a desister da codesta negazione: ossia ho, in siffatta misura, un diritto di coercizione.
In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione, un pieno diritto di usar violenza contro gli altri, posso egualmente, secondo le circostanze, opporre all'altrui violenza anche l'astuzia, senza commettere ingiustizia; ed ho quindi un vero e proprio diritto alla menzogna, nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione violenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta frugando, di non aver null'altro su di sé, agisce con pieno diritto; così anche colui, il quale attiri con una menzogna in cantina il ladro entratogli di notte in casa, e ve lo rinchiuda. Chi sia trascinato prigione da malfattori, per esempio, da pirati barbareschi, ha il diritto, per liberarsi, di ucciderli non soltanto con aperta violenza, ma anche con inganno. Similmente una promessa strappata con diretta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli, che subisce una tal costrizione, può con pieno diritto liberarsi di chi gli usa violenza, con l'uccisione, nonché con l'insidia. Chi non può riprender con la forza il bene rubatogli, non commette ingiustizia se lo riacquista con inganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il denaro che m'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perché quanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volesse negare, dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insidia guerresca, la quale è addirittura una menzogna in azione, e conferma il motto della regina Cristina di Svezia: «Le parole degli uomini non vanno calcolate per nulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da presso il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del resto, credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concorda appieno con quanto è detto più sopra intorno all'illegittimità della menzogna come della violenza: può anche servir d'illustrazione alle singolari teorie sopra la menzogna necessaria.
In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e diritto sono semplicemente determinazioni morali; tali, cioè, che abbian valore rispetto alla considerazione dell'umana attività in se stessa, e in rapporto all'intimo significato di codesta attività in sé. Questo valore si rivela direttamente nella conscienza, in primo luogo, per il fatto che l'agire contro giustizia è accompagnato da un interno rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è la conscienza, semplicemente sentita, dell'eccessiva forza onde s'afferma in lui la volontà, arrivando fino al punto di negare il fenomeno della volontà altrui. E l'autor dell'ingiustizia, essendo bensì distinto come fenomeno della sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza. L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significato d'ogni fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un altro verso, chi patisce l'ingiustizia è dolorosamente consapevole della negazione della propria volontà, quale essa volontà è già espressa mediante il corpo di lui, ed i suoi naturali bisogni, pel cui appagamento la natura lo fa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è consapevole, in pari tempo, che senza commettere ingiustizia potrebbe opporsi in tutti i modi a quella negazione, se non gliene mancasse la forza. Cotal valore puramente morale è l'unico, che diritto e ingiustizia abbiano per l'uomo come uomo (non come cittadino nello Stato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche nello stato di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che costituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciò chiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe diritto morale: estendendosi il suo valore non già al subire, alla realtà esterna, ma solo all'agire e alla consapevolezza del proprio volere individuale, che l'agire fa nascere nell'uomo; consapevolezza, che si chiama coscienza. La quale nello stato di natura non in tutti i casi può farsi valere anche al di fuori, sopra altri individui, ed impedire che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato di natura dipende invero semplicemente da ciascuno, di non agire in nessun caso con ingiustizia, ma non già di non subire in nessun caso ingiustizia, poiché ciò dipende da quella forza esteriore che ci è toccata. Perciò sono i concetti di giusto e ingiusto bensì validi anche per lo stato di natura, e punto convenzionali; ma quivi valgono sol come concetti morali, per l'autoconscienza che ciascuno ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scala dei differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà di vivere s'afferma negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di congelazione nel termometro: il punto, ove l'affermazione della volontà propria diventa negazione dell'altrui, ossia con l'agire ingiustamente indica il grado della sua vivacità congiunto col grado dell'irretimento della conoscenza nel principio individuationis (il quale è la forma della conoscenza posta per intero al servigio della volontà). Chi voglia ora porre da canto la considerazione puramente morale degli atti umani, o negarla, e gli atti stessi guardar soltanto sotto il rispetto del loro effetto esteriore e del loro successo, potrà invero chiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia convenzionali determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto esistenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmo noi fargli intendere per esteriore esperienza ciò che non all'esteriore esperienza s'appartiene. Così al medesimo Hobbes, il quale caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo fargli intendere l'a priori del diritto: perché egli si è asserragliato contro ogni conoscenza non empirica.
La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della morale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si compie, non già a quella che si subisce. Che solo la prima è esplicazione della volontà, e la morale non considera se non la volontà. Il subire è un semplice accidente: solo in via indiretta la morale può considerarlo, ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa determinazione del limite, fino al quale un individuo può arrivare nell'affermazione della volontà già oggettivata nel suo corpo, senza che codesta affermazione diventi negazione di quella volontà medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltre dovrebbe determinar le azioni, che andando oltre il limite sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter essere impedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimarrebbe così oggetto dell'indagine l'azione sola.
Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si presenta il fatto dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta più limpido che altrove, come già fu detto, il fenomeno dell'opposizione della volontà di vivere contro se stessa, risultante dalla pluralità degli individui e dall'egoismo; l'una e l'altro determinati dal principio individuationis, che è la forma del mondo quale rappresentazione per la conoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra, che un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vita ha in quel contrasto degl'individui la sua perenne sorgente.
Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa sì ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso singolo, ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha presto insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale, capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di vista unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per un istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento, provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è superato ognora da un dolore relativamente più grande, che prova chi quell'atto subisce. E vide, inoltre, come tutto essendo in ciò affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a sé il dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente del piacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ragione ne ricavò che, tanto per diminuire il male su tutti disteso, quanto per distribuirlo quanto più fosse possibile uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse risparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per questa via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla. Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo della ragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista, è il contratto sociale o la legge.
L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella Repubblica. In verità è tale origine essenzialmente l'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo Stato averne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne uno Stato; ed è poi indifferente se in questo o in quel popolo l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di selvaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio dal più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva Stato: lo Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto. Le repubbliche tendono all'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via intermedia della monarchia costituzionale, che per ovviare a quei mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazioni. Per fondare uno Stato perfetto, si deve incominciar dal creare esseri, cui Natura consenta di sacrificare il bene proprio al bene pubblico. Ma frattanto qualcosa già s'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui bene sia da quello del paese affatto inseparabile: sì che ella, almeno nelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'uno senza l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchia ereditaria.
Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare atto ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni; la dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario correlato di questa, ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua attenzione, quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si potesse concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altra parte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conseguentemente non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre, poiché nella morale è oggetto di considerazione ed unica realtà l'animo, l'intenzione, per essa la volontà risoluta di commettere ingiustizia, quando pur sia arrestata e resa impotente da una forza estranea, equivale in tutto all'ingiustizia effettivamente commessa; e la morale condanna nel suo tribunale, come ingiusto, chi quell'intenzione aveva. Viceversa lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né punto né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto), in ragione del suo correlato, del patire, che ne viene dall'altra parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fatto accaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga se non in quanto da esso vien reso manifesto il significato dell'atto. Quindi lo Stato non vieterà ad alcuno di meditar permanentemente violenza omicida o veleno a danno altrui, non appena sia persuaso che il timore della pena capitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti di quell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente il folle proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiustizia, la malvagia intenzione; bensì ad ogni possibile impulso verso il compimento di un torto vuol porre accanto una prevalente ragione di non commetterlo, la qual consiste nell'ineluttabile punizione: perciò è il codice penale un elenco, il più possibile completo, di contromotivi opposti a tutte le azioni delittuose presupposte come possibili. La scienza statale, o legislazione, per questo suo fine torrà a prestito dalla morale il capitolo, che costituisce la filosofia del diritto, e che oltre a dar l'intimo significato del giusto e dell'ingiusto ne determina i netti confini; ma esclusivamente per adoprarne il rovescio, e tutti quei termini, che la morale pone come insormontabili da chi non voglia commettere ingiustizia, considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il cui valicamento da parte d'altri non va tollerato, se non si vuol patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respingere altrui. Tali termini vengono così sotto codesto rispetto, fin dove si può passivo, barricati dalle leggi. Ne risulta che, come molto argutamente lo storico fu definito un profeta a rovescio, così è un moralista a rovescio il giurista; e quindi anche la scienza del diritto in senso proprio, ossia la dottrina dei diritti, che si possono affermare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui questa insegna i diritti che non si possono violare. Il concetto dell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, il quale è in origine concetto morale, diventa giuridico trasportando il punto di partenza dall'aspetto attivo al passivo, ossia mediante un capovolgimento. Ciò, aggiunto alla dottrina giuridica di Kant, il quale molto falsamente deriva dal suo imperativo categorico l'istituzione dello Stato come un dovere morale, ha prodotto anche nell'età più moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore, che lo Stato sia un istituto per l'incremento della moralità, nasca da un tendere verso di essa e sia quindi rivolto contro l'egoismo. Come se l'interno animo, l'eternamente libero volere, al quale soltanto si riferiscono moralità o immoralità, si potesse dal di fuori modificare, e per influsso esterno mutare! Ancor più stolto è il teorema, secondo il quale lo Stato è condizione della libertà nel senso morale e quindi della moralità: mentre invece la libertà risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalle umane istituzioni! Lo Stato, come ho detto, è sì poco rivolto contro l'egoismo in genere e in quanto tale, che viceversa per l'appunto dall'egoismo è originato: da quell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente, salito dal punto di vista individuale al generale, e assommante in sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo è lo Stato: poggiando sulla retta premessa, che non sia da attendersi moralità pura, ossia un giusto agire per principi morali; che se così non fosse, esso diventerebbe superfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensì esclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo, che dalla folla degli individui egoisti si producono a svantaggio reciproco di tutti, e ne turbano il benessere, è lo Stato rivolto: il quale a tal benessere mira. Perciò diceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος μεν ουν πολεων το ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιμονως και καλως (Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate et pulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e in modo eccellente esposto quest'origine e finalità dello Stato, quali vengono d'altronde espresse dall'antico principio di tutti i gli ordinamenti statali, salus publica suprema lex esto. Se lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, produrrebbe lo stesso effetto come se universalmente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma l'intima essenza, l'origine di codeste due condizioni di cose sarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel secondo caso s'avrebbe, che nessuno voglia compiere ingiustizia; nel primo, invece, che nessuno voglia patire ingiustizia; e a tal fine sarebbero appieno adoprati i mezzi opportuni. Così può la medesima linea venir tracciata da opposte direzioni, e un animale da preda con la museruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là di questo punto lo Stato non può andare: non può quindi mostrarci un aspetto pari a quello, che risulterebbe da generale, reciproca benevolenza ed amore. Poiché, come abbiamo or ora notato che esso, per propria natura, non vieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultasse dall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni ingiustizia vieta sol perché tale condizione sarebbe impossibile; così viceversa assai volentieri farebbe sì, conformemente alla propria tendenza rivolta al benessere generale, che ciascuno ricevesse benevolenza e ogni maniera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anche questi atti ricevuti non avessero un correlato inevitabile nella prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Ma invece ogni cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assumere la parte passiva, e nessuno l'attiva; e quest'ultima per nessun motivo si potrebbe pretenderla dall'uno piuttosto che dagli altri. Perciò si può imporre il negativo soltanto, che appunto costituisce il diritto, e non il positivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveri imperfetti.
La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la dottrina pura del diritto, ossia dottrina intorno all'essenza ed ai limiti del diritto e del torto, dalla morale, per adoprarla capovolta secondo i fini proprii, che alla morale sono estranei, e su questa base stabilire la legislazione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia lo Stato. La legislazione positiva è adunque la dottrina morale del diritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazione può accadere con riguardo alle speciali condizioni e circostanze di un determinato popolo. Ma sol quando la legislazione positiva nella sostanza è costantemente guidata dal principio del diritto puro, ed ogni sua sanzione ha nella dottrina del diritto puro la propria base, può dirsi che codesta legislazione siffattamente formata sia davvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazione giuridica: Stato nel vero senso della parola, istituzione moralmente ammissibile, e non immorale. In caso contrario la legislazione positiva è viceversa il fondamento di una positiva ingiustizia, è essa medesima un'ingiustizia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal fatta è ogni dispotismo, e la costituzione della più parte degli Stati musulmani; di tal natura sono perfino talune parti di molte costituzioni, come per esempio la schiavitù, il lavoro obbligato, e così via. La dottrina pura del diritto, o diritto naturale, anzi meglio diritto morale, sta, neppur sempre a rovescio, a base d'ogni legislazione giuridica positiva, come la matematica pura sta a base d'ogni ramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrina pura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, pei fini suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spiegazione dell'intimo e proprio valore nonché dell'origine dei concetti di giusto e d'ingiusto, e della loro applicazione e del loro posto nella morale. 2. Deduzione del diritto di proprietà. 3. Deduzione del valore morale dei contratti: essendo questo il fondamento morale del contratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità dello Stato, della relazione di codesta finalità con la morale, e della conseguente trasposizione della dottrina morale del diritto, invertita, alla legislazione. 5. Deduzione del diritto penale. Il rimanente contenuto della teoria del diritto non è se non l'applicazione di quei principii, più precisa determinazione dei confini del giusto e dell'ingiusto per tutte le possibili contingenze della vita, le quali vengono perciò riunite e suddivise sotto speciali riguardi e titoli. In queste dottrine particolari s'accordano quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei principii suonano assai diversi; imperocché i principii sono sempre in relazione con qualche sistema filosofico. Ora che noi, in conformità del sistema nostro, abbiamo esposto in forma breve e generica sì, ma tuttavia netta e chiara, i primi quattro di quei punti essenziali, ci tocca ancora di parlar nello stesso modo del diritto penale.
Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la deduzione fatta più sopra, esiste invece proprietà anche nello stato di natura, con pieni diritti naturali, ossia morali; la quale non può senza ingiustizia venire offesa, e senza ingiustizia può esser difesa fino all'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non c'è diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente sulla legge positiva, la quale prima dell'atto compiuto ha sancito per questo una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe prevaler su tutti gli eventuali motivi di quell'atto. Codesta legge positiva si deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cittadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'esecuzione della pena da una parte e al sofferimento di essa dall'altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire imposta. Conseguentemente l'immediato fine della pena nel singolo caso è adempimento della legge come d'un contratto. Ma scopo unico della legge è il trattenere, col timore, dalla violazione degli altrui diritti: poi che appunto, perché ciascuno sia protetto contro l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, i pesi del suo mantenimento assumendo su di sé. La legge adunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzialmente rivolte al futuro, non al passato. Ciò distingue pena da vendetta, la quale ultima è motivata esclusivamente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quanto tale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare al futuro, per un'ingiustizia commessa, è vendetta, e non può avere altro fine, se non confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un male altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e crudeltà, né si può eticamente giustificare. L'ingiustizia, che altri compie verso me, non mi dà minimamente il diritto di commettere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male, senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmente né in altro modo in virtù di qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus talionis, eretto a principio indipendente ed a finalità ultima del diritto penale, è vuoto di senso. Perciò è in tutto priva di base e assurda la teoria di Kant intorno alla pena, concepita qual semplice compensazione per la compensazione. E nondimeno la viene ancor fuori negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni maniera di frasi pompose, che si riducono a una vuota filastrocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzo della pena espiato, neutralizzato, cancellato, e così via. Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice e compensatore in senso puramente morale, ed i misfatti di un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegli imporre così espiazione per ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima presunzione; onde il detto biblico: «Mia è la vendetta, esclama il Signore, e voglio io compensare». Ha bensì l'uomo il diritto di provvedere alla sicurezza della società; ma ciò può accadere solo mediante interdizione di tutti quegli atti che indica la parola «criminale», per impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le minacciate pene; la qual minaccia può avere efficacia sol con l'esecuzione, quando il caso sia, malgrado l'interdizione, avvenuto. Che perciò scopo della punizione o più precisamente della legge punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un reato, è una verità così universalmente riconosciuta, anzi di per se stessa luminosa, che in Inghilterra fu perfino già espressa nell'antica formula d'accusa (indictment), di cui oggi ancora si serve nei processi criminali l'avvocato della corona; la quale termina: «if this be proved, you, the said N. N., ought to be punished with pains of law, to deter others from the like crimes, in all time coming» . Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla vendetta; e la pena ha questa finalità sol quando viene applicata come esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo siffattamente annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso futuro, dà alla legge la forza d'intimidazione in cui sta appunto la sua finalità. Qui un kantiano immancabilmente osserverebbe, che secondo questo modo di vedere il delinquente punito viene adoprato «sol come mezzo». Ma questo principio, così infaticabilmente ripetuto da tutti i kantiani, «che si debba sempre trattar l'uomo sol come fine, mai come mezzo», è bensì un principio che suona con aria d'importanza, e quindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amano d'avere una formula, che tolga loro la fatica di continuare a pensare; tuttavia guardato alla luce è una sentenza oltremodo vaga, indeterminata, la quale per ciascun caso, in cui debba essere applicata, richiede dapprima particolare spiegazione, determinazione e modificazione, mentre, presa così in maniera generica, è insufficiente, poco concludente, e per di più problematica. L'assassino, che per virtù di legge è consacrato alla pena capitale, deve invero ed a buon diritto essere usato come semplice mezzo. Perché la sicurezza pubblica, scopo principale dello Stato, è da lui turbata anzi soppressa, se la legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua persona devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della legge, e quindi per la restaurazione della pubblica sicurezza; e un mezzo egli diviene a pieno diritto, per l'adempimento del contratto sociale, che da lui medesimo, in quanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto sanzione, e per effetto del quale, col fine d'aver sicurtà di godere la propria vita, la propria libertà, i propri possessi, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi dati in pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un pensiero quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era necessario chiarirlo limpidissimamente. La sua spiegazione è, nella sostanza, già contenuta in ciò che a tal proposito dice Puffendorf, De officio hominis et civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes, Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta, come si sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei detti dei filosofi antichi: Platone l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria di tutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit, quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).
Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene suo proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, potrebbe aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in sé congiunte sa ognor più trarre a suo servigio anche la rimanente natura, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunché d'analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso è tuttora sempre lontano da questo termine; per l'altro innumerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti, manterrebbero come prima la vita in dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli altri eliminati, da ultimo la noia occuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un altro verso ancora la discordia degli individui non può mai dallo Stato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nel piccolo, dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, felicemente cacciata dall'interno, si volge ancora al di fuori: bandita per mezzo dell'ordinamento civile dalle contese degli individui, ritorna dall'esterno in forma di guerra dei popoli, e pretende allora in grosso e tutto in una volta, come debito accumulato, le sanguinose vittime, che mediante saggia provvidenza le si erano sottratte singolarmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potesse superare e toglier di mezzo, con una saggezza fondata sull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbe l'eccesso di popolazione sull'intero pianeta; terribile male, che oggi solo un'audace fantasia riesce a rappresentarsi.