U Il secondo re d'Italia

Paolo Valera

È nato il 14 marzo 1844, quando, secondo Ugo Pesci, nessuno pensava a predicare l'odio di classe e la guerra sociale. In quei tempi i cittadini si chiamavano sudditi. La futura maestà è stata allevata come il figlio di una massaia bigotta. Sua madre, Maria Adelaide, chiamava Dio il re dei re e diceva ai monsignori che le stavano alle gonne, che avrebbe preferito la morte del figlio piuttosto che vederlo nel peccato. Lo ha veduto così crescere in mezzo ai reverendi, alle preci, alle messe, alle comunioni, alle genuflessioni e ai baciucchiamenti dei cristi in croce e delle madonne dal cuore trafitto. Suo padre era troppo occupato delle sue cacce e delle donne per occuparsi dell'educazione dei figli.

Tutte le sue preferenze erano per il camoscio o il daino. Si abbandonava alle cacce alpine come uno che avesse niente da fare. Gli piaceva più la colazione con gli alpigiani di Cogne e di Valsavaranche che quelle del Quirinale.

Umberto ed Amedeo, non appena svezzati dalle mammelle religiose, vennero affidati ai militari. Il loro governatore era un generale e il generale non ha saputo trovare maestri per i principi che nei reggimenti. A quattordici anni, quando i figli di tutte le classi sono in collegio o in ginnasio e sono quadrilingue il principe di Piemonte era capitano. Nessun sprone ai miglioramenti intellettuali. Il genitore doveva avere fiutato in lui una specie di Napoleone I, se nel decreto di nomina ha potuto fare tanto scalpore sulle sue abilità militari. Più tardi, durante la guerra del 66, non è stato che un ottimo generale di ritirata. Il suo fatto d'armi si è limitato alla formazione del quadrato che ha subito la prima carica degli ulani infuriati dal Rodakwski. Per questa bravura che può essere di un comandante qualunque e malgrado la disfatta clamorosa di tutto l'esercito, gli venne conferita la medaglia al valore militare e si ebbe la stretta di mano da Nino Bixio – il secondo dei mille divenuto generale regio.

Ci sono due opinioni su tutti gli avvenimenti. Taluni, per esempio, piangono a vedere un re sui campi del dolore o sui luoghi delle catastrofi umane. Io, no. Io, se piango, piango dalla, disperazione di non poterlo trattenere. Nei discorsi il coraggio di un sovrano è puramente decorativo. Un re è ai pinnacoli degli onori sociali. Non può andare più in alto. Elogiarlo per un'azione civile è diminuirlo. Peggio, qualche volta lo si inganna, perchè la sua presenza nelle catastrofi fa più male che bene. Distoglie delle braccia utili dai luoghi di soccorso, porta negli altri la distrazione e obbliga, a sua insaputa, la gente ad occuparsi di lui e non dei sepolti vivi o dei colerosi. Tuttavia, merito o demerito, io lo registro. Il coraggio dell'infermiere o del medico o della monaca d'ospedale e la bontà del filantropo sono qualità sentite in tutti i sabaudi, escluso Carlo Alberto, s'intende. Egli non ha dato all'umanità che la sua boria dinastica, la sua bigotteria stupida, la sua profanazione militare e la sua incivilità politica. Egli è rimasto nella storia una figura repulsiva. Vittorio Emanuele non ha avuto nulla di comune col padre. Pur essendo del periodo eroico, ha avuto impulsività di cuore che riempivano gli occhi di lagrime della buona gente. Bruciava un teatro? Compariva il re galantuomo. Lui, bisognista eterno, sempre alla ricerca di denaro statale per saziare le sue Rosine, era capace di mandare somme ingenti dove si soffriva e si moriva. Cito i temporali che parevano scatenati dall'ira di Pio IX per punire i brecciaiuoli che gli avevano invaso il territorio. Col Tevere che aveva inondato molti rioni, Vittorio Emanuele II è andato dove erano maggiori i danni circondato dalla turba dei lacchè, a consolare, a lenire, a incoraggiare.

Ritornato alla reggia credo abbia dato ordine di distribuire in suo nome duecento mila lire. Erano elargizioni che giovavano alla sua cassetta privata. Perchè dopo qualche mese il sovrano alla chitichella, si faceva restituire le elemosine reali con interessi usuratizi. La nota di estorsione ch'egli faceva al Parlamento era sempre la stessa. I consiglieri della Corona dicevano alla Camera che la votazione di un milione e mezzo, per esempio, per aumentare la lista civile, come il re magnanimo ha chiesto nel 76, era consigliata da viva e sincera riconoscenza per i sacrifici, diceva Depretis, che Vittorio Emanuele II aveva fatto per l'indipendenza e l'unità d'Italia.

Vittorio Emanuele aveva molte tenerezze per i gobbetti. Gli rammentavano il suo povero Oddone. Più di una volta gli è toccato fermare la carrozza per dar loro gli spiccioli del suo panciotto. Il soccorso personale in Umberto è notevole in tutta la sua vita di principe e di sovrano. Non c'è stata sciagura considerata nazionale a cui non abbia preso parte. È stato fra i i primi ad accorrere a Napoli con cento mila lire della sua cassetta privata non appena si è sviluppato il colera. È stato primo fra i primi ad accorrere a Palermo con dieci mila lire per i colerosi.

Lo si è veduto perfino all'incendio di un teatro. Era in lui l'idea fissa che il capo di una monarchia dovesse essere un dispensiere di coraggio in mezzo alle afflizioni del «suo popolo». Un giorno egli si trovava a caccia nelle vicinanze di Valdieri. Il colera in Usca, comune poco distante da Cuneo, faceva strage. In meno di ventiquattro ore il morbo aveva rovesciato per le strade circa sessanta persone morte. Più di una cinquantina erano nei letti del lazzaretto improvvisato che morivano. Umberto ha sentito subito il dovere dinastico di essere sul luogo a consolare i superstiti. È andato per i tuguri, ha distribuito parole di conforto, ha dato denaro dove maggiore era il bisogno e ha stretta la mano al parroco con una profusione di elogi per la sua opera caritatevole. I fiumi del Veneto avevano rotto gli argini. L'Adige correva impetuoso e fracassava per le vie di Verona. Le case venivano travolte. Umberto non ha potuto trattenersi a Monza. All'indomani si fece vivo in mezzo al disastro di Bodio. Egli fu accolto dalle frotte contadinesche con musiche e bandiere. Il principe asciugava lagrime, diceva parole commoventi e metteva le autorità sottosopra. Come sempre. La sua era una beneficenza che costava cara. Si muovevano con lui sindaci, prefetti, ministri, gente del comune, e del ministero. Tutto tempo sottratto agli avvenimenti luttuosi. La gente illustre è meglio che stia a casa.

È rimasto impopolare. Tutte le sue premure per lenire i dolori italiani non lo hanno mai reso simpatico. Cresciuto fra preti e soldati è entrato nell'Italia fatta senz'anima, senza entusiasmi, senza genialità, senza neanche quelle turbolenze che avevano reso popolare il padre, anche se le sue turbolenze erano per farsi pagare un po' della solita unità italiana. Egli era troppo impettito, troppo rigido, troppo meccanico, troppo dinastico nei suoi movimenti. Ha preso moglie, per esempio, per necessità dinastica. Non si è democratizzato, nè ha democratizzato la monarchia. Il suo sogno, se ne ha avuti, era quello di una monarchia assoluta, ma benefica. La suggestione a soccorrere la sventura gli è stata data dal Delfino che fu poi Luigi XVI. Può darsi che glielo abbia dato un altro principe o un altro regnante. A quei tempi la gente del trono cercava con avidità gli avvenimenti che dessero loro modo di mettere in vetrina i loro cuori. Il Delfino di Francia che ha veduto la Delfina austriaca accolta da tutte le classi di Parigi al grido di viva la Delfina! si è anche sentito urtare violentemente dalla folla. La polizia non ha mai spiegata la spinta assassina dei filous della capitale francese. Fu una spinta organizzata e premuta da tutti i lati. Vi si trovarono soffocati 200 persone e se ne trovarono nella Senna 1200. Cattivo presagio, dicevano i Cagliostri del tempo. Fatto è, che la terribile bouscoulade aveva impressionato il principe fino alla commiserazione delle vittime. Ho saputo, diceva lui, a un maneggione della beneficenza, della sventura di tante vittime. Il re mi invia tutti i mesi per i miei minuti piaceri due mila scudi. Soccorrete i più infelici.

All'epoca del matrimonio Umberto era di statura media, robusto, elegante. Capelli corti, labbra grosse, baffi foltissimi, voce velata e stridente per un'operazione ch'egli aveva subito alla laringe, come il padre di Guglielmo II, l'imperatore dei 100 giorni. La principessa Margherita, nel 68, era una bellezza fredda. Esile, capelli di un biondastro di stoppa come quelli della Delfina di Francia, carnagione biancastra, pupille annegate in un azzurro che diceva niente. Non c'era affetto nè nell'uno nè nell'altra. Nei ceti minori un simile matrimonio avrebbe lasciato tutti indifferenti. Nella zona reale è divenuto un avvenimento strepitoso. A Firenze, per esempio, ancora capitale, il matrimonio che gli stessi cortigiani chiamavano di stato, ha affollato le vie. Gli sposi nella superba berlina tirata da otto cavalli e seguita da altre a quattro e a sei, dal palazzo delle Cascine al palazzo Pitti, sono stati esposti come in un bacheca per tre ore. La follia fiorentina è nei quattordici giorni di feste contigue. Più di Torino, dove si erano celebrate le nozze con il rito civile e religioso. Più di Torino. Torino ne fu sazia in 6 giorni. A Firenze: Regate, corse di cavalli, pranzi di gala, fuochi d'artifizio, riviste militari, feste da ballo, ricevimenti di congratulazioni, doni da tutte le parti, specialmente dalle gentil donne d'illustre casato, epigrafi in ogni angolo, indirizzi dorati, colorati, tricolorati, gonfiati, inviati da una moltitudine di classi danarose e rispettabili. Pareva che fossero i cittadini che avessero preso moglie invece del principe. Archi trionfali, piogge di fiori, guardie nazionali in parata, l'esercito rappresentato da una spada al principe e via e via. Mi permetta Ugo Pesci, lo storico dei futuri sovrani, che io manifesti un dubbio. Io credo che gli allestitori della grande carnevalata matrimoniale avvenuta nella capitale del regno d'allora, abbiano copiata la carnevalata matrimoniale di Luigi XVI e Maria Antonietta. Stessa pompa, stesse feste, stessi affollamenti, stessi applausi, stessi evviva. La differenza fu sola nella spiensieratezza concessa ai popoli. I principi francesi che non avevano mai pensato alla ghigliottina, furono larghi di beveraggi e di tavole imbandite per le moltitudini che dovevano poi sventrare la Bastiglia. Il Parlamento non è stato insensibile al giubilo cosiddetto nazionale. Ha regalato loro, in nome nostro, nientemeno che la villa col Parco di Monza, villa che adesso il loro figlio ha restituito al padrone nazionale. Una delle più belle ville di Lombardia. Ha un parco di dieci chilometri di circonferenza con otto o dieci cascine e 25 fabbricati sparsi qua e là per le praterie come il Mirabello, il Merachellino e la Cagrande. Poi c'è il Palazzo Reale, immenso e maestoso, inquadrato da altri edifici per la servitù, per le lavandaie, per i dignitari e le dame di onore antibolsceviche. Roba da pazzi. Il nuovo re poi ha ringraziato la nazione per la perdita di una proprietà che valeva sette milioni in tempo di pace e di benessere, mettendovi nello stesso parco, a fianco della reggia, la palazzina della duchessa Litta, di famosa memoria. Non parliamo di morale, dio buono, in casa monarchica. Di tutti i sovrani che ho conosciuto personalmente o nella storia non ho registrato che il marito modello che mi ha dato Lamartine, Luigi Filippo D'Orleans. Il popolo lo ha però scacciato dalla reggia facendolo passare da una via famosa che conduceva al patibolo o all'esilio. Gli altri furono esempi di bagascismi. Non ho che da nominarli. Il re del Belgio, Leopoldo II è stato un marito crudele, un padre scellerato, un puttaniere di professione. Edoardo VII è stato l'eroe degli scandali di Parigi e di Londra. Beone, giuocatore, sifilizzatore. Ha avuto un figlio sorpreso fra gli Oscar Wilde di Cleveland street. Sua madre è stata l'amasia del suo groom John Brown. Guglielmo II, amicissimo di Umberto, ha circondato il suo nome di avventure e di passioni imperiali. Napoleone III è stato un mantenuto volgare. Cora Pearl lo ha mantenuto a Londra, e lo ha aiutato con i denari dell'alcova a fare il colpo di stato. Le ricompense furono il calcio e l'espulsione dal suo impero. Ladro! Al diavolo la morale e coloro che l'hanno inventata. Essa non serve che a fare dell'ipocrisia e a inacidire i caratteri.

Lo stesso Umberto era andato al matrimonio seguito dai sottovoci del Gazzettino Rosa. Nei sottovoci del giornale in cui collaborava Felice Cavallotti colla sua prosa antecasarea e con la sua prosa documentale, era stata sciorinata la palazzina che il principe aveva in via Luciano Manara per il ricevimento delle sue donne e delle sue dame, fra le quali la duchessa Litta. Il Gazzettino Rosa era pieno di rispetto per le signore. Aveva per loro gli eufemismi. Le eliminava, girava al largo. Achille Bizzoni, fisicamente era superbo. Alto, formoso, con una bella testa da baci. Davanti alle Pampadour si toglieva il cappello. Pareva un inglese. Non poteva vivere senza guanti. Ha avuto tante avventure da superare quelle del principe. Le donne si disperavano dei suoi abbandoni. Uomo di penna e di spada. Lasciava l'una per l'altra. Con la penna ha fatto campagne morali da rendere orgogliosa la professione. In tempi migliori, quando le associazioni della stampa cesseranno di essere ingrate con i pionieri del coraggio e dei giornali che hanno avuto un culto per la morale pubblica, Achille Bizzoni che ha molte pubblicazioni al suo dorso, sarà levato dal pantano e dai sospetti in cui la gloria dei mangiatori alla greppia reale e dei vivacchiatori alla greppia di Stato avrà la nicchia dell'ammirazione.

Ugo Pesci, uno di quei giornalisti che si lascerebbero fucilare per delitto di fedeltà alla monarchia, era autore dell'«entrata in Roma» e di altri libri nei quali figurano illustrati i Savoia.

La sua andatura di scrittore è dell'ex militare: rigida, dovuta alla disciplina. Stile freddo, secco, tortuoso. La sua prosa non ha trasalimenti. È sempre ravviata. Se vi assale anche con un fendente, non si scompone. La sua persona rimane nell'atmosfera degli imperturbabili. Tra le labbra una punta di sarcasmo. Egli sapeva che i gazzettinanti erano scapigliati che passavano dall'allegria al duello o dalla cena fracassosa alla produzione dell'articolo che avrebbe messo sottosopra i doganieri della libertà politica senza perdere il buon umore e senza pagare di persona i danni della professione vegliata dalla autorità governativa. Pure lui ha voluto vedere nei sottovoci su via Luciano Manara del libellismo o della libellularia, come avrebbe detto il professore Sbarbaro. Non fu storico come pretende. Libellista? Il libellista è un diffamatore. Ora egli stesso negava la diffamazione quando ammetteva le «vivacità giovanili del principe».

Un giornaletto libello, diceva Pesci, che si stampava a Milano non si trattenne dal dipingere quasi scandalose ed enormi colpe alcune vivacità giovanili del principe. Non si diceva che fossero enormi. Si constatava, si narrava, si contribuiva con un episodio a preparare la biografia dell'uomo, destinato a fare storia. Non c'era niente di maligno. Al massimo era una rivelazione per coloro che non vivono in Milano. «Gli ufficiali della sua casa (del principe) dovettero chiedere spiegazione con le armi delle offese continuamente loro rivolte». È anch'esso un periodo sbagliato. Che c'entravano loro con le beghe del principe? Non vivevano nei tempi medioevali per assumere il compito di ammazzare per conto del padrone. Achille Bizzoni non ha esitato a prendere la spada e a presentarsi nello steccato di una caserma a sostenere l'assalto fino all'ultimo dei corazzieri che gli ha dato un traversone al collo. Ma i corazzieri non dovevano, avere questo onore. Nella questione dalla palazzina essi erano degli intrusi. La verità è che il principe fu più saggio di loro. Saputo che il Bizzoni, suo ex corazziere, non era ricco e aveva scritto un romanzo (autopsia di un amore) in cui l'autore era un bohème dalle scarpe che ridevano, gli mandò e senza intenzione di offenderlo, come mi disse lo stesso Bizzoni, un suo incaricato con un portafoglio gonfio di biglietti con la sigla U. Achille Bizzoni era a letto che si curava della gualcitura del traversone. Non diede pugni all'ambasciatore ma gli additò l'uscio con la correttezza del giornalista che non si lascia abbonire dai biglietti da mille. Due parole ancora e poi abbandono il signor Ugo Pesci. «Ho citato questo episodio perchè fu uno dei primi fenomeni dell'agitazione dei partiti costituzionali in Italia, prodotto da ragioni assolutamente estranei alla politica, da ripieghi personali e non da questioni di partito». Questa è una vostra illusione. Gli «anticostituzionali» erano dei repubblicani. Bizzoni non aveva ripicchi nè col principe nè con i corazzieri della sua casa. Ha tirato in scena la palazzina di via Luciano Manara, come prima o dopo ha preso per il collo i malfattori parlamentari della regia cointeressata. Ma Ugo Pesci che ha scritto il re martire aveva una tesi da sviluppare, quella di far risalire il regicidio del 1900 ai «libelli milanesi» dei tempi di Bizzoni! Teoria bestiale. Chi sa dove lo storico militare Ugo Pesci avrebbe messo Victor Hugo se dopo i suoi sublimi libelli una mano regicida avesse assassinato Napoleone III, infangato e mutilato da mucchi di aggettivi punitivi che rimarranno nella letteratura politica come lo sforzo massimo cerebrale del genio che ha assunto le forme di vendicatore dell'umanità mascherata. Victor Hugo lo ha preso alla culla. Lo ha portato in piazza adultero. Lo ha fatto circolare per i postriboli di Londra e di New York, lo ha colto mantenuto di donne, gli ha rimesso indosso lo zimarrone del policeman con il truncheon o l'ammazzapopolo in mano, lo ha appeso spergiuro e assassino della repubblica, lo ha annegato nel sangue del Due Dicembre. E nessuno ha mai chiamato l'autore dei miserabili libellista. È storia dei brontoloni del giornalismo che non si debba fare del personalismo.

Intanto vorrei sapere se c'è un giornalista vivo o morto, che non abbia fatto del personalismo. Il personalismo è la nostra vita. È la vita nazionale. È più di noi. Se si è conquistato il diritto di parlare bene, diciamo del generale Foch, si sarà conquistato il diritto di parlar male del generale Baratieri e del generale Cadorna, mi pare. Senza questa libertà di penna non sapremmo più distinguere fra uomo pubblico e uomo privato. La Convenzione che fa strappare dal Pantheon Mirabeau per buttarlo nella fogna ha fatto del personalismo prima che lo credeva onesto e dopo che ha scoperto che il grande oratore non era che un ventraiuolo che si vendeva al migliore offerente. I Bizzoni, i Rochefort, i Zola sono i pionieri di questa sventratura individuale di escludere dalla società sociale l'immondizia umana. Senza di loro noi vivremmo sommersi nella melma. Basta di azione brigantesche impunite. A voi che rincorrete l'uomo avariato nel benessere delle sue truffe fatte al pubblico, la penna.

Da una coppia messa assieme da ragioni dinastiche, non poteva nascere una prole fiorente di salute e di bellezza. Margherita e Umberto non hanno dato che il principe di Napoli, un discendente della casa Savoia che manca fisicamente da tutte le parti, ma che è riuscito a conquistarsi più simpatie del padre e a prolificare quasi dei capolavori umani.

In monarchia c'è l'abitudine di passare in un secondo dal morto al vivo, dal dolore all'allegria. Il re è morto, viva il re! È un'abitudine di tutti i paesi. Non è ancora freddo il cadavere di un regnante che si acclama al successore. Umberto non ha avuto il tempo di piangere. Egli ha dovuto vincere il dolore per il dovere. All'indomani della morte di Vittorio, il manifesto «agli italiani», redatto dai ministri in suo nome, era su tutte le muraglie della penisola firmato «Umberto I per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d'Italia.» In esso il defunto era chiamato «il fondatore del Regno d'Italia e l'instauratore dell'Unità Nazionale. «Il bando reale, pieno zeppo di maiuscole, era firmato da Depretis, da Crispi, da Mancini, da Mezzacapo, da Brin, da Coppino. da Magliani e da Bargoni».

Intorno al re morto e al re vivo profusione di stampati. C'è stata una vera speculazione in prosa e in poesia. Si sono venduti milioni di opuscoli uno più melenso dell'altro. Nessuno degno di vita.

Tutta roba da macero. Vittorio Emanuele non era ancora avvolto nel manto di gran maestro della santissima Annunziata che le vie echeggiavano della sua immortalità, strillata dappertutto come un'esaltazione nazionale.

Umberto I salito al trono, fra il principe Amedeo a destra e il principe di Carignano a sinistra, ha letto la pergamena del giuramento.

«In presenza di Dio giuro di osservare lealmente lo Statuto, di non esercitare l'autorità reale che in virtù delle leggi e in conformità di esso, di far rendere ad ognuno, secondo le sue ragioni piena ed esatta giustizia, e di condurmi in ogni cosa con la sola mira (magnifico italiano) dell'interesse, della prosperità e dell'onore della Nazione.»

Il discorso ai signori senatori e ai signori deputati, è stato un'autoincensazione. Non si parlava che «del mio popolo» «della mia Casa» «della benedetta memoria del Re liberatore», della «Regina Margherita», la quale avrebbe educato «il nostro amatissimo figlio nei gloriosi esempi del suo grande avo». L'Italia che ha saputo comprendere Vittorio Emanuele, mi prova ciò (superbo) che il mio grande Genitore non ha mancato mai di insegnarmi, che la religiosa Osservanza delle libere istituzioni è la più sicura salvaguardia contro i maggiori pericoli. Umberto I che la tradizione storica avrebbe dovuto chiamare IV, aggiungeva che alla fine della carriera si sarebbe meritato questa lode: Egli fu degno di lui.

Umberto, re, non è mai stato felice nei suoi movimenti. In un paese antiaustriaco come il nostro, egli è andato a Vienna a indossare la montura di colonnello di un reggimento di Francesco Giuseppe, un imperatore che ha impiccato e galeottizzato tanti italiani e che è stato tanto tiranno per una sequela d'anni con tutti i popoli del suo impero. Così, non appena rimpatriato lo si chiamava sottovoce «il colonnello austriaco». L'irredentismo diveniva sempre più violento, appunto perchè si diceva che il re, nel colloquio con l'imperatore, avesse rinunciato a Trento e a Trieste. Dimostrazioni e banchetti irredenti, arresti e condanne di irredenti, cose che lo impopolarizzavano. Pareva che il re facesse a posta a circondarsi di avversioni popolari. Certo Pavia, uno dei suoi guardacaccia nella tenuta reale di Tombolo, aveva ammazzato un povero campagnolo e stramazzato un altro suo collega per punirli di un po' di legna raccolta per i loro freddi focolari. Il re poteva sedare il tumulto che correva per lo Stivale come un brivido di disgusto con una manata di biglietti da mille. I consiglieri gli hanno chiuso il cuore e lui ha preferito pubblicamente rimanere una sfinge. Non ha pronunciato una parola di rincrescimento. A Pisa, l'assassino alle dipendenze di Umberto I, è stato assolto, ma l'anima della democrazia pisana si è ammutinata. È corsa disperatamente per i Lungarni e non si è fermata che al Palazzo Reale, dove risiedeva l'amministrazione della Lista Civile. È stato uno strepito che ha echeggiato in tutte le 69 provincie. «Abbasso gli assassini! Abbasso il re! Abbasso il colonnello austriaco! Abbasso le guardie della casa reale! Abbasso Tommaso Villa (il difensore del guardacaccia divenuto poi presidente della Camera). Vogliamo giustizia!» L'effervescenza impetuosa delle folle è stata sedata con tante condanne dai giudici servili e abbominevoli.

Subito dopo è capitata al re un'altra disgrazia che lo ha reso più impopolare di quello che era. Vittorio Emanuele II, l'ultimo re personale che aveva voluto imitare il pazzesco Giorgio III del trono inglese senza riuscirvi, ha sollevato una tempesta piena di boati ringhiosi contro la monarchia, quando ha dichiarato l'impresa eroica di Mentana un atto di ribellione e un attentato contro la Patria. Cairoli che doveva diventare presidente dei ministri dei Savoia s'era strappati i capelli. Il figlio di Vittorio ha superato il padre. Con la triplice alleanza ha scatenato uragani di fischi in tutti i cieli delle cento città italiane. In verità nella costituzione il coronato non è o non dovrebbe essere che un uomo di paglia, come il gerente dei giornali. Ma Umberto I è stato un re direi quasi personale. Vi metteva il suo la. Aveva del padre senza la gloria del Genitore. Il personalismo umbertano fu sentitissimo. Un giorno ha tentato con una cabala di Corte di sostituire alla costituzione borghese una costituzione militare. Le ondate antimonarchiche si sono sfrenate e la sua dinastia è passata traverso l'eloquenza tribunizia che voleva sradicarla dalla vita italiana.

All'esordio del regno di Umberto, come ho detto, si dava una grande importanza all'uomo che non era padrone di prepararsi neanche un discorso senza la collaborazione dei ministri. Ma la simulazione dei Crispi e dei Nicotera faceva attribuire i misfatti politici al sovrano. I due rinnegati gli facevano fare da irritatore pubblico. Con Nicotera prima e con Crispi poi, la democrazia sovversiva che non aveva voluto adagiarsi nella democrazia monarchica rappresentata dall'opportunismo e dall'individualismo interessati, era continuamente alle prese con le autorità pubbliche. Arresti, condanne, domicili coatti e randellate e sciabolate poliziesche. I socialisti, come Andrea Costa venivano perseguitati dall'ammonizione o dal domicilio coatto o condannati come malfattori. I repubblicani, come Fratti e Albani, non potevano andare in piazza senza tirarsi dietro un esercito di guardie, di soldati, di carabinieri. I delegati scioglievano i comizii a squillate di tromba, a dagate, a revolverate. Un pazzoide qualunque, come Davide Lazzaretti, un profeta che si era annunziato muovo redentore, irritava i ministri fino all'omicidio.

Lo hanno ucciso come un brigante o un grand'uomo.

Il caso merita un po' di cronaca. Cairoli e Zanardelli erano divenuti due Coccapieller di monarchia. Non capivano più che l'ubbidienza e la cieca ammirazione. Ogni movimento spariva con le loro fucilate.

Davide Lazzaretti non era che un birocciaio conosciuto nei paesi del monte Amiata e in Maremma. Egli era più un allucinato che un riformatore di vita sociale. La forma religiosa attira, fa proseliti, chiama intono a sè gli imbecilli, i riottosi della miseria, coloro che non rinunciano alle promesse messianiche. Lazzaretti era un sognatore che aveva veduto e parlato con Cristo, ch'egli diceva di adorare come Dio e Redentore. Scriveva tutte queste sciempiaggini in opuscoli. «Il rescritto profetico», «il risveglio dei popoli, avvisi e predizioni di un incognito profeta». La sua esaltazione mistica gli aveva procurato molti seguaci. Cristo gli aveva ingiunto di fondare le «sette città eternali». Il papa stupido come tutti i Lazzaretti, gli fece l'onore di una scomunica. Così è diventato il Coccapieller di Cristo sulle alture del monte Labro. Un giorno, annunciati e strombazzati i suoi trionfi profetici, doveva discendere con le sue moltitudini, con i suoi legionari, con i dodici apostoli, con una selva di insegne solcate di motti religiosi e con la fissazione che il suo manto foderato di rosso fosse un presentimento che il suo sangue sarebbe stato sparso per confondersi con il sangue del ciborio.

L'allestimento scenico era teatrale. «I sette principi legionarii», scelti a comandare le milizie crocifere, con impresso al petto la sigla di David, dalle maniche lunghe e strette, gallonate d'oro ai polsi come al collo. Lazzaretti era nel mezzo, con la croce al centro frontale che gli aveva dato S. Pietro, perchè testimoniasse alle genti la sua missione. Egli era l'unto del signore condannato dalla chiesa papale che levava il popolo alla sua salvazione. I legionari erano pomposamente coperti dal manto turchino e gli apostoli dal manto rosso.

Discendevano fra canti e preghiere. Sulla bandiera massima si leggeva: «La repubblica è il regno di Dio». Lo credete?

La risposta fu una vociferazione di sì.

Vicino alla Ajole, presso Arcidosso, vennero incontrati dal sindaco, da un delegato e da non pochi carabinieri con la baionetta ai fucili, con l'ingiunzione di disperdersi.

Il profeta non era in grado di fare che della resistenza religiosa. Con canti e preghiere si fece innanzi con la fede nel diritto e in «Cristo giudice », additando al delegato la bandiera sulla quale era il redentore. «Se volete la pace, diceva il Lazzaretti, vi porto la pace, se volete misericordia, avrete misericordia, se volete il sangue mio eccovelo, disse il Lazzaretti allargando le braccia.

Il delegato volle il sangue.

— Fuoco!

Il profeta ha potuto per un attinto agitare il bastone poi stramazzò. I proiettili continuarono. Molti caddero. La strage ebbe termine con la fuga dei seguaci. Gli uccisori si avviarono sul cammino fatto. Davide Lazzaretti venne portato al monte su una scala, dove giunse spirando col petto insanguinato.

Nei banchetti repubblicani i nomi di Cairoli e di Zanardelli indemoniavano e venivano sbattuti via come «governanti assassini».

E mentre Depretis barzellettando diceva a tutti che la dinastia dei Savoia era la più antica e liberale dell'Europa, in ogni centro italiano si tumultuava e si gridava abbasso il re!

Il re poi senza tatto, megalomane di professione, come il suo grande ministro, passava da una gaffe all'altra. Non appena sul trono gli è toccato, lui grande fumatore di virginia, di firmare l'aumento sui sigari e sui tabacchi. Nel piccolo episodio è la storia dei ministri dei Savoia. Ci tasserebbero i rantoli. Ci tasserebbero la respirazione. Gli italiani sono i più tassati di tutti gli stati. Umberto amava Sella – il famoso ministro del contatore sul macinato. L'uomo che aveva fatto premere dal frantoio governativo i villani che mangiavano pane di miglio. Tutti i braccianti finivano nei pellagrosari. Il re aveva indubbiamente consiglieri nemici della sua fama. Con un popolo poco religioso o indifferente di ogni religione, ha iniziato le sue oblazioni con cinquantamila lire al cardinale vicario di Roma per i poveri. Non si poteva essere più infelici. Egli aveva ribadito il sottovoce della bigotteria domestica.

Non poteva darle al sindaco da distribuire? No! Bisognava proprio che irritasse il pubblico che accusava i Savoia di clericalismo!

Pieno dell'orgoglio del suo avo «magnanimo e sventurato», esaltava se stesso e la sua casa con le parole che parevano di un Coccapieller del trono. Parlava di lei e di lui con le grandi maiuscole delle venerazioni e si serviva dei più fervidi arcaismi monarchici per incensare l'una e l'altro. La sua casa inchiudeva la magnanimità, la grandezza, l'eroismo, il sacrificio, la gloria. I sudditi erano niente. Zavorra per le tasse. Se il sovrano fosse stato un iettatore che facesse correre le dita al corno dello scongiuro, non poteva far peggio. La iettatura lo perseguitava. Il suo primo discorso ai rappresentanti della nazione è stato registrato da tutta la stampa per un centone messo assieme da cervelli l'uno più sgangherato dell'altro. Vuoto, retorico declamatorio, manchevole di logica e di forma.

Dalla sua ascensione tutto gli andava male. Piogge torrenziali che facevano straripare i fiumi come in Piemonte e sul veronese, terremoti sciagurati come quelli di Casamicciola, omicidi di caserma come quello del Misdea, assassinii politici come quello del Lazzaretti. Con lui, re, il clericalismo ch'egli proteggieva di sottomano con l'aiuto della sua signora bigotta, era divenuto spavaldo, autoritario, minaccioso. Leone XIII continuava con gli istinti perversi del mestiere del predecessore. Peggio! Perchè Pio IX turbinoso, tempestoso aveva se non altro l'onore del potere. È morto inflessibile. Agli spogliatori del papato ha dato il suo sdegno. Leone XIII, alla seconda enciclica, era genuflesso al lenocinio. Poteva chiamare il figlio del detronizzatore «la veneranda maestà del Re». Il prete omicidiario per odio alla torbida «plebe», si era bruttato di sangue umano come delegato papale. A Benevento a Spoleto e a Perugia il nome di Pecci terrorizzava. Egli non ha saputo sbrigliare i suoi odi di classe che contro le moltitudini socialiste, nichiliste, avversiste – cioè contro coloro che volevano «dissacrare» il matrimonio, abolire la proprietà e portare la pace sociale fra gli uomini. Questo trucidatore di poveraglia ha lasciato dovunque, fra preti e laici, ricordi di iena. Veduto alto, scarno con gli occhi del gesuita protetti dagli occhiali, nel paludamento papale, faceva venir freddo anche se aveva in mano l'aspersorio per benedire. Gioacchino Pecci, nato nel 1810 da gente pitocca è riuscito il rovescio, a non amare che i ricchi e le ricchezze che gli ha dato il clero, la cui maggioranza è rimasta nella penuria piangevole in tutto il suo regno crudele. Esercitava sugli scagnozzi un'influenza terroristica. Pronto a prostrarsi a tutte le autorità regie aizzava i preti contro gli «usurpatori» e contro i clericalofobi che volevano come il Nicotera rovesciare il papato nel Tevere. Viscido, incostante. Nè eletti nè elettori, ma lasciava che i clericaloidi lavorassero con la chiesa per l'elezione dei Meda che avrebbero poi indossato l'uniforme di Corte. Non aveva concetti moderni. Non fiutava la bufera anticlericale. Per farsi sentire potente mandava in pubblico le funzioni ora per commemorare le vergini nate senza macchia originale, ora per cantare le Laudi alle Marie concepite anch'esse per essere dello spirito santo. Funzioni indecenti che attiravano in Roma molte generazioni di idioti a portare oboli per la sconcia persona del papa e a diffondere una sporcizia antigenica. Altre funzioni che turbavano e dovrebbero turbare la quiete pubblica erano i viatici che provocavano le sassate di coloro che non potevano tollerarli. Dato che lo Stato permetta simili buffonate, il prete vada dai moribondi con il santissimo sacramento in saccoccia e con esso il piviale sgargiante e accompagnato dal campanello che avverte la gente che passa per le strade il sedicente corpo del Signore. Cose da negri, da ottentotti, da gente ancora dedita all'antropofagia. Con Leone XIII fu come con Pio IX. Fra bigotti e cittadini non c'erano che pugni, sassate, bastonate, collutazioni, arresti. Si sono dovuti sopprimere e chiudere i perturbatori in sottana, negli ambienti chiesaiuoli per dare tregua agli uni e agli altri.

I preti con Leone XIII erano più furiosi che con il Marat della tiara non appena adagiato nella cripta ad aspettare la mummificazione per il funerale. Con la loro iattanza invelenivano l'opinione pubblica. Gli «atei» che si erano costituiti in una formidabile associazione comiziavano e riversavano sui neri tutto il volterrismo violento che suggeriva la mostruosa chiesa che i sovversivi volevano abbattere o bruciare viva come ai tempi di Nerone. I più audaci comizianti incitavano il pubblico a passare sul papato coi piedi e calpestarlo. Nessuno voleva più le guarentigie. Le vie risuonavano degli abbasso! Abbasso le guarentigie! Francesco Crispi che aveva protetto indirettamente la gentaglia del Vaticano, venne smascherato. Dietro la sua larva era il farabutto, il delittuoso poliziotto, lo speculatore volgare di donne. Il Bel-Ami che si lasciava mettere il denaro in tasca dalle femmine, il turpe organizzatore di commedie matrimoniali, cadde. L'opinione pubblica gli inflisse l'ostracismo. Lo mise al bando con una carrata di roba fecciosa. Con la guerra alla religione si era ravvivata l'agitazione per la liberazione delle provincie irredenti, di Trento e di Trieste.

L'agitatore massimo era Matteo Imbriani. I republicani d'allora erano molti. Tenevano banchetti e Congressi che duravano due o tre giorni, sotto il naso della monarchia in piena capitale. Piantavano sui palcoscenici e sulle piazze vessilli rossi. I pesci grossi, fra i quali, Carducci, anzi fra i più collerici antimonarchici, si radunavano in via Due Macelli, dove il vocione di Bovio faceva tremare il soffitto, a tramare contro la monarchia di Umberto I. A quel tempo, in mezzo a loro, la rivoluzione non era un vocabolo elastico venuto dalla Francia. Pareva un ideale di bronzo. La fiacca e la gentilomeria di Alberto Mario non aveva ancora prostrate le anime. Il dirrettore della Lega non voleva riti fra monarchi e repubblica. L'una deve aspettare la maturazione dell'altra e a processo compiuto dovevano separarsi con una stretta di mano. L'inglesofilo voleva magnanimità e dignità dall'una e dall'altra. I volta faccia sono sempre i più vili. Una volta cambiata casacca non sanno più occuparsi che degli associati di ieri. Al potere non vedono che loro. Li circondano di poliziotti. Li fanno pedinare, tenere d'occhio. La persecuzione nei bifronti diventa una malattia. Diventano cupi per un grido. Perdono la testa. Vivono di spaventi, A ogni moto di rossi fanno ammanettare, condannare, confinare, chiudere nelle zone dei delinquenti. Giovanni Nicotera, il cosidetto eroe di Sapri, divenuto più monarchico del re, dal giorno che la regina lo aveva invitato a danzare con lei, fu più cortigiano del Crispi. Egli ha osato interrogare con la parola torva il governo del Cairoli per sapere se le deliberazioni e i discorsi repubblicani del comizio di porta S. Pancrazio fossero in armonia con le leggi dei Savoia. Fuori della Camera la gente si teneva il ventre. Rabagas che aveva preso sul serio il suo compito di vandeano! Fu un subisso di improperii. Il cielo dell'Italia rossa si era oscurato. Non si avevano più che patate e uova fracide per il sedicente eroe del Borbone. A ogni comizio lo si sconciava con i voltacasacca e gli si rompeva la faccia. La dinastia era discussa. I suoi ministri avevano avuto tutti un passato vermiglio. Erano i maudits del passato. Le loro idee si trovavano in conflitto con le idee del posto monarchico che occupavano. Con questo di peggio, che il Paese con loro fu disilluso. Invece degli amici che aveva applaudito tante volte come tanti Danton si è trovato di fronte a un mucchio di versipelli e di giullari di Corte, paurosi di loro stessi, venali più di prima. Erano patriotti repubblicani che avevano mandato come Cesare Correnti i conti da pagare alla monarchia.

Il re intanto si impauriva e sognava come il Zanardelli, altro scellerato puzzolente come una carogna, l'ora di stringere i freni. Dovunque la voce della democrazia ingrossava ed esigeva. Le associazioni repubblicane aumentavano. I circoli Barsanti si moltiplicavano.

L'Internazionale ruggiva. Iesi, il centro del rivoluzionarismo, si dichiarava pubblicamente devoto a quell'ideale al quale il Barsanti aveva offerta impavido la vita. Pronto ad affrontare con le armi quella realtà che esso intendeva e sperava. Pronto a manifestare a viso aperto la venerazione profonda per tutti i martiri dell'idea repubblicana.

Una fortuna monarchica come il voltafaccia del Carducci che aveva indossato il frak per i reali e cantato per la regina non capita nè tutti i giorni nè tutti gli anni. L'inversione del grande poeta ancora nelle liste repubblicane con i Giovanni Bovio, con gli Agostino Bertani, con i Federico Campanella, con gli Aurelio Saffi, con gli Alberto Mario, tutta gente che poi ha seguito il Carducci – aveva sollevato collere, compiacimenti, grida, colluttazioni fra un cervello e l'altro.

Gli studenti repubblicani lo circondavano e lo seguivano con gli abbasso il poeta! abbasso anche quando il professore andava in cattedra. Era un casaldiavolo.

— È inutile che gridiate abbasso! rispondeva Carducci; la natura mi ha messo in alto.

— Ma non al disopra del disgusto!

L'avvenimento passato nei giornali ha aggiunto combustibile all'incendio. Polemiche, esaltazioni monarchiche, demolizioni repubblicane, plebiscito carducciano di tutta la gente per bene. Coloro che credevano che un professore repubblicano di una cattedra monarchica fosse un'anomalia, uno scandalo, una indecenza applaudivano il passaggio del ponte di Carducci a quattro mani. Egli era finalmente nella coerenza.

Onde venisti? quali a noi secoli
sì mite e bella ti tramandarono?

Il viaggio delle maestà continuava. Non si può dire trionfante. Fuori di Bologna non c'è stato che l'applauso fragoroso della borghesia. Gli estremisti non si fecero vedere che qua e là, in lontananza, come osservatori.

L'incidente di Napoli è stata una sorpresa. Nessuno aveva pensato al regicidio. Era il solito Ravaillac, delle solite feste monarchiche, il solito sconosciuto che viene come su dagli abissi umani a ricordare ai festaiuoli che c'è gente che soffre e patisce.

L'avvenimento che ha funestato il viaggio reale fu del 17 novembre 1878. I reali erano scesi alla stazione addobbata con magnificenze regali, acclamati dalla folla che aveva potuto penetrarvi. Una volta in carrozza il corteggio si era messo in moto ed era giunto in via Carbonara. Un individuo si precipitò sulla carrozza reale tentando di colpire il re con un'arma foggiata a pugnale. Il sovrano si sottrasse al tentativo del regicida con una sciabolata alla testa del giustiziere popolare. La regina simultaneamente gridava:

— Cairoli, salvi il re!

Il presidente del consiglio lo aveva acciuffato per i capelli e consegnato al capitano dei corazzieri accorso allo sportello.

Non ci furono che delle scalfitture, ma l'uragano dei consorti della politica e del giornalismo non fece meno fracasso. Corsero al solito sistema del disseppellimento. I rigurgiti di penna e di piattaforma furono raccolti come documenti. Ce ne furono per tutti. Tutti erano colpevoli. Tutti avevano lavorato di istigazione. Il re era la corsa, Tutti gli antimonarchici avevano gareggiato per raggiungere il sovrano.

Il regicida è stato messo in circolazione telegrafica. Giovanni Passannante, di professione cuoco, d'anni 29, nativo di Salvia – provincia di Potenza. Sull'impugnatura del coltellaccio erano queste parole:

«Viva la repubblica internazionale!».

Non erano ancora sedate le dimostrazioni di reverenza e di simpatia per i sovrani e i pergami manifestavano ancora l'esecrazione clericale per il Passannante e l'esaltazione per Umberto e Margherita che il re e la regina sono stati atterriti da una bomba all'Orsini, gettata da una mano ignota all'incrociamento di via Guelfo, in Firenze, nella calca della processione. Il telegrafo ha dichiarato che il «delitto atrocissimo era opera della setta dell'Internazionale».

Due giorni dopo i reali erano stati festeggiati dai pisani. Il corteggio era avviato alla prefettura. Si acclamava al re, alla regina e al principe di Napoli. Giunto in piazza dei Cavalieri il prefetto si presenta al balcone a ringraziare per i sovrani.

Altra detonazione. Altra bomba all'Orsini. Il bombardiere venne agguantato da uno studente e consegnato alla polizia. Prima di sera la «setta» andò al caffè dell'Ussero, frequentato dagli studenti. Nacquero zuffe fra realisti e internazionalisti. Cinque dei zuffanti feriti e altri minacciati. Il pubblico è un grande ironista. Cairoli, salvi il re! fu un imperativo naturale che nasce in simili frangenti. La gente ha tramutata la frase in un rimprovero. È divenuta una disapprovazione contro il presidente del Consiglio. L'opinione pubblica interpretava l'incitamento regale come un Cairoli, salvi il re, lasciando il ministero!

Egli era biasimato dai rossi perchè si serviva della polizia e dai consorti, perchè non trattava i rossi come nemici dello Stato. Il sottovoce lo accusava di non essere al suo posto. Poi si aggiungeva che dove era lui accorrevano le sette di tutti i sottosuoli.

I repubblicani erano divenuti audaci. La polizia con lui al potere era impotente. Non agiva. Non massacrava. Ai nemici della monarchia era stata data una libertà intollerabile. Si diceva che i cittadini Carlo Santini, Bartolomeo Filipperi, Tancredi Liverani, Federico Zuccari e Antonio Fratti avessero potuto inviare una settimana prima dell'avvenimento di Napoli, ai sodalizii repubblicani, l'incitamento a una «azione» più viva e definitiva e che Garibaldi avesse propalato per i giornali il 12 novembre che l'avvenire del mondo sarebbe stato repubblicano. Sfiducia in Cairoli. Caduta del ministero Cairoli! La Ragione, repubblicana, di Cavallotti, occupandosi dell'avvenimento ministeriale, diceva che «monarchia e libertà erano incompatibili fra loro».

La Capitale, diretta dal reppublicano Dobelli, aggiungeva parole più gravi. Essa stampava che gli autori dei dodici miliardi di debiti, dei massacri di Teano, della Convenzione di settembre che vietava all'Italia di andare a Roma, delle manette di villa Ruffi (fra gli arrestati di villa Ruffi era un futuro presidente del Consiglio ministeriale) non devono avere il diritto d'interpellare gli uomini onesti che sono al ministero e che spero sapranno riparare alle sventure cagionate dai suddetti.

Fra i difensori del trono non c'erano figure rispettabili. Il Bonghi si era dato alla gioia dei banchetti monarchici e alla crapula giornalistica. Gli altri valevano poco. Si sarebbe detto che la monarchia fosse nel periodo della discesa morale e intellettuale. Si moltiplicavano i pazzotici. Era uscito dalla oscurità uno scozzone. Il Coccapieller pieno di vanteria e di presunzione. Era un mattoide. Con uno stile mattesco elogiava se stesso e la casa regnante. Aveva iniziato la sua carriera giornalistica con il Carro di Checco, l'aveva continuato con l'Ezio I. e finita con l'Ezio II., pubblicazioni clamorose che avevano raggiunte tirature fortunate. Direttore smargiassone che voleva che la gente giurasse di idolatrare la monarchia. Con un passo di dragone papalino andava in giro con i capelli oleosi ammucchiati sul bavero, con i baffoni arricciati e impomatati, con gli stivaloni speronati e lo scudiscio in mano del domatore di serraglio, del direttore di scuderie di qualche principe dello sport. Oratore di spropositi enfatici pareva un uomo che avesse molti plichi da aprire per stordire il pubblico.

Sedicente adoratore di Casa Savoia, incensava il re e la regina in ogni periodo col torpiloquio del lenone. Il «tribuno» come lo si chiamava, era un mangia massoni. Lo si supponeva un idiota con al dorso chi gli correggeva la prosa asmatica. Era vero. Dietro lui era la nota spia Davide Besana. Parecchi altri filibustieri prezzolati dalle liste politiche facevano il resto. La sua oratoria era un'accozzaglia di parole. Il giorno in cui i framassoni si accorsero delle sue commedie terroristiche – specialmente degli strafalcioni che diceva alla Camera – fecero salire le sue azioni. Gli avevano fatto assumere un atteggiamento di guardia nazionale ingiuriosa. Francesco Coccapieller che non aveva saluti e battimani banali che per i Savoia entrò nella Camera come rappresentante di Roma. La sua elezione fece scolorire molta gente. Il collegio che lo aveva eletto e rieletto era quello che aveva mandato ala Camera Giuseppe Garibaldi. Pareva anche a coloro che lo applaudivano per vendetta che non si potesse discendere più in basso. L'ammutinatore reale si pavoneggiava. Non lo si incontrava che per acclamarlo. La sera in cui il re, la regina, e il principe di Napoli si erano presentati al balcone per curvarsi ai dimostranti, la dimostrazione dal Quirinale si avviò all'abitazione del grande scozzone con la grida di Viva Coccapieller! viva la libertà!». Il deputato di Roma era divenuto sinonimo di libertà! Giunti agli uffici dell'Ezio II ci fu più baldoria che davanti al Quirinale. È qui Checco, gridavano gli scalmanati, evviva Checco! parli Checco! Si spalancò una finestra del primo piano e Checco protese la testa e si fece vedere con i saluti, con i ringraziamenti, con le mani che agitavano l'aria, dicendo ch'egli vegliava su quella Roma seminata di cadaveri schiacciati dal suo Carro. I traditori avevano i giorni contati. Li pregò di sciogliersi e di rispettare la legge come la rispettava il loro deputato Checco. Poi, dopo un po' di pausa, riprese a dire che i nemici di Roma erano i suoi nemici alla Camera, ma che lui avrebbe smascherati tutti i farabutti e tutti i ladri, perchè io andrò alla Camera dove difenderò il Re, il quale coll'essere mio assicurerà la felicità all'Italia dai birri di Napoleone III. Il vostro Checco non si compra, perchè non si vende. Vi saluto. Gridiamo «Viva Roma! Viva il Re!».

La legislatura che accolse questo ciarlatano della politica italiana fu la XV. Il re, inaugurandola, circondato da tutti i principi della Casa Savoia, terminò il discorso scialbo con questo annuncio ai rappresentanti della nazione: «Il matrimonio del mio amatissimo cugino il duca di Genova con una principessa che appartiene ad una delle più antiche e più illustri dinastie della Germania, sarà nuovo pegno di amicizia fra i due paesi».

Non si capisce perchè le Camere dei rappresentanti continuino l'andazzo di occuparsi degli affari domestici dei sovrani. È affar loro. A noi fanno nè caldo nè freddo i loro matrimoni, come non fanno nè caldo nè freddo le loro mésalliances.

Poca cosa per un pennaiuolo che voleva essere un demolitore della democrazia antimonarchica, ma abbastanza per essere qualificato dalla legge diffamatore degno di tre anni e mezzo di carcere, con l'aggiunta di una multa di 1400 lire.

E siccome gli attaccati dall'Ezio II inchiudevano sovente dei furbi e degli affaristi dei partiti, il pubblico diventava completamente suo. La sua prosa diffamatoria passava per vangelo. I suoi delirii megalomaniaci delle cose sensate. Ma il pazzotico rimane sempre tale. Il giorno dopo usciva a documentare se stesso. Cito la petizione ch'egli ha abborracciata in una giornata negra perchè essa rivela la sua boria monarchica, la sua deficenza o il suo squilibrio mentale.

Sacra Reale Maestà.

«Roma gloriosa da secoli, padrona del mondo, ha voluto tramontare l'antico splendore.

«Risorta nel 1870 per essere del vostro immortale Suocero che ha succhiato la libertà dai membri della Dinastia, ma vive da dodici anni una vita di sussulto... Non è questo che occorre alla città eterna la quale deve essere la più gloriosa delle metropoli capitali e invece è affetta da lenta consunzione: per farla risorgere nuovamente alla sua grandezza occorrono miracoli. Siete Voi il nodo Gordiano fra il vecchio e il nuovo. Il culto della patria vuole l'esposizione mondiale, ma occorrono anche altri grandi lavori. Lanciate dunque all'Italia l'appello per una sottoscrizione nazionale coadiuvata dal Vostro glorioso marito e l'Italia risponderà unanime al vostro appello dando mano così a fare di Roma la più grande capitale fra le metropoli.

Per il popolo di Roma il suo rappresentante

Francesco Coccapieller».

Imbecille! è caduto da stupido. Venne condannato per rivolta ad un pretore ad altri sei mesi. Dal carcere non uscì che rieletto e graziato, perchè a Coccapieller non bastava l'amnistia proposta dai ministri, voleva anche la grazia sovrana! Egli scomparì dalla perturbazione pubblica per sempre perseguitano dall'opuscolo di Lombroso, i due tribuni. Ho dato importanza a Coccapieller, perchè riassumeva i tempi tirannici della politica del Depretis, barzellettista, che ha potuto essere presidente del consiglio dei ministri, di Francesco Crispi, che ha potuto essere ministro dell'interno, di Zanardelli, uomo di bassa levatura, che ha potuto passare da un gabinetto ministeriale all'altro, esaltato come personaggio «intemerato». Più tardi, pur lasciandosi regalare la villa di Maderno ammobigliata con tanta eleganza, dove è poi morto come un santone della democrazia! Coccapieller con un cervello arretratista e bisognista d'intelligenza ha potuto farsi credere, aiutante di campo di Garibaldi, amico di Vittorio Emanuele II e pubblicista influente di Casa Savoia! Idolo dei fognisti, ritorna alla fogna!

Un altro indizio di decadenza fu la sbarbareide. Pietro Sbarbaro, insegnante di diritto nell'Università di Parma, si è messo a leticare con il ministro dell'industria pubblica, Guido Baccelli, eminente medico di celebrità mondiale. La bega se la studentesca dovesse fare gli esami alla fine di ogni anno o dopo due anni non ci interessa. L'importante per noi è l'immondizia sociale che lo Sbarbaro continuava a rovesciare in pubblico sulle Forche Caudine e nei libri che gli pubblicava la Casa Sommaruga, avida di pubblicazioni clamorose. L'inizio plateale è stata una sputacchiata di Sbarbaro in faccia al ministro che lo aveva sospeso dalla cattedra per le sue rodomontate a favore della studentesca. Possessore di un materiale linguistico esuberante per tutte le polemiche, teneva testa a tutti gli attacchi attaccando lui stesso a fondo e senza risparmiare le adultere dei suoi nemici ministeriali. Così è capitato al professore di essere preso a pugni dal figlio di Baccelli, quando costui non era che poeta. La polemica era straripata. Ricca di aggettivi insultativi i contendenti si scarnificavano e si insudiciavano.

Le Forche Caudine divenivano sempre più aspre, sempre più veementi. Con l'aria di scarnificare Tizio assestava colpi furiosi a Caio. L'atmosfera era propizia. La gente viveva in un vivaio di sospetti. Certi numeri venivano comperati dagli speculatori che li vendevano a venti lire la copia. Erano aspettate all'uscita della stamperia come pubblicazione sensazionale. Pareva un selciato di Borsa. Si scommetteva sulla veemenza e sugli individui appesi alla corda sbarbaresca. Giungeva e sollevava pandemoni. Tutti volevano essere i primi a impadronirsi delle vittime della giornata infuriata dalla fraseologia virulenta e squoiatrice del professore che aveva molta felicità nella scelta della prosa abbietta.

Le Forche rivelavano, snudavano, fustigavano, agganciavano al gancio della storia del loro tempo. La sbarbareide inferociva sovente in un modo convulsionario. Il grande professore sapeva di tutto e di tutti. Pareva avesse vissuto nelle pieghe delle persone, in mezzo ai movimenti e nelle intimità dei libri. Conosceva gli orrori sociali come un Marat dei nostri giorni. Sventrava. Domandava teste. Circolava nelle rivoluzioni. Ne conosceva gli eroi come se fosse stato di casa loro. Memoria di Pico della Mirandola. Al lavoro di chirurgia sociale incideva senza pietà. Non aveva bisogno che gli strumenti del mestiere per sedere a tavolino. La sua penna-bisturi l'affondava nelle carni e toglieva i pezzi malati per metterli al sole davanti al gran pubblico. Stile senza lenocini. Periodi prolissi e periodi brevi e asciutti. Ora pareva un puritano che avesse paura di offendere l'orecchio della vergine e ora pareva uno scribivendolaccio da suburra che non sapesse scrivere che con vocaboli postribolari e maialeschi. Le sue figure anche quando diceva «non toccate la regina!», o la «mia regina!» uscivano dalle sorciaie, dagli ergastoli, dalle case tollerate. Nei suoi giorni c'era la maggioranza dei lettori che non tollerava il personalismo. Date addosso al vizio e non al vizioso! Dicevano i colli torti che avrebbero istituito una polizia contro i pornografi. Ipocrisia enorme, inconciliabile nei giorni in cui tutti peccavano.

Crispi era bigamo. Le alte signore avevano la moralità delle Lucrezie Borgie. Donne adultere perfino nei sogni. Il nepotismo era fondato dalle donne che non avevano più ritegni per contentare i ministri troppo compiacenti. Tutto era violabile. Il professore si reggeva sulle punte degli stivali e diceva al mondo che lo ascoltava che di puri non c'erano più che la regina e il re. Il figlio del ministro Baccelli della fazione liberticida non appena vide Sbarbaro per le strade, scese dalla carrozza e lo prese a pugni e a schiaffi.

«Questo è per mia madre, questo è per mio padre e questo è per me».

Sbarbaro collarone, moderato di sei cotte, dispotico più di Guizot che trascinava le monarchie alla fuga, non aveva idolatria che per i sovrani. Due libri dedicò loro magnificandoli, esaltandoli, presentandoli come emblemi di tutta la moralità e di tutte le virtuosità nazionali. Gli altri, i repubblicani, i framassoni, i sovversivi, i rivoluzionari erano porci innominabili. Scaricava su loro caterve di plebeismi e gerlate di vocaboli scurrili. I suoi libri di polemica erano dizionari di porcaggini. Il professore usciva da loro come un pioniere dai costumi sociali purificati dal suo scudiscio. Come Coccapieller, non si proponeva che di dare scopate «sulla faccia di quanti biechi venturieri, di quanti mascalzoni si attentavano di penetrare nella Reggia per disonorarla, per renderla ridicola e disprezzabile agli occhi dei più».

Egli voleva il popolo devoto alle autorità, le donne alla castità e alla virtù di famiglia e gli uomini ai costumi sani. Non badava a nomi. La sua penna era libera. A chi toccava toccava. Biasimava anche la maestà della regina se lo meritava. Così una volta non l'ha risparmiata quando è andata alla rappresentazione della Messalina del Cossa. Troiaggine piena di suburra. Il peccato veniale non diminuiva la devozione del professore. Al contrario. La fu sovrana, per lui, rimaneva «la perla». Come i cavalieri del Medio Evo scendevano in lizza portando i colori e le imprese della donna adorata sullo scudo, scendo, diceva, anch'io, per la quarta volta nello steccato nel nome della regina Margherita a spezzare la lancia contro il sistema, la vaccaggine, l'incarnazione del vizio.

La monarchia vi pone al vertice della sociale piramide una Famiglia, che è lo specchio lucente e la più alta espressione della vita nazionale. «O Margherita o morte», esclamava il professore che voleva che il re iniziasse la dittatura morale. O Margherita o la metropoli della fede. Se nella lista dei senatori Sbarbaro trovava un conoscente sturava una bottiglia di inchiostro e dava lode al Re di averlo inalzato alla dignità senatoria il marchese, ecc. Il professore aveva di questi ticchi.

In tanti guazzi di porcaggini, in mezzo a una montagna di melma sbarbaresca la regina rimaneva donna coltissima, virtuosa, caritatevole, regina dei miseri e degli afflitti, il cui ritratto avrebbe dovuto splendere in ogni famiglia. «Fate che penetri in ogni casa l'effige della sua anima pura. Sempre avanti Savoia! tu hai per simbolo la più immacolata donna d'Italia».

Come quello di Coccapieller il pensiero di questo fanfarone della monarchia va e viene da un polo all'altro. Chi nasceva al suo tempo, diceva, era repubblicano per disgusto alla universale società. Più tardi assicurava i lettori che la repubblica sarebbe stata inevitabile, se si fosse annoiata. Non mai per un mutamento, per un ideate. Lo Stato che avesse favorito il professore sarebbe stato composto dei più illuminati statisti. Quello che conteneva i Baccelli era uno Stato bagasciere, podagroso, vivente sotto una vecchiaia deforme di una corruttela spudorata, dell'incesto al sommo della porta, dell'adulterio ministeriale, della prostituzione amministrativa. Pitocco, costretto a mandare la moglie a battere le dure illustri porte, non sapeva ringraziare la reggia che con fiotti di volgarità cortigiane, elevando i sovrani alle più eccelse cime dell'ingegno, delle grazie, della morale, della bellezza, della fortezza. Per loro non cercava che denari. «Accrescete, scriveva, la dote della Regina, allargate la dotazione della corona e darete la felicità agli italiani». E gli italiani soffrivano della tasse, e si lamentavano dei quattordici e più milioni che costava il monarca, senza pensare agli appannaggi che venivano distribuiti alla tribù regia e senza pensare ai venti castelli, ai grandi palazzi, alle immense tenute che la monarchia occupava senza pagare ne affitti, nè tasse di manutenzione.

Pietro Sbarbaro fu un buffone che ha divertito i lettori con lazzi volgari, da ciarlatano, da pagliaccio, con il cappello a sonagli. A questo professore prosaico e stupido, saluto Thackeray che mi ha dato i Giorgi d'Inghilterra nei loro costumi, nella loro morale, nelle loro buaggini. Thackeray è stato sincero. Di domestici al tavolino del giornalista sono stufo. Pitoccone, tu hai mangiato troppo alla greppia dei cortigiani! Al letame!

Il secondo attentato contro Umberto è stato quello di Pietro Acciarito, del 22 aprile 1897. Secondo lui non c'erano complici. Egli aveva voluto colpire il re per la «ribellione che aveva provata davanti alle atrocità dell'umana miseria». Ma la regina che ha sempre creduto e crede ancora ad un complotto, ha fatto delinquere giudici e alti funzionari della direzione delle carceri per indurre il condannato a vita a fare confessioni. La storia delle ferocissime raffinatezze di Angelelli, strumento e intermediario del Canavelli e del Doria, è arcinota. La lettera passionale di Pasqua Venaruba, amante di Acciarito, nella quale gli annunciava che era padre, era stata scritta dal comm. Doria. firmata per la Venaruba, dal comm. Canavelli e indirizzata al cav. Angelelli, direttore del penitenziario di Santo Stefano. La grazia promessa era divenuta, per Acciarito, un'ossessione. L'aspettava di ora in ora. Ossessionato fece alcuni nomi che diedero luogo ad un altro processo. I pretesi complici hanno potuto dimostrare la loro innocenza. La regina che aveva istigato a delinquere avrebbe dovuto essere processata coi suoi complici. Ma anche i suoi complici se la sono cavata con un po' di scalpore. Giolitti ha conservato al suo posto il Doria, dichiarandolo un perfetto ed abilissimo funzionario. Tutti i re e tutte le regine che hanno subito le ventate di collera dei fanatici del fatto non sono sempre stati implacabili coi loro esecutori altruistici. Qualche volta è stato pietoso perfino quell'impiccatore eterno di gente politica che fu Francesco Giuseppe.

Umberto I, che aveva la prerogativa della grazia, non ha mai provate le consolazioni del perdono. Il cuoco di Salvia che non rappresentava che la propria imbecillagine, non è stato graziato neppure negli anni in cui non era più che un galeotto infracidito. La pietà è stata per la madre del regicida. Le ha assegnata sulla propria cassetta una pensione, vita naturale durante di Lire venticinque al mese.

Il 1900 resterà nella storia. Più si predica che i re devono essere simboli e non idee, cerimonieri e non principii, figuranti dinastici e non teste direttive, e più la gente si ostina a ingrossarli, a incarnare in loro tutto quello che si svolge nel regno, a metterli negli avvenimenti come autori del bene e del male per dar loro modo di governare e regnare davvero. La gente idiota non si è accorta di tutti gli straripamenti democratici internazionali che hanno travolta e portata al diavolo tutta la possanza regia degli antichi sovrani esteri. È gente rimasta alla concezione politica che i popoli devono rimanere in ginocchio e i re in piedi come loro tiranni.

No! i popoli dovrebbero essere loro in piedi e i re sudditi delle volontà nazionali riassunte in un consiglio di ministri responsabili davanti le Camere. S'intende per popoli che vivano di monarchie. Il privilegio regale per i moderni è una finzione che costa e costerà milioni fino a quando gli elettori non cambieranno opinione. Ci sono momenti in cui i re si ritirano dietro i ministri. Ed è nelle ore dei disastri. Allora si salvano facendosi credere irresponsabili e vittime dell'altrui dabbenaggine. Se Umberto I fosse stato ritenuto responsabile della storia del suo tempo, nessuno che non fosse degenerato o incretinito lo avrebbe tollerato sul trono il giorno del disastro africano e il giorno in cui ha firmato in fretta e in furia il trattato di pace con un re abissino che aveva inflitto all'esercito italiano la disfatta più vergognosa fra le disfatte. I risultati di questo atroce disastro italiano inflitto agli italiani era dovuto al sistema degli arrivati al grande albero monarchico. Francesco Crispi con il suo autoritarismo era riuscito a crearsi gli uomini. È bastato un libro stampato, pieno di anticaglie e di meneghinismo, per fare di Carlo Dossi un segretario privato al ministero e un purista di lingua ministeriale. Così è avvenuto di Oreste Baratieri. Da un patriota vestito da militare, ha tirato fuori un generale, un organizzatore di eserciti, un direttore di battaglie. Lui credeva, nelle sue infatuazioni, che i Napoleoni o i soldati con il bastone di maresciallo nello zaino fossero di tutti i selciati. Baratieri era subdolo, permaloso, sospettoso. Forse credeva ai sortilegi. Prima di rispondere a un telegramma ministeriale doveva consultare le carte o la sonnambula africana. Il ministero per le risposte doveva spronarlo. Con la sua insincerità aveva spinto Menelik a prepararsi la guerra. Crispi lo aveva elevato alla massima potenza militare e Baratieri lo compensava tenendolo al buio, facendogli credere lucciole per lanterne, rivelandosi adagio adagio un suo nemico implacabile. Se gli mandavano uomini e generali che egli sospettava, aveva dei verbi che infastidivano il ministero.

Invece di essere contento che il Mocenni gli mandava in previsione dei rinforzi preavvisandolo, il generale gioppinesco rispondeva con degli «accetto» che facevano credere ch'egli li subisse. Il generale Arimondi fu fra i suoi intollerabili. Con un uomo simile l'ansietà governativa diventava sempre più sentita. Crispi che sentiva tutta la responsabilità della scelta del grande generale, gli inviò confidenzialmente questo telegramma:

«Il momento è critico per te e per noi. Ti abbiamo mandato e mandiamo più di quanto hai domandato. Se per insufficienza di mezzi, per imprevidenza avvengono danni, la colpa non sarà nostra. Il Paese è pronto a vendicare le vittime del 7 dicembre (Amba Alagi) ed a tener saldo il presidio della nostra bandiera.

«Tu chiedi nuovi rinforzi senza specificarli, aspettando all'uopo che la situazione sia delineata.

«Le distanze dall'Italia a Massaua e da Massaua all'Abissinia sono tali che giova saper precedere il bisogno.

«Spiegati subito; ci va dell'onor tuo e dell'onore d'Italia».

Si capisce. Crispi ha molti torti. Quello di affermare una cosa e farne un'altra. Egli lavorava sempre al dorso degli individui che in apparenza godevano della sua fiducia. Oreste Baratieri era un uomo sbagliato. Forse era in lui un filosofo. Uomo tetro. Non si confidava con alcuno. Diffidava, sospettava, temeva, non prevedeva. Il nemico etiopico aveva già a sua disposizione più di 95.000 fucili e Baratieri si cullava nelle vittorie e credeva utile, per delle operazioni a fondo, qualche rinforzo ai seimila uomini, si e no preparati a uno scontro coi neri. Non aveva calzature. Non ne faceva venire. Mancava di munizioni. Non ne domandava. Aveva dei vecchi fucili. Non incalzava il ministro a mandargli i moderni. Con le apprensioni di future sconfitte sparse in tutte le provincie italiane, con la resa del forte di Makallè, resa concessa dalla benevolenza del Negus che non voleva la guerra, con gli onori militari, con il Parlamento che votava venti milioni per abbattere l'impero abissino, non c'era da esitare. O infilzare i colorati con la baionetta o tornare indietro in tempo. Il Baratieri lasciava ancora credere al trionfo dei bianchi. Egli viveva nel suo sciocchezzaio. Il dilemma. O pace vergognosa o via dall'Eritrea. Non era nella sua testa. Oreste Baratieri rimaneva per tutti un'enigma. Come ai tempi del Depretis col Persano, si è voluto fare lo stesso. Invece di strappargli il comando per la sua incapacità militare lo si è lasciato fare. Gli ottimismi non esistevano più in nessun ambiente. Tuttavia si aveva paura di dare pretesti al grande generale. Perfino gli sportisti puntavano contro di lui. Dal cavallo preferito era precipitato fra i menagrami. Baratieri non aveva più puntatori. Il ministro non aveva più scelta. O richiamarlo d'urgenza o subire la sua sorte. Ma i ministri italiani hanno sempre la maschera. Da Cavour a Depretis, da Lanza a Crispi. Non sono mai leali. Alla vigilia del disastro hanno inviato il sostituto come in una vasta busta per impedire che lo si vedesse, lo si fiutasse, e si sapesse della sua venuta. Nessuno doveva sapere che Baratieri era stato destituito segretamente. Che Baldissera aveva in saccoccia il mandato di fiducia. L'ufficio governatorale di Massaua era incaricato di trattenere tutti i telegrammi al Baratieri che avessero lasciato trapelare della sua disgrazia militare. E così l'uomo che avrà saputo tutto lo stesso, si è affrettato, non ha veduto ragioni di indugio, ha movimentato l'esercito, ha messo in marcia gli uomini, ha commesso e ha fatto commettere errori sopra errori e lui, il grande generale, forse con la mente piena di sarcasmo, con la bocca atteggiata al riso satanico, si è seduto sotto un albero frondoso ad aspettare che il suo esercito venisse decimato e finito negli avvolgimenti etiopici.

Questa è politica italiana!

Questa è guerra italiana!

Se la letteratura del pennello fosse stata in guerra ai tempi di Menelick avremmo avuto chissà quanti episodi nei colori dell'arte. Immaginatevi l'esercito italiano rotto, scompigliato, disperso, in fuga, con i neri alle reni che continuavano a raggiungere, ad abbattere, a mietere. Con il generale in capo che si supponeva un po' dappertutto. Visibile, invisibile, morto o vivo nella cronaca della giornata o visto su un cocuzzolo di montagna, in fondo a una valle, sullo sperone di un monte, di uno svolto, con il guidone ora avvoltolato e ora con i colori nazionali al vento come per attrarre le frotte in fuga verso quel punto. Con uno spettacolo di una circonferenza di chilometri che aveva per conca Adua come abisso militare, solcato ovunque di scene finali, tragiche, di gruppi contro gruppi, di orde nere che serpeggiavano e avvolgevano i bianchi per separarli e distruggerli, senza che alcuno mai scoprisse il capo guidatore e orditore della battaglia. C'era da disperarsi. Le batterie non esistevano più che con gli scioani. Tutto era stato preso. I quadrupedi erano morti. La munizione era finita. I cannonieri cadaveri o in fuga o nelle ventate del panico. Le truppe indigene senza capi, senza quelle scappate in massa, paurose di essere agguantate dagli scioani che tagliavano loro il piede o la mano, come punizione inflitta ai traditori che si erano venduti al nemico del loro paese. Un panorama straziante. Il buffone della disfatta era Oreste Baratieri. Egli è rimasto il modello dei vituperevoli. Soldato di avventura dei fuggiaschi. Ha vinto tutti i records. Si è precipitato. Ha scavalcato insellature, ha svoltato monti, è disceso per le valli, è risalito per le alture, è andato per frane e burroni, sostando di tanto in tanto qua, là, in cerca di compagni di fuga, piantando sovente il bandierone che gli portava un suo uomo di fiducia, per dire ai dispersi che quella era la strada della salvezza. Egli era come un ascaro che avesse perduta la testa. Pareva inebetito. Fra Yeha e Coema ha avuto come un'allucinazione. A tanti chilometri di distanza dal luogo dell'azione, gli è sembrato che si potesse riordinare un esercito di resistenza e in un attimo di coraggio insensato si è messo all'atto militare che deve aver fatto ridere anche gli abissini, e piangere coloro che della guerra avevano capito qualche cosa.

È lui che scrive: «Non c'erano intorno alla mia persona che due o tre ufficiali e una manata d'uomini raccolti lungo la fuga. Sfoderai, scriveva con la sua mano imbecillita anch'essa, sfoderai la sciabola, chiamai a me gli ufficiali e col grido: Viva l'Italia! feci appello ai sentimenti dei soldati. Il nemico incalzava dappresso ed i cavalieri galla giravano in largo per le ali. Nondimeno alcuni soldati, spregiando la vita, obbedirono all'appello e si coronò per un momento l'altura. Ma i più non seguirono l'esempio pur rispondendo al grido». Generale bestia!

Aggiungete che i soldati andati sul ciglio della piccola altura non avrebbero potuto tirare sui galla senza colpire i compagni in fuga. Cosa da pazzi!

Io non so come la storia militare giudicherà la figura di Oreste Baratieri al tribunale dei posteri. Certo non era in lui alcuna favilla napoleonica. Egli era un solitario che meditava più vendette che vittorie. Il governo di Crispi che gli aveva dato un sostituto a insaputa di tutti, era certamente meritevole della fucilazione nella schiena. Non si tratta così il capo di una campagna militare che aveva, come diceva Crispi, «in mano l'onore d'Italia e della monarchia». O lo si manda al muro con un ordine speditivo o lo si destituisce telegraficamente, ordinando a un altro generale di interrompere i movimenti militari fino all'arrivo del comandante in capo Baldissera – altro tipo di memoria infame.

Tipo che si confonde col Livraghi, nella soppressione segreta degli indigeni. Tipo che ha fatto trucidare otto persone importanti; cioè otto abissini, non so se per depredarli o per rancore di razza, sotto la sua dominazione carceraria – delitto che invece di farlo respingere come un atroce assassino – lo ha invece elevato al posto di governatore eritreo e capo dell'esercito! Non si può essere più canaglie. La moralità politica del Crispi non gli era superiore.

All'Asmara si svolse l'ultimo atto di una risevole commedia. Non si tenne conto di nulla. L'uomo che aveva iniziata la battaglia per non essere obbligato a cedere il comando a Badissera, è stato assolto come Livraghi, il terribile soppressore di indigeni per derubarli che ha dovuto salvarsi, assolto, dall'onda dell'esecrazione nazionale che lo voleva linciato al primo albero con la fuga in Svizzera. Fu un verdetto di solidarietà militare. Come non aveva trovato colpevole Livraghi e Baldissera, non ha trovato reati nell'angoscioso libro della vigliaccheria baratieresca. I morti non potevano risuscitare. Gli errori commessi non si potevano rimediare. Menelik, spregiato, disprezzato, considerato un imperatore di straccioni o di ladroni colorati, aveva curvata la cervice al napoleonismo italiano ed era trionfante. Il Negus non era più sotto il protettorato italiano che voleva tenerlo aggiogato al carro di Uccialli. La lezione era stata inflitta. «Per questi motivi dichiara non constare dei reati ascritti al generale Baratieri nel sovraesteso capo di accusa, e visti gli articoli 485 e 486 del codice penale per l'esercito, dichiara non farsi luogo a procedimenti contro il generale per inesistenza di reato e ne ordina l'immediato rilascio in libertà, se non è per altre cause detenuto».

Oreste Baratieri fu il Persano di terra. Senza audacia, senza fantasia, senza prontezza. Non prevedeva. Indugiava, procrastinava, trovava sempre ragioni per non affrontare il nemico nero. Quello che avveniva era spontaneo. Il fatto andava a lui senza che ne avesse sentore. Ras Alula, ras Mangascià. e tutti altri ras, erano nella sua testa come «infidi e traditori». Era come dire che un italiano che difendesse la propria terra dovesse credersi o essere considerato un delinquente adatto alla corda del boia. Nonsensi o mistificazioni di linguaggio. Ras Alula, ras Mangascià, ras Makonnen erano patriottissimi. Tutto ciò che c'era di patriottismo puro. Avevano preso le armi per salvarsi dagli invasori. Come hanno fatto più tardi gli arabi della Tripolitania. Francesco Crispi che si considerava come un condottiero romano non aveva capito che la altezzosità della politica coloniale. Gli avevano detto che l'Italia doveva essere una grande nazione fino alle sue ultime risorse finanziarie. Egli ha scambiato un imbecille per un grande generale giacobino, come Depretis aveva preso Persano per un Nelson. Due disastri terribili. La sinistra ora era in piedi contro Francesco Crispi, il massacratore di sovversivi e il trafugatore di denaro delle banche di emissioni governative. Il Crispi dei Mille era morente. Forse era morto prima che gli ex garibaldini dessero ai Baratieri, venuto in Italia, come il trionfatore africano per due scaramucce alle quali non aveva neppure assistito, un banchetto. Grandi fanciulloni i superstiti del garibaldinismo! Credevano a tutto. Baciavano gli ex commilitoni, li elevavano con le grida e i battimani. Baratieri è nostro! Quando Crispi si accorse di avere coltivato un impotente e un odiatore di coloro che lo avevano elevato al massimo grado era troppo tardi. I soldati scioani avevano già distrutto i soldati italiani e indigeni ad Amba Alagi, uno dei tanti monti conici della topografia abissina. Troppo tardi! Il forte di Makallè, l'ex rocca residenziale di re Giovanni, padre di ras Mangascià, era già in dissoluzione. Gli assediati che vi morivano di fame e di sete, avevano accettata l'offerta generosa del Negus Menelik di uscirne con gli onori militari, con il solo obbligo di non combattere contro gli eserciti dell'imperatore. Non so se abbiano mantenuta la parola. Forse il maggiore Galliano, sì. Gli altri, no, certamente. Incorporati con gli altri non se ne seppe più nulla. Non se ne parlò più mai.

Dopo questi due fattacci di Oreste Baratieri e il fattaccio di avere messo fra i simulatori ras Makonnen e l'imperatore Menelik, Crispi non osò più parlare con baldanza della «sua guerra». La sua guerra era una quasi disfatta. I deputati alla Camera avevano incominciato a demolirlo con queste frasi: «Cada sul vostro capo il sangue degli italiani versato per vostra colpa!»

Lo scoramento nazionale è stato tanto che lo stesso Umberto I si era esibito segretamente al Crispi, pronto a mettersi alla testa dell'esercito in Africa. Segretamente aveva fatto coniare le monete imperiali per la diffusione e la propalazione africana in caso di vittoria. Pensieri cattivi, via! Fu forse una trovata dello stesso Crispi per ingraziarsi la Corona. Come reazione in parecchie regioni italiane era corso il grida di viva Menelik! Fra antiafricanisti e africanisti vi furono urti, pugni, bastonate, ceffoni, accompagnati da insulti melmosi e plateali. Quando giunse la notizia che l'esercito di Baratieri non era più che residuo di fuggiaschi che correva a precipizio per mettere in salvo la gherba (la pelle) e che i quattro predoni di ras Makonnen – il capo dell'esercito – di ras Alula, di ras Mangascià, di ras Oliè, di ras Mikael, non erano meno di centomila uomini, l'Italia non ha voluto altro. Ha fiutato il disastro, ha subodorato l'imbecillità di Baratieri, è scesa in strada livida, concitata, satura di rancori per il vecchio Crispi che aveva voluto chiudere la sua esistenza ministeriale con un ciclone di abbasso Crispi! Via Crispi! Morte a Crispi!

Giunto Antonio Baldissera – il soppressore degli indigeni sotto la sua protezione giudiziaria a Massaua – la catastrofe era compiuta e l'Italia non era tranquilla. Per lei l'uno valeva l'altro. Baratieri, pusillo, vanitoso, vigliacco. Baldissera, uomo che considerava gli abissini torme di semibarbari degni della sua corda assassina. L'uno valeva l'altro.

Se Baratieri avesse avuto il coraggio di farsi vedere nelle vie italiane, subito dopo il disastro, di lui non sarebbe rimasto un capello. Così si rannicchiò a Trieste a scrivere le sue memorie, come prima si era ritirato l'ammiraglio Persano a narrarci le menzogne della sua campagna navale. Tutti i deficienti e le canaglie militari scrivono le loro memorie. Bisognerebbe tagliar loro le mani per proteggere i lettori dalla edizione delle loro miserie intellettuali. Noi invece permettiamo loro di preparare materiale che confonda e susciti dubbi nei critici della posterità. Così la Francia ha permesso a Bazaine d'infestare le biblioteche con le sue memorie. Gli impotenti che scrivono un libro carico di melensaggini, disgustanti. Ma gli impotenti che conducono militarmente o navalmente al macello e alla disfatta suscitano nausea e orrore.

I matrimoni dei regnanti sono farse più risevoli di quelli della borghesia. Sono pieni di convenzionalismi. I due si appaiono, sovente senza conoscersi, senza vedersi che in fotografia o nella cerimonia di presentazione. Gli sposalizi delle reggie avvengono quasi tutti in queste condizioni. Sono sposalizii politici, messi assieme dai padri della coppia per il benessere delle monarchie. Sono trait d'union dinastici. È avvenuto così con lo czarevitch, morto imperatore. Alessandro III ha voluto che Nicola sposasse Dagmar di Danimarca, pur sapendo che il figlio si era fatto una famiglia in margine al palazzo imperiale. Così è avvenuto di Vittorio Emanuele II. L'austriaca del Raineri non era di suo gusto. Lo ho valuto il suo genitore. E lui si è fatto un faux menage. Di Rosina si fece una mantenuta e poi una moglie morganatica. Il re galantuomo non ha stroncato l'andazzo monarchico. Peggio. Lo ha seguito. Il matrimonio fra Umberto e Margherita è uscito dal gabinetto della diplomazia. Due Savoia. Due consanguinei. Umberto ha lasciato fare. Ha ubbidito. Egli viveva per la duchessa Litta. Lo scandalo dei suoi amori gliela aveva resa più cara. Lo scandalo fu che un giorno tutta Italia seppe che il principe aveva una palazzina in via Luciano Manara. E che la favorita era un mal maritata del patriziato milanese. Un'asta di donna superba. Nessuna comparazione fra le due donne. L'amante era un capolavoro ducale. Maestosa, austera, sensuale. Testa meravigliosa. Mucchi di capelli d'oro che si levavano dalla nuca come una mezza corona di brillanti che facevano chiudere gli occhi. I monzesi che la vedevano a piedi e a cavallo si fermavano estatici. La guardavano con gli occhi dell'ammirazione. Nessuna lascivia in lei. Faceva pensare alla grandiosità plastica delle donne dei Cesari. Era in lei il genio della toilette. Un abito qualunque modellava la grazia del suo corpo.

L'attrazione di sua maestà la regina Margherita fu di un'altra specie. Non era brutta. Tutt'altro. Era bella, arcibella per le immaginazioni surreccitate che poetizzano la donna o la spingono trionfalmente nel sogno. Ella è ancora viva e tutti possono gettarsi sulla sua fotografia vendibile in tutte le botteghe. Bassotta, pienotta, capelli biondastri, educati dalla pettinatrice all'ode barbara dell'entusiasmo. Punto difetti fisici, salvo quello del collo leggermente piegato come se la sua testa fosse trattenuta da un nervo poco duttile. Archi sopracciliari sottili, naso aquilino e pronunciato, bocca senza rilievo salvo il sorriso del mestiere di sovrana. Guance lattiginose. La rivale? Non fu rivale. Ella era entrata prima nel cuore di Umberto. La Litta fu un morceau du roi senza gli abbagli e le profusioni del Quirinale. Matura per una passione che s'incarna nell'uomo senza l'etichetta dei personaggi di Corte. Fisicamente e spiritualmente alta. Non una briciola di scetticismo in lei. Il marito non l'aveva deturpata. Ella si era disfatta di lui senza discendere dalle alture del tète-à-tète glorioso. Il persiflage, il paradosso il sottinteso il mot che sopprime la gaiezza in chi ascolta erano della sovrana che aveva ragione di non essere prodiga con chi le era stato taccagno. La duchessa aveva qualche anno più della sovrana, ma l'amante non aveva cessato di essere la donna che andava incontro alla vita a braccia aperte con il viso della giovine avida d'amore. Ella è divenuta madre. Umberto ha avuto da lei un figlio che più tardi egli ha dovuto accompagnare al cimitero, dietro il carro con la gola rasa di lagrime. Più tardi i coniugi illegittimi, secondo la legge, ne eternarono la memoria con il padiglione Litta nell'angolo dei padiglioni milanesi.

I padri non sono mai saggi. Essi esigono dai figli quello che loro non hanno saputo fare. Vittorio Emanuele II che ha dovuto passare su tutte le convenzioni reali e sociali per salvare la sua felicità con la fumna del suo cuore, ha poi persistito perchè Umberto rimanesse nella zona degli sposi che si lasciano imporre una moglie dal genitore per la conservazione della ipocrisia nazionale. Gli ha dato una donna dal sangue reale, ma vuota di affezione, inabile all'amore e alla devozione. Margherita, per il futuro Umberto I, fu una moglie politica, scelta dal generale Menabrea.

— Voglio, gli diceva un giorno il gran re, assolutamente ch'ella mi trovi una sposa per Umberto. Ella me ne risponde. Bisogna trovargliela.

— Maestà – rispose il generale – la sposa l'ho trovata, bella e pronta: basta il volere della maestà vostra, e, si intende, il consenso del principe.

— Qual'è dunque questa sposa?

Il generale si avvicinò all'orecchio della maestà e con la mano a tuba rispose:

— È....

— Parli, in nome del suo dio!

— È la figlia del fratello di V. Maestà; è la nipote di vostra maestà.

Io sarei saltato a due metri d'altezza. Mi sarebbe parso di buttare mio figlio in mezzo all'incesto e avrei detto; mia nipote non può essere moglie di mio figlio. L'Inghilterra puritana non permette che la vedova si rimariti con il fratello del defunto e io, re d'Italia, devo dare mio figlio a mia nipote? Non voglio i residui dei Savoia per un Savoia. Siete pazzo? Dategli un incrocio, un sangue diverso, della felicità con un'estranea vigorosa, se volete, ma risparmiategli la noia di abbracciare persone di casa. Suggerirmi una cugina! Mi avete suggerita la sua cugina? La figlia di mio fratello? La mia nipote? Pazzo! Margherita se la tenga per lei. Io voglio che la mia casa produca degli eredi, che i miei figli irrobustiscano il sangue dei Savoia. Ma l'uomo che doveva correre da Rosina non volle sciupare più tempo. Si acconciò al matrimonio proposto dal generale.

È avvenuto, s'intende, il contrario. E così si è ribadito il fattaccio che i matrimoni reali non hanno importanza alcuna sulla scelta fisica o morale degli sposi. È già molto se si bada al sesso o se si procura che uno dei contraenti sia di diverso tipo. Con Umberto e Margherita siamo rimasti nel sangue di una stessa stirpe. Ad ogni modo contenti loro, contento anch'io. Le mie osservazioni sono dell'uomo di sangue comune e vanno prese per quelle che valgono. Ma siccome noi siamo qui a studiare i sovrani nelle loro affezioni, così è bene vedere se i loro sistemi sono migliori dei nostri. E per quello che ne so io devo dire che il matrimonio tra il principe che doveva diventare re e la principessa che è diventata regina, non è stato assortito come speravano i cortigiani ed è riuscito fin dagli inizii una vera pochade. Io ho un segreto da confidarvi, ma intendiamoci, voglio che resti fra noi, a porte chiuse, perchè sono cose troppo intime per lasciarle andare in giro senza busta che le protegga dalla curiosità comune.

Il matrimonio della «necessità dinastica» è avvenuto in Torino il 20 aprile 1868. Voi potete immaginare la disperazione della Signora di Monza. Ella ha minacciato, strepitato, pianto, e non ha acconsentito alla unione che quando il fidanzato dell'altra le ha promesso che lungo il viaggio di nozze egli avrebbe rispettata la sposa evitando assolutamente di trovarsi nella stanza pericolosa con lei. È stato uno scandalo generale che ha fatto crepare dal ridere tutta la diplomazia e tutte le dame e i signori di Corte. Umberto – e questo è il mio segreto – per paura di venir meno alla promessa, si faceva chiudere nella stanza da letto a chiave da un aiutante del suo seguito.

Lo scandalo di uno sposo che si serve della resistenza passiva per compiacere l'amante lungo il viaggio di nozze non varrebbe la pena di essere ricordato se la tresca tra il marito reale e la signora di Monza non fosse stato un plagio della tresca fra Vittorio Emanuele II e la bella Rosina. Come Maria Adelaide aveva assistito all'appaiamento clandestino del marito con una paesana «giovane bella e piacente» (v. autobiografia del generale Enrico Della Rocca), così Umberto nel riprodursi nella esistenza il padre, ha ridotto la principessa Margherita ad acconciarsi al falso ménage regale. Voialtri trasalite perchè non avete mai vissuto a Corte. È tutta gente che non ha le vostre abitudini. Voi avete una mentalità casareccia. Voi sarete capaci di meravigliarvi se una regina, per esempio, adorasse il proprio groom. Il servidorame di Corte agiterebbe le mani per dirci, ne abbiamo vedute ben altre.

A Corte si crede l'incredibile. A Corte se avviene lo si ignora. Ecco tutto. È un semplice sottovoce che passa da un tubo auricolare all'altro senza che diventi un cri-cri. Parli Windsor. Al palazzo della sovrana chi torreggiava era il servant John Brown. Il buon Brown era divenuto così potente che nessuno poteva vedere sua maestà la regina Vittoria senza il suo consenso. Lo stesso principe di Galles, che fu più tardi Edoardo VII, per grazia di Dio e volontà della Nazione, non ha mai potuto bussare agli appartamenti della madre, specialmente quando era in bisogno di quel fottuto denaro per pagare i debiti di giuoco, senza ingraziarsi il cerbero Brown. Il groom scozzese imperava sulla grassona del trono.

Dicevo dunque che Margherita si è adattata, come Adelaide. Adelaide ha giustificato e perdonato gli amorazzi e i concubinaggi del marito, per le esuberanze fisiche mentre Margherita più giovane, di tanto in tanto aveva scatti, rivolte, parole incomposte contro il caro consorte. Quando tutti credevano che la regina si fosse rassegnata a vedere il re a tavola con il parabaffi, senza mangiare per serbare lo stomaco per il pranzo con la duchessa a due passi dalla reggia, prorompeva in lei la collera, ritornava in lei l'indignazione e qualche volta dava fuori come uno scandalo. Non c'è che la cameriera delle intimità personali che possa raccontarvi le tempeste della casa reale di Umberto e Margherita. Tempeste senza furori verbali, senza chiamate, senza ira per le orecchie. Erano tempeste che si svolgevano in loro, con pensieri che, passavano dall'uno nell'altra, accapigliandosi, buttandosi uno sull'altro come per rovesciarci reciprocamente. Pagine che sfuggono dove non c'è il gusto del diarista di buttare giù, lì per lì, sui pezzi di carta che capitano, gli umori dei padroni. Margherita agitata, sconvolta, in uno di quei giorni che non si è padroni dei propri nervi, abbandonata alla disperazione o al desiderio di vendetta o alla suprema delizia di affermare con un atto strepitoso la consapevolezza del suo misfatto coniugale. Uscì dalla reggia di fianco come una donna che va a prendere una boccata d'aria. Umberto si era alzato da tavola senza assaggiare vivanda per incoraggiare i commensali a mangiare. Perchè è abitudine di Corte che quando il re non mangia, nessuno mangia. È come un pranzo di parata. Le vivande escono e ritornano in cucina. Egli si era alzato con la sua bella faccia biancastra, era andato nel gabinetto a farsi pettinare i baffi e a mettersi sul braccio il paltò di mezza stagione. Non era sull'erba che da un minuto, giusto il tempo per attraversare il viale che divideva le due case del parco di Monza delle rivali. Dico male. Maria Antonietta non permetteva neanche a sè stessa di sospettare la Du Barry, ganza di Luigi XV, sua rivale di Corte, pur essendo una donna che le contendeva la ammirazione dei cortigiani. La donna illecita di un regnante può essere una favorita non una rivale. Non c'è che una regina che possa esserla. Breve. La maestà della reggia è uscita come incalzata da un sogno e sul parterre, nell'atmosfera tepida, forse a sua insaputa, scaricò il revolver tascabile in direzione del cielo. Nessuna intenzione omicidiaria. Ella ha voluto far sapere che sapeva. Umberto non si è neanche degnato di voltarsi indietro Forse non ne ha udita l'esplosione. Lo spavento fu più dei poliziotti nascosti o appiattati nei boschetti o interno ai cespugli. Essi cercarono con gli occhi il regicida senza vederlo. Il mistero è rimasto mistero. Tranne che per i cocchieri fuori della cancellata del parco. Essi lo ridussero a un sottovoce che si propalò e fece parte della conversazione dei caffè e delle osterie.

La Regina Margherita è stata sommersa in due chiassi: uno per un'ode alcaica e uno per una preghiera in morte del marito. L'ode alcaica aveva fatto scandalo. Il pubblico rosso non si era ancora accorto dell'evoluzione garibaldina verso la Monarchia. La gente che non conosceva Giosuè Carducci che come repubblicano, che come demolitore di monarchie, che come girondino che aveva cantato il 93 in dodici sonetti non voleva credere. Si era voltato indietro con dei fremiti di fiera. Come? L'Enotrio Romano, l'autore dei giambi ed epodi, della Consulta araldica e di Versaglia ha pubblicato un'ode per esaltare fisicamente e intellettualmente sua maestà la regina Margherita? I poeti sono tutti così. Foscolo fu austriacante. Berchet è divenuto poeta cesareo. Le scuse di Carducci di essersi servito dell'intestino cerebrale per passare dal popolo alla monarchia furono puerili. Il fatto non si disfa. Egli aveva voltato casacca. Ma il poeta massimo della Terza Italia non aveva voluto acconciarsi al verdetto popolare e scalciava come un mulo. Insultava chi non voleva sottomettersi alle sue dichiarazioni di avere cantato come si canta di una paesanella che impressioni. Egli voleva essere educato. Non c'è dinastia nella sua ode. Voleva o fingeva di credere che nell'ode non c'era cortigianeria. Ma è passato di moda arche lui. L'ammirazione per l'ode alcaica alla Margherita l'ha messo nelle grazie della borghesia e la borghesia gli ha elevato il monumento. Ma Carducci non fu più del popolo. Il popolo chiamato da lui in quel periodo «canaglia e maleducato» non gli impedì di continuare a chiamarsi girondino e repubblicano, ma non lo volle più scaldare nelle sue pieghe. Per il popolo è rimasto uno apostata. Peggio. È rimasto amico di Francesco Crispi. Egli è morto nell'opinione pubblica ch'egli aveva sempre combattuta.

Chi ha guadagnato fu la regina. Da quel momento non si parlò più che della sua intelligenza. Figlia di una sassone è stata abituata a leggere la poesia tedesca. E nessuno che non si sia cibato di poesia tedesca può capire le odi barbare. Così ha scritto il suo autore. Tutto fu inutile. Carducci è rimasto un poeta e un prosatore ammirabile – un superuomo dell'Italia monarchica – ma non lo si è più lasciato passare dalle cancellate repubblicane anche dopo che ha dichiarato che l'ode gliela aveva suggerita Luigi Lodi. Baie! dicevano coloro che non avevano due maniere di vedere le cose. Non c'è amico, dicevano, che possa srepubblicanizzare e monarchizzare simultaneamente per una bella donna. Sì, sì. La regina, diceva il grand'uomo, è una bella e gentilissima Signora, che parla molto bene, che veste stupendamente (quando si hanno le sue sarte e i suoi denari!) Ora non sarà mai detto che un poeta greco o girondino passi innanzi alla grazia e alla bellezza senza salutare. Storie! La regina non era una lavandaia, era sul trono. Rappresentava il rovescio della sua vita intellettuale. Curvandosi si è diminuito, si è sconfessato, si è rinnegato, ha voltato il dorso alla rivoluzione.

Il secondo chiasso fu tutto clericale. Margherita nelle disgrazie non poteva dimenticare di essere una chiesaiuola e una papalista. Credendo di poter confondere la politica con la religione si è messa subito a tavolino a tirar giù una preghiera che il popolo avrebbe dovuto recitare più volte per la purificazione dell'anima di suo marito. Il clero è rimasto stupefatto. Non credeva ch'essa sarebbe giunta all'invasione del terreno papale. Gli ecclesiasti dicevano che se l'ex regina poteva mettere in circolazione una prece per il defunto senza valersi della chiesa a loro non rimaneva che da spretarsi. Il papa ha lasciato fare. Egli era un tollerato. Non voleva urti con la monarchia. Il Bonomelli di Cremona, il cortigiano dei Savoia, ha sedato tutti. Alla preghiera aulica egli ha messo il suggello della sua sede arcivescovile, E il parto reale raggiunse tirature insuperate. Le portinerie ebbero carta per un mese. Non c'è stata famiglia che non ne abbia avute più copie.

Gli anarchici del fatto credono nella vendetta sociale e i conservatori nella monarchia personale. Il '98 fu per tutti loro un avvenimento regio. Gli uni e gli altri accusavano Umberto come autore delle stragi. Agli anarchici il monarca è servito per additarlo come un re bestiale, assetato di sangue umano: ai reazionari, per gloriarsi di un sovrano che aveva saputo trattare i nemici dell'organismo monarchico con la balistite e con la mitraglia. Essi avrebbero voluto maggior furore.

Così per due anni ci siamo trovati davanti al regicidio. Gaetano Bresci, il tessitore in seta, è stato terribilmente laconico. Non ha sciorinato idee e non ha fatto sfoggio di eloquenza. È rimasto un uomo del fatto. Non ha ventilato pensieri. Forse non ne aveva, o forse non sapeva esprimerli. Ha parlato la sua rivoltella. Tre colpi. Due avevano colpito il sovrano al petto e alla gola. Ma dalla sua laconicità è uscita la fissazione di considerare il re autore responsabile di tutto quello che si faceva in suo nome. Aveva ragione, aveva torto? Ci furono due opinioni come su tutti gli avvenimenti. C'era chi attribuiva tutto al coronato e chi lo esonerava da ogni responsabilità sociale, trattandolo come un personaggio di lusso senza responsabilità alcuna.

— Perchè, gli ha domandato il presidente delle Assisi, avete ammazzato il re?

— Formai il divisamento dopo gli stati d'assedio di Sicilia e di Milano, illegalmente stabiliti con decreti reali. Allora io pensai di uccidere il re per vendicare le vittime.

— Ma il re non era responsabile dei decreti, ha soggiunto il presidente.

— Ma li aveva firmati tutti.

— Continuate.

— Oltre vendicare gli altri volevo vendicare anche me, costretto dopo una vita miserrima, ad emigrare. I fatti di Milano in cui si adoperò il cannone, mi fecero piangere di rabbia e pensai alla vendetta. Pensai al re, perchè costui, oltre firmare i decreti, premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.

Umberto I ha voluto premiare gli assassini dei cento e più morti e del migliaio di feriti e del migliaio di imprigionati del '98 in Milano. Egli fu «lieto» e «orgoglioso di onorare la loro virtù e il loro valore» e più che lieto di «conferire motu proprio la croce di grand'ufficiale a sua eccellenza Bava Beccaris», il generale omicidiario elevato a Senatore.

I nazionalisti monarchici sono stati al livello del Re. Non hanno magnificato nel '98 che l'esercito regio, i decreti regi, le uccisioni rege. Le loro gazzette, morto il re, non hanno pensato che alla risurezione regia. Avrebbero voluto prima di tutto lo sterminio regio del sovversivismo. Bresci è vostro, dicevano costoro ai socialisti... Ripetevano la stupidità dei reazionari francesi ai tempi di Vaillant e di Henry.

I socialisti erano gli allevatori degli anarchici. Con le loro mostruose concezioni sulla miseria e sulla opulenza nascevano i lancia bombe, i glorificatori di Ravachol, come Octave Mirbeau. Noi, per i reazionari eravamo una setta sanguinaria. Peggio! I conservatori avrebbero voluto, che il proclama del nuovo sovrano fosse stato scritto da lui, con l'inchiostro della vendetta e non dai ministri. Lo stesso Duca d'Aosta ha contribuito a ribadire nel cervello dei reazionari che il re regna e governa, proprio quando ha sfidato gli anarchici dicendo che loro erano ancora in dodici pronti a succedersi nella rappresentanza dinastica. Spacconata regia che ha fatto inorgoglire tutti i vili di quel tempo. Come parlano i Savoia! è stato il tema regio, prediletto da tutti i gazzettieri del bulismo a pagamento.

Erano tutti per il re personale. Se Gaetano Bresci avesse potuto vivere nei mesi in cui non si è parlato che della sua tragedia si sarebbe accorto dell'accresciuta vigliaccheria e dell'albagia regia. I monarchici della penna, della parola e del fatto erano più regi del re. Parlavano del nuovo sovrano come di cosa propria. Gli attribuivano tutto quello che il tempo aveva distrutto. Una sovranità che non poteva essere che fittizia. Fra i vari giornali che si sono distinti nel massacro dei sovversivi e specialmente dei socialisti registro il Corriere della Sera, la Sera, la Gazzetta di Parma, l'Arena di Verona, la Provincia di Padova e la Gazzetta di Venezia. Fra quelli che non hanno avuto che prosa impregnata di cortigianeria, come se fossero divenuti tanti lacchè di Corte dall'oggi all'indomani, noto il Giorno, la Tribuna, il Mattino, la Lombardia, e il Tempo dell'avvocato Raffaele Gianderini, il quale parlava in nome della democrazia italiana. Anche gli uomini parlamentari avevano perduta la testa. Non sapevano più in che modo commemorare la vittima nè come decorare la camera per vestirla a lutto, nè come manifestar la loro fede monarchica. Intorno al Marcora che taceva in un momento così terribile si è fatto il cancan. Ma anche l'ex presidente dei comizii repubblicani, udito che si gridava abbasso Marcora! ha parlato. La nefanda uccisione del re, come diceva il versipelle, lo ha fatto alzare dal letto e telegrafare al presidente del Consiglio che durante il giorno era rimasto «pieno di cordoglio vivissimo». Più tardi ha espresso la sua «profonda esecrazione» per lui naturale perchè le sue origini mazziniane non gli hanno mai impedito «di professare il più illimitato rispetto sia al re Vittorio Emanuele II, nel cui nome aveva partecipato alle campagne del '59, del '60 e del '66, sia al re Umberto, del quale ha sempre ammirato la bontà.

Se i giornali regi di quei giorni avessero rappresentata l'opinione pubblica, non è dubbio che si sarebbero ripetuti da noi gli eccidi della risurrezione monarchica dei tempi di Carlo II. O regi od assassinati. Non si volevano stonature. O monarchici o impiccati! I coccodrilli popolari piangevano! Piangevano, queste carogne! dicevano. Dopo avere seminato per anni ed anni il dispregio, l'odio, la vendetta, piangevano dopo avere armata la mano dell'assassino; piangevano dopo avere asservito l'anima di quel pazzo fino al delitto! È morto il re! Preghiamo in ginocchio dinanzi la salma augusta, ma non dimentichiamo! Il pazzo vada pure al manicomio; ma i coccodrilli vadano in galera. Il Vassallo diceva ai socialisti che avevano il linguaggio canagliesco del Père Peinard. Tutte le aberrazioni si sono manifestate. Raffaello Giovagnoli diceva a Margherita di Savoia: «Amavi Iddio, amavi il tuo Re, amavi la Patria, e fra i vetusti e giganteschi ruderi della magnitude antica e fra i suntuosi e venerati simulacri della cristiana civiltà, ripensasti la storia di trenta secoli e, mentre aspiravi l'aura sacra dei sette colli e ti aggiravi per il Foro, la polvere di novanta generazioni avvolgendosi fra le aurate trecce della tua copiosissima chioma, ti baciava sulla tua fronte sabauda e nella tua anima italiana. Salve Regina»!

La regina per lui aveva «le estetiche intuizioni, la luce delle parole amorose, la regia virtuosa bellezza. Il re era «il suo sposo regio e dignitoso negli atti, marziale nell'aspetto, prode e leale sempre». Il Bresci era «una bestia monstruosa, uscita dai più caliginosi e cupi abissi delle umane generazioni, con l'ossea artigliata sua brenca, lacera le fibre di quel cuore intessuto di carità e spense il magnanimo Re, che si abbandonava alle festevoli acclamazioni del popolo...». I partiti estremi, dicevano gli scribivendoli regi della Gazzetta di Venezia, hanno per programma la rivolta. Schiacciamo i rivoltosi!» Qualcuno consigliava il processo a porte chiuse per sopprimere al regicida la réclame. La rivoltella di Bresci con la quale aveva ucciso il re con tre palle aveva resi tutti idrofobi.

Il Tempo – quotidiano della democrazia italiana – fu molle durante le aggressioni dei molossi del giornalismo, degli avariati e degli uomini che avevano perduto il pudore della loro degradazione. Invece di buttarsi sulle illustri ferocie con la penna che rompe e fracassa i negatori dei diritti popolari le lasciò ruggire e permise loro che si creassero un'opinione pubblica fatta di aristocratici e di plutocratici e di fanatici di monarchia che domandavano ad alte grida la testa dei sovversivi.

L'Arena si era scagliata come una tigre sui «mascherati della rivoluzione che iniettavano, giorno per giorno, nel sangue del popolo inferiore, la bestiale baratteria delle dottrine infami». Colautti si era piantato nell'Alba con il suo archibugio di moschettiere come un delirante che non avesse fatto altro che il mastino dei Savoia. Pareva che il potere dei privilegi fosse suo. Non capiva che l'«oligarchia». Truculento, convulsionario, plebivoro, idrofobo. Nulla di naturale e di spontaneo. Si serviva di uno stile che pareva del ferraccio rovesciato nel giornale dal furore. Il suo giornalismo era una indisposizione riottosa dell'opinione pubblica. Amico dei superstiti di un mondo crollato. Veemente nelle ore tragiche dei rivolgimenti protetti dalle polizie. Erudito, citava sempre la filata dei regicidi che avevano osato levare il braccio contro il proprio sovrano: Damiens, Ravaillac, ecc.

Per me in quel momento tragico non aveva diritto di piangere che la moglie del sovrano. A lei tutte le concessioni, tutte le esasperazioni, tutti gli improperi per maledire l'uomo o gli uomini che le avevano soppresso il marito con la brutalità di tre colpi di rivoltella. A lei, disperata, trambasciata, immersa nel pianto tutta la compassione della gente, ma gli altri che hanno assunto la difesa del morto come se si fosse trattato di un loro congiunto, niente. Frano usurpazioni spavalde, ridicole. Ma il re, rispondevano i maramaldi dei partiti che non potevano difendersi che per andare in prigione o per essere massacrati, impersonava tutta l'Italia, tutte le sue istituzioni, tutte le classi meno quella omicidiaria.

Simultaneamente che usciva il proclama di Vittorio Emanuele III circolava l'orazione messa assieme da Margherita di Savoia, accompagnata da una sua lettera a monsignor Bonomelli, vescovo di Cremona, il prete che aveva applaudito due anni prima alla soppressione dell'Osservatore Cattolico e alla condanna del suo direttore. Il proclama di sua maestà non deve essere discusso nè dal punto di vista della lingua, nè dal punto di vista dei concetti. Era il centone di una testa regia che non aveva tempo di martellare e fondere pensieri in uno stile. Non discutiamo. Lo scolaro di Luigi Morandi, nella desolazione, non ha prodotto che un aborto, che roba secca. Senza la firma dei ministri avrebbe potuto essere contestato dalla nazione. In un momento di emozioni indicibili ha taciuto. Lasciamolo dunque archiviato come incostituzionale e passiamo da una colonna di prosa infiorettata di luoghi comuni come questi: «rischi affrontati» – «atroce misfatto» – «tranquilla e balda coscienza» – «raccogliere l'estremo respiro» – «mi soccorre la forza che mi viene dagli esempi» – «mi conforta la forza che ricevo dall'amore» – «e per amore caldo di italiano» – «protetto con mano ferma ed energica» – «così mi aiuti Iddio e mi consoli l'amore del mio popolo» – «voi che l'amaro lutto» – «codesta solidarietà di pensieri» – «il baluardo più sicuro» – «la migliore guarentigia», ecc., ecc.

Si è detto allora che è stato redatto dal ministro del tesoro Rubini, e varato dal Saracco, dai Visconti Venosta, dai Chimirri, dai Galli, da Carcano. gente che non ha mai saputo scrivere nè per loro nè per la nazione. Il proclama fu e rimase del re.

La prosa di Margherita di Savoia non rivela certamente la lettrice della prosa e dei versi carducciani. È prosaccia che non fa impallidire quella dei Rubini. Ma io mi trattengo dal sottolineare anche le frasi che dovrebbero essere corrette, compresa quella del trafiletto «da tre palle tirate per mano italiana» perchè in momenti come quelli ella aveva diritto di perdere la testa e di credere che i cittadini fossero sudditi anche più cretini di lei.

Ad ogni modo è un documento della sua religiosità che riproduco per la storia.

Monsignore,

«So ch'Ella col cuore e coi pensiero è vicino a me, in questo momento terribile, in cui il Signore vuol provare tutta l'Italia; e che nello stesso tempo il pensiero e le sue preghiere sono per Lui, per il povero nostro Re, che amava tanto il suo popolo, e che è caduto vittima del suo amore, trafitto da tre palle tirate per mano italiana!

«Che orrore! il Signore ha voluto, nella sua misericordia, risparmiargli quella suprema amarezza che per Lui sarebbe stata terribile e troppo dolorosa, di sapere che la mano parricida era italiana e che i colpi tirati alla sua sacra persona erano d'un suo suddito.

«Ho pensato (credo che Iddio mi abbia aiutata) di scrivere una preghiera in memoria del nostro povero Re, che tutti possono dire, per il riposo dell'anima sua. L'ho scritta come l'ho pensata, col cuore e piana perchè tutti la possano capire.

«Ora prima di tutto credo ci voglia il permesso e l'approvazione d'un Vescovo, per divulgarla – ed ho pensato a Lei che venero dal profondo del cuore e spero lo vorrà fare. La Prego di voler far copiare e stampare quella divozione e divulgarla e raccomandarla, in memoria del mio Signore e Re, affinchè tutto il popolo preghi per Lui! e faccia pur sapere che l'ho scritta io, e forse, per l'amore che, contro ogni mio merito, mi porta il popolo, la si reciterà volontieri. È un Rosario con la preghiera.

Raccomandi la memoria del nostro buon Re, me stessa, il Re regnante mio figlio, e la nostra famiglia tutta, alle sue preghiere, Monsignore: e Iddio la esaudirà.

«Colla massima stima e vera e profonda venerazione mi dico di V. Ecc.ma Rev.ma

Dev.ma. Margherita di Savoia

I Agosto 1900 – Monza.

Potevo io non accogliere questa preghiera dell'Augusta e piissima Donna, scritta col cadavere del Re, suo marito, sotto gli occhi?

Sarebbe stata una crudeltà e un sottrarre al popolo religioso un esempio luminosissimo di fede, di pietà e di fortezza cristiana piuttosto singolare che raro. Chiesto consiglio a chi poteva darlo e avuto parere favorevole, pubblico le orazioni della Regina.

DIVOZIONE
In memoria di Re Umberto I
mio Signore e amatissimo Consorte
ROSARIO

Credo, Pater, De profundis – Perchè fu misericordioso verso tutti, secondo la vostra legge, o Signore, siategli misericordioso e dategli la pace! – Le Dieci Ave Maria.

Pater, De Profundis. – Perchè egli non volle mai altro che la giustizia, siate pietoso verso di Lui, o Signore. – Le dieci Ave Maria.

Pater, De Profundis. – Perchè Egli perdonò sempre a tutti, perdonategli Voi gli errori inevitabili alla natura umana, o Signore! – Le dieci Ave Maria.

Pater, De Profundis. – Perchè Egli amò il suo popolo e non ebbe che un pensiero, il bene della Patria, ricevetelo Voi nella Patria Gloriosa, o Signore! – Le dieci Ave Maria.

Pater, De Profundis. – Perchè Egli fu buono fino all'ultimo suo respiro, e cadde vittima della sua bontà, dategli la corona eterna dei Martiri, o Signore! – dieci Ave Maria – Pater, De Profundis.

Preghiera

O Signore, Egli fece del bene in questo mondo, non ebbe rancore verso alcuno; perdonò sempre a chi Gli fece del male, sacrificò la vita al dovere ed al bene della Patria fino all'ultimo respiro si studiò di adempiere la Sua missione.

Per quel Suo sangue vermiglio che sgorgò da tre ferite per le opere di bontà e di giustizia che compì in vita. Signore, pietoso e giusto ricevetelo nelle Vostre braccia e dateGli il premio eterno. – Stabat Mater, De Profundis.

GEREMIA – Vescovo.

Cremona, 3 Agosto 1900.

Casi Diversi

Il regnante si stanca di tutto. Non è che la donna che lo lasci sempre insoddisfatto. Licenziata una, ne riceve o ne ricerca un'altra. Egli è irrequieto. È sempre in aspettativa di una conquista. Con lui non c'è bellezza che resista. Si sazia di quella di ieri, di quella di oggi. Sarà sazio di quella di domani. È la storia di tutti i sovrani. La moglie, sia pure fascinosa e decorativa, non vive a lungo nella fantasia del marito. Goduta e rigoduta, tramonta. Napoleone I, grande in tutto, ha dovuto stonare la sinfonia matrimoniale come tutti gli altri. La sua Giuseppina era buona per i Barras. Il suo spirito geniale aveva altre ascensioni. Viene il giorno in cui la moglie del sovrano rimane la figurante della reggia. Diventa la consorte ufficiale. La regina che assiste sorridente a tutte le grandi cerimonie. Le intimità affettuose hanno un periodo. Non tutti i periodi. Suonata l'ora i coniugi diventano degli amici. Il signore non ammira più della signora che le toilettes. Il gentiluomo che si curvava alle sue meraviglie fisiche, scompare. L'amante passa per le stesse fasi della moglie. Si chiami Pampadour o Du Barry, Rattazzi o Litta, Vercellana o Laura Bon.

Gli spasimi o i trionfi della carne non le impediscono di essere collocata fra le «non rispettate». Nel re o nell'imperatore è mai la passione. È il fanatismo che dura quanto la tempesta. È il vizio, l'abitudine, la crapula, l'orgia. Sono i suoi ritorni di foia. Un giorno Napoleone, superbo in tutto, ha sentito il bisogno di inaffiare la veste di una signora alla sua tavola per obbligarla a ricomporre la toilette nelle sue stanze alla presenza dell'imperatore. È l'esuberanza dei piaceri che rinnova nel sovrano le delizie delle sorprese del nuovo letto. Ci sono giorni in cui egli non può più tollerare gli amori di reggia. Edoardo VII si salvava sui boulevards parigini. Il defunto sovrano belga preferiva la vita del borghese che raccattava la fanciulla per la via o la trovava nei mezzanini dei restaurants alle donne che gli procuravano i lenoni o le megere al suo servizio. La suburra per colui che non può muoversi senza diventare un avviso murale è l'uccellenda delle sue gozzoviglie carnali. Vi si sente libero, vi si crede sottratto agli spiatori. Umberto I ha avuto i buffoni che gli hanno impedito di fare il vulvivago con le vacche dei mercati internazionali. Gli è sempre toccato servirsi dei mezzani e di contentarsi delle avventizie nei giorni in cui sentiva in lui ruggire la bestia.

Le avventizie sono quasi indelibate o bellezze di fama mondiale, come ai suoi tempi Cloe de Merode del re del Belgio. Duchesse del marciapiede o principesse delle alcove o corpi dalle carni reali scovati dai regi lenoni nelle stamberghe, negli angiporti, nelle soffitte. Capilavori degli uteri popolari. Fra le molte avventizie che popolano la biografia del re martire è una stiratrice, figlia di una lavandaia di colore milanese e sorella di urna ragazzona che scialacquava il corpo magnifico con i figli di papà che se la palleggiavano. Conservo le iniziali delle due sorelle che furono prima del sindaco di Roma conte Ronciani. Due aste di carne marmorea. Superbe, divine. L'una la G., l'altra, l'A., esibivano gli splendori delle loro forme à la honte. Ma prima di dormire nei letti dalle lenzuola di Fiandra sono passate nella bohème. La G., era meno prodiga. A vent'anni aveva incominciato a esigere. Considerava l'uomo la sua marcita, la sua rendita, la sua vita. I capricci non le duravano più di una notte. Pur essendo stata del re, più di una volta, è discesa a sdruccioloni, è andata fino all'immondezzaio di mutare gli ospiti di casa sua quasi tutte le notti. Enormemente ingrossata non ha perduto le forme. Ha figurato come protagonista più di una volta nei processi della pornografia scandalosa.

L'A., è stata più sobria, più ambiziosa, più donna. Senza la spinta della sorella avrebbe finito nelle braccia di qualche Armando. Fra un amore pecuniario e l'altro ella ha avuto soste d'indifferenza monetaria. È stata girovaga con un fotografo ambulante che le offriva il pranzo della troupe alle fiere. C'è stato un momento in cui i suoi ammiratori credevano di averla perduta. Le era dato di volta il cervello. Voleva farsi massaia. Divenire una buona donna di casa. Furono le risate che la distolsero. Più tardi è capitata nelle mani di un giornalista d'ambizione, di un futuro librivendolo, editore, di una celebrità che ha fatto molto chiasso fra gli scrittori carducciani. L'A. è stata un po' sua e un po' degli altri, Lui la lasciava andare, la riprendeva, si serviva di lei per attirare nella sua orbita le persone che dovevano giovare alla sua azienda giornalistica e libraria e la faceva circolare in Roma come una réclame altezzosa. A Milano, ella contava fra le ragazze dagli splendori plastici. Goffa, fatua, sbadigliava, diceva salute a chi starnutava, non si puliva mai abbastanza le unghie rosee delle mani bianche, carnosette, affusolate. Vi vedevi le tracce della stiratrice. Il suo italiano era pieno di lombardismi. Ella era tuttavia un pezzo di statuaria – un capolavoro di scultura viva. Un moulage. Guance brune, leggermente tinte di rosa. Capelli fluenti, morbidi, castani, lunghi un metro e ottanta centimetri. Sciolti, divenivano un mantello che aderiva alle eminenze della sua vita flessuosa. Occhioni neri, imbambolati, voluttuosi, con le palpebre fini come la seta che le ombreggiavano le occhiaie e le davano al viso una signorilità ducale. Silenziosa la si poteva scambiare per una aristocratica fusa d'umanità e di milaneseria. Se si muoveva o parlava la statua andava in frantumi. Allora essa rivelava se stessa, l'origine. Le toilettes eleganti non bastavano più a nascondere la figlia della lavandaia. Guidata dal suo giovine editore, migliorava. A tavola con i commensali, lasciava supporre di essere una donna che aveva oziato sui romanzi. Ma il capitolo centrale della sua esistenza era sempre il letto. La sua forza era se stessa. Il suo corpo era tutta una battaglia. La realtà non naufragava mai. Ella era come quegli ex ufficiali in borghese che lasciano sempre sentire la casta militare. Dalle sue labbra sensuali usciva la parola banale, come dalle labbra degli ufficiali esce quella della caserma. Per farla vivere dovrei rimestare gli episodi. Ella ha avuto, per esempio, un debole per Carducci e il barbaro autore ha vuotato alla sua bellezza più di un calice. Ella a un convivio, in una buvette, si è levata possente fra le meraviglie dei commensali, con il calice alzato alla salute del grande poeta. Scoppiarono gli entusiasmi. Ha avuto un gesto matronale. È parsa a tutti una Cleopatra. Il poeta dal selvaggio mare non è rimasto seduto. Ha veduto in lei una tigre reale.

«Libera e donna degli amori che vuoi, – la gloria tu a me puoi dare, – dammi la gloria dei sorrisi tuoi, o tigre, lasciati amare».

All'epoca diremo così carducciana l'A aveva un album magnifico nel quale i suoi ospiti lasciavano un pensiero o un distico. Tutta la pleiade degli scrittori intorno alla cara editoriale lo ha illustrato e reso famoso.

Si intende che a furia di andare al mulino l'A. si era infarinata. Ella aveva avuta una bimba che prometteva di sbocciare più bella della mamma. Ricadde nel concetto di farsi una fortuna per la figlia. Senza rompere le amicizie e senza distruggere il mènage di piazza di Spagna ella si concesse a un principe romano per 2.000 lire al mese – somma che non le bastava per la profumeria, i guanti, i marron glacès e le corse nelle botti della capitale. Nessuno ha mai capito l'amore del giovine editore. Pareva che a volte fosse sua e che a volte la buttasse nelle braccia degli altri. Ma sua o non sua l'A. non cessava di essere con lui. La creatura dell'A. si sviluppava plasticamente e gli adoratori della madre se ne contendevano la paternità o il diritto di protezione. Fu in quei giorni di saggezza materna che l'A. accettò i biglietti da mille dal personaggio baffuto del Quirinale.

Umberto non era un taccagno. I capricci d'alcova li pagava con una busta chiusa che consegnava lui stesso all'avventizia con i ringraziamenti e una curva. Le avventizie non venivano accettate che precedute dalla fotografia. Una volta accettate il sovrano mandava la carrozza chiusa a prenderle. Ho assistito a questa volgarità reale due o tre volte. Di solito il domestico soleva premere il bottone al di lei uscio quando si stava per andare a pranzo. Il gusto del regnante che ha tentato di militarizzare la monarchia con la complicità dei ministri, era di fare il porco quando tutti gli altri andavano a tavola. L'A. mi diceva che il momento fisiologico era il suo aperitivo. La prima volta le ha dato seimila lire. Me le sono guadagnate, mi ha detto l'avventizia. Tu non puoi immaginare il tempo che si sciupa prima di giungere a lui. Ti si chiude in un salotto dove è un grande album pieno di fotografie di donne godute. È tutta una esposizione femminile. Ha il gusto di Guglielmo II. Lo stesso suo gabinetto pareva lo studio di un grande fotografo.

Questo fatto senza importanza mi ha così disgustata che sarei scappata via, mi diceva l'avventizia reale. C'era tutto il marciapiede nazionale e internazionale. Alcune le avevo conosciute. Fra quelle fotografie ho trovato mia sorella. Se è vero quello che mi ha raccontato lei stessa, un giorno il personaggio del trono, è andato a Monza nel treno reale solo per abbracciarla. Capricci. Ritorna a me, mi disse. Non ha avuto tempo che di fare il bagno. Il tempo di un re non è suo. C'è sempre qualcuno che lo trattiene. Ci sono i ministri che hanno il diritto di precedenza. C'è il presidente dei ministri che può vederlo quando vuole. Ci sono persone inaspettate che gli fanno perdere più tempo degli altri. Se si è fortunate, si è ricevute dopo pochi minuti di attesa. Se non lo si è, come è capitato a me la prima volta, si perdono delle ore Io non sono rincasata che alle nove e mezzo. Al sovrano devo aver dato il mio broncio. Il sovrano non mi ha trattenuta che una ventina di minuti. Dopo la prima volta non mi ha dato che una busta con due mila lire. Quando sono però in bolletta gli scrivo e lo supplico di aiutarmi. Egli non mi ha mai detto di no. Oggi sono in quelle condizioni, mi diceva indossando una toilette dai colori sobrii. Ecco, senti che suona il campanello. Vai ad aprirgli. È uno dei suoi servitori. Digli che vengo subito. Di là nella sala da pranzo c'erano parecchi invitati che ignoravano il dramma reale che si consumava alle loro spalle e aspettavano la signora fumacchiando una sigaretta dopo l'altra. Tra un aperitivo e l'altro io entrai e dissi loro.

— Signori, mettiamoci a tavola perchè l'A. è stata chiamata d'urgenza. È lei che vi prega di non aspettarla. Sarà qui fra un'ora. È ritornata dopo due con la busta di quattro mila lire.

— Scusate tanto, diss'ella entrando in toilette da pranzo. Ho avuto qualche cosa da fare.

Dopo non l'ho vista più. Ha preso il mare e nel paese di elezione deve essere morta. Ma morta o viva nessuno dei coloro che l'hanno conosciuta l'hanno dimenticata. Ella aspetta il suo biografo.

Dal punto di vista giornalistico i re piemontesi sono antipaticissimi. I regnanti delle altre reazioni, anche quelli perduti nella vita lussuriosa, hanno circondato e circondano le loro avventure dinastiche di note, d'im-pressioni, di avvenimenti, di osservazioni. Fra i morti cito la regina Vittoria e fra i vivi Guglielmo II. Tanto l'una che l'altro sono due cervelli spalancati. La loro esistenza che non smaga il lettore con intimità d'alcova è diarizzata. I piemontesi invece hanno ripugnanza per la penna. Non è in loro il gusto intellettuale dei Goncourt di profilare, cesellare, infamare, immortalare e riassumere un'epoca in quattro righe fucinate al fornello cerebrale. La reggia del nostro Paese è come un terreno infecondo e proibito. Non ha gusto per la spalancatura delle porte. L'aria fresca del pubblico è troppo forte per lei. Non vi nasce nulla. È una Casa fatta di armadi di ferro. Tutto vive sotto i chiavistelli. In casa dei Savoia non vi si trova neanche il cortigiano come il Constant francese che abbia la voluttà di preparare per i posteri il dossier dei re. Così i sovrani della monarchia sabauda sono senza aneddoti, o se ne hanno li trafugano con le loro mani. Intorno loro non c'è che il sottovoce. Nelle vite degli scribivendoli più realisti del re i Savoia non sono vivi. Sembrano figure di cera vestite per la parata pubblica come nei musei di madame Taussant. Non sono mai in veste da camera. Non c'è mai l'uomo. Non c'è mai la regina donna. Non c'è che il posatore per la vetrina pubblica. I Giuseppe Massara e i Cappelletti non hanno raccolto dei monarchi che hanno venduto a un tanto al volume che la noia infarcita in uno stile pieno di sbadigli. L'intimità è anche per loro un canapo chiuso. Gli Ugo Pesci sono migliori dei Massari per uno spirito giornalistico, più moderno. La loro prosa è meno afosa, ma il loro inchiostro è troppo monarchizzato perchè sia digeribile. Nei libri degli uni e nei libri degli altri i lettori non respirano nè l'atmosfera di Corte nè l'atmosfera nazionale. Manca in loro l'ambiente. Non vi si trova che il racimolatore di giornali.

Dove invece i regnanti della terza Italia si confondono coi monarchi inglesi e tedeschi è nella réclame. In questa invenzione del secolo scorso essi sono assolutamente maestri. Barnum deve avere imparato da loro ad affiggere gli avvisi elefanteschi per il suo immenso serraglio. Le tre monarchie così differenti nelle concezioni dinastiche sono spronate da uno stesso ideale nel mantenersi calde nelle pieghe della vita nazionale. Tutto è per loro un avviso sesquipedale sulle muraglie e nelle quiete pagine dei giornali dei loro regni. Malattie, attentati, ricevimenti, corse spettacolose ai luoghi del dolore e delle catastrofi umane, momenti di lutto, vittorie strepitose, disfatte memorabili. La malattia di Edoardo VII, quando non era che principe di Galles, è stata una magnifica e indimenticabile affissione monarchica in casa di John Bull. I sudditi non esistevano più che per leggere i bollettini ufficiali dei su e giù della sua salute. Si parlava di lui e si singhiozzava. Nessuno ricordava le sue birichinate, i suoi traviamenti, le fortune che aveva sprecato con le donne degli altri, le sue imprudenze a Montecarlo, al tavolo imprudentissimo del baccarat, il suo bagascismo parigino, i suoi scandali contro i costumi nazionali. Non c'era più che il malato reale. Egli era stato per qualche mese il protagonista di tutte le chiese. Non si pregava che per l'erede del trono. A pregare il Signore della sua guarigione sono andati alla cattedrale di S. Paolo, in Londra, in 500.000 persone. Prima di morire è stato lo stesso. È stato il suo carnevale. La sua operazione chirurgica ha tenuto il fiato della nazione. È morto come il Barnum imperiale, con un funerale di otto cavalli bardati e coperti di gualdrappe riccamente ricamate, con uno spettacolo di sei milioni di persone pigiate nelle arterie del passaggio. Le malattie di Vittorio Emanuele non sono state inondate di tanto pianto per i conflitti fra chiesa e Stato. La discussione di queste finzioni statali è sempre un disastro. Pio IX, negandogli per qualche giorno le consolazioni religiose ufficialmente per punirlo di avergli carpito il potere temporale con una miserabile breccia, gli ha soppresso dalla rèclame il compianto clericale. Il grosso dei mangiatori di ostie religiose ha saputo che fra i due regnanti non c'era buon sangue. Neanche quando il gran re era in uno stato agonico è venuto meno l'odio papale. Non voleva viaticarlo. Lo voleva all'inferno. Non lo ha lasciato viaticare che supplicato dal cappellano di Corte. Ma anche morto non ha suonato le campane e ha laciate silenziose le bigonce, dove i sacerdoti spargono sui chiesaiuoli le loro melensaggini in memoria dei defunti che hanno fatto storia.

Tuttavia il primo re d'Italia non ha perduto che le preci di un clero ribelle. Il papa era odiato alla sua volta da tutta la popolazione laica. Perchè aveva chiamato nello stato pontificio lo straniero, perchè aveva mandato al patibolo i sognatori dell'Italia una e perchè era autore di viltà chiesastiche e temporali mostruose. Non per nulla più di centomila persone hanno cercato di buttarlo, morto, nel Tevere, di notte, al tempo del suo passaggio.

Ritorno al gran re. Il re, malgrado le mormorazioni dei bigotti, è passato alla seconda vita come Padre della Patria. Il cadavere del defunto è stato una enorme affissione di otto giorni consecutivi per dar modo a tutti i sudditi di accorrere alla capitale a vederlo nella uniforme del primo re d'Italia, con la gran spada delle sue vittorie al fianco. Per otto giorni il re magnanimo – chiamatemi pure lacchè di Corte, io non rinuncio ai titoli coi quali lo hanno incorniciato i pennivendoli di Casa reale – ha occupato tutti i giornali e tutte le conversazioni, tutti i parlamentari, tutti i fili telegrafici, tutti i facitori di biografie della speculazione cortigiana, tutti gli uomini eminenti. I suoi funerali hanno dato da fare a più di 300.000 persone. Con tanti cimiteri non si sapeva dove seppellirlo. Si voleva un posto consacrato che non fosse mai stato di nessuno. I torinesi, in nome del loro diritto dinastico, lo volevano nella basilica di Superga. I patriotti, – in nome del loro diritto unitario, lo volevano a Roma. La monarchia in gramaglie è stata abilissima. È rimasta neutra. Ha lasciato che i partiti o le regioni si contendessero il cadavere e che il pubblico magnificasse l'importanza della tomba. Dove deporlo? È stato un affissione che potrebbe essere paragonata, sempre tenendo calcolo che la monarchia inglese è circondata dallo splendore imperiale, a quella di Edoardo VII, degli anni scorsi. È stato un'apoteosi. Il pensiero sovversivo si era rintanato nei cupi recessi della disperazione. Dappertutto signoreggiava il pensiero della maestà.

Nell'ottantaquattro, sei anni dopo il passaggio del carro trionfale, quando la nazione si era scordata che il suo monarca era al Pantheon, la monarchia ha rimovimentato tutto il regno con un pellegrinaggio nazionale alla sua tomba. Altro rigurgito di réclame. Per un mese non si è parlato che di lui, della sua grandezza, dei suoi fasti, dei suoi eroismi, delle sue virtù, delle sue benemerenze, dei suoi impeti marziali, del suo dialetto e della sua bontà piemontese. Il re è stato il tot di quei giorni. Tre cortei pittoreschi dalla piazza di Termini al Pantheon, migliaia di stendardi, frotte di veterani mutilati, costumi di tutti i tempi, concerti in ogni piazza, scudi, stemmi, insegne, motti celebri per tutti i panneggiamenti e per tutti i drappelloni. Corone di fiori, di bronzo, d'alloro, d'argento, d'oro. Medaglie, croci per tutti i petti. Si mangiava, si beveva, si piangeva, si ricordava, si esaltava, si glorificava. L'uomo della giornata fu sempre Vittorio Emanuele II.

Il secondo re della terza Italia, per il quale più tardi si affiggeva il pellegrinaggio che doveva rappresentare la deificazione non è stato popolare come il primo, ma è stato un grande reclamista. L'idea del funerale-apoteosi è uscita dal suo cervello, come dal suo cervello è uscito il pellegrinaggio. Scriveva, come monarca, da cane. Ma in quei giorni l'anima monarchica è stata così espansiva per suo padre ch'egli ha ringraziato tutti con una lettera scritta con la sua penna reale e inviata al sindaco di Roma.

«Il solenne tributo, scriveva Umberto I, di affetto e di riconoscenza che per libera iniziativa di privati cittadini venne offerto dalla intera nazione alla venerata memoria di mio padre, mi ha compreso (sono io che sottolineo l'italiano reale) di tanta gratitudine che desidero far palesi i sentimenti destati nel mio animo da così patriottica manifestazione».

Umberto I ha attirato in Roma tanta gente come il padre. La riduzione del biglietto ferroviario del 75 per cento ai pellegrini è cosa che ha fatto gola anche a me che sono il rovescio della medaglia. Come re non ha nella storia che un posto mediocre. Ma la sua fine tragica che lo ha fatto chiamare il re martire metteva tanta gente in treno. Chiamatemi cortigiano ma io mi sono cacciato nel vagone coi pellegrini. La riduzione del 75 per cento non poteva essere di tutti i giorni.

L'episcopato fu meno tirchio con il figlio di Vittorio Emanuele II. Forse fu la fine diversa. Certo il papa ha contribuito con l'incitamento segreto alla manifestazione che doveva salvarlo dall'ignominia laica. Tutti i vescovi hanno inviato alla casa editrice Cogliati, iniziatrice del dolore chiesaiuolo, parole piene di lagrime. Dall'Alpi al Lilibeo non fu che un grido di esecrazione clericale. Solenni suffragi e preghiere in tutte le chiese. Salto tutte le sciocchezze del canonico prefazionista per non far ridere laici e religiosi. L'arcivescovo di Genova: «Il mite e buon sovrano, che due volte sfuggìa pugnale assassino non fu questa volta risparmiato dal piombo regicida. Onta, obbrobrio, esecrazione alla mano che impugnò l'arma fatale». «D'ora innanzi nell'orazione pro Rege si ponga il nome di Vittorio Emanuele III. Dopo le consuete preghiere e prima del tantum ergo, si canti il Veni Creator Spiritus coll'analoga orazione, e l'altra pro Rege». Torino per l'immane delitto che ha funestato la diletta nostra patria e ne fa piangere a calde lagrime il dolore profondo che sentiamo per la morte immatura e repentina del nostro amato Sovrano, Agostino Richelmy, cardinale abbiamo dato ordine che questa sera diano col suono lugubre delle campana il segno del pubblico lutto». Scalabrini, vescovo di Piacenza ha telegrafato alla moglie di re Umberto: «Celebrati commozione intera cittadinanza funerali solenni suffragio in nome lagrimato Sovrano». E la maestà gli ha risposto. «Grazie a lei delle Sante e dolci parole, grazie al clero delle fervide preghiere, e grazie al popolo pietoso che sa piangere ed amare. Margherita».

Il cardinale cacone di Milano, quello che ha piantato il clero della provincia nelle mani di Bava Beccaris per mettersi in salvo, ha scritto peggio di tutti i suoi colleghi. «Profondamente costernato per l'esecrando delitto consumato nell'Augusta Persona di S. M., il Nostro Re questa sera si suonino le campane e si canti quanto prima si possa, una Messa da requiem». Non si può essere più banali. Non ha trovato nel suo cervello contadinesco una frase che non fosse comune a tutti i pievani della sua diocesi. Che cretino questo affamatore di preti! La circolare di Bonomelli incominciava così, «Sventura e delitto, dolore e vergogna gravano oggi sull'animo degli italiani. Il Re prode e buono è caduto, non lo colse la morte quando egli combatteva sì valorosamene le battaglie della libertà; lo colse ora miseramente, nella sicurezza di una festa, in mezzo al suo popolo, nella sua città prediletta, a pochi passi dal suo palazzo, dove l'augusta consorte lo attendeva e lo riebbe cadavere, portato a braccia dai suoi, mentre il popolo ruggiva di dolore e di indignazione. Piangiamo o figliuoli, ecc.». Il vescovo di Bosa diceva: «Il secolo che agonizza non è secondo al più scellerato che ci descrive la storia. Erede delle dottrine incredule e sovversive del secolo XVIII, che martirizzò Luigi XVI colla corrotta morale ne imitò i più esecrati delitti. I capi liberali dottrinarii si credono irresponsabili dei disordini, che rendono l'Italia il proverbio infame delle nazioni. Chi anima il braccio dei sicari sono le dottrine così dette liberali che s'insegnano sulle cattedre e nelle scuole, donde vollero sbandito Dio e la sua chiesa. Se non si cambia via si arriverà sempre al medesimo precipizio spalancato dai famosi principii dell'ottantanove.

Non c'è mai stata resistenza cattolica. Nel cattolico non è che il residuo di una resistenza atavica. La resistenza di urlare tutti assieme, di pregare, di andare magari ai supplizii imperiali con la faccia illuminata dalla fede. Tutti assieme sono un gregge gongolato dai pastori. Con Pio IX, contro la monarchia espropriatrice, avevano la resistenza passiva – quella del mulo che si pianta con le zampe sulla strada – quella imitatrice del proprio sovrano che si chiamava prigioniero nelle undici mila stanze vaticanesche con un superbo giardino di sei miglia con le passeggiate papali. Il cattolico non crede nella forza fisica. Ai tempi del papa re – erano gli svizzeri che gli difendevano il regno – salariati di tutti i troni – esercito che si decompone con una cannonata di polvere. Vedi la breccia di Porta Pia. La resa non poteva essere più vergognosa. Il cattolico è infido. Non è mai con l'opinione pubblica. Coloro che non credono nella sua religione è gente senza temenza celeste, senza posto nella loro società. I preti, sono della stessa categoria.

Fintoni. Si lasciano affamare dalle curie anche in questi momenti di terribili carestie governative senza uscire dalle mormorazioni. La rivolta non è in loro. Chi si rivolta è spretato. Lo si elimina come un rognoso. Il prete ringhia ma in sagrestia. È il riflesso dei suoi papi. I suoi conflitti di chiesa sono delle genuflessioni. Non sa che prosternarsi. Preso in massa è l'essere più ignorante della società in cui viviamo. Sa male il latino. Fra tutti i neri non era che Leone XIII che lo sapesse. Gli altri sono dei grammofoni. Ripetono per tutta l'esistenza le stesse parole. Scrivono – elimino le eccezioni, diavolo! – come tutti i pievani. Pieni di errori ortografici, grammaticali, linguistici. Non hanno ideali, non hanno ambizioni, non hanno sogni. Non vive in loro che la volgarità del ventre.

La cretineria massima è nelle sedi arcivescovili e vescovili di tutto il clero italiano. Nelle stesse direttive non è ingegno. Alla morte tragica di Umberto I non avevano che il suicidio o la partecipazione al dolore monarchico. Hanno assalito il la politico dei tempi del padre della patria e si sono dati al mestiere degli esecratori. Quale deficienza! Nè cuore nè cervello! La regina carducciana deve essersi coperta la faccia di vergogna più di una volta davanti alla masturbazione chiesaiuola. In tutto il libro dell'episcopati italiano in morte di s. m. Umberto I non trovate un'irruzione cerebrale. È tutta prosaccia floscia, volgare, che stordisce il cervello con gli odori nauseabondi dei piedi ecclesiastici. Sono frasi ridicole, stravaganti, burlesche. In nessun vescovo o arcivescovo o curato o prevosto o scagnozzo era l'avvenimento. Hanno peccato tutti dello stesso peccato dell'imbecillità comune. Io ho cercato un'idea nell'opuscolo di cento e sedici pagine. Non vi ho trovato che vuoti suoni di bestemmie plateali, che stupidità gergali, che poverezza mentale e scelleratezza linguistica. Ne ho già dato dei saggi. Il prefazionista canonico, comm. Luigi Vitali, è un pazzoi-de. Per lui «il truce misfatto», fu un giubilo ecclesiastico che ha dato modo di sopprimere «il dissidio fra chiesa e stato». «Sia benedetto Iddio!». Da un gran male ha saputo trarre un gran bene. Continuando mi imbecillerebbe il lettore. Gli altri sono tutti della stessa risma.

In uno studio come questo i presidenti dei ministri sono le pietre miliari dell'evoluzione monarchica. Con Cavour il sovrano ha conservato il cipiglio di un re personale, come Giorgio III, un pazzotico coronato che andava in giro nella odiosa uniforme di Windsor. Vittorio Emanuele all'esordio era più militare che re costituzionale. Alla reggia preferiva la piazza d'armi. Alla disciplina ha dato i suoi massimi pensieri. Il generale Ramorino non era più colpevole di suo padre. Per lui ha dato la preferenza al moschetto. Così nei torbidi di Genova. Ha dato mano libera al generale Alfonso Lamarmora. Pum! pum! sulle masse repubblicane. I repubblicani erano i faziosi della monarchia. Religiosissimo ha fatto battezzare sua figlia Maria Pia, da Pio IX. Parlava sempre dei «suoi popoli». Si aspettava dalla «nazione» aiuto, affetto e fiducia. L'affetto con lui era un'imposizione. Il suo verbo preferito era il volere. Si serviva del voglio a tutti i pasti. Burbanzoso il sovrano, burbanzoso il ministro. Lui e Cavour volevano dare una patria agli italiani. Per loro due la patria era l'unico bene. Il ministro ha lavorato per il re e il re ha prestato il nome al ministro. Così Vittorio Emanuele è monumentizzato su tutte le piazze come un personaggio fiero che si impone, che, ingiunge, che non transige, che quello che ha detto ha detto. In marmo è burbero, è marziale, è autocratico. Con lui la costituzione è rimasta una ditta di parata. La stampa ha provato il bavaglio e non fu mai sbavagliata. L'opinione pubblica fu un lusso retorico. La Camera che non si fosse arresa alle volontà dei due collaboratori massimi veniva dispersa. I ceti superiori andavano ai collegi come candidati del sovrano. Un orrore! I rossi erano cervelli riscaldati. Con Agostino Depretis non c'è che una leggera differenza. Tipo floscio, tipo di servitore di monarchia. Tipo che credeva di onorare i cittadini governandoli con le leggi di coercizione. In lui non era orgoglio parlamentare. Egli ha anzi lavorato alla schiavizzazione. Sotto di lui tutto si gualciva. Uomini e cose. Persona di gesso. Fama usurpata. Non fu che un atroce nemico degli estremisti ch'egli «frenava» con le aggressioni poliziesche e ch'egli abbatteva con le leggi eccezionali e con condanne spaventose. Le sue facezie poliziesche e parlamentari erano màcabre. Non lo hanno salvato dalle maledizioni dei posteri. Fu bifronte. Prodittatore in Palermo ai tempi dei Mille aveva in tasca il decreto reale perchè in date circostanze assumesse la suprema autorità in Sicilia col titolo di luogotenente generale del re.

Lui, agricoltore, ha assunto nel 66 il portafoglio di ministro della marina e l'Italia ebbe il rovescio di Lissa. Si servì di tutti i balzelli, di tutte le violenze, di tutti gli strumenti di tortura fisica e morale.

Con il re fu cortigiano. Per lui non ebbe negazioni. Si è prostrato a tutte le volontà dinastiche. Lo Statuto era lui. La stampa che non era prezzolata, venduta al ministero della mediocrazia nutrita dai fondi segreti, era inseguita, pedinata, violentata, perseguitata. La si decimava coi sequestri, cogli arresti, coi processi. Con lui si agguantavano le edizioni che stavano per uscire e si scomponevano gli articoli di stamperia con le mani e coi piedi. I giornalisti di quel tempo non avevano pace. Erano degli ammoniti. Sorvegliati da frotte di mardochei istruiti a bella posta per tenerli d'occhio. Nei periodi della persecuzione politica violenta non potevano dormire a domicilio o scrivere in redazione. Dovevano involarsi, rifugiarsi in casa degli amici o in luoghi ignorati dalla questura. I magistrati che rendevano servizi a pagamento al padrone ministeriale completavano il disastro della libertà di stampa.

Agostino Depretis fu una sentina poliziesca. La sua morte è stata un sollievo italiano. Fu accompagnato al cimitero dalle bestemmie di milioni e milioni di cittadini che avevano dovuto subire le sue tracotanze di vecchio servitore in livrea. Con una popolazione meno quieta, Agostino Depretis avrebbe finito brutalmente in una fogna. Epitaffio: fu una carogna dell'ambiente legislativo. Puah! Va alla fogna. Egli fu tutto uno sciocchezzaio di politica delittuosa.

Francesco Crispi, uscito dagli strati rivoluzionari fu una personalista di stato. Fisicamente ha migliorato la classe ministeriale. Ha fatto dimenticare i ventri cavouriani, le facce poliziesche dei Lanza, i piedi proverbiali e malsagomati dei Sella, i tipi puzzolenti dei Zanardelli.

Francesco Crispi fu una figura più che simpatica. Alto, ben piantato, con gesti rapidi e frequenti. Sono noti i pugni che accompagnavano la sua oratoria. Occhi pieni di vivezza, celebrati da tutte le penne giornalistiche. A venticinque anni erano grandi, ardenti, espressivi. A sessanta mutavano. A volte erano dolci e carezzevoli e a volte duri, metallici, fieri di una fierezza brigantesca. I suoi capelli erano un'altra attrattiva personale. Da giovane li aveva nerissimi, folti e ondeggiati, con ciocche che facevano delirare le donne. Vecchio, erano divenuti a poco a poco bianchissimi, senza perdere di vigoria. I baffi gli si erano conservati grandi e candidi e davano alla sua faccia signorile un'aria marziale, come a certi vecchi generali dei tempi napoleonici. Si curava le mani con la diligenza del manicure. Erano belle, bianche, grassottelle, pulite fino all'unghia lucida. Elegante. Consumava cinque o sei abiti all'anno. Si faceva venire ogni anno due dozzine di camizie di batista da Parigi e dava la preferenza ai panciotto bianco in ogni stagione.

Sobrio. Gli piaceva il lusso della tavola, ma si accontentava di un piatto di maccheroni e di una sleppa di carne lessata, o arrostita, o manipolata dal suo cuoco. Non beveva, salvo un po' di Champagne alle mense sontuose dei sovrani, dei ministri o degli ambasciatori. Non fumava. Ha avuto intervalli di adorazione in cui tutti lo amavano, tutti gli volevano bene, tutti lo consideravano un semidio. Dietro lui erano le speranze di ventotto milioni di abitanti. Era il Crispi dei Mille.

Con un temperamento mafioso, autoritario, prepotente, violento, capace di odii tenaci e di affezioni che sopravvivevano alla bufere politiche, Crispi discendeva, smagava, moltiplicava gli iconoclasti che rompevano, frantumavano la immagine che avevano appeso alla parete della casa o sul cuore come una reliquia. A poco a poco si è iniziata una campagna che non ha avuto fine che con la scomparsa dell'uomo. È nato il susurro. Più ascendeva con la prepotenza ministeriale e più discendeva dalla stima degli uomini. Il martello della critica incominciava a sgretolarlo. Si è dato mano alla biancheria sporca della sua vita di esule e di patriotta. Lo si è trovato doppio, subdolo, insincero, capace di mentire. Per giustificare il suo voltafaccia politico aveva dichiarato che la monarchia univa e la repubblica disuniva.

Era naturale. Crispi era in carattere. Egli non era più il rivoluzionario. Egli era il molosso della monarchia. Sbranava i repubblicani, chiamava malfattori i socialisti e come tali li abbandonava ai lacchè della giustizia. Gli anarchici furono la sua zavorra. Li faceva massacrare e coattizzare quando non li faceva finire dai questurini e dai giudici del sistema. Poi? Il grande ministro alla chetichella si lasciava supporre nella corrispondenza privata vittima dei Savoia che gli infliggevano la camicia di forza della monarchia da 25 anni. Smargiassone! Chi tradiva il ministro? Casa Savoia che lo aveva rimpannucciato o coloro che lo idolatravano e che si tenevano vincolati al proponimento delle albe e dei meriggi mazziniani? Egli era in pieno fasto monarchico. Frequentava la Corte con Lina Barbagallo, la chiassona dagli amanti chiassosi. Al Crispi è capitato addosso Rosalia Montamasson come un ciclone. In una magnifica giornata di sole, mentre il suo io politico era allo zenit lo si è udito per le strade come un bigamo, come un cri cri osceno. Le cateratte degli improperii erano aperte. Nessuno lo poteva più salvare. Egli era un criminale. Camminava nell'atmosfera sociale come un'offesa al pudore. La regina aveva fatto chiudere le entrate ai coniugi Crispi per paura di essere contaminata. I parlamentari non lo ricevevano più che di sbieco. È caduto in mezzo allo strepito nazionale che urlava per la sua testa. Roma era divenuta puritana. Non voleva più porci nel suo seno.

Abbasso il bigamo! Via, al bando il corruttore dei costumi. Per dieci anni non se ne seppe più nulla. Taluni lo credevano a Nisida o a Santo Stefano.

L'ex ministro non si era sbottonato che con qualche amico della banda chiamata più tardi «banda Crispi». Egli non era bigamo. Il matrimonio con la Montmasson non fu che una farsa. Il grand'uomo aveva sposata la stiratrice che gli portava la biancheria al carcere torinese nel 1855 per ridere. Falso l'altare, falso il prete che li congiunse, falsa la cerimonia. La Montmasson che aveva combattuto fra i Mille, che era illustrata con la White Mario nel libro di Garibaldi, che era stata presentata a Vittorio Emanuele II a Corte, era stata messa alla porta della casa Crispi con l'ingiunzione di non lamentarsi mai se non voleva essere espulsa dal territorio italiano dalla questura. La povera donna aveva paura del suo ex uomo. Un giorno in cui io avevo incominciato la sua difesa venni supplicato di lasciarla in pace o di prepararmi per il tribunale. Avrei voluto disubbidirle. Invece tacqui.

La «banda Crispi» vasta, composta di arrivisti, di ambasciatori, di prefetti, di giornalisti, di capi di gabinetto, di questori, di consoli, di generali, di professori, di segretari, di sottosegretari di Stato, tutti allevati nella fede del suo avvenire, della sua fortuna, dei suoi trionfi. La banda che lavorava per la gloria dell'alto personaggio aveva un quotidiano che serviva all'elevazione del crispismo e alla demolizione dell'anticrispismo. La Riforma era un giornale formidabile per le Sue ramificazioni, per i suoi contatti statali, per le sue informazioni di sentina. Coloro che attaccavano Francesco Crispi venivano azzannati e scuoiati in pubblico, con materiale che le veniva dai casellari segreti dell'alta questura politica. La Riforma subiva i su e i giù del padrone. Con Crispi al potere i suoi amministratori non facevano a tempo a registrare gli abbonati. Con Crispi ministerialmente disoccupato bisognava soccorrerla. Concorrevano al suo mantenimento banchieri, appaltatori, affaristi andati alla ricchezza con qualche impresa, persone salite al laticlavio, ai titoli di cavalieri, di commendatore, o di onori e gradi importanti. La collaborazione della Riforma era tutta gratis. Nessuno esigeva o domandava o veniva pagato. Era una collaborazione per lo più lesionaria. Scalfiva, spellava, gualciva, rendeva impotente il braggadocio che aveva osato assalire il grand'uomo. I redattori dell'organo crispino erano sommariamente conosciuti come tanti «rettili della stampa» ingrassati e tenuti in vita dai fondi segreti, dai prestiti delle banche che si lasciavano svaligiare per svaligiare alla loro volta lo Stato. Nell'epoca della curée crispina ci sono stati pennivendoli andati alla proprietà della villa, con tutto il confort. Non cito nomi, perchè mi ci vorrebbero molte pagine. La Banca Romana di Tanlongo fu un esempio. La si poteva dire una Banca crispina. Ne ha dato a tutti. Da Crispi al servitore di Francesco Crispi. Dalla moglie di Crispi ai buli della banda crispina o agli amici degli amici di Crispi, agli ultimi arrivati a vedere la serie doppia dei biglietti della Banca d'emissione. Quando si è aperto il libro degli scandali la sottoscrizione compiuta dalle mani più autorevoli faceva strabiliare. Cifre fantastiche, cifre da Vanderbilt, da P. Morgan.

Anche sulle rive del Tevere c'era gente che si fregava gli occhi. La Banca Romana – la più grossa delle sei banche di emissione – era stata presa d'assalto da tutti i bari intorno al ministro. Svaligiata e riempita dai maggiori bari con una doppia serie di quaranta milioni. Crispi non poteva vivere di miseria con una tavola di venti coperti al giorno, con una casa alla diable, piena della ricchezza della donna di alto bordo, Lina, che spendeva e spandeva, che faceva del lusso e disseminava la lussuria, che amava gli uomini, con tutta una caterva di giornalisti che andava da Peppino Turco a Rocco De Zerbi, al Sacerdote, a Luigi Perelli, a Primo Levi, a Paronelli, con dei pranzi di gala, con delle soirées fastose e opulente. La Banca Romana lasciava attingere ai proprii pozzi colmi d'oro. Essa era la borsa ignota dei ministeriali. I Crispi e i crispini vi immergevano le mani e trafugavano con ingordigia, dal grande ministro al maneggione di casa. Da Rocco De Zerbi all'ultimo della banda che scribacchiava in qualche parte. Se l'avvocato Viola, amante della madre della moglie di un grande poeta, non avesse speso una notte nella cernita dei documenti che si riferivano ai Crispi in casa Tanlongo, prima dell'arresto, chissà quante altre sovvenzioni senza restituzione avrebbe avuto la storia. Con i Crispi che divoravano la Banca Romana non sono stati fortunati che i crispini.

Con la banda intorno al grande ministro avvenivano cose incredibili. Tutti se ne valevano. Intorno al Crispi era un mercato. Si negoziava al dorso, all'orecchio, con i movimenti delle dita. I suoi pennivendoli ottenevano da lui tutta la chincaglieria degli onori monarchici per i paltonieri del crispismo che credevano di riabilitarsi fra i cavalieri, i commendatori, i sindaci e i senatori e si lasciavano salassare dalle sanguisughe della claque del grand'uomo. Quante bricconate durante gli interregni di Francesco Crispi! La stampa era quasi tutta al suo servizio. La Sera mangiava alla greppia. La Tribuna viveva della sua biada. L'ha sbrattata dai debiti e la ha sovvenuta con un mensile di 15 mila lire divenuto subito di venti. Il Don Marzio, al servizio di Ciccio, aveva arricchito il suo direttore fino a cadere nell'inchiesta parlamentare dei cinque, con don Ciccio stesso. Il giornale di Scarfoglio, il più formidabile giornalista di quel tempo, ingrassava con le sovvenzioni ministeriali anche se faceva qualche volta della opposizione. Leone Fortis, del defunto Pungolo di Milano, da anticrispino nell'Illustrazione Italiana, si è sottomesso all'offa del suo avversario, e assunse la direzione della Gazzetta Ufficiale, circondata di lucrose inserzioni. Il siciliano fu sempre per la vendetta. Chi gli si voltava contro intisichiva. Prima, anche se elevato da lui, veniva punito con il trasloco o con la soppressione della sinecura, se era impiegato, o allontanato dalla sfera degli affari. Nella burocrazia ministeriale non ci sono mai stati tanti alti impiegati come al suo tempo che riscuotessero senza prestare servizio. Non vi andavano che alla fine del mese con le quitanze. Fra loro si contano ancora dei vivi. Ne conosco. Ne ho conosciuti. La loro scusa era negli articoli che difendevano il presidente dei ministri. I grandi facitori dell'opinione pubblica che si rivoltavano, i maneggioni elettorali dei collegi ch'egli faceva coltivare, i deputati che passavano ai gruppi che votavano contro il ministero, se facevano chiasso, venivano sbranati con le rivelazioni del loro passato custodito dalle polizie del regno o dal gabinetto nero del ministero degli interni.

Ai fedeli non mancava la sua gratitudine. Ricordo per tutti il Dossi, lo scavatore di arcaismi da infarcire nella sua prosa infestata di milanesismi. Con i suoi sperticati aggettivi laudativi è divenuto primo segretario di sua eccellenza e poi ministro plenipotenziario in parecchi paesi esteri. Si dice che il grosso volume dei discorsi del primo ministro sia stato pulito e mondato da lui.

Come uomo di Stato non ha avuto nè concezioni alte nè moderne. Non ha capito la libertà di stampa, pur essendo stato un giornalista che una volta urlava per le libertà politiche. Egli le è andato sopra coi piedi. L'ha insudiciata. Non ha capito la libertà delle organizzazioni operaie. Le ha stroncate, vituperate, assassinate. Non ha capito i partiti che non fossero in ginocchio per lui. Gli altri li ha affidati alle nerbate, alle persecuzioni poliziesche, al codice delle degradazioni civili. Egli ha lavorato tutti con la turbolenza del negriero ministeriale. Ha diminuito la gente, ha decimato la gente, ha annegato la gente nel di lei sangue... Ha violentato tutti. La gente, le personalità, i lavoratori. Non ha avuto che aggressioni. Ha fatto aggredire gli anarchici. I socialisti sono stati la sua bestia nera. Turati è stato confinato. Lazzari è stato confinato. Croce è stato confinato. E via e via. Ha creduto di soffocare le idee degli altri con i domicilii coatti Ha dominato le provincie con gli stati d'assedio. È stato iniquo. Ha portato la desolazione dovunque con i tribunali militari – ultimi avanzi di barbarie. – Tribunali spietati che distribuivano sentenze che fanno rabbrividire a tanti anni di distanza. Le folle, le moltitudini, i proletari del suo tempo non hanno potuto mitigare, processionare, orare che circondati da nugoli di questurini e carabinieri. Una parola o un gesto o un fischio, produceva il casadalviolo. Aggressioni, squilli di tromba, piattonate, pugni, mesi di condanne, per riottosità e rivolta agli agenti. Ha fatto versare più sangue Francesco Crispi che tutti i ministri del Borbone. Basterebbe citare i fascisti siciliani durante la carestia inflitta loro a beneficio dei latifondisti. Fu una strage. De Felice – uno dei capi – per volontà di Crispi avrebbe dovuto morire in prigione come un Cagliostro dell'agitazione. Maria, la figlia del condannato a diciotto anni, è stata messa sulla piattaforma presidenziale come una perduta. Crispi non è che nella canaglieria. La Banca Tiberina, impegnata con i grossi intraprenditori dell'edilizia romana stava per fallire. Nella stessa Banca erano investiti venti milioni di Umberto I. Che cosa ha fatto Francesco Crispi per salvarli e ingraziarsi sempre più il secondo re d'Italia? Ha ordinato al ministro delle finanze, Giolitti, di indurre la Banca Nazionale a soccorrerla fino a quando la Casa reale avesse ritirata la somma investita. Cose da galera! La giuria del processo Tanlongo, davanti a una sottrazione di trenta o quaranta milioni, ha assolto tutti. Non ha voluto rimorsi di coscienza. Ha veduto che i ladroni in giubba ministeriale sfuggivano al verdetto ed ha aperto le porte ai farabutti che avevano truffato il denaro pubblico e lo avevano lasciato truffare per salvarsi.

Francesco Crispi fu sfrontato, ma il cavallottismo gli fece bere il suo calice alla belletta. Egli e sua moglie, Lina, hanno dovuto subire la vergogna del mandato di comparizione per l'affare della banca d'emissione a Bologna. Lui e lei furono immelmati nelle inchieste parlamentari. Crispi è stato un filibustiere o meglio un grassatore della vita pubblica italiana. Invece di disinfettare l'ambiente italiano, lo ha infettato. La Gala fu migliore di lui. La casa di Crispi fu un covo di ladri e di depravati. Lina Barbagallo attingeva alle banche senza restituire. Il figlio di Crispi ha involato i gioielli della contessa Cellere e invece di farsi saltare le cervella ha preso la via dell'Atlantico. La figlia maritata con l'opulenza dei versi carducciani si è smaritata.

Ma non sotto la stridula
procella d'onte che non fur più mai,
ma non, sicana vergine,
tu la splendida fronte abbasserai.
Pria che su rosea traccia
amor ti chiami, innalza, o bella Figlia,
innalza al Padre in faccia
Gli occhi sereni e le stellanti ciglia.

Ei nel dolce monile
de le tue braccia al bianco capo intorno
Scordi il momento vile
E de la patria il tenebroso giorno.
Ne l'amoroso e pio folgoreggiare
de gli occhi in lui levati
l'ampio riso rivegga ei del suo mare
ne' dí pieni di fati;

quando, novello Procida,
e più vero e maggiore, innanzi e indietro
arava ei l'onda sicula:
silenzio intorno, a lui su 'l capo il tetro
de le borbonie scuri
Balenar ne i crepuscoli fiammanti;
in cuore i dì futuri,
Garibaldi e l'Italia: avanti, avanti!

O isola del sole,
o isola d'eroi madre, Sicilia,
fausta accogli la prole
di lui che la tirannica vigilia
t'accorciò. Seco venga a' lidi tuoi
fe' d'opre alte e leggiadre,
o isola del sole, o tu d'eroi
Sicilia antica madre.

Nessuna legge benefica del suo tempo ha temperato i costumi, rabbonita la società, elevata la nazione. Con lui non hanno trionfato che il poliziotto e il giudice malvagio. Ha coattizzato la democrazia, imbavagliata la stampa, che non ha voluto vendersi ai fondi segreti, ha inasprita la giustizia contro il pubblico, ha conservato la coscrizione, ha combattuto il divorzio, ha allargato le zone dell'analfabetismo per deprimere la nazione. Non ha dato modo di assurgere che ai signori credenti nelle sue baratterie ed è morto nell'immondizia di tutte le prevaricazioni, di tutte le convulsioni, di tutte le esplosioni settarie. La sua politica estera e coloniale è riassunta nella veemenza del piantatore americano che voleva l'atterramento dei colorati e l'umiliazione delle nazioni confinanti.

Fu lui, Crispi, che stava per metterci con i coltelli alla gola con la Francia per Tunisi. Fu lui che ci ha fatto sconfiggere dall'imperatore etiopico. Fu lui che ha spolpato gli italiani per mantenere l'Italia nella galera della triplice di Guglielmo II e di Francesco Giuseppe – le figure più fetide che furono sui troni d'Europa. – Ah, via, via, da questa condensazione di feccia ministeriale.

Il saluto di Giosuè Carducci non ha potuto suscitare intorno alla sua bara cordoglio o compianto. Egli è stato un po' per tutti un anticristo politico, un coltivatore di dissolutezze e di delitti. Uno sfruttatore di amicizie, per mungerle all'ingrosso, un clown di Corte e un ladro eminente del tesoro pubblico.

La posterità ha il compito di sopprimerlo anche dalle piazze. Alla demolizione! Egli fu un famigerato che non deve sopravvivere neppure in effige ai suoi delitti. Alla fogna!

Il ribaldo è morto con rantoli cavernosi alle diciannove e quaranta dell'11 agosto del 1901, nella villa Lina, mentre erano intorno al letto, moglie, figlia, il pubblicista Eugenio Sacerdoti, l'avv. Gianpietro, l'avv. Paratore, i deputati Laurenzoni e Galli. Tutti erano inginocchiati. Non si udiva che il rantolo roco del morente che affievoliva. Dopo tre sussulti Crispi espiava i suoi delitti fuggendo dal popolo ch'egli aveva tanto torturato.

La villa Lina, dove è morto l'uomo che tassava la nazione con i decreti reali, che sospendeva lo Statuto quando gli piaceva, era in fondo alla bella via Amedeo di Napoli. La costruzione è stata ordinata da Crispi, l'uomo che se fosse nato in Inghilterra non sarebbe stato neppure eletto deputato per le sue modeste capacità intellettuali. L'idea non e mia. È Guglielmo Ferrero – grande storico – che lo ha detto. Per me il Crispi ha amministrato l'Italia come un intrigante, un pazzoide, un criminaloide e un farabutto.

Alla fogna! alla fogna!

Fu un regno di orrori parlamentari e di malvivenza ufficiale. Lo spazio mi obbliga a riassumere. Furono ventidue anni di malvagità statali. La borghesia fu vile. Non ha registrato che nefandezze e arrivismi. Nessuna genialità. Rabagas o Giboyer. La Camera fu un truogolo sociale dove tutti si immelmarono. Tutti caddero, tutti si vendettero, tutti presero parte alla corsa regia. Da Depretis, a Crispi, da Cairoli a Zanardelli, da Saracco a Di Rudinì, non trovate che mastini regi. Pelloux si è creduto il generale di un casermone. Ha tentato di livragare il Parlamento. Ha fatto nascere l'ostruzionismo parlamentare. Ha giuocata la corona e ha fatto gridare «abbasso il re!» a Leonida Bissolati. Si sono rovesciate le urne per salvare il diritto di rappresentanza. Conspuez Pelloux! Si sono trafugati cinquanta milioni senza controllo parlamentare. L'esercito e la marina durante la dominazione di Umberto I nove e più miliardi con un risultato di sconfitte. Presidenti della Camera vigliacchi come il Palberti, il Chinaglia, il Colombo i quali hanno tentato di imbavagliare la rappresentanza nazionale contro la sedizione regia. Fu un regno di malversazioni. Rigurgiti di commendatori. Tutti ladri. Tutte figure vituperevoli. Le banche d'emissione affollate dai Tanlongo, dai Giuseppe Marchiori, dai Luigi Cavallini – discesi fino alle mistificazioni dei bilanci, fino al torchietto delle serie false, fino alla vendibilità del mascalzone in frack. Giornalismo fetente. Ci sono inchieste parlamentari piene di sbruffati. Al proletariato fu negato il diritto di sciopero, il diritto di organizzazione, il diritto di comiziare. Solo il vacchismo fu libero.

Edoardo Scarfoglio, il direttore del Mattino di Napoli, fu un giorno così esasperato contro la monarchia di Umberto I che annunziò per la sue appendici il re di Cilicia, fatto di scene di corte contro Umberto. Non lo si vide, ma si sa che il materiale in gran parte gli era stato confidato da Francesco Crispi.

Pour la bonne bouche, ha scritto Arturo Labriola ora ministro della Casa ricorderò che gli ultimi anni del regno di Umberto furono contrassegnati da violenti intrighi femminili. Il vecchio elemento dinastico faceva sentire la sua influenza sul Sovrano per mezzo della duchessa Litta. L'elemento rudiniano per mezzo della marchesa Santafiora.

Avemmo, ha detto Scarfoglio, una Madonna Maintenon e una marchesa Pompadour.

La duchessa Litta fu di tanti. Fra i tanti figurano Napoleone III e Vittorio Emanuele II.

Basta. Fu un regno d'istrioni!

Il socialismo non ha potuto avere residenza nel regno di Umberto I che come delinquente. Al suo inizio è stato trattato da malfattore. Lo si è ammonito, coattizzato, insanguinato, trascinato ai tribunali per delle sentenze di vent'anni, o a vita con la catena di trenta maglie alla gamba destra. I suoi propagandisti sono nei registri del regno come malviventi. Andrea Costa è capolista come malfattore. Ha subito domicilii coatti, è passato per l'Italia ammanettato. Si è salvato all'estero come imbianchino e si è sbrattato dei titoli polizieschi con l'elezione a deputato. Orrore!

Le moltitudini sono state decimate, imprigionate come vagabondi, massacrate per le strade come riottose. Tutta Massa Carrara fu ammonticchiata di cadaveri. La Lombardia ha chiuso le serie degli omicidi statali in blocco nel '98. Non ci fu città o paese che non abbia avuto nei ventidue anni il suo eccidio proletario. Neppure i deputati del partito furono protetti dalle immunità parlamentari. De Felice fu uno dei primi sobillatori del malandrinaggio siciliano inviato all'ergastolo per diciotto anni. L'ultimo degli onorevoli galeottizzati dal governo dei degenerati di Umberto I fu Filippo Turati, l'onorevole meno turbolento dei gruppi alla Camera. I giornali socialisti subirono stragi. Non uno fu salvo. La Critica Sociale non è stata risparmiata dai socialistivori dell'epoca.

Per ventidue anni la penisola è stata brigantizzata. Vi signoreggiava il delitto, i suoi ministri non furono superiori ai Cipriani. La Gala. Il la di tutte le aggressioni, di tutti i saccheggi, di tutte le ladrerie è negli scandali bancari. Per anni vi furono veri assalti al denaro statale. Centosettantanove persone, fra deputati, giornalisti, e uomini politici, carpirono alle Banche di emissione, in tante cambiali lasciate in sofferenze, ottantatre milioni! Era tutta gente sbruffata, perchè mascherasse i bilanci e tacesse.

Il deputato Wollemborg, eletto perchè andasse alla Camera con gli scandali a fare scandalo, tacque. Le ladrerie collettive salirono a centinaia di milioni. La sola Banca Nazionale vi era per 100. La Banca Romana per un somma su per giù identica. La Tiberina ha dovuto essere soccorsa per salvare i venti milioni di Umberto.

Fu l'epoca dei plichi, dei tripotages, delle vergogne, delle viltà come ai tempi di Cristiano Lobbia. Inorridiamo.

Ciascuno dei direttori delle banche d'emissione aveva il torchietto per la fabbricazione dei biglietti di banca di tutti i tagli.

Anche in mezzo agli eccidii proletari quotidiani dei mesi di Nitti si rimane trasecolati. Che tempi i tempi di Umberto I, di Francesco Crispi, di Giosuè Carducci e dei ministri che chiamavano il re «il mio re!»

La storia non ha per loro che della corda. Tutti alla corda!

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