II.

Ma tornando al Giusti, il quesito sulla originalità della sua poesia, fu, almeno indirettamente, cioè in questi altri termini, - come fosse ella fatta, e in che assomigli o dissomigli a poesia di altri, - fu proposto assai prima che si curiosasse di critica quanto oggi; e dette occasione a uno scritto di Gino Capponi, che è, ad un tempo, e la testimonianza più autorevole anzi l'autentica, e la critica più intima, che della poesia del Giusti si sia avuta, anche dopo le belle pagine del Carducci, del Panzacchi, del Camerini, del Martini, del Masi, del Biagi. Rispondeva il Capponi nel maggio del 1851, appena un anno dopo la morte del caro ospite suo, a un articolo del critico francese Gustavo Planche, il quale era venuto narrando a' suoi compatriotti, essere il Giusti una sorta d'improvvisatore [45] che, impaziente o incurante delle bellezze di stile, accettava senza pensarvi la prima parola che gli scendeva giù per la penna: perciò privo di vivezza, di eleganza, di precisione, di tutte insomma le doti proprie d'uno scrittore che ami e rispetti l'arte sua. Al che il Marchese, con quel suo sorriso benevolo che gli abbiamo conosciuto e quella temperanza che tanto più gravi quanto più miti faceva le sue sentenze, rispondeva, quello essere il ritratto non dell'amico suo ma di altri poeti (i burleschi appunto del penultimo periodo), diversi tanto dal Giusti, quanto «l'età decorsa, in ciò ch'ella ebbe di più sfrontato, discostasi dal sentire della nostra, e dalle norme ch'essa impone ad un'anima e ad una lingua naturalmente gentili.» Di questa lingua avere il Giusti, dai grandi scrittori e dal popolo, anche campagnolo, tratto tutto quanto è di più fino ma insieme di più nascosto, mediante un senso squisito suo proprio, educato sui classici latini e nostri, ed un grande studio ch'egli poneva con ostinata perseveranza nello scegliere le voci e collocarle industriosamente. Da ciò esser venuta alla sua poesia una efficacia piuttosto condensata e ristretta, «intesa com'ella è a penetrare più addentro»; tantochè aveva egli finito col quasi «negare parte di [46] sè alla spedita intelligenza di molti degl'Italiani suoi» (il che è verissimo, e i commenti venuti dopo lo dicono), non che dei Francesi. E a questi più particolarmente volgendosi, e «sfidando la Francia tutta» a cogliere il valore di certi motti giustiani, come quello (negli Eroi da poltrona) sulle sorti future d'Italia «Vattel'a pesca», adduceva il Béranger, «nome» dice il Capponi «che riviene spontaneo a proposito del Giusti»; e dichiarava che non avremmo noi osato, sebbene tanto più familiari e alla lingua e alle cose di Francia che non alla lingua e alle cose d'Italia i Francesi, non oseremmo noi, e saviamente, dare sentenza sul Béranger (come nè su certi altri quasi indigeti di quella letteratura, quali il Lafontaine, il Rabelais), per non risicare di giudicarlo piuttosto facitor di canzonette che poeta. L'onore del qual nome, nel senso di artefice consapevole, e in queste due cose soprattutto insigne, «squisitezza di forma, finezza di espressione», rivendicava egli al Giusti contro la condanna pronunziata dal Planche, che «i versi suoi non vivrebbero».

È passato ormai mezzo secolo; e quei versi vivono, e si ristampano, e (come il Capponi presentiva, nè gliene faceva lode) ce li commentiamo: di che non credo che per quelli del Béranger, ed [47] è pregio suo e della lingua, si sia mai sentito in Francia il bisogno; perchè, cominciando dall'arietta sulla quale, canzon per canzone, sono intonati, è in quelli tutto il di fuori che s'è accolto nell'anima del poeta, e ne rivola fuora trillando; laddove il Giusti (che ammirava il Béranger; ma quando lo chiamavano il Béranger italiano, ci faceva, e non soltanto per modestia, le sue brave eccezioni, cominciando da questa: d'averlo letto dopo essersi «imbarcato da un pezzo») il Giusti aveva lavorato la propria forma con un intendimento del tutto soggettivo e di sua iniziativa, pur mirando a «farsi interprete delle cose che gli stavano d'intorno». Ed invero le forme di que' due Satirici del vecchio mondo, che nel contrasto fra i due secoli «l'un contro l'altro armato» era destinato a frantumarsi, tanto poco, anzi nulla, avevano che fare insieme, che a tentar di adattare (come qualcuno si è provato) alle Chansons la toscanità degli Scherzi, anche quando i soggetti combaciano e si rasentano, si va nel goffo; e qualche imitazione in stile giustesco dal Béranger, per esempio, dal Bon Dieu quella del Creatore e il suo mondo, è, fra le apocrife appioppate al Giusti, delle più intrinsecamente aliene, nonostante le apparenze, dal fare autentico e legittimo di lui.

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Il quale, è poi da aggiungere che se avesse potuto ascoltare il giudizio del critico francese, non ne avrebbe fatte grandi meraviglie, perchè già si era trovato, com'egli ci racconta, a sentirsi dimandare da un tale qui in casa sua, se avesse letto altro che romanzi e giornali; e ci racconta altresì, come «prontissimo ad immaginare, e assai lesto ad abbozzare, era poi una tartaruga a dare l'ultima mano, e credeva che la morte sola gli avrebbe portato via il pennello de' ritocchi»: dichiarando espressamente, che quel suo «modo di dir le cose alla casalinga» non provava nulla, e che pur troppo il suo difetto era di non contentarsi mai. E séguita confessando le proprie colpe: la stringatezza cercata; lo studio di apparire; l'aver avuto a combattere con quei metri, «facili in apparenza, difficilissimi in sostanza; i quali se non ti fai sostegno dell'inversione, ti slabbrano da tutte le parti», e la inversione poi va a finire nello «scontorcimento». «Gino Capponi mi aveva ammonito più e più volte d'andar per le piane, d'esser semplice e corrente, di lasciare le lambiccature, le finezze sopraffini, le frasi e le parole vistose; perchè, dice il proverbio, chi troppo s'assottiglia si scavezza.....» Insomma, a lasciarlo dire, e a dargli retta senz'altro, cioè senza [49] far la tara all'ipocondria di quel povero organismo malato, si finirebbe..... altro che l'«improvvisatore» denunziato dal Planche, o il «poeta conversevole» che io ho cominciato, Signore mie, dal ripresentarvi come una vecchia comune conoscenza.... si finirebbe, dico, a concludere che Giuseppe Giusti è uno dei più pedanteschi e impacciati scrittori che abbiano mai esercitata la pazienza delle nove sorelle.

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