V.

Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento..... Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel [68] '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio [69] e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all'ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L'Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri.»

Primogenitura di cuore e di braccio, che, nonostante tutto, si è continuata sino ai dì nostri; e che, oggi compion tre anni, sul campo doloroso ma glorioso di Adua rese nuova testimonianza di fede e di sangue all'Italia e alla Civiltà. E se a me fosse lecito evocare dai sepolcri la immortale poesia della patria, oggi dal colle di San Miniato, memore della gloria di Firenze repubblicana, le ossa di Giuseppe Giusti manderebbero, fremendo, a quei valorosi il saluto d'Italia madre; e la voce, con la quale il Poeta accompagnava le prime battaglie per l'indipendenza, echeggerebbe sino a quelle plaghe lontane, dove i nostri figliuoli e fratelli, obbedendo alle leggi della patria, son caduti sotto la stessa bandiera.

Quella voce, per essere non atteggiata in misura [70] di verso, non era però meno voce di poeta. Chè del resto, la musa del Giusti, e in quel tempo lieto e nel triste che poi subito sopravvenne (e le cui tristezze rimuginò egli, nelli estremi del viver suo, in pagine di Cronaca dolorose) la musa sua non sofferse già di tacere affatto. E come a Leopoldo secondo aveva, per le Riforme del '47, rivolto l'omaggio del libero verso,

Signor, sospeso il pungolo severo,

a te parla la Musa alta e sicura,

la Musa onde ti venne in pro del vero

acre puntura;

così in quell'effimero barattarsi di libertà infida e di licenza sconclusionata, che ricondussero tragicamente questa e le altre parti d'Italia, salvo il predestinato Piemonte, nell'antica miseria, il Giusti alle rime sentimentali, di cui pur di quel tempo lasciò tra le sue carte frammenti bellissimi, altre ne alternò della sua vecchia maniera, come la Repubblica (a Pietro Giannone); il Deputato (a Rosina); e (finiti o sbozzati) quei dialoghetti d'una supposta commedia, Granchio e Ventola, Trippa e Ganghero, Crema e Vespa; e i Sonetti epigrammatici, le Maggioranze, l'Arruffapopoli, scoccati fra una seduta e l'altra del parlamento toscano in Palazzo [71] Vecchio; ed anche qualche svolazzo lirico d'un inno patriottico, rifioritura d'altro simile tentativo fatto da studente pei moti del '31. Non può dunque dirsi, che dinanzi alle cose grandi la sua poesia, che di tante piccinerie aveva fatta giustizia, si tenesse in disparte; nè molto meno gli si attaglia la similitudine trovata dal Guerrazzi, di Sansone che, dopo avere scosse le colonne del tempio, si ritragga impaurito de' calcinacci che cascano. Dopo il '48, non cascarono calcinacci, pur troppo: furono rovine, e non di ciò che il Giusti aveva cooperato a demolire, ma di quello che e il Giusti e il Guerrazzi, e tutti i preparatori, avevano per modi diversi faticato a mettere in piedi.

Altre rime poi, fra il '48 e il '49, hanno il sentore d'una maniera nuova, che senza sguagliar troppo dallo stile ormai caratteristico del Poeta, procede più severa e composta, parineggiando quasi, ma sempre con vivacità toscanissima. Di questo nuovo atteggiarsi della poesia giustiana è singolare documento l'Ode dello scrivere per le gazzette, dov'egli promette a sè medesimo che non più

in aperto motteggio

travierà la rima,

mentre pur vuole «ripigliare il pungolo», che [72] nella beata illusione de' nuovi tempi avea creduto poter deporre: e si volge attorno, e vede la demagogia pullulata

come in pianura molle

scoppia fungaia marcida

di suolo che ribolle;

e da cotesto brutto spettacolo l'anima sua vola, e vola la strofa, alata veramente, all'ideale, da quei sozzi vapori ottenebrato, all'ideale della patria:

O veneranda Italia,

sempre al tuo santo nome

religïoso brivido

il cor mi scosse, come

nomando un caro obietto

lega le labbra il trepido

e riverente affetto.

Povera madre! il gaudio

vano, i superbi vanti,

le garrule discordie,

perdona ai figli erranti;

perdona a me le amare

dubbiezze, e il labbro attonito

nelle fraterne gare.

Sai che nel primo strazio

di colpo impreveduto,

per l'abbondar soverchio

anche il dolore è muto;

[73]

e sai qual duro peso

m'ha tronchi i nervi e l'igneo

vigor dell'alma offeso.

Se trarti di miseria

a me non si concede,

basti l'amor non timido

e l'incorrotta fede;

basti che in tresca oscena

mano non pòrsi a cingerti

nuova e peggior catena.

I primi versi di questa tenera filiale apostrofe sono stati scolpiti sulla base del monumento che fra i dolci colli del suo Monsummano lo ricorda ai credenti ancora nella religione della patria. Nè vi si leggono senza commozione, nè senza pensare che forse era quella (a me par di sentirlo con sicurezza) la forma evolutiva che ne'tempi novissimi avrebbe assunta la sua poesia. Que'tempi egli non vide, morendo sull'inizio del salutare decennio espiatorio, che ci condusse al '59. Le stanche ossa del Poeta posarono nel bel colle di San Miniato; e sulla tomba la parola del suo Gino attestò il compianto e l'onoranza d'Italia, per avere,

con arguto stile castigando i vizi

senza toglier fede a virtù,

inalzati gli uomini al culto dei nobili affetti

e delle idee generose.

[74]

Mancò a quel decennio l'ammonimento del mesto e cruccioso suo verso; mancò ai giorni delle pugne supreme e della vittoria il suo canto augurale. Così non paia, o Signori, che sia mancata alla decadenza delle libere istituzioni, all'obliosa ingratitudine dei dopo venuti, all'offuscamento de' principii di moralità civile, all'infiacchimento delle energie d'una nazione che ahimè troppo presto sarebbe esaurita, sia mancata la educatrice satira del Poeta, il quale non avrebbe accettato gli si raddoppiassero gli anni brevi di vita concessigli, se avesse dovuto ripigliare da vecchio, non più il pungolo d'Orazio sopra una società intorpidita e restìa, ma il flagello di Giovenale sopra una degenerazione di cittadini che tradissero le sante speranze della patria, per virtù di Re e di Popolo, dopo secoli di pianto e di sangue, a sè medesima restituita.

Firenze, 1º marzo 1899.

[75]

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