VENEZIA NEL 1848-49

CONFERENZA

DI

POMPEO MOLMENTI.

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Signore e Signori,

Nell'ampia sala magnifica del Palazzo dei Dogi - forse la più bella del mondo - convenivano taciti, avviliti, confusi i veneti patrizî. Era il 12 maggio 1797. Gravi pericoli minacciavano l'esistenza della vecchia Repubblica. Alle offese del Bonaparte l'imbelle doge Lodovico Manin rispondeva con vile rassegnazione, e i patrizi degeneri, convocati a consiglio, con non minore codardia decretarono la fine della repubblica e l'abolizione dell'ordine aristocratico. Poi uscirono tutti a precipizio. Erano cinquecento e trentasette; paurosi i più, alcuni illusi della nuova libertà, parecchi traditori, pochi fieri, risoluti, sdegnosi. Venti soli votarono contro il sacrifizio della patria, cinque si astennero. Così finiva la città dei Dandolo, dei Pisani, [46] dei Veniero, dei Morosini! Un solo giorno faceva dimenticare tutta la sua forza, tutta la sua maestà, tutta la sua grandezza!

Il 17 ottobre 1797, il Bonaparte, con l'infame mercato di Campoformio, vendeva Venezia agli austriaci. E allorchè il giorno moriva e i rintocchi delle campane si spandevano sull'ampia laguna, e le acque erano solcate da splendori fosforescenti, sotto il Palazzo pieno di misteri, dinanzi alle pietre fatte brune dai secoli, fra il popolo muto ed oppresso, un uomo con l'anima in delirio e i nervi agitati, esciva in una imprecazione che, in quell'avvilimento, risuonò alta e fiera protesta, e fu seme di riscossa nelle età future. «L'Italia è terra prostituita» esclamava Ugo Foscolo «premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti e non piangere d'ira?»

Così, con questo alto lamento angoscioso, finisce l'un secolo e comincia l'altro. Nei misteriosi palazzi s'aprono le porte, si spalancano le finestre, vi entra una improvvisa folata di vento, un turbine impetuoso.

Fuggono spaventate le belle donnine tutte frange, fronzoli e cernecchi, i cavalierini dall'anima di stoppa e dallo spadino inoffensivo; e un silenzio [47] come di morte piomba nelle stanze fiorite di stucchi e d'oro, discrete confidenti di colloqui amorosi, dove sorridevano tutte le eleganze e tutte le letizie della festosa arte del veneto tramonto.

Ed oggi, quando i ricordi del passato si ridestano in quelle vecchie dimore, in cui i dipinti e le stoffe si stingono in un color d'ombra diffuso, e tutto ha un dolcissimo profumo di vecchio, e ad ogni oggetto si accompagna una leggenda amorosa; oggi, quando nella penombra di quelle stanze sembra di veder salire e vanire entro cirri di nubi profili femminili, figure eleganti di cavalieri, fantasmi voluttuosi, ci si domanda in qual modo quei Florindi e quelle Rosaure, tutti ben mio, vita mia, vissare mia, poterono, dopo appena cinquant'anni, trasformarsi negli ardimentosi difensori di Venezia.

Come mai il doge Manin, che mentre crollava la longeva repubblica lamentavasi di non poter esser sicuro nemmen nel suo letto, potè, dopo mezzo secolo, trovare il più magnanimo contrapposto in un altro Manin (la storia ha di questi strani riscontri anche di nomi), il quale, benchè plebeo, seppe vendicare l'antica macchia inflitta al nome patrizio? E per che modo l'anima gracile della città dai morbidi amori, dopo una lunga e molle inerzia si destò con tanta possanza? E che [48] cosa ha veramente prodotto la immensa esplosione del '48?

Vediamo.

* * *

La città dominatrice, che avea avuto tutte le grandezze, dovea provare tutte le miserie.

Quando, dopo essere stati cacciati dai francesi nel 1806, gli austriaci entrarono nel 1814 per la seconda volta a Venezia, il podestà Gradenigo - un discendente di quel Doge che avea ordinato e rafforzato il dominio dell'aristocrazia - andava a prosternarsi a Vienna dinnanzi all'Imperatore, mentre un arciduca austriaco sulla piazza di San Marco gettava manciate di denaro al popolo plaudente.

Venezia perdeva a brani il suo manto di regina. Le gondole parevano bare galleggianti, gli uomini attraversanti gli alti ponti ombre del passato - i monumenti rovinavano, e più di dugento palazzi venivano demoliti per non pagare le imposte e per vendere i materiali. Nei cittadini era fiacco lo spirito, nullo il pensiero.

Il governo straniero, senza moderazione e senza [49] giustizia - i balzelli eccessivi - il commercio inaridito e sacrificato alle altre parti dell'Impero, specie a Trieste - le spie e gli sbirri, véritables forçats - secondo la energica frase di Anatole de la Forge - auxquels l'Autriche donnait Venise pour bague - la mancanza infine d'ogni libertà politica e civile non valevano a ridestare gli spiriti, immersi come in uno stupor doloroso. Perfino la religione legittimava la tirannide e faceva sacro il dispotismo.

Ah! se dagli abissi del passato, le anime delle antiche generazioni avessero potuto riveder quei luoghi consacrati dalle loro rimembranze! Se le anime dei dogi, dei senatori, dei guerrieri avessero potuto rivisitare la loro città, ravvolta come in un funebre sudario, e vedere invaso da una volgar turba d'impiegati tedeschi il palazzo dogale, dove gli acuti e gravi magistrati erano stati custodi vigilanti delle libertà più antiche del mondo e sulle antenne della Piazza la bandiera gialla e nera in luogo del temuto vessillo, che s'era inalzato sulle torri imperiali di Bisanzio e s'era agitato ai venti della vittoria sulle acque di Lepanto; se quelle inclite anime avessero potuto veder tutto ciò, tra i gemiti di un immenso dolore si sarebbe udito risuonar per l'aere la lamentazione dell'antico profeta: [50] Quomodo sedet sola civitas plena populo: facta est quasi vidua domina gentium?

Senza palpito e senza respiro veramente sembrava la Gerusalemme dell'Adriatico.

* * *

Dopo la rivoluzione e dopo il fulmineo cruento passaggio di Napoleone, parve fatale e necessaria la reazione politica, che col trattato del 1815 e con la Santa Alleanza, stese un'ombra mortifera su tutta l'Europa.

Ma non poteva durar lungamente; e già dopo alcuni anni in Francia, in Ispagna, nel Portogallo i legittimisti erano vinti; la Grecia e il Belgio si rivendicavano a libertà, e contro la Santa Alleanza si stringeva la lega occidentale tra l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo.

Anche in Italia il germe vitale non era spento. La coscienza patriottica si andava lentamente formando, e sorde indignazioni covavano in alcune anime generose, alle quali fu corona di grandezza il martirio.

Il 24 dicembre 1821 sulla piazza di San Marco, dal poggiuolo del palazzo dei Dogi, veniva letta [51] una terribile sentenza ad alcuni imputati di Carboneria, che stavano sovra un palco d'infamia, esposti alla curiosità di una folla ammutolita.

Fra gli altri veniva commutata la pena di morte in venti anni di duro carcere nello Spielberg a Villa, Bacchiega, Fortini, Oroboni, Munari e Foresti - sante figure di martiri, che vediamo passare per mezzo alle pagine di quel libro, in cui il dolore ha accenti di semplicità sublime, le Prigioni del Pellico.

Dopo il processo dei Carbonari, s'addensò più cupa la maledetta tenebra della tirannide, e sembrò che Venezia di quella silente e paurosa servitù non sentisse vergogna.

I re che ha sul collo son quei che mertò,

si sarebbe potuto dir col poeta.

I veneziani rassegnati o gaudenti senza odio verso il dispotismo, senza amore per la libertà, traevano i giorni inutili e oziosi nei caffè, tra le chiacchiere, nei teatri. Venezia era divenuta la città della musica e della danza. Bellini e Verdi, la Ungher e la Grisi, la Essler e la Taglioni occupavano gli animi di quella gente immemore, assidua consigliatrice di tranquillo vivere.

[52]

Silvio Pellico, che a questo tempo si trovava a Venezia, scriveva:

«Qui mi annoio. I veneziani sono troppo chiacchierini; la loro vita di piazza e di caffè è molto scioperata; non pensano, non sentono. Io erro le intere giornate nelle gallerie di quadri, nelle chiese, nei palazzi crollanti, dappertutto mi colpisce lo spettacolo della passata forza e ricchezza veneziana e della presente miseria. Come mai non vedo in ciascun volto il dignitoso sentimento del dolore? Ad ogni sghignazzare pantalonesco io fremo.»

La sventura incodardisce le anime deboli. Con onorificenze e pensioni erano ricompensate le servili umiliazioni al monarca austriaco: e le famiglie patrizie decadute - servitù decorata! - strisciando inchini pitoccavano sussidî.

Movimento di pensieri e di studî, andava, è vero, timidamente manifestandosi, ma fuori della vita reale. Il Carrer, il Betteloni, il Capparozzo, il Cabianca erano gentili poeti. Il Romanin, il Cappelletti, il Cicogna ricercavano e studiavano i vecchi documenti - ritorno non del tutto infruttuoso alla civile sapienza repubblicana. Non erano spenti il brio grazioso e la vivacità acuta, che aveano dato gli ultimi guizzi nelle conversazioni di Giustina Renier Michiel morta nel '32 e di Isabella Teotochi [53] Albrizzi morta nel '36. E a quando a quando scoppiava la poesia di Pietro Buratti caustica, personale, locale, in cui abbondava la ciarla maligna dei vecchi poeti giocosi, non mai il fremito cocente della satira politica.

La coscienza era vuota d'ogni alto volere, d'ogni intento patriottico, e anche la letteratura, sbiadita e muliebre letteratura da strenne, s'abbandonava a un tenerume, cui davasi il nome di sentimentalità.

La poesia o era lagrimosa ed elegiaca, nuova Arcadia al lume di luna con le castellane e i menestrelli, in luogo delle dee e dei numi dell'olimpo, o finiva nelle canzonette per chitarra, nelle strofette fluenti di quel dialetto molle e carezzevole, che la Signora di Staēl si meravigliava fosse parlato da coloro che resistettero alla lega di Cambray.

E nel sereno armonioso delle notti veneziane, dalla gondola solinga, s'alzava il canto del Lamberti:

La biondina in gondoleta

L'altra sera go menà,

Dal piacer la povareta,

La s'a in bota indormenzà.

La dormiva su sto brazzo,

Mi ogni tanto la svegiava,

Ma la barca che ninava,

La tornava a indormenzar.

[54]

Nell'umido alito profumato della muta laguna l'amore persuadeva le anime effemminate ai morbidi sonni.

A un tratto un grido di rivolta rompe il letargo dei giacenti.

Nel '44 tre ufficiali veneziani della marina austriaca, i fratelli Bandiera e Domenico Moro, disertavano, e il loro eroico disegno d'insurrezione era spento, nel vallon di Rovito, dal piombo borbonico, che troncava su quelle giovani labbra il grido: Viva l'Italia!

Dopo tre anni, il pontificato di Pio IX annunziava la giustizia e la pace. La religione benediceva alla patria, gravata sotto la pressura straniera, e Cristo ridiveniva la speranza degli oppressi.

Dovunque aspettazioni inquiete, palpiti indefiniti, indistinti presagi, un desiderio insomma di rivivere. Le questioni economiche e giuridiche, le discussioni scientifiche, le nuove vie ferrate, le riforme edilizie davano modo ai patriotti di avvicinarsi, d'intendersi, di concitare l'animo ad un solo, altissimo intento: rialzare le energie e ritemprare i caratteri, aspettando che gli eventi sorgessero propizi. Anche le lettere e le arti, ravvivate dalle fiamme del Mazzini, del Berchet, del Guerrazzi, incominciavano, ad acuire la spada, che doveva affrancare la patria.

[55]

Quando, il 13 settembre del '47 s'apriva a Venezia il Congresso dei dotti, il nome del novello Pontefice era salutato con un fremito di gratitudine e di speranza, con clamori d'entusiasmo.

Nell'ora novissima Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che ad incarnare il pensiero patrio tentavano tutte le vie e tutte le forme, con gli scritti e con la parola arditamente chiedevano agli oppressori il risarcimento del diritto troppe volte violato. I due generosi cittadini, rammentando all'Austria le non mai adempite promesse, erano affratellati da un solo ardentissimo affetto, uniti in uno stesso pensiero.

Eppure quanta diversità d'indole fra essi!

Daniele Manin, austero di coscienza come di vita, animo incapace d'odi, ma sensibilissimo agli affetti, aveva mente lucida e comprensiva. Conoscitore profondo degli uomini e delle cose, energico e prudente, riflessivo ed entusiasta, umano e giusto, le più disparate doti trovavano in lui un mirabile contemperamento. Il Tommaseo se imponeva come il Manin il rispetto, non si conciliava come l'amico suo la simpatia. C'era del crudo e dell'eccessivo in quella sua ispida modestia, in quella sua ritrosia diffidente e scontrosa. Egli stesso si dichiarava non d'altro ambizioso che di solitudine, cupido che di [56] povertà, superbo che di voler nulla potere. Ma in entrambi uguali la probità, la lealtà, il disinteresse, il sacrifizio di sè stessi alla patria.

Crescevano insieme con le ire degli oppressi, le vendette del dispotismo. Il Manin e il Tommaseo furono tratti in carcere; ma la ingiusta prigionia, inaspriva non domava il popolo, nelle cui vene fluiva nuovo sangue.

I fati eran pieni, e la rampogna dei forti era finalmente udita dall'orecchio dei neghittosi. Gli uomini insensibili e inerti si mutavano a un tratto in una gente fervida, animosa, concorde. Uomini donne, vecchi e fanciulli s'infervoravano nell'odio alla mala signoria. Non c'era più casa in cui si ricevessero austriaci; molte signore vestivano a lutto, gli uomini portavano cappelli alla Ernani come segno di riconoscimento, e si astenevano dal fumare per non pagare allo straniero una tassa involontaria, mentre la umile musa popolare cantava scriveva su pei canti:

Chi fuma per la via

Xe un tedesco o xe una spia.

La rivoluzione era nell'aria e si sentiva nei nervi; si leggeva in tutti i volti l'odio allo straniero. Dalle vicine città giungevano notizie di risse [57] sanguinose tra cittadini e soldati. Per quietare a suo modo le agitazioni, l'i. e r. governo annunziava ai sudditi che Sua Maestà s'era degnata (la parola è testuale) di mettere le province italiane sotto l'imperio della spada.

Ma gli avvenimenti doveano svolgersi nella loro solenne pienezza.

La Francia s'ordina a forma democratica; sulle vie di Berlino sorgono le barricate; a Vienna dirompe l'ira popolare e vince; e alcuni principi, o per amore o per paura, temperano gli ordini dello stato.

In particolar modo la sommossa di Vienna cresce baldanza alle dimostrazioni patriottiche e a determinare i propositi più risoluti.

Il popolo veneziano che vuol rivendicare patria, esistenza, libertà, come una larga onda furiosa corre alle carceri, ne rompe le sbarre, libera il Manin e il Tommaseo e li porta in trionfo.

Sulle antenne della Piazza s'inalza la bandiera dei tre colori, e come a promessa di vita novella tutti le si stringono intorno; i nobili quasi sentissero più solenne l'orgoglio della gloria vetusta, il ceto mezzano che alla patria dava affidamento di un felice presente e segnava le vie per l'avvenire, il popolo che obliava gli antichi e i recenti [58] servaggi brandendo le armi nel nome della libertà.

E i raggi del sole, riflettendosi sulle ampie vetrate di San Marco, si spargevano intorno come un'aureola gloriosa; e il palazzo dogale pareva irradiarsi di quella luce, che dovea risplendere un istante sulla meravigliosa epifania italiana.

Donde venne, mi ridomando, a quel fiacco popolo veneziano l'audacia della ribellione?

Chi avrebbe potuto sospettare che nel silenzio della laguna si celasse tanta gagliardia?

Gli è, signori, che nelle rivoluzioni del popolo come nelle manifestazioni del genio, vi sono forme ed aspetti diversi. Come v'è la mente che svolge ciò che altri prepararono e v'è il genio che appare solitario e improvviso, così v'è la insurrezione apparecchiata con ordinamento preconcetto e voluto, e v'è la ribellione repentina e impulsiva, che nulla continua, che rifà tutto.

Sono queste, di solito, le rivoluzioni dei popoli miti, tanto più terribili quanto più lunga e pecorile fu la pazienza; come più tremenda scoppia a un dato momento la collera nelle indoli tranquille, riposate, serene, che nelle nature per abito risentite, violenti, subitanee.

Sono queste le rivoluzioni che, anche se vinte [59] e domate, preparano e maturano l'avvenire e rigenerano i popoli neghittosi, togliendoli a una torpida pace. Così il navigante fra le bonacce insidiose dell'Oceano invoca qualche volta la bufera che potrà sospingerlo ad un porto.

La palude morta avea infuso nelle vene di Venezia la febbre violenta della libertà, e al popolo insorto i dominatori sgomenti non seppero rifiutare la istituzione della milizia cittadina.

Era la fiamma antica che riaccendeva il popolo di Lepanto e di Candia? O il soffio del disinganno non avrebbe tardato a sterilire le vive speranze? A chi manifestava il dubbio che il popolo veneziano fosse incapace d'ogni nuova grandezza, il Manin rispondeva:

- Voi no 'l conoscete: io lo conosco; è il mio solo merito: vedrete. -

Ne s'ingannò.

II Manin diede impulso e direzione al movimento disordinato dapprima, come in tutte le insurrezioni.

Contrastare alle rivolte di popolo è temerario e vano, ma ad un'anima gagliarda spetta di solito provvedere, affinchè procedano ordinate ed utili e non sieno macchiate da delitti e da vergogne.

Anche gl'inizi della veneta rivolta furono contaminati [60] da un delitto, ma le passioni popolari trascorrenti agli eccessi, furono subito contenute e frenate da un uomo, che avea tutte le doti per reggere onestamente ed utilmente il potere.

Il mattino del 22 marzo giunge a casa del Manin la notizia che gli operai dell'Arsenale avevano ucciso un colonnello ai servigi dell'Austria, detestato per l'acerbità dei modi e per la eccessiva durezza.

L'energia del concepire era nel Manin vinta dalla speditezza dell'esecuzione. Nel politico lampeggiava l'eroe.

S'alza egli impetuoso, e rivolto a suo figlio Giorgio quasi fanciullo:

- Vieni con me all'Arsenale - gli dice.

- A farvi ammazzare - ribatte inquieta la moglie.

- Anche, se occorresse - risponde freddamente il Manin.

E senza indugio corre all'Arsenale, seguito dalle guardie civiche; intima al contrammiraglio austriaco di rimettergli le chiavi, e al rifiuto, traendosi l'orologio di tasca, dice con energica calma:

- Vi accordo sette minuti di tempo a consegnarmi quelle chiavi. -

Il contrammiraglio cede, e l'Arsenale, potente [61] arnese di guerra, dove si custodivano armi e munizioni in gran copia, e dove l'Austria avea tutto disposto e ordinato per bombardare la città, cade in potere del Manin.

Mentre questo avvocato creatore di rivoluzioni usciva dall'Arsenale, e con la spada sguainata salutava il gran leone scolpito sulla porta, gridando Viva San Marco, i governatori austriaci cedevano i loro poteri al Municipio.

Proclamata la Repubblica, il Manin fu eletto presidente. Il sogno superbo diveniva realtà, e dalle acque tranquille della laguna saliva la speranza, la visione, l'amore, il pensiero di poeti e di martiri, la nobile, la bella, la grande Italia.

Le città venete erano poco dopo sgombrate dagli austriaci, che, protetti dal terribile quadrilatero, chiuso dalle fortezze di Verona, Mantova, Peschiera e Legnago, si ritirarono nella regione compresa tra l'Adige e il Mincio, ove rimessi dalle prime sorprese stettero aspettando l'esercito di Nugent, che adunavasi sull'Isonzo e si apprestava ad invadere il Veneto. Italiani d'ogni parte della sacra penisola correvano intanto alle lagune. Drappellando bandiere, vestiti teatralmente, con divise dai colori sfoggiati, con cappelli piumati ed elmi dalla lunga [62] criniera, con molti uffiziali che il grado eransi conferito da sè, inebriati da sonore ed enfatiche parole e dai canti patriottici sciatti di forma, ma esuberanti di colorito, quei volontari, senza disciplina militare, novissimi al combattere, si mostravano pronti ad affrontare con slancio ardimentoso la morte.

Di memorabili prove di valore parlano i campi di Montebello, di Sorio, di Solagna, i piani di Curtatone e Montanara, innaffiati dal più gentil sangue toscano, i colli di Vicenza, gli spalti di Treviso e di Osoppo, le Alpi cadorine, non meno valide a presidiare la patria delle giovani milizie guidate dal Calvi.

Le armi levate a cacciar lo straniero si credeano veramente benedette da Dio. In quei mattutini crepuscoli della redenzione nazionale, l'amor della patria vampeggiante di purissimo fuoco s'accompagnava a quel sentimento che fa divina l'anima così nelle grandi esultanze come nei grandi dolori. Allora, in quell'Italia così diversa dall'Italia presente, le due grandi forze, religione e patria, andavano unite, le due grandi forze senza le quali è vano sperare che la patria nostra ascenda a' suoi alti destini per le vie della sua ideal perfezione. Allora, nella penombra dorata [63] del bel San Marco, il popolo veneziano accorreva a ringraziare e a pregar Iddio, dal quale solo viene il supremo conforto della speranza. Il vecchio tempio repubblicano significava in que' dì qualche cosa più che un simbolo religioso: esso non rappresentava soltanto la fede, ma la patria, e non pure la patria, ma la dignità di uomini liberi.

Un dì - il ricordo fiammeggiava a traverso l'ombra dei secoli morti - i guerrieri francesi crocesegnati s'erano raccolti sotto le navate della Basilica, la plus belle que soit, e Goffredo de Villehardouin, eroe e storico della santa impresa, implorando pietà per Gerusalemme, faite esclave des Turcs, chiedeva ai veneziani de venger la honte de Jésus-Christ. E i crociati si inginocchiarono, e da più di diecimila petti escì un grido di entusiasmo, e il doge Enrico Dandolo e i baroni francesi giurarono sulle loro spade di combattere per il trionfo della fede.

Dopo sei secoli lo stesso commovente spettacolo si rinnovava nella Basilica d'oro. Aveano anch'essi, i volontari italiani destinati a combattere gl'infedeli della libertà nelle pianure del Friuli, la tunica segnata della croce vermiglia, s'erano anch'essi, i nuovi crociati, raccolti in San Marco per veder benedette dal Patriarca le loro armi e [64] le loro bandiere, prima di lasciare Venezia. E ad essi, il Tommaseo, apostolo e poeta della rivoluzione, rivolgeva il saluto entusiastico: «Sia sereno il valor vostro e tranquillo come stromento degno della imperturbata giustizia di Dio.»

Dio e la patria! E appaiono nella memoria sante figure di preti e di frati, ora angeli di carità presso i feriti e i morenti, ora incitanti alla pugna nel folto della mischia, ove più terribile minaccia la morte, sulle mura dei fortilizî lacere per gli assalti.

Tutto in quella sacra primavera di libertà, risplende come tra un baglior di leggenda. Così circonfusa da una luce vermiglia, che sembrò annunziatrice del dì del trionfo, appare dapprima la figura di Carlo Alberto.

Animo indeciso, che non trovava l'energia della risoluzione se non nel cimentare la vita al fuoco delle battaglie, coscienza squisita ma incompiuta, a lui si rivolgevano gl'italiani. L'amor della patria vinse le esitanze, e il carbonaro del '20, il reazionario del '21, raccolse gli sdegni e le speranze italiane.

E un re, a la morte nel pallor del viso

Sacro e nel cuore

Trasse la spada....

[65]

Palpitarono i cuori allora che quella spada scintillò al libero sole d'Italia. Accorrevano in aiuto delle province venete e lombarde, Durando coi pontifici, Guglielmo Pepe coi napoletani. E quando quest'ultimo era richiamato da re Ferdinando, traditore e spergiuro, Pepe negò obbedienza a quel re fraudolento. Tragittò, senza dimora, il Po, e toccata la opposta sponda, mostrando l'altra ai pochi che con lui aveano serbata fede alla patria, sclamò sdegnoso:

- Di qua l'onore, di là vergogna! -

E corse a Venezia, ove ebbe il comando supremo dell'esercito. Pareva in sulle prime che sui campi di battaglia esultasse la vendetta italiana. I volontari toscani due volte presso Mantova respingevano le sortite nemiche: i piemontesi vincevano a Goito e a Pastrengo: Vicenza si difendeva e ributtava gli assalti eroicamente: i lombardi ricacciavano gli austriaci fino al Trentino. E molte delle province lombarde e venete univano i propri destini a quelli del Piemonte.

Anche l'Assemblea di Venezia fu chiamata a decidere sulle sorti della metropoli.

Il Manin, ripudiante da ogni aiuto di re, era fidente nelle sole forze del popolo. Non era ancora in lui chiaro il concetto unitario, che alla sua vigorosa [66] mente balzò luminoso nella solitudine dell'esilio. Era soprattutto veneziano, con l'anima tutta assorta nel bel sogno glorioso della vecchia repubblica. Ma s'egli rifuggiva dall'omaggio cortigiano, non sentiva ira di settario. Si mostrò irresoluto, e fu la sola volta nel suo breve ma gagliardo governo.

Ma come giudicare con i criteri dell'oggi le idee d'allora? Chi, anche fra le intuite idealità lontane, avrebbe mai potuto sognare un istante, che dopo pochi anni sarebbe incominciata l'età dei prodigi, e che un gran Re, bene innestato sull'arbore italico, raccolta la infranta corona a Novara, avrebbe fatto passare incolumi, a traverso la bufera della rivoluzione, le libere istituzioni; avrebbe fatto uscire il magnanimo concetto del Mazzini dai recessi delle congiure ai campi di battaglia, e con l'aiuto di un eroe popolare, la cui figura sembra rapita al poema d'Omero, di un uomo di Stato, che sembra modellato nella creta onde Tacito plasmò le sue figure immortali, avrebbe riunita la penisola tutta da un estremo all'altro sotto una sola bandiera?

Non opponendosi all'unione col Piemonte, il Manin confessò di fare un sacrifizio. Si mise il partito dell'annessione e fu vinto con voto quasi universale. Il Manin rieletto ministro, rifiutò.

[67]

Gli austriaci intanto ridivenuti padroni di quasi tutto il Veneto, s'erano accampati sui margini della laguna per costringere Venezia a darsi per fame.

Pepe conduceva tratto tratto i suoi soldati al paragone delle armi con gente usa alla guerra.

In tali combattimenti di lieve momento si addestravano le armi inesperte dei volontari, quando giungevano infauste notizie.

Carlo Alberto, sconfitto a Custoza, abbandonava senza difesa Milano, dove il Radetzky, il 6 agosto, rientrava con 30,000 uomini. Dopo tre giorni si firmava l'armistizio Salasco, per cui l'esercito e l'armata sarda abbandonavano al nemico anche Venezia.

Il popolo veneziano, guidato dal Sirtori e dal Mordini, scese allora tumultuante sulla piazza, al grido di Abbasso il governo regio, e ricorse al Manin, che parve ancora il genio custode della città.

A reggere il paese fu eletto un triumvirato dittatoriale: preside il Manin, il colonnello Cavedalis per provvedere all'esercito, il contrammiraglio Oraziani alla marina.

Il 27 ottobre 1848, con un impeto di prodezza eroica, le schiere guidate dal generale Pepe, rompevano dal lato di terraferma il cerchio di ferro [68] serrato intorno alla sventurata città, e fugavano i nemici in quel fatto d'armi che s'intitola la Sortita di Mestre. In quella giornata Venezia aggiunse una solenne pagina di valore alla sua storia.

A Mestre si fecero oltre 500 prigionieri, si lasciarono sul campo 200 austriaci, si conquistarono 6 cannoni. Dei nostri 119 tra morti e feriti, ma nessun prigioniero.

Cadde ferito a morte Alessandro Poerio napoletano, poeta e soldato, una delle più nobili figure del risorgimento italiano. Gli amputarono una gamba e fu trasportato a Venezia a continuare la sua angosciosa agonia. Prima di spirare la grande anima, rivolto a coloro che il circondavano:

- Fine al pianto: celebrate i miei funerali con una vittoria sugli austriaci - disse, e reclinato il capo si addormentò in quel sogno di gloria.

La vittoria di Mestre fu veramente l'ultimo sogno di gloria per Venezia. Intorno alla infelice città si strinse più fiera la cintura di ferro e di fuoco.

Incominciava la penuria dei viveri: dileguava ogni speranza d'aiuto. Dalla Francia vaghe promesse: dall'Inghilterra consigli di desistere.

Nel febbraio del '49 prendeva la direzione del blocco il maresciallo Haynau, ferocissimo, che rinnovava a Venezia la leggendaria apostrofe di Attila.

[69]

Il Manin in quei terribili giorni provvedeva a tutto con la prudenza non mai scompagnata dall'energia, operava ratto e molteplice. Pensava alla difesa, tutelava l'ordine interno; con lettere piene di senno politico sollecitava l'aiuto delle nazioni amiche, e con la calda parola, col coraggio personale, con la mite franchezza imperava sulle intemperanze, sulle gelosie, sulle agitazioni.

Quella rivoluzione, non fu soltanto agitamento febbrile di popolo, ma rivendicazione di sacri diritti, ordinata da uomini, che non soltanto sapeano scrivere e parlare, ma dirigere onestamente e virilmente le cose politiche. Così che se io considero i creatori e i reggitori severi di sì forte governo, mi si presenta allo spirito la significazione che r antichità diede alla statua scolpita in Argo di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua, a dimostrare che valgono più le cose delle parole, rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo con compiacenza; e a' piedi alcuni volumi quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria.

Quando il Piemonte rompeva di nuovo la guerra [70] all'Austria, rifiorirono ancora le speranze, presto troncate dalla sconfitta di Novara, che parve il presagio della ruina di Venezia.

Il 2 aprile 1849, la veneta assemblea si riuniva nella sala del Maggior Consiglio. Le figure colossali dei vecchi dogi e dei guerrieri della Repubblica, dipinte sulle pareti, parevano pronte a trar la spada per difenderla ancora.

I rappresentanti del popolo, sparsi a crocchi per la sala, parlavano a voce concitata, sommessa, quando entrava Daniele Manin.

Ei procedeva non baldanzoso, ma sicuro; grave ma pacato. Un ardore melanconico brillava negli occhi suoi fissi. La sua voce avea strane virtù, che comunicavano alla sua eloquenza una commozione profonda. Dopo aver detto della disfatta e dell'abdicazione di Carlo Alberto, parlò così:

- L'Assemblea vuol resistere al nemico? -

Tutti acclamando s'alzarono in piedi.

- Ad ogni costo?

- Sì, ad ogni costo.

- Badate, io vi imporrò sacrifizi immensi - replicava il Manin.

- Li faremo - gridarono tutti. Dopo ciò si votava la seguente parte:

«L'Assemblea dei rappresentanti dello stato di [71] Venezia, in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'austriaco ad ogni costo.»

L'onta di mezzo secolo prima, con cui un altro Manin aveva macchiata Venezia, era veramente cancellata. Splendeva anco una volta glorioso il retaggio de' secoli, e dagli antichi dipinti della sala del Maggior Consiglio l'immensa moltitudine di valorosi pareva rispondesse orgogliosa ai nuovi accenti d'inclito ardimento.

Anche il popolo parve inebriato d'epico orgoglio. I ricchi portarono sull'altare della misera patria il loro oro: il popolo il suo obolo: le donne i loro gioielli.

Frattanto volendo gli austriaci porre fine alla impresa, riassunsero più gagliardamente le offese, e la squadra imperiale si portò nelle acque di Venezia, chiudendo le vie del mare, mal protette dalla debole e disordinata marineria veneta.

Dalla parte di terra si raccoglievano 30,000 uomini, che fecero piombare la terribile grandine del ferro e del fuoco sul fortilizio di Marghera, sentinella avanzata nella solitudine delle acque.

Venezia non era però preda esposta nè facile, e non le mancavano e petti e braccia e ostinata virtù di resistere.

[72]

Pochi soldati d'ogni parte d'Italia, forti di una costanza che avrebbe stupito in uomini per lunga disciplina esercitati nelle fatiche militari, comandati da prodi ufficiali, quali Ulloa, Cosenz, Mezzacapo, Sirtori, Rossaroll, Galateo, difesero Marghera per ventinove giorni continui di trincea aperta, fino a che il più valido propugnacolo di Venezia, ridotto ad un mucchio di rovine, grondanti sangue, fu dovuto sgombrare. La difesa feroce si ritirò sul ponte della strada ferrata, che unisce la città alla terraferma. Qui l'artiglieria continuò a fulminare di fronte con incredibile celerità il nemico.

Mentre lo strenuissimo Cesare Rossaroll, l'Argante della laguna, puntava i suoi cannoni, fu colpito da una granata. Sorretto fra le braccia del generale Pepe, nella convulsione dell'agonia, con la voce semispenta incitava i suoi a combattere senza posa per l'onore d'Italia.

Ma ogni dì più non l'anima, la speranza scemava.

Dopo la defezione scellerata del re di Napoli, dopo gl'irresoluti consigli del Granduca e le riluttanze del Papa, dopo Novara, dopo il riacquisto di Milano e la mostruosa repressione, di Brescia, anche Roma cadeva, e sulla misera Italia si stendeano nuovamente le ombre del servaggio.

[73]

Separata dal mondo, ultima e sacra cittadella della indipendenza italiana, resisteva ancora la città creduta la più mite, la più tranquilla, la più molle di tutta la penisola, la città degli amori e dei diletti.

L'amor della patria compie di siffatti prodigi!

Ma già a Venezia si faceva sentire acerba la penuria dei viveri, quando, il 29 luglio, cominciava furiosissimo il fuoco contro la città.

Strisce di fuoco solcavano la notte serena: le palle fioccavano.

Il bombardamento continuò senza tregua.

Si dovettero estinguere quaranta incendi: luoghi sacri per religione di memorie e per miracoli d'arte furono offesi. Gli abitanti di alcuni quartieri dovettero cercar rifugio nelle contrade più lontane, verso San Marco. Fra tanto scompiglio non un mormorio d'impazienza, non un lamento, non una protesta iraconda, non una rissa, non un furto, non un delitto. Ma in tutti una temperanza, una bontà, una nobiltà di pensieri e di forme. Anzi, tra gli orrori della tragedia, scintillava alle volte l'arguto sorriso della commedia goldoniana. Fra cento scelgo un aneddoto.

Una notte le bombe cadevano frequenti nella contrada di San Felice. Giovani vigorosi, vecchi infermi, [74] donne semivestite, con bambini per la mano ed in collo, fuggivano senza litigare, senza piangere, senza darsi arie eroiche.

Una donna attempata correva trafelante sotto un enorme carico di fagotti e di arredi. Una delle fuggiasche la apostrofò:

- Ohe! comare, saveu che sè un bel tomo a cambiar de casa a sta ora! -

Per donne e sotto un pieno bombardamento (osservava uno dei gagliardi difensori di Venezia, il povero Fambri, che mi raccontò l'aneddoto) non c'è male davvero; però che fra tutte le specie di valore il coraggio allegro sia senza dubbio il più bello e il più utile.

Il calore della stagione s'era fatto intensissimo e un terribile morbo, il cholèra, era penetrato a Venezia.

Ma nessuno parlava di resa, in nessuno scemava il coraggio.

E non era il coraggio del soldato, che muore tra le grida e l'esaltazione delle battaglie, tra l'ebbrezza della polvere e il fulgore degli acciari; ma il coraggio tranquillo, perseverante, paziente, di lunghi giorni, di lunghi mesi, il coraggio di un popolo che passava a traverso gli scoramenti silenziosi, le delusioni profonde, la fame, la pestilenza, senza [75] ormai la più lontana speranza di aiuti, con la sicurezza di veder morire la patria e la libertà, con la certezza che la fiera perduranza renderebbe più crudele il nemico, più inumani i patti della resa, ma sorretto da un'idea alta, radiosa, divina, la salvezza dell'onore italiano.

Quando la pietà comandava di por fine al sacrifizio del popolo, quando la resistenza più oltre protratta non avrebbe messo capo che a sperpero lacrimabile di sangue, Manin, convocata in piazza la guardia civica, con parole piene di pianto chiese se tutti avevano ancora fiducia in lui.

Tutti risposero - Sì, sì. - Tutti piangevano. La esistenza di Venezia s'immedesimava ancora al palpito del cuore di Manin.

Poi, con voce fioca, il Dittatore soggiunse:

- Checchè arrivi, dite: quest'uomo si è ingannato; non dite mai: quest'uomo ci ha ingannati. -

Tacque e sentì il mancar della vita del naufrago, vinto dall'onda procellosa. Ritiratosi in palazzo, proruppe in pianto disperato e cadde a terra svenuto....

La città era ridotta ai suoi termini estremi.

In un sol giorno i casi di cholèra salirono a 402; cadevano in città circa mille proiettili al giorno, se si consideri che 23,000 ne caddero dal 29 luglio al 22 agosto.

[76]

E Venezia, vuota di sangue e di denaro, avea fame.

Quando più non eravi nutrimento per un giorno solo, il Manin cedè alla fortuna del nemico, e trasmise la podestà dittatoria al Municipio. S'è trovata fra le carte del Manin questa nota, che esprime nella sua brevità tutta la grande angoscia di quel momento: Finito contemporaneamente viveri, polvere, denaro, speranze.

Venezia moriva nelle sue verdi acque. Il canto del poeta le suonava intorno:

Venezia! l'ultima

Ora è venuta;

Illustre martire

Tu sei perduta.

Il morbo infuria,

Il pan ci manca

Sul ponte sventola

Bandiera bianca.

Il sole che tramontava tra vapori di fuoco nella laguna muta, infondeva nella bellezza di Venezia quella intensa melanconia, quella lacrimante soavità che hanno le cose moribonde.

Il 24 agosto, il Municipio conchiuse con l'Austria la capitolazione. Duri patti ai vinti: sottomissione assoluta; occupazione immediata della [77] città, degli edifici pubblici, delle armi, dei materiali; uscita di tutti gli ufficiali e di tutti i soldati: quaranta cittadini condannati all'esilio.

Dopo tre giorni il Manin e il Tommaseo con gli altri proscritti lasciarono la città eroica che per diciassette mesi avea nella sua anima raccolta tutta la maestà dell'anima latina.

* * *

Signori!

Sono passati giusto cinquant'anni da quel tragico giorno. Oggi con la santa curiosità del passato interroghiamo quei tempi, che ahimè! sembrano così lontani, quegli uomini ancora viventi o morti da ieri.

Furono troppo idealisti gli uomini e non maturi i tempi e perciò inutili e folli i sacrifizî, e vano il sangue profuso?

Chi della vita ha un nobile ed alto e onesto concetto non deve pensare così.

Rievocando nelle penombre crepuscolari di questa nostra età quelle audacie magnanime, quale rampogna alla nuova Italia esce dai grandi cuori [78] dei padri che nulla chiedevano alla patria, e come santo appare anche ciò che dagli uomini positivi si usa chiamar rettorica quarantottesca!

Sì, rettorica quarantottesca, ma a questa rettorica s'infiammano i difensori di Venezia, i combattenti delle giornate di Milano e di Brescia; per essa gli stranieri ripassano le Alpi, con essa Garibaldi approda a Marsala e l'Italia si unisce tutta al Re, che il popolo amava e voleva.

Oggi ogni senso di patria poesia è distrutto dall'anarchia della cupidigia e della cosa pubblica fatta bottega di vanità, e i rètori eroici han dato luogo a un'altra specie di ignobili retori, quelli della pratica utilità, abili ricercatori del successo materiale, operosi di quel lavoro che converte l'anima in denaro.

Questa Italia che, secondo il concetto ideale del Mazzini, era destinata ad armonizzar cielo e terra, ahimè! troppo guarda agl'interessi terreni. Respublica negotiosa come ai tempi della decadenza romana. E l'assenza di virtù generose nella nostra generazione, credono alcuni che in molta parte dipenda da ciò che la libertà non abbia avuto una preparazione di sacrificio e di dolore. Certamente le rivoluzioni che, come il cristianesimo, non hanno per origine il martirio, non vincono e vincendo non [79] si avvalorano nella purezza del sentimento e nella santa efficacia della virtù. Ma non è vero che siano mancati l'angoscioso patire e il sacrificio acerbo a questa nostra patria. L'idea del nostro risorgimento balenò sulla cima dei patiboli, sui campi di battaglia, sulle carceri, sugli esilî. Da queste dure prove, da questi aspri dolori, sorge vivida ancora la speranza nel futuro e nel genio occulto d'Italia.

L'Italia non può morire, nè può morir quella fede, che pur non rivelando i misteri dell'avvenire, ne avvalora le speranze. La luce dello spirito non ha occaso.

Signori! Sull'estrema vetta delle cose, vicino all'etere luminoso e inaccessibile si fa udire con nuovi accenti l'assioma eterno dell'ideale.

Ed è dappertutto diffuso uno spirito di vita, fatto di aspettazione ansiosa che si rivela alle anime con una voce, la quale dice che non basta solo pensare, ma sentire; non basta osservare soltanto, ma amare, e che la civiltà per essere veramente perfetta deve essere illuminata dalla luce e riscaldata dal fuoco purificatore dell'ideale.

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