VI.

Le forze della Repubblica erano nelle mani del Capitano generale: chi questo Capitano si fosse, lo sa pur troppo la storia. Se l'assedio avesse trovato già radicata e accreditata la milizia cittadina, e i suoi ordinamenti allargati a tanta parte della gioventù del dominio, quanto fosse possibile in quell'assetto politico tuttavia medievale, pel quale lo Stato, anzi la nazione, si rinchiudeva dentro le mura della città; od anche solamente, se nei concetti del Machiavelli sull'armamento cittadino, che mediante cotesta milizia si attuavano, avesse più vigorosamente alitato quel senso di libertà, che vegliò sempre nell'animo di lui, ma che egli non ebbe la virtù di serbare intatto alle intuite idealità lontane, anzichè ripiegarlo [90] alle contingenze, quali che si fossero, de' fatti, e alle qualità degli uomini, chiunque questi si fossero e checchè operassero, purchè operassero con mano gagliarda e sagace; se insomma l'esercito d'uno Stato, e d'uno Stato costituito da una cittadinanza devota da secoli alla libertà, avesse potuto, l'esercito di cotesto Stato, assumere negli anni di grazia 1529-30, il concetto non d'una forza solamente, ma d'una forza morale; la Repubblica fiorentina avrebbe risparmiato alla storia la vergogna del capitanato di Malatesta Baglioni. E che anche dalle botteghe de' suoi mercanti potessero uscire capitani, cosicchè il capitano fosse altresì, e innanzi tutto, un cittadino che per la città sua combattesse, lo avea mostrato, pur troppo in odiosa guerra come quella di Pisa, Antonio Giacomini; ed era per darne documento, anche per la santità della causa nobilissimo, Francesco Ferrucci.

Par certo, che, nello scegliere i conducitori della guerra imminente, Firenze volgesse l'occhio a tali, che avessero più o men forti ragioni domestiche e personali e politiche di inimicare o almeno contrastare nelle sue ambizioni principesche il Pontefice: nè poteva vederne di meglio disposti che quei signorotti o tirannelli o principi delle città che la Chiesa era, via via, venuta affermando sue, e n'avea composto il proprio Stato, ed aveva le relazioni fra l'autorità propria e quelle tirannidi o supremazie civili regolato con transazioni diverse, ma sempre in mezzo a fieri e sanguinosi contrasti, massime dopo che la gesta del dominio temporale, bandita con auspicii degni del Valentino, si era continuata alle mani guerriere di Giulio II e per le arti diplomatiche di Leone X.

Con tale intendimento si era da Ferrara chiamato Capitano generale un Estense; e sotto la sua dipendenza, Governatore generale delle genti a piede e a cavallo un [91] Baglioni da Perugia. Ma su Malatesta Baglioni si fece maggiore assegnamento per più rispetti: perchè condottiero provato, e di famiglia di condottieri (che voleva bensì dire, anche con tutte le brutture di quella sorta di gente): poi, perchè il padre suo Giampaolo era stato fatto morire a tradimento da un Papa e Medici, Leone X; e Orazio, il fratello di Malatesta, aveva per la Repubblica capitanato bravamente le Bande Nere nell'esercito della Lega; e ora un altro Baglioni, Sforza, cugino ed emulo di Malatesta, e fuoruscito, appoggiava al favore del Papa le proprie ambizioni: e soprattutto, perchè Perugia, posta in sulla via dell'esercito assalitore, poteva offerire efficace resistenza all'avanzarsi di questo, e tener discosta da Firenze la guerra; anzi avrebbe anche potuto la guerra stessa trasportarsi addirittura su quel confine tosco-umbro, guernito di città nostre forti e munite, come Cortona, Castiglione, Arezzo, Montepulciano, e colaggiù per l'Umbria in fazioni fortunate disperdersi.

Può affermarsi che così la pensasse, e lealissimamente perchè secondo l'interesse suo, il Baglioni; e così nell'aprile del 29, quando, a Michelangiolo si affidava la fortificazione delle mura, accettasse il comando: così la pensasse, del resto, solamente rispetto alla possibilità delle cose; perchè allora le armi, che già si cominciavano a muovere dal vicereame di Napoli, non si sapeva verso dove si sarebbero scaricate; nè l'impresa di Firenze era deliberata, e non ancora stretti i patti di Barcellona. Tantochè esso Baglioni, ricevute le profferte dei Fiorentini, incominciava, come suddito della Chiesa, dal chiedere a papa Clemente la licenza di accettarle; mentre ai Fiorentini chiedeva che la sua elezione fosse altresì ratificata dal re di Francia. Quando poi il possibile diventò fatto, e la minacciata dalle armi imperiali fu proprio Firenze, Malatesta pregò e insistette per essere gagliardamente soccorso a muover contro gli assalitori [92] in quelle prime lor mosse, e innanzi che ingrossassero, e mentre l'esercito dell'Orange non arrivava a ottomila uomini. Fu grave errore della Repubblica rimandare, al solito, di Consiglio in Consiglio, di Pratica in Pratica, l'esecuzione di questo che pur sembrava a tutti utile e ragionevol partito: e ne avvenne, che quando in giugno, sovrastando l'Orange a Perugia, espugnata da lui Spello, Malatesta aveva avuto a più riprese il soccorso fiorentino di circa tremila fanti, egli reputò ormai più vantaggioso al proprio interesse accettare i patti onorevoli che gli si facevano da parte del Papa: consegnasse la città, promettendoglisi non vi sarebbe rimesso Sforza Baglioni; e ne uscisse liberamente con le genti sue, portandole seco alla difesa di Firenze. Per tal modo Firenze, dopo avere alla elezione del suo condottiero fatto concorrere come motivo la condizione di suddito indocile e malsicuro al Pontefice, veniva ora ad averlo, patteggiato in certo modo col Pontefice medesimo, contro il quale egli si accingeva a difender Firenze: e da questo punto incomincia quel che, prima di equivoco, poi di anormale, e alla perfine di vituperosamente sleale, ebbero i portamenti di cotesto uomo, per le cui mani doveva finire strangolata la libertà fiorentina.

“Diletto figlio, salute e apostolica benedizione. Godiamo della tua desiderata resipiscenza, ratifichiamo la tua capitolazione col principe d'Orange e con gli agenti nostri, confermiamo i privilegi della casa tua de' Baglioni: ti assolviamo e liberiamo da qualsivoglia pregiudizio, così della presente ribellione, come di delitti quali si fossero, anche di lesa maestà, omicidii, rapine, per quanto gravi ed enormi, da te o da altri per tuo mandato commessi. Dato in Roma, a San Pietro, sotto l'anello del Pescatore, il dì 13 settembre 1529, del nostro Pontificato anno sesto.„ Con questo benservito papale, da un lato, e con la elezione di Governator generale [93] delle armi della Repubblica nostra, dall'altro, veniva Malatesta Baglioni a Firenze.

Trova in Arezzo il commissario fiorentino Antonfrancesco degli Albizzi, e con lui delibera (errore capitale) di abbandonarla e ritirarsi pel Valdarno. È in Firenze; e fa la “lista delle genti e provvisioni che bisognano alla città; e„ (sentite la sua parola) “far venire quei bovi di che è stato ragionato, e far provvisione di vettovaglie, di carne e di strami più che possibil sia, e mandar fuori le bocche inutili; e soprattutto, che si abbiano munizioni per l'artiglieria, cioè polvere e palle, e tutte queste cose si domandano a Vostre Eccelse Signorie: le quali facendosi, prometto sicuramente difender la città dal nemico esercito, e non esser mai per mancare del mio debito e della mia fede, e spender la propria vita in servigio di essa città e di Vostre Eccelse Signorie.„

“Difendere la città dal nemico esercito„, voleva anche dire solamente preservarla dal sacco, che dopo l'esempio di Roma, e con l'appetito di sè che in quei ladroni metteva la grassa Firenze, e con le recenti prove che strada facendo avean dato su Spello e Castiglione Aretino, si credeva da tutti avrebbe accompagnata l'espugnazione. Anche Michelangiolo, in quel suo iroso e trasognato abbandono della patria, avea stimato “impossibile che Firenze non andasse a sacco„; e il crepacuore febbrile, di che, appunto incontrando il grande fuggiasco, era morto per via Niccolò Capponi, era stato dopo avergli sentito dire questa atroce parola, “il sacco„. Preservare Firenze dal saccheggio, per consegnarla intatta all'Imperatore. Il quale, dal canto suo, stretto dalle altre universali occorrenze politiche, e dalla penuria di denari, e dalle sollecitazioni incessanti di Clemente, raccomandava all'Orange, che in un modo o in un altro si venisse a pronto fine dell'impresa; e meglio (scriveva ad esso Imperatore [94] la zia Margherita d'Austria, governatrice per lui e fida consigliera) “meglio, per mio piccolo avviso (pour mon petit advis), se si finisse accordandosi coi Fiorentini, senza usar loro forza, ma cavandone qualche discreta non però disonesta somma di denari, e non avendo poi troppo riguardo„ (brava e buona duchessa!) “alle passioni vendicative del Papa, che dovrà prendre raison en paiement.„ E lo stesso D'Orange si mostrava impensierito del come si finirebbe, fra l'accanimento mediceo del Pontefice che esigeva i patti sanciti a Barcellona, e la fermezza dei Fiorentini di non arrendersi se non salva la libertà: perchè (scriveva il principe all'Imperatore), o Firenze non si prende; e vegga egli, e vegga anche il Papa, che scorno per le armi di Cesare! “o s'io la prendo, ella andrà a sacco; il che sarà male per ambedue loro, poichè sarà la distruzione di una delle migliori città d'Italia, e luogo nativo del Papa; e senza pro, perchè il denaro, che farebbe comodo all'Imperatore, andrà sperperato fra la soldataglia, la quale non per questo cesserà di tirare le sue paghe.„ In questi conteggi che si facevano sul capo della misera Firenze, il Baglioni veniva a portare una nuova coefficienza: ed era la disposizione alla quale i suoi interessi perugini, testè accomodati così bene col Papa, dovevano inclinarlo, di non precipitare le cose dei Fiorentini verso quella guerra a oltranza, così di difesa come d'attacco, che egli stesso, sulle prime mosse, aveva, ma senza effetto, consigliata e voluta fare per sè e per loro; e che, dopo non averla potuta attuare per sè, gli era oggimai espediente non attuare, e procurare non fosse attuata, nemmeno nella città delle cui armi assumeva il governo. Come i Fiorentini non videro ciò? Altro che le colonne del porfido, per le quali il Poeta avea proverbiato “vecchia fama nel mondo li chiama orbi!„ Bisogna dire che l'ultim'ora di Firenze e della libertà [95] fosse segnata ne' decreti di Dio, e che allo strazio d'Italia, il quale era incominciato col secolo, non dovesse mancare, per prima vittima, la città nella quale, con la lingua divina, con le arti, con gli ordinamenti della più popolare fra le sue repubbliche, l'Italia aveva, nel cospetto del mondo rinascente, affermata per la seconda volta sè stessa!

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