X.

Con il ricordo di questa “cara e buona immagine paterna„, affrettiamoci a' tempi nuovi, al nuovo secolo, di cui ormai rosseggia in cielo, nel cielo della letteratura e dell'arte, la splendida aurora. Già ne scorgemmo i segni annunziatori nell'ottenuto acquisto della ricchezza, nell'affrancarsi così dai vecchi pregiudizi, come dalle severe regole del vivere antico, nelle tendenze egoistiche preparanti lo svolgimento di quel che i moderni critici chiamano “individualismo,„ onde meglio si comprende il carattere degli uomini e della vita della Rinascenza.

L'affetto per il Comune, per la patria e anche per la famiglia, già s'affievolisce col desiderio acuto de' godimenti, di che non era avara la vita a chi volea gustarne le dolcezze. L'incredulità fa capolino; lo scetticismo, la sensualità, minacciano di prendere il sopravvento. Coteste generazioni, dopo i terribili terrori delle pestilenze, scampate all'infuriar del contagio, doveron quasi meravigliare, stupire di risvegliarsi alla vita.

Dalla grande moria del 1348 ai primi del '400, i cronisti ne registrano molte altre: ricordiamo quelle del 1363, del 1374, del 1400, del 1411, del 1420 e del 1424. Un nostro erudito spogliando il libro de' morti degli Ufficiali della Grascia, noverò dal 1.º maggio al 18 settembre 1400, ben 10908 morti, la massima parte fanciulli. Della peste del 1348, oltre alla classica e grandiosa descrizione del Boccaccio, troviamo vivi e dolorosi ricordi nelle cronache famigliari, ne' diarii, ne' memoriali.

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Dovè essere un pauroso, un raccapricciante spettacolo! Giovanni Morelli racconta che in un'ora “si vedeva ridere e motteggiare„ il vicino o l'amico “e nell'ora medesima il vedevi morire„. La gente cascava morta per istrada “su per le panche„ come abbandonata, senza aiuto o conforto di persona. Molti impazzivano e si buttavano nel pozzo, o giù dalle finestre o in Arno, dal gran dolore o dalla orribile paura. Tanti morirono senza esser veduti e “infracidavano su per le letta„, molti si sotterravano ancor vivi. “Avresti veduto una croce ire per un corpo e averne dietro tre o quattro prima giugnesse alla chiesa„. Si calcola che in Firenze morissero i due terzi delle persone, “cioè de' corpi ottantamila„. Della moria del '400, veggiamo un'efficace pittura in una lettera di Ser Lapo Mazzei. “Qui non s'apre appena appena bottega: i rettori non stanno a banco: il palagio maggiore senza puntelli: nullo si vede in sala: morti non ci si piangono, contenti quasi solo alla croce„. Era uno spavento: i figliuoli morivano, cadevan gli amici, i vicini, i conoscenti, gl'ignoti; nel colmo della estate, passavano i cento al dì; nel luglio vi fu un giorno che furon dugento.

Di quella del 1420 scrive nel suo Libro segreto Gregorio Dati: “La pestilenzia fu in casa nostra, e cominciò dal fante, cioè Paccino, a l'uscita di giugno 1420; e poi da indi a tre dì la Marta nostra schiava, e poi al primo dì di luglio la Sandra mia figliuola, e a dì 5 di luglio l'Antonia. E uscimmo di casa, e andammo dirimpetto; e in fra pochi dì morì la Veronica: e uscimmone e andammo in Via Chiara, e presevi il male alla Bandecca e alla Pippa, e amendue s'andarono a Paradiso [79] a dì 1.º d'agosto, tutti di segno di pestilenza. Iddio li benedica!„

Chi poteva fuggire, scappava ad Arezzo, a Bologna, in Romagna, in alcuna città e terra dove credesse potersi stare sicuro. Il Datini se n'andò a Bologna, portando la famiglia, i domestici e i forzieri su ronzini e su muli carichi di ceste. Buonaccorso Pitti scampò dalla peste del 1411 recandosi a Pisa in una casa a pigione, dove in sette mesi spese 1300 fiorini e gli morì una figliuola e un famiglio. Nel '24 mandò il figlio suo Luca con la moglie e i bambini a Pescia, dove poi si ridusse con gli altri congiunti.

Era di regola recarsi “in qualunque luogo la mortalità non fosse stata„; rimedi contro l'oscuro malore non c'erano, nè l'arte dei medici sapea consigliarli. Il Morelli prescrive alcune norme che oggi si direbbero igieniche: la pestilenza del 1348 era stata cagionata da una terribile carestia: “l'anno dinanzi era suto in Firenze gran fame„; “vivettesi d'erbe, e di barbe d'erbe, e di cattive„, “tutto contado era ripieno di persone, che andavano pascendo l'erbe come le bestie„, e i corpi erano disposti e non avevano “argomento nè riparo niuno„. Consiglia, pertanto, conservarsi sani, riguardarsi, mangiar bene, sfuggire l'umido, “spender largamente„, senza “niuna masserizia„ senza economia “fuggi(r) malinconia e pensiero„, pigliarsi “spasso piacere e allegrezza„, non “pensare a cosa ti dia dolore o cattivo pensiero„, giuocare, cavalcare, divertirsi, stare allegri, tenere “in diletto e in piacere la tua famiglia„, e “far con essa buona e sana vita senza pensiero di fare per [80] allora masserizie; che assai s'avanza a stare sano e fuggire la morte„.

Gli “avanzati„ dal mortale flagello, doverono ben presto avvezzarsi al nuovo tenore di vita, anche passato il pericolo. Effetto della peste e de' suoi terrori, le processioni dei “penitenti bianchi, simiglianti a quelle che quasi un secolo innanzi, sotto il nome di compagnie de' battuti, avevan percorsa tutta l'Europa. Partivansi in folla dalle lor case mescolati uomini e donne, laici ed ecclesiastici, tutti vestiti di bianche cappe che lor coprivano anche la faccia, avendo un crocefisso per insegna; e andavano processionalmente di paese in paese cantando laudi, pregando con alte voci misericordia. Giacevano quasi sempre all'aria aperta, non domandavano che pane e acqua. I popoli delle città visitate, accendendosi d'egual fervore andavano col medesim'ordine a visitare un'altra città. Alla comparsa dei pii pellegrini, tutti movevansi a penitenza, le gravi inimicizie si deponevano, si pacificavano le discordanti fazioni, le città si riempivano di santimonia„. A Firenze i facinorosi voleano profittarne per liberare i prigioni delle Stinche; ma fortunatamente s'impedì che la città n'andasse a romore d'arme, e tra le altre si fecer le paci tra i Pitti e i Corbizi. Anche Francesco Datini nell'agosto 1399 andò in pellegrinaggio, “vestito tutto di tela lina bianca e scalzo„, co' suoi famigli, amici e vicini. Erano in tutto dodici e portaron seco due cavalle e una muletta, “in sulle quali bestie mettemmo un paio di forzeretti, in che furono più scatole di tutte ragioni confetti, e formaggio d'ogni ragione, e pane fresco e biscottato, e berlingozzi zuccherati e non zuccherati e [81] più altre cose che s'appartengono alla vita dell'uomo, tanto che le dette cavalle furono presso che cariche di vettovaglie„. Stettero in pellegrinaggio dieci giorni, dal 28 agosto al 6 di settembre, e giunsero fino ad Arezzo o poc'oltre; e dovunque si fermavano compravano cose da mangiare. Era davvero un allegro modo, e comodo, di far penitenza, e di pellegrinare a cavallo!

Delle pratiche religiose, i più accorti e più increduli rispettavano appena la forma esteriore, come il Datini, che temeva i rimbrotti e i predicozzi dell'amico e mentore spirituale Ser Lapo Mazzei.

Altri, come Buonaccorso Pitti, già ci porgono l'immagine dell'uomo della Rinascenza, che non ha terraferma, e gira il mondo, rôso da una interna irrequietezza, e giuoca, e perde, traffica, e mescola la politica ai commerci e ai sollazzi, come un avventuriere del Settecento, come un Benvenuto Cellini, ma senza l'arte e con molto meno d'ingegno. Curioso, strano tipo questo Pitti che sembra morso dalla tarantola e mena le mani e sta a tu per tu con Carlo VI, con duchi e principi, che cavalca a Roma difilato per una scommessa con una giovane ond'era invaghito; gran danzatore, giuocatore ostinato e prode e leal cavaliere, e in patria assunto agli uffici supremi. Il Burckhardt lo chiama addirittura un precursore del Casanova, che viaggia continuamente in “qualità di mercante, di agente politico, di diplomatico e di giuocatore di professione„. “Guadagnò e perdette enormi somme, e non trovava competitori che fra i principi, quali ad esempio, i Duchi di Brabante, di Baviera e di Savoia„. Questo il padre di quel Luca Pitti che in ricchezza e in magnificenza rivaleggiava coi [82] Medici e voleva anche in ogni altra cosa andare a paro con Cosimo. I mercanti di panni divenuti banchieri e prestatori, aveano in quei viaggi, in quei traffichi, con quelle “fattorie„ sparse in varie città d'Europa, ne' più operosi centri del commercio, negli scali più frequentati, accumulato smisurate ricchezze, ed era venuto il tempo di godersele tranquillamente.

Già Fiorenza come una bella e prosperosa giovane “con buone parti„ e dote abbondante, cessate le gare fra i partiti che se la contendevano, all'ombra de' lauri medicei socchiudeva gli occhi abbarbagliati da tante sfoggiate magnificenze, onde, come femmina, s'era lasciata conquidere. Le famiglie, fatta la roba, voglion fondar la casata: si cercano i maritaggi più convenienti e si discutono quasi fossero alleanze. L'Alessandra Macinghi va a tutte le messe “in Santa Liperata„ e si pone “allato„ alle fanciulle, con cui vorrebbe per il suo Filippo far parentado, e con occhio di futura suocera le studia, le esamina, le spoglia, e ne scrive al figliuolo come se si trattasse d'un mercato di polledre e non d'un matrimonio. Egli è vero che la buona madonna Lessandra, per me troppo esaltata e lodata, dovette avere piuttosto cuor di mercante che di donna. Che mettesse le mani addosso alle schiave, lo confessava ella stessa senza ritegno; era costume, e fors'anche con quelle rôsse e tartare la pazienza doveva facilmente scappare. Ma di lei e della sua pietà troviamo un documento rivelatore. Si tratta di due vecchi, gli unici che rimanessero d'una famiglia di lavoratori di Pozzolatico: “ancora vive Piero e mona Cilia, tramendua infermi. Ho allogato il podere per quest'altr'anno, e me lo conviene mettere in ordine: e que' due vecchi se non muoiono, hanno andare accattare. Iddio provvegga„. Nè crediate sia [83] questo un tristo, ma fugace pensiero: è un fermo proposito. In una lettera scritta, pochi mesi dopo, nel dicembre del 1465, leggiamo: “Piero vive ancora„ a Mona Cilia Iddio aveva forse già provveduto “e bisogna che se n'esca, e andrà accattando.... Arà pazienza: che Iddio lo chiami a sè, se 'l meglio debb'essere!„ Col cuore, non si fa masserizia!

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