I.

Quel fiorentino bizzarro del Lasca fu tra i pochissimi italiani che nel secolo decimosesto avessero un concetto chiaro e concreto di ciò che fosse e di ciò che dovess'essere il genere drammatico. Non che riuscisse a scriver lui delle commedie vitali; ma, pur non avendo scritta nè una Drammaturgia nè un Nathan il saggio, egli ebbe in sè qualcosa del Lessing: una scarsa vena poetica, cioè, e un'acuta vista critica, snebbiata dagli uggiosi e letali pregiudizi della imitazione classica. E fu una nuova iattura per l'arte nostra che gli sprazzi di luce, emananti dai prologhi delle sue commedie o dalle poesie burlesche, non valessero a trattenere qualcuno dei nostri tanti commediografi dall'inoltrarsi per quella via senza uscita della imitazione di Plauto e di Terenzio.

Poichè, mi preme dirvelo subito, noi abbiamo speciale obbligo a codeste due nostre glorie passate se siamo privi d'un vero teatro nazionale. [428] Come fummo gli ultimi a tollerare che un nuovo volgare si sostituisse a quella lingua con cui i nostri maggiori avean governato il mondo; così ancora noi non sapemmo staccarci in tempo da quelle tradizioni letterarie, che il mondo ancor venerava e c'invidiava. E mentre una gente nuova, senza scrupoli e senza doveri, ci guadagnava la mano, noi, con gli scrupoli ed i doveri di eredi d'una nobile razza, ci attaccammo al passato; e nella poesia drammatica ci persuademmo che s'avessero a prendere a modello le commedie degli antichi anzichè la natura e la vita che ci s'agitava d'intorno.

Quando da un poeta come l'Ariosto ci sentiamo dire nel prologo dei suoi Suppositi: “vi confessa l'autore havere in questo et Plauto et Terentio seguitato...., perchè non solo nelli costumi, ma nelli argumenti anchora delle fabule vuole essere degli antichi et celebrati poeti a tutta sua possanza imitatore; et come essi Monandro et Appollodoro et gli altri greci nelle lor latine comedie seguitaro, egli così nelle sue volgari i modi et processi de' latini scrittori schifar non vuole„; quando, dico, ci sentiamo dichiarar di codeste cose dal poeta che con un sorriso tra scettico e bonario ravvivò la già stracca materia cavalleresca mettendone in rilievo il lato comico senza sdrucciolare nella caricatura, da quel virtuoso [429] della forma che illuminò della luce della rinascenza tutto un informe e caotico mondo germogliato nelle fantasie medievali: ci si stringe il cuore, e ci corre sulle labbra l'angosciosa esclamazione del falconiere dantesco: “ohimè, tu cali!„ E l'Ariosto calava davvero; giacchè nel prologo della prima sua commedia, la Cassaria, egli aveva levato baldo il volo e bravamente affrontati quei pregiudizi dov'ora s'impigliava:

Nova commedia v'appresento, piena

Di varii giochi, che nè mai latine

Nè greche lingue recitarno in scena.

Parmi veder che la più parte incline

A riprenderla, subito ch'ho detto

Nova, senza ascoltarne mezzo o fine;

Chè tale impresa non li par suggetto

Delli moderni ingegni, e solo stima

Quel che li antiqui han detto esser perfetto.

È ver che nè volgar prosa nè rima

Ha paragon con prose antique o versi,

Nè pari è l'eloquentia a quella prima;

Ma gl'ingegni non son però diversi

Da quel che fûr; ch'ancor per quell'artista

Fansi, per cui nel tempo addietro fêrsi!

Ohimè! dopo, egli dovea rimetter le mani su questa medesima Cassaria, e, per renderla meglio rispondente agl'ideali classici, ritoglierle la nativa freschezza e quel colorito giovanile onde a un giudice ben difficile e competentissimo, [430] al Machiavelli, era parsa “una gentil composizione„, traducendone perfino il dialogo in quei fastidiosi versi sdruccioli che avrebbero dovuto arieggiare i giambi! Il pubblico fu poco grato al poeta per codeste nuove cure; e il Lasca dava ragione al pubblico:

In fino ad oggi non s'è recitata

Commedia in versi mai che sia piaciuta;

E la Cassaria, in versi trasmutata,

Nel recitarsi non fu conosciuta.

Ma l'Ariosto aveva della poesia drammatica un concetto troppo aristocratico,per preoccuparsi del giudizio di spettatori che non fossero al caso di apprezzar degnamente le finezze e l'arte squisita ond'egli l'avea trapiantata sul suolo italiano dai verzieri fiorenti del mondo classico. Per festeggiare la seconda discesa in Italia di Carlo V, il duca di Mantova richiese l'Omero ferrarese di qualche nuova commedia; ed egli si affrettò a mandargliene quattro, scusandosi se le sue occupazioni non gli permettessero di correggerle “delli errori circa la lingua„. Ma gli furono rimandate tutte e quattro, accompagnate da una letterina del Duca, nella quale dichiarava che “avenga che l'inventione de tutte siano belle, et scritte benissimo, nondimeno a me non piace de farle recitare in rima„; e gli chiedeva: “se havete le due ultime scritte in [431] prosa, ed anche la Cassaria reconcia et mutata com'è questa in versi, haverò piacer me ne facciate copia; et aggiongerò questo all'obbligo che vi ho de haverle mandate a questo modo, quale è veramente de maggior arte e scienza, ma nel recitar pare non reuscisca, come fa la prosa„. L'Ariosto dovette rimanerci male. Al Duca si contentò di rispondere, con un laconismo che mal cela il dispetto: “a me pareva che stessero così meglio che in prosa; ma i giudicii sono diversi„. Questa volta però il giudicio del Duca aveva per sè il suffragio del maggior numero; e, questa volta almeno, il senso comune era equivalente a buonsenso!

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