DA ACQUISGRANA A CAMPOFORMIO (1748-1797)

CONFERENZA

DI

Romualdo Bonfadini.

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Uno dei fenomeni che colpiscono maggiormente i lettori di storia - quando riflettono - sta nella costante accelerazione degli svolgimenti sintetici d'ogni natura, a misura che ci allontaniamo dalle epoche primigenie; sta nella sempre maggior brevità di quei periodi ricostruttori o elaboratori di cose nuove, che un tempo duravano più secoli e suggerivano al poeta latino il pensoso: mortalis ævi spatium....

Chiamatelo, secondo le leggi morali, progresso; chiamatelo, secondo le leggi statiche, moto uniformemente accelerato; certo è che quelle mutazioni generali di pensieri, di abitudini, di legislazioni, di vita civile, a cui nell'evo antico appena bastavano dieci generazioni d'uomini, si sono compiute più tardi nello spazio di un secolo, e, venendo più presso a noi, in cinquant'anni od in trenta.

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Uomini ed eventi esercitavano, nelle prime epoche dell'umanità, un'azione così passeggiera e così lenta che quasi non s'avvertiva. Le grandi monarchie orientali impiegarono più di un millennio e mezzo a sorgere, a brillare, a distruggersi, senza che il mondo antico apparisse, dopo così grandi catastrofi, notevolmente mutato. Roma era vecchia di oltre cinque secoli, quando cominciò a far avvertire la sua presenza fuori de' suoi confini. Sesostri, Ciro, Cambise, Alessandro il Macedone, malgrado il loro genio e le loro conquiste, non lasciarono negli ordinamenti del mondo maggior traccia di quella che lascia una frana di monte, rotolatasi nell'Oceano. L'umanità doveva giungere fino al Pescatore di Galilea, per sentirsi tratta a mutare in sè e di sè tanta parte di pensieri e di scopi. Eppure ci vollero quasi mille anni perchè il Cristianesimo vincesse, soltanto in Europa, tutti gli antichi Iddii. E i quattrocento anni dell'Impero romano occidentale dimostrano che, dopo la scossa data alle vecchie compagini sociali da Cesare e da Augusto, il mondo s'era ricantucciato nella schiavitù nuova e non accennava a riscuotersi più.

Colla discesa dei barbari nell'Europa, divenuta ormai l'unico fattore di trasformazioni sociali, la storia comincia a pigliare avviamenti più rapidi. Attila rinnova il mondo colla forza, [5] Giustiniano col diritto. Nel medio evo, i periodi elaboratori diventano anche più frequenti e più intensi. Carlo Magno, gli Ottoni, la casa di Svevia danno gli ultimi colpi alla marmorea e millennaria tradizione romana. Da un secolo all'altro, le condizioni della società umana cominciano ad assumere aspetti diversi; ora sotto l'influenza delle Crociate, ora sotto quella del risveglio artistico e letterario, ora sotto gli influssi economici allargatisi per la scoperta d'America. Le plebi cominciano a rialzarsi; l'aristocrazia da feudale diventa cittadina; le necessità dei commerci danno varietà alle legislazioni civili; gli Stati si costituiscono; sorgono le questioni nuove dell'equilibrio politico.

È così che, avvicinandosi ai tempi nostri, la mutazione organica delle cose appare più evidente e quasi continua; sicchè, mentre nel tempo antico un uomo di pensiero doveva spingere lo sguardo a due o tre secoli addietro per cogliere i sintomi di un movimento nella compagine umana, potè più tardi limitarsi ad esaminare il corso della propria vita, per trovarvi elementi di novità intellettuali, politiche, sociali, talvolta tanto più meravigliose nell'ultimo effetto loro quanto meno s'era avvertito il loro sorgere e il loro concatenarsi.

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Uno di questi periodi storici, a rapide evoluzioni e a multiformi sorprese, ci presenta la seconda metà del secolo decimottavo, al quale finalmente sono giunte queste conferenze sulla vita italiana, dopo avere cominciato a frugare per entro i secoli oscuri e dopo avere illustrato i secoli gloriosi.

Uscivamo da un lunghissimo periodo di decadenza intellettuale e morale. Da dugent'anni avevamo perduto ogni elaterio di vita pubblica, ogni diritto ed ogni virtù d'iniziativa paesana. In un secolo e mezzo, soltanto il Galileo ci aveva dato l'orgoglio dell'antica grandezza intellettuale italiana. Ma, letterariamente, eravamo passati dall'Ariosto e dal Machiavelli a Gregorio Leti e al cavalier Marino; artisticamente, imbrattavamo di calce gli affreschi dei quattrocentisti, per ridipingere su quelle preziose pareti le fiamme dei dannati o le colossali effigie di San Cristoforo; giuridicamente, eravamo ritornati alle più fitte ignoranze del medio evo, mediante i grotteschi processi contro le streghe e contro gli untori. Politicamente poi, nulla era più tristo e più umiliante dei vari regimi italici; ballottato tra Francesi, Spagnoli, Tedeschi, l'elemento indigeno s'era piegato a tutte le tirannie, [7] a tutte le pompe di quei governi violenti o ridicoli. I pochi principi di famiglie nazionali, come i Medici e i Gonzaga, s'affondavano nel lezzo dei cattivi costumi. Nessuna resistenza di moltitudini, nessuna protesta di pensatori fermava i governanti sullo sdrucciolo delle prepotenze e delle pazzie. Nobili e popolani s'erano acconciati a servitù, e l'uniforme gallonato d'un cortigiano spagnolo o francese trovava curve le schiene e verbosa l'ammirazione degli eredi di Piero Capponi e di Gerolamo Morone.

Questo insieme di ordinamenti politici e di fenomeni sociali sembrava assodato e ribadito nel 1748 dalla pace di Acquisgrana; che, sostituendo l'Austria alla Spagna nella preponderanza sull'Alta Italia, ed aggiungendo al Borbone di Napoli un Borbone di Parma, otteneva l'intento di stringere il nostro paese fra le due famiglie dinastiche ritenute più ostili ad ogni allargarsi di attività nazionali.

Or bene, un uomo che fosse nato, per esempio nel 1730 e si fosse spento, dopo settant'anni, nel 1800, sarebbe invece passato per tali e tante vicende, da non poter più riconoscere nella sua vecchiaia il mondo che gli era stato famigliare nella giovinezza; avrebbe assistito a così larghi mutamenti, a così profonde evoluzioni di costumi, di discipline, di pensieri, di ordinamenti politici, [8] da dover dubitare se veramente non fosse stato almeno doppio il tempo della sua esistenza.

Quest'uomo, per esempio, avrebbe visto, con Giuseppe Parini, sostituirsi all'Arcadia la letteratura civile; avrebbe visto distruggersi la scolastica, spuntare con G. B. Vico la filosofia; avrebbe visto sparire i cronisti e sorgere, col Muratori, la critica storica; avrebbe visto rinnovarsi ab ovo la giurisprudenza, col Filangieri e col Beccaria; avrebbe visto le scienze fisiche far passi da gigante col Volta, col Piazzi, collo Spallanzani; avrebbe visto sgominati i cortigiani politici e risorti gli uomini di Stato, col Tanucci, col Verri, col Bogino, col Fossombroni. Avrebbe visto di più; avrebbe visto una triade d'innovatori fondare un teatro drammatico italiano, col Metastasio, col Goldoni e coll'Alfieri; avrebbe visto uscire dai deliri del barocco due ingegni severi, che riconducevano l'arte al culto delle linee e del pensiero, Appiani e Canova.

Poi, rivolgendo lo sguardo alle abitudini della vita, quell'uomo si sarebbe accorto di altri fenomeni; avrebbe veduto illuminarsi e lastricarsi le vie cittadine, rimaste per tanti secoli in balìa del fango e dei ladri; avrebbe veduto nella locomozione elegante sostituirsi le carrozze alle lettighe, nell'alimentazione delle infime classi sostituirsi la salubre patata ai grani infraciditi. [9] Avrebbe poi visto una rivoluzione nella salute pubblica, mediante l'innesto del vaiuolo; una rivoluzione nella pubblica educazione, mediante l'espulsione dei gesuiti da tutto il territorio italiano; una rivoluzione nei contatti sociali, mediante la fondazione dei giornali e lo spesseggiare dei ritrovi nelle botteghe da caffè.

Finalmente, quell'uomo avrebbe visto, nei costumi italiani, un rivolgimento inatteso e anche più consolante; avrebbe riudito un linguaggio, a cui da due secoli l'Italia s'era disusata: il linguaggio dell'uomo libero dinanzi al potente, si chiamasse principe o plebe.

Così avrebbe udito, per esempio, Carlo Emanuele III chiedere al Muratori in qual modo pensava di trattarlo ne' suoi Annali, e il Muratori rispondere: “come Vostra Maestà tratterà la mia patria„. Avrebbe udito un Commissario francese invitare Ennio Quirino Visconti a pubblicare un editto ingiurioso per l'onor cittadino, e il Visconti rispondere: “che cercasse altrove i carnefici del suo paese„. Avrebbe udito la bordaglia milanese chiedere al Parini che gridasse “morte agli aristocratici„ e il Parini rispondere: “viva la repubblica, morte a nessuno„. E finalmente avrebbe veduto, nell'ultimo anno della sua vita, una pleiade di alti ingegni e di robusti caratteri sfidare impavida i carnefici del re di [10] Napoli e salire serenamente il patibolo, preparato loro da una regina corrotta e da un ammiraglio fedifrago.

Questi fenomeni di risveglio intellettuale e morale dominano tutto il periodo che va dalla pace d'Acquisgrana alla fine del secolo; e bastano a segnare i caratteri generali di un'epoca ricostruttrice e innovatrice; come sogliono bastare a chiarire le epoche di decadenza quei tristi fenomeni che si riassumono nelle opinioni fiacche, nella paura dei molti, nella frenesia del mutare, nella voluttà del servire.

D'onde poi sia uscito, come sia stato preparato questo rapido rivolgimento nella coltura pubblica e nel carattere nazionale degli Italiani, non par facile congetturare.

Certo, non dovette essere piccola sui nostri settecentisti l'influenza del seicentismo francese, altrettanto glorioso quanto era stato ignobile il nostro. Non si può negare l'analogia che v'è tra il Metastasio e il Racine, tra l'Alfieri e il Corneille, tra il Goldoni e Molière. Nè può credersi rimasta inefficace sullo spirito del Filangeri la grande opera giuridica del Montesquieu. Nè, sugli scritti di Mario Pagano e di Melchiorre Gioja, minore azione esercitarono gli enciclopedisti francesi. Pure, originale è certamente nel Vico il metodo nuovo d'intendere la storia e la [11] filosofia. Non imitò, ma precorse Francesi e Tedeschi col suo classico libriccino, Cesare Beccaria. La profonda concezione istorica da cui nacque la pubblicazione dei Rerum Italicarum scriptores precedette, nel pensiero e nel tempo, le consimili pubblicazioni dei Benedettini francesi e del Pertz. E tutto indigeno fu quel moto di rinnovazione poetica, che, impernandosi sul culto dell'Alighieri, partì da Alfonso Varano per giungere al Cesarotti, al Foscolo, al Monti. E non s'inspirò a nessun modello forestiero, se non forse all'italico Orazio, quella novità di una satira civile e didascalica che, partendo da Gaspare Gozzi, arrivò presto alla sublime ironia del Parini.

Forse, anche la mutazione avvenuta nei regimi politici della penisola potè aiutare il benefico movimento. Le dinastie secolari, quando cessano di rinnovarsi nelle abitudini e nelle idee al contatto dei nuovi indirizzi assunti dallo spirito umano, determinano intorno a sè cristallizzazioni di forme, attraverso le quali è difficile che il pensiero possa trovare la forza di penetrare. Questo era avvenuto alle vecchie famiglie medievali dei Farnesi, dei Medici, dei Gonzaga, rese inette dall'abitudine del fasto e dei godimenti a comprendere le necessità di governo secondo i concetti più austeri che cominciavano [12] a farsi largo. Questo era avvenuto anche più alla boriosa dinastia spagnola, coll'aggravante che, non potendo neanche governare direttamente i suoi dominî italiani di Milano e di Napoli, aveva dovuto lasciare quelle popolazioni sotto l'arbitrio di governatori, più nobili che intelligenti, e sopratutto più intesi a far denari che a promovere giustizia e civiltà.

I mutamenti dinastici avvenuti in Italia dopo la guerra per la successione di Spagna, e ratificati nel trattato di Acquisgrana, rompono in parte, e un po' dappertutto, meno a Venezia, queste cristallizzazioni. La casa d'Austria, insediatasi in Lombardia, vi porta uno spirito più moderno, v'incoraggia un maggiore studio delle questioni amministrative, abitudini più laboriose, più virili, più parsimoniose. I Borboni, installati a Napoli e a Parma, sentono il bisogno di iniziare il loro regime con qualche innovazione che procuri loro il favore dei governati, e secondano le savie riforme di Bernardo Tanucci e del marchese Du Tillot. La Toscana, passata dai Medici ai Lorena, trova nei principi di quella casa uomini d'indole mite, volonterosi di bene, purchè largito a piccole dosi e non disciplinato da logica di principî; insomma il vero tipo di quel dispotismo intelligente, che appariva allora un progresso, dopo tanti despotismi ignobili e crudeli, [13] ma che costituisce oggidì il maggiore pericolo delle società liberali e la più fatale illusione degli spiriti fiacchi e spensierati.

Non è dunque fuor di proposito il supporre che anche da siffatti avvenimenti politici sia venuta, diretta o involontaria, una spinta a quella ricostituzione intellettuale e morale, a cui evidentemente gli spiriti italiani s'erano lentamente preparati nel tempo, e che aspettava soltanto un'occasione per uscire dai sotterranei alla luce.

E, del resto, toccherebbe a troppo alti orgogli l'ingegno umano, se potesse afferrare, anche soltanto nel passato, una sicura sintesi delle cagioni. Quegli stessi ostacoli, o somiglianti, che fermano al problema delle origini le più audaci indagini dello scienziato, trattengono intorno al problema delle leggi evolutive il moralista o il filosofo della storia. Quegli intervalli, quelle soste, quei salti che turbano, senza impedirlo, il lento avanzarsi delle razze umane verso il miglioramento indefinito dell'avvenire, possono bensì precisarsi nei fatti, ma non si riesce a sottoporli a discipline di pensiero; come si constata, ma non si spiega, se non con altre ipotesi, l'alternarsi degli strati nella storia geologica.

Iddio determina, nel corso secolare dell'esistenza, i periodi demolitori e i periodi ricostruttori, le epoche, in cui l'uomo precipita verso gli [14] abissi e quelle in cui si slancia verso l'Empireo. Supporre che nell'avvenire queste alternative debbano cessare e i periodi storici non segnino più che nobili gare verso sempre maggiori svolgimenti di bene, può essere una speranza, non è una legge che abbia stabilito i suoi termini. Il che non impedisce che nell'uomo rimangano però immutabili i termini del dovere morale, che consiste nell'opporre ogni resistenza alle ragioni del male, anche quando un concorso di forze irresponsabili sembri impedire o allontanare il trionfo del bene.

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Ma tornando all'argomento storico, dopo questa scappata, forse inopportuna, nelle regioni dell'etica, è bene avvertire come, anche in questo mezzo secolo fervido di tante mutazioni, le forze innovatrici siano state di due sorta, ed assai diverse così nella rapidità come nella intensità degli effetti raggiunti. Dal 1748 al 1795 è un cammino calmo, costante, non audace, pacifico; dal 1795 alla fine del secolo, è un correre vertiginoso, spensierato, fatale, una distruzione implacabile, una ricostruzione tumultuosa. Nel primo periodo di 47 anni, l'impulso è dato da elementi nazionali, da pensatori, da principi o da ministri [15] di principi; nel secondo periodo di soli cinque anni, è dato da invasioni straniere, da prepotenza d'armi, da subitaneità d'interessi, da esigenze di turbe, chiamate in ventiquattr'ore a dominio irresponsabile dopo secoli di servitù. Il primo periodo si suole chiamare delle riforme, il secondo, della rivoluzione.

Ora, s'è molto disputato fra gli studiosi di storia patria, se il moto rivoluzionario esotico abbia affrettato o ritardato, ne' suoi ultimi effetti di civiltà e di progresso, il moto riformatore indigeno. Forse anzi è questa la tesi storica del secolo decimottavo, intorno a cui si siano più affatioate le menti e le ipotesi dei polemisti. È inutile aggiungere che, dopo questi sforzi d'ingegno, la situazione è rimasta quella di prima. Nè gli adoratori della Rivoluzione francese riescono a persuadere i liberali riformatori della bontà intrinseca del metodo giacobino; nè questi possono presumere di vaticinare che cosa sarebbe stato il mondo senza il lavacro uscito dagli ardori del 1789. Certo, i progressi economici e civili raggiunti in Toscana sotto l'amministrazione leopoldina non furono superati da quelli a cui posero mano i commissari francesi o la principessa Elisa Bonaparte. E quando, nel 1790, il conte Pietro Verri propose ai notabili milanesi, contro l'opinione del Visconti e del Botta, di [16] chiedere all'imperatore Leopoldo una Costituzione, l'opinione pubblica lombarda doveva già trovarsi, su per giù, nello stato in cui trovossi, cinquantasette anni dopo, l'opinione pubblica piemontese, quando il conte di Cavour propose ai notabili torinesi, contro l'opinione del Sineo e del Valerio, di chiedere a Carlo Alberto la pubblicazione dello Statuto.

Del resto - ripeto - siffatta disputa non può servire oggimai a nessuno scopo scientifico, quando non sia quello d'un'acuta ginnastica intellettuale. Potrebbe chiudersi tutt'al più con quella vigorosa frase sintetica, colla quale a Sant'Elena l'imperatore Napoleone chiuse una polemica quasi simile intorno a Gian Giacomo Rousseau: “forse il mondo sarebbe stato più felice se io e lui non fossimo nati.„

Il periodo rivoluzionario colpiva impreparate le masse, ma era stato preveduto, in parte favorito dagli uomini di pensiero.

Già fin dal 1784 l'uragano incipiente non era sfuggito alla sagacia del ministro piemontese, conte Bogino, il quale, guardando alla Francia, era morto esclamando: “povera Italia! povera Europa!„ Viaggiando in Francia, al seguito di una dama lombarda, illustre per bellezza e per intelletto, la marchesa Paola Castiglioni, Alessandro Verri, Francesco Melzi, Cesare Beccaria [17] s'erano mescolati a tutti i gruppi novatori della società parigina e riportavano in patria l'impressione che il periodo delle riforme stava per chiudersi. Un abate napoletano, pozzo di spirito e di scienza, Ferdinando Galiani, era entrato in grande dimestichezza con Diderot e d'Holbach, e scriveva da Parigi ai suoi compatrioti, informandoli di tutte le agitazioni e le preparazioni che bollivano nella pericolosa città. E più dei pensatori s'affaccendavano gli avventurieri, razza che non manca mai di entrare in iscena alla vigilia delle grosse crisi, e a cui di solito vien meno la moralità, non mai l'ingegno o l'audacia.

Un veneziano, Giacomo Casanova, fuggito con mirabile ardire dalla prigione dei Piombi, aveva percorso l'Europa, rompendo tutte le discipline sociali; imponendosi con astuzie di finanza al conte di Choiseul, a Federico II, a Caterina II, a Maria Teresa; bisticciandosi col conte di San Germano e con Voltaire; scandalizzando tutti i paesi per le pubblicità della sua vita, pel lusso, pei giuochi, pei duelli, per gli amori, pei debiti.

Un siciliano, Giuseppe Balsamo, era penetrato più addentro negli organismi delle vecchie sette europee; le aveva dominate coi misteri nuovi del mesmerismo; e imbrancandosi col finto nome di Cagliostro nell'aristocrazia europea, corrompeva principi, aizzava plebi, abbarbagliava ignoranti, [18] spargeva dappertutto i semi della miscredenza e della rivolta.

Un milanese, il conte Giuseppe Gorani, innamoratosi delle più spinte dottrine demagogiche, s'era volontariamente sbandito dalla patria ai primi sintomi della commozione francese; s'era fatto intimo dei più scamiciati giacobini dell'epoca; aveva accettato missioni segrete di agitatore in Isvizzera ed in Italia; sicchè, per decreto dell'arciduca Ferdinando, era stato radiato dall'albo della nobiltà milanese e, coi procedimenti giudiziari ancora in uso, gli erano state confiscate le proprietà.

Era sotto queste impressioni e sotto queste influenze, dirette o indirette, che cominciava a suscitarsi un'opinione pubblica, favorevole alle dottrine umaniste, quantunque risolutamente contraria alle applicazioni inumane dei rivoluzionari francesi.

Frutto di questo duplice indirizzo degli spiriti, sopratutto nella regione lombarda, la più indicata a ricevere il primo urto delle idee e dei fatti della Rivoluzione, era stata una dimostrazione ostile, fatta, sin dal 1789, nel teatro della Scala al conte d'Artois, e nel tempo stesso l'avversione acuta, universale ond'erano circondati i violenti energumeni che del Comitato di Salute Pubblica parigino s'erano fatti fra noi apologisti [19] e plagiari, come il prete Lattuada, Gio. Antonio Ranza e Carlo Salvador.

Nondimeno, come avviene sotto il sole, sempre e senza rimedio, gli esagerati si organizzavano e i moderati si rassegnavano; sicchè i primi e non i secondi si trovarono pronti a cogliere i vantaggi ed esercitare le influenze che la procella politica stava per sostituire ai vecchi ordinamenti sociali.

Questi resistettero, come meglio seppero, in Piemonte e in Lombardia, finchè le minaccie partirono soltanto da elementi indigeni e da cospirazioni paesane; si frantumarono, come statue di gesso, a cui venisse tolto il sostegno, appena furono visti dalle Alpi scender armati, e, come ai tempi del Filicaja,

Bever l'onda del Po gallici armenti.

Per dire il vero, quegli armati non scendevano “a torrenti„ come il Filicaja narra del tempo suo. Erano anzi pochi, mal vestiti e peggio nutriti; ma li guidava un'idea fatale e un giovane anche più fatale dell'idea.

Era un generale in capo di ventisette anni, non alto di statura, gracile di complessione, pallido di colorito, coi capelli spioventi sulla fronte e sulla nuca, dalla fisonomia pensosa, dallo sguardo d'aquila, dal parlar breve, rotto, energico, [20] implacabile. Il suo paese lo aveva veduto sedare in dodici ore una formidabile insurrezione per le vie di Parigi, rioccupare Tolone a colpi di cannone, e strisciare come un sollecitatore nelle anticamere del disonesto Barras, dispensatore di titoli e di gradi. Il nostro paese era destinato a vederlo fulmineo vincitor di battaglie, distruttore di regni e di repubbliche, improvvisatore di governi e di costituzioni politiche, saccheggiatore di codici e di opere d'arte, nemico formidabile di despotismi e di libertà, detronizzatore di principi e di pontefici, restauratore di ordine, di studî e di religione, imperioso con generali, con popoli, con regnanti, schiavo umile e innamorato di una sposa bella, frivola e traditrice.

L'ora che corre segna in tutta Europa una specie di ripresa della leggenda napoleonica. Non si sa se sia ammirazione della fortuna, delle virtù o dei delitti che a quella leggenda appartengono. Non si sa se il mondo discopra quel tumulo per cercarvi una volontà potente, una direzione sicura, un ingegno a nessuna esigenza inferiore, o se frughi fra quelle ossa per trovarvi i residui del dispotismo illimitato e spensierato, a cui anelino di prostrarsi società frolle e scettiche, stanche di pensare e di combattere por idealità da cui non aspettano nessun vantaggio.

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Ad ogni modo, nessuna preoccupazione di questa natura agitava i contemporanei, quando il generale Bonaparte, con una rapidità di mosse a cui non erano preparati i suoi avversarî, gira e supera nel tempo stesso la catena dell'Appennino ligure, si ficca come un cuneo fra le colonne austriache e le piemontesi, batte le prime a Montenotte e a Dego, le seconde a Millesimo, forza ad un armistizio il governo sardo, scende difilato lungo la corrente del Po, lo varca a Piacenza mentre Beaulieu lo aspettava a Valenza, si getta su Lodi, vi sbaraglia l'esercito austriaco ed occupa Milano, entrandovi dal lato orientale, mentre tutte le difese gli si erano opposte dal lato occidentale.

Qui comincia quell'ultimo e breve periodo rivoluzionario che ci conduce sino alla fine del secolo ed è per l'Italia così fertile di sorprese, di mutamenti, di lutti. Periodo fra i più lamentosi di tutta la nostra storia, nel quale le campagne furono tormentate dalla guerra, le città dalle rivoluzioni e dalle reazioni, gli ordini di governo dall'anarchia. Preoccupato dalle cure militari, che non gli lasciavano tregua, il generale Bonaparte era impotente a reprimere le tirannie dei demagoghi, o scesi dalle Alpi con lui, o innalzatisi, sotto il suo patrocinio, dagli ambienti locali più volgari e più avidi. Per più [22] di tre anni, un popolo avvezzo ai Verri, ai Tanucci, ai Bogino, a Pietro Leopoldo, a Clemente XIV, si vide dominato o da commissarî francesi inetti ad ogni opera che non fosse di spogliazione, o da istrioni politici, cresciuti fra la taverna e il tumulto, che quando non riuscivano a governare, impedivano ogni governo di altri. Questa era stata la conseguenza del dilagarsi delle truppe repubblicane per tutto il territorio italiano; le quali, abbattendo per necessità di difesa i governi indigeni, dovevano compensare la scarsezza del loro numero coi metodi del terrore e coll'appoggio dato alle classi più indisciplinate della popolazione. Senonchè questi metodi preparavano, come sempre, reazioni egualmente torbide.

E lo si vide, allorchè, pochi mesi dopo, uscito Bonaparte dall'Europa, e rifattasi la coalizione contro la Francia, gli anarchici neri susseguirono agli anarchici rossi. Allora si predicò l'ordine collo stesso furore con cui s'era prima predicata la democrazia. Il cardinal Ruffo e Fra Diavolo saccheggiarono in nome del Re di Napoli, il maresciallo Suwaroff saccheggiò in nome degli Imperatori, il generale Lahoz saccheggiò in nome del Papa, Branda Lucioni saccheggiò in nome del Re di Sardegna; e la Toscana fu saccheggiata dalle bande che gridavano: viva Maria; a [23] capo delle quali entrò in Firenze, precorritrice storica di Luisa Michel, una virago a cavallo, Alessandrina Mari di Montevarchi.

Prima che il secolo decimottavo seguisse i suoi predecessori nel vortice della storia, anche queste anarchie potevano dirsi in gran parte cessate. Ma se, fra tante procelle, s'erano, a intervalli, mantenute nei loro dominî le dinastie del centro e del mezzogiorno d'Italia, più profondi e durevoli mutamenti di Stato avevano avuto luogo nella regione settentrionale, dove due fra i più antichi e gloriosi governi della penisola erano stati violentemente soppressi, per tradimento, o, se la parola pare eccessiva, per insidia delle nuove diplomazie.

È inutile dire che alludo alla monarchia di Savoja e alla repubblica di Venezia. Delle ipocrisie che hanno avviluppato la prima fu sopratutti responsabile il Direttorio francese; di quelle a cui soccombette la seconda, spetta al generale Bonaparte l'iniziativa e la responsabilità.

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Dopo le prime battaglie di Montenotte e di Millesimo, il governo sardo, vistosi impotente a continuare le ostilità, s'era piegato ai consigli pacifici del cardinale Costa, arcivescovo di Torino, stipulando a Cherasco un armistizio, che [24] fu poi convertito a Parigi in un formale trattato di pace.

Pareva che di quegli accordi il Direttorio dovesse essere soddisfatto, poichè a nessuna condizione onerosa il Piemonte s'era negato. Concedeva libero il passo agli eserciti francesi, cedeva la Savoia e Nizza, lasciava occupare le fortezze di Ceva, Cuneo, Tortona e Alessandria, distruggeva i forti alpini di Exilles, di Brunetta e di Susa, chiudeva i suoi porti alle navi delle potenze ostili alla Francia, riduceva l'esercito al piede di pace.

Malgrado ciò, non cessavano le pretese. Tardava alla Francia l'assorbimento del regno. Sicchè, dai confini della Lombardia, divenuta Repubblica Cisalpina, entravano spesso elementi di rivolta, che si aggiungevano alle cospirazioni paesane. Viceversa, quando il governo sardo reprimeva o puniva, era sempre dall'ambasciatore francese che partiva la domanda o l'ingiunzione di grazia. Così riusciva difficile il governare. Meno di due anni dopo il trattato di Parigi, il Direttorio volle un nuovo trattato, che chiamò d'alleanza, e pel quale - s'intende - il Piemonte doveva fornire uomini ed armi contro i nemici della Francia, quali si fossero. Neanche questo bastò. Verso la primavera del 1798 divenne evidente che il Direttorio francese accampava [25] contro il Piemonte le stesse ragioni che, nella favola famosa, il lupo accampava contro l'agnello.

Due letterati di primo ordine si fecero complici in questa turpe commedia: il Ginguené, ambasciatore della Repubblica francese, e Leopoldo Cicognara, inviato della Repubblica cisalpina. Non vi fu sopruso, non vi fu inganno che fosse risparmiato da questi due rappresentanti d'una sleale politica. Carlo Emanuele IV cercava invano, abbondando nelle concessioni, di stornare dal suo capo una sorte immutabilmente decisa. I due ambasciatori chiesero dapprima la consegna della cittadella e l'ottennero; poi domandarono si congedassero i ministri, e il Re non volle; poi esigettero che si armassero dieci mila uomini per combattere il re di Napoli, e furono accordati; finalmente intimarono di consegnar l'arsenale; e a sostegno di questa domanda le truppe della Repubblica Ligure invadevano il territorio dall'Apennino, mentre il generale Joubert lo invadeva dal Ticino, e dalle alture di Superga minacciava Torino.

Carlo Emanuele IV non seppe rassegnarsi a maggiori umiliazioni e con un manifesto del 9 dicembre 1798 abdicava nelle mani del generale, futuro maresciallo, Clauzel. A questa risoluzione, per la dignità del trono, lo aveva consigliato [26] anche il suo ambasciatore a Parigi, Prospero Balbo; il quale, conscio che una delle condizioni dell'abdicazione doveva essere la sua prigionia, andò spontaneamente a costituirsi nelle mani delle autorità parigine. Le dinastie che hanno secoli di fiera esistenza trovano qualche volta, piuttosto nei periodi della sventura che in quelli della fortuna, consiglieri di così alta devozione e di così antica virtù.

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Mentre queste cose accadevano intorno alle alture dove comincia il Po, altre non meno dolorose avevano luogo intorno alle lagune, dove finisce.

La Repubblica di Venezia era certamente quello fra gli Stati italiani dove s'erano meno pronunciate le alternative dello spirito pubblico. Quasi democratiche fino al 1297, le istituzioni del governo veneto erano divenute interamente aristocratiche dopo la famosa riforma elettorale del doge Gradenigo. La durata secolare di questo regime aveva probabilmente sottratta la Repubblica all'influenza di quelle cause che determinavano, nel resto d'Italia, la decadenza intellettuale e politica; ma le aveva anche impedito quel ritorno di energie che in ogni regione del pensiero aveva segnalato il settecento italiano. Un [27] po' spossata dalle guerre del cinquecento e dalla politica spendereccia e megalomane del doge Francesco Foscari, Venezia s'era rannicchiata ne' suoi commerci, limitandosi ad accentuare, ogni secolo, le proprie tradizioni, mediante le imprese marittime di Francesco Morosini o di Angelo Emo. Nel complesso, l'antico suo genio si veniva estinguendo, e l'immobilità sua non le permetteva più di mantenere influenza su popoli e su regimi, tutti affaccendati a muoversi, a mutarsi, a perfezionarsi. Il patriziato aveva conservato una certa attitudine ai grandi affari politici; ma per reprimere novità ostili al suo prestigio, non aveva cercato mai di educare il popolo a vigorosi sentimenti, accontentandosi di lasciargli ogni libertà nelle feste. Venezia era diventata una grande oasi di gioia, a cui tutti potevano accorrere e attingere. Però, su ogni cosa che riguardasse affari e politica, posava la diffidenza e il sospetto. Non se ne occupavano - e in segreto - che i patrizi del Maggior Consiglio, ai quali pareva che gli interessi conservatori stessero unicamente nel chiudere sempre le loro fila e i loro ordinamenti ad ogni alito di migliorìe. Tanto che, nel 1780, avevano mandato a domicilio coatto Giorgio Pisani, perchè fattosi iniziatore di riforme nelle leggi costituzionali della Repubblica.

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Era in questa situazione morale e politica che Venezia vedeva avvicinarsi alle sue contrade la bufera rivoluzionaria scatenatasi dalla Francia.

La questione non tardò ad imporsi alle deliberazioni del Senato, nel quale, al principio del 1793, ventilaronsi due partiti. Francesco Pesaro, procuratore di San Marco, sostenne vigorosamente la necessità di armarsi, pur proclamando la neutralità. “Se Venezia non s'arma„ esclamò egli con vivo presentimento dell'avvenire “Venezia è perduta.... credete voi di poter evitare la guerra, perchè ne avrete trascurati i preparativi?... la perfidia non ha mai cercato invano dei pretesti.... circondati d'armi da tutte le parti, la spada sola può tracciarsi un cammino verso la pace.„ Gli rispose un membro del Consiglio dei Savj, Zaccaria Vallaresso, e il suo discorso persuase fatalmente i patrizi ad accogliere la politica della neutralità disarmata.

Quel discorso era un tessuto di ipotesi, cucito con abili frasi. La Francia aveva appena invaso il territorio di Nizza e della Savoja. Si sarebbe trovata di fronte a due potenze militari, il Piemonte e l'Austria, che le avrebbero certamente impedito di avanzarsi. D'altronde, lo stato interno della Francia era troppo violento perchè potesse durare; una reazione in senso monarchico era imminente. Una volta armata, Venezia [29] avrebbe reso più intensi gli sforzi delle potenze belligeranti, per avvincerla a sè; non avrebbe potuto sottrarsi alla seduzione di stare cogli uni o cogli altri; sarebbe troppo deplorabile la condizione umana se, quando la guerra scoppia sopra un punto del globo, il mondo intero dovesse correre alle armi.... si deve qualche cosa all'umanità, all'innocenza, alla giustizia.... e via dicendo.

Sofismi; ma sofismi atti a far breccia in animi fiacchi; ed era fiacca pur troppo l'assemblea innanzi a cui venivano pronunciati; era fiacco l'ambiente in mezzo a cui quell'assemblea deliberava; era fiacco il principe, a cui dovevano metter capo quelle responsabilità, l'ultimo Doge eletto nel 1789, Lodovico Manin.

Così s'erano disegnati in Venezia i tre capi delle frazioni politiche, destinate a seppellire, colle loro discordie, la secolare Repubblica: Giorgio Pisani, vessillifero delle idee popolari e riformatrici; Francesco Pesaro, interprete dell'antica energia conservatrice e previdente; Zaccaria Vallaresso, oratore dei retori, dei gaudenti, degli spensierati.

Era appena presa questa infausta decisione che i sintomi del pericolo romoreggiavano sul capo della Repubblica.

Il Querini da Parigi e il Grimani da Vienna avvertivano delle proposte già fatte dal Direttorio [30] francese al governo austriaco, per la cessione a quest'ultimo di alcune provincie venete di terra ferma. L'agnello offriva il suo collo; diventava facile sgozzarlo, o almeno tosarlo. Cominciata la campagna del 1796, il Senato veneto lasciò sfuggirsi un'altra occasione di riparare alla sua colpevole imprevidenza. E l'occasione - singolare presagio dei tempi - gli veniva proprio da quella potenza che, settant'anni dopo, vincendo a Sadowa, avrebbe rotto per Venezia il fatale destino di Campoformio. Il barone di Hardenberg, primo ministro del re di Prussia, faceva dire all'ambasciatore veneziano in Parigi che se Venezia avesse voluto allearsi colla Prussia, colla quale nessun conflitto d'interessi era possibile, “la Prussia si sarebbe opposta con efficacia agli ambiziosi disegni dell'Austria ed avrebbe garantita l'integrità del territorio veneto.„

La fatalità trascinava il Governo repubblicano, ostinato a cercare la salute in quell'isolamento che non era indipendenza.

E intanto erano avvenute le prime battaglie del 1796, e la guerra s'avvicinava, indietreggiando, alle provincie di terra ferma. Il generale Bonaparte, più esigente del suo Direttorio, credette scorgere nel contegno della Repubblica una diffidenza verso il genio della vittoria ch'egli [31] personificava, e fermò nella profonda mente il disegno di sopprimerne la secolare esistenza. Non lo nascose uno de' suoi intimi, il colonnello Beaupoil, il quale diceva, fin da Verona, che “quatorze siècles d'existence devaient suffire à la république„.

I pretesti cominciarono per la presenza sul territorio veneto del conte di Lilla, chè tal nome aveva preso nell'emigrazione il pretendente al trono di Francia, il futuro Luigi XVIII. In onta alle sue antiche tradizioni d'asilo, Venezia dovette sacrificare l'esule ai reclami del Direttorio e alle intimazioni del suo generale.

Poi, sopravvennero subito le difficoltà pratiche della neutralità disarmata. Impotente a respingere così i vinti come i vincitori, la Repubblica non potè negare il passaggio alle truppe austriache, nella loro ritirata verso il Tirolo. Bonaparte, irritato, fece subito occupare Brescia, poi Bergamo; il generale austriaco, per rappresaglia, pose guarnigione a Peschiera; Bonaparte rispose, impadronendosi di Verona. Il Senato veneto strepitava, il Querini reclamava a Parigi, il provveditor Foscarini si presentava al quartier generale dell'esercito francese. Ma ormai tutta la guerra si faceva sul territorio veneto, ne ed era possibile deviarla; Bonaparte rispondeva al Foscarini in tono altezzoso e coll'offerta ironica di [32] mandare le sue truppe a difendere la libertà di Venezia; il Direttorio faceva offrire al Doge un trattato d'alleanza che, in tali condizioni, assumeva l'aspetto d'un trattato di servitù; e negli intimi colloqui il patrizio Querini si sentiva proporre dagli affaristi del Direttorio, che con cinque milioni dati per le spese di guerra e settecento mila lire sborsate al direttore Barras, si sarebbero potuti ottenere dal governo francese dei dispacci che fermassero il generale Bonaparte ne' suoi disegni di distruzione.

Le tratte per settecento mila lire furono effettivamente consegnate; e il Barras non ebbe pudore a presentarle per lo sconto al banco Pallavicini di Genova. Ma il generale Bonaparte s'era già posto colle sue vittorie in una situazione personale, che gli permetteva di non ricevere ordini da nessuno. Il suo proposito circa Venezia era implacabile; egli voleva finire una guerra, dalla quale ormai aveva tratto tutta la gloria che gli occorreva; coi territori di quella Repubblica avrebbe ammansato l'Austria, non mai esausta di forze e di eserciti. Per giungere allo scopo suo, non esitò ad entrare per le vie sdrucciole dell'insidia e della ipocrisia. I suoi emissari politici fecero lega coi più torbidi elementi del partito popolare, che in Venezia metteva capo al Pisani, in Brescia ai fratelli Lechi. [33] Ben presto una sorda agitazione invade le popolazioni delle città e delle campagne appartenenti alla Repubblica. Brescia, Bergamo, Crema insorgono contro il dominio veneto e sono manifestamente appoggiate dai comandanti francesi. Questo primo successo incoraggia a proseguire nella via, e tutti gli sforzi s'acuiscono intorno a Verona, la città principale dei dominii di terraferma.

Qui tutto diventa odioso, sleale e tragico. Era capo dell'ufficio militare francese d'informazioni un Landrieux, colonnello degli ussari. Uomo senza scrupoli e deciso a servire occultamente tutti i partiti dell'epoca, uno dopo l'altro e gli uni contro gli altri, s'accontò con un vecchio stromento della demagogia parigina, Carlo Salvador, milanese rinnegato e disonorato, di cui Bonaparte si serviva per ogni mandato. Insieme complottarono un documento falso, e fu un proclama del provveditore Battaglia, nel quale, annunciandosi immaginarie sconfitte dei Francesi nel Friuli e nel Tirolo, s'eccitavano i fedeli sudditi della Repubblica, e sopratutto le classi rurali, a reprimere l'insolenza dei rivoltosi, scacciandoli da Bergamo e da Brescia, dove s'erano annidati.

Fu questa, in mezzo alla tensione naturale degli animi, la causa prima delle famose Pasque [34] veronesi, e poco mancò non tornasse a danno irreparabile dei provocatori. Invano protestò il Battaglia contro l'apocrifa pubblicazione e protestarono i governanti veneti, presso il Direttorio e presso il Quartier generale. L'impulsione era data; le smentite sono in ogni tempo meno autorevoli delle calunnie; la provocazione alla guerra civile ottenne l'effetto suo.

Il 17 aprile 1797 Verona fu piena d'armi, d'odii e di stragi. Ad una rissa fra militari veneziani e militari francesi, il generale Balland credette opportuno por fine, cannoneggiando dai forti. La popolazione si credette assalita e reagì. Dove si trovò in minor numero, fu sopraffatta dalle milizie; dove prevalse, non risparmiò nè vivi, nè ammalati, nè donne. Non bastava la morte, vi si aggiunsero i tormenti. Per cinque giorni durarono le stragi per parte dei popolani e dei contadini, le bombe e l'incendio per parte dei francesi, agglomerati nei forti. Al sesto, venuta meno quasi la materia prima ai furori, poterono pronunciarsi parole di pace. Parecchi patrizi veronesi, il conte Nogarola fra gli altri, avevano raccolto e nascosto in casa loro cittadini ed ufficiali francesi, cercati a morte. I provveditori veneti, Giustiniani, Erizzo e Giovanelli, che da un pezzo avevano richiamata l'attenzione sullo stato degli animi e sulle mene dei cospiratori [35] franco-italiani, si raccolsero a consiglio coi generali francesi; ma ebbero presto ad accorgersi che in questi nessuna idea di temperanza poteva penetrare. Il linguaggio era brutale, le esigenze innumerevoli, evidente il desiderio di trarre dal dramma veronese pretesto a maggiori complicazioni. Verona dovette arrendersi a discrezione, e i provveditori furono rimandati a Venezia.

Ma su Venezia intanto scoppiava l'ira del Giove tonante.

Le sorti della guerra avevano portato il generale Bonaparte sulle alture del Semmering, d'onde l'istinto audace gli faceva già intravedere l'occupazione di Vienna.

Però tra l'audacia e il successo, nel cervello del futuro Cesare v'era ancor posto pel ragionamento. Anzi, pei ragionamenti; poichè, nel momento attuale, erano due e combaciavano fra loro. Vincere un'altra battaglia pareva ancora possibile, forse era facile; ma non era esclusa la possibilità di perderla, e la perdita, in quelle condizioni, bastava ad annullare tutta la gloria e tutti i vantaggi ottenuti. A misura che si allungava su Vienna, l'esercito francese, così lontano dalle sue basi, naturalmente s'indeboliva; mentre intorno alla gran capitale, l'arciduca Carlo avrebbe trovato forze e mezzi di resistenza e di attacco sempre maggiori. Non si poteva [36] giurare che una sola vittoria avrebbe ancora stesa l'Austria ai piedi del vincitore; si poteva giurare che una sola sconfitta avrebbe costretto il generale Bonaparte a rifare in fuga precipitosa quel cammino fino allora seminato di così rapide audacie.

D'altra parte, obbligando l'arciduca Carlo, non timido avversario, a concentrare tutte le forze militari del suo paese per difendere da un colpo di mano la capitale della monarchia, Bonaparte avrebbe resa più facile una ripresa offensiva dell'esercito del Reno, che il generale Moreau guidava con minore impeto, ma con eguale tenacia, contro i nemici della Francia repubblicana. V'era a prevedere il caso che i due eserciti entrassero contemporaneamente in Vienna e che i due generali ne avessero eguale onore. Ora, ciò non secondava i disegni del generale Bonaparte, che già si sentiva il primo nel suo paese e non avrebbe voluto dividere con nessuno, meno che mai - e lo provarono gli eventi successivi - col generale Moreau, la dittatura che già volgeva nell'animo.

Sicchè la pace - una pace gloriosa, dopo una guerra che non l'era meno - avrebbe posto fine alle due preoccupazioni che lo agitavano, e avrebbe mantenuta intorno al solo suo capo la doppia aureola del vincitore e del pacificatore dell'Europa.

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Fu per queste considerazioni, tradite già dai documenti dell'epoca, e ormai riconosciute da tutti gli storici, che il generale Bonaparte si decise a scrivere all'arciduca Carlo una lettera famosa per la sua moderazione pacifica e a trattare nel tempo stesso Venezia con modi altrettanto famosi per la loro esagerata violenza. Dopo i fatti di Bergamo, di Brescia e di Salò, aveva mandato a Venezia il generale Junot, minacciando il Doge e gli ottimati di aperta guerra; dopo i fatti di Verona, accolse burbero gli inviati del Senato, e scrisse a Pesaro: “io sarò un Attila per Venezia.„

E Attila fu; non nel senso della devastazione materiale, ma nel senso della distruzione politica.

Invano riceveva istruzioni dal Direttorio, e dal suo ministro degli Affari Esteri, Talleyrand, di non permettere dominio austriaco sopra nessuna parte di territorio italiano. Egli era già abbastanza forte da fare una politica che non fosse quella del suo governo, e voleva stupire il mondo col suo amor della pace, dopo averlo meravigliato colla sua rapidità nella guerra.

Così si venne ai preliminari di Leoben, che cominciavano a sbranare la Repubblica di Venezia, dando all'Austria tre quarti delle sue provincie di terraferma. Era però serbata ad un piccolo villaggio posto fra Udine e Passeriano, [38] questa gloria d'Erostrato, di consumare il sacrificio del più antico Stato indipendente che esistesse in Europa. Da Leoben a Campoformio le trattative furono ancora molte, ma l'implacabile disegno di Bonaparte trionfò d'ogni esitazione; e poichè i plenipotenziarii austriaci stavano sul tirato, egli ruppe loro sul viso un candelabro, per dimostrare la superiorità della sua diplomazia.

Convinti da questo argomento, i plenipotenziari firmarono il trattato di Campoformio, mediante il quale l'Austria acconsentiva a lasciare estendersi la Cisalpina fino alla riva dell'Adige, e otteneva in cambio il cadavere vivo della Repubblica di Venezia.

È doloroso dover dire che nessuna grande inspirazione di virtù o di valore eruppe allora dagli ultimi consigli della morente Repubblica. Il Vallaresso e i suoi colleghi si ostinarono fino all'ultimo giorno nella loro politica di rassegnazione agli eventi; il generale Condulmer affermava l'impossibilità di difendere la laguna; Lodovico Manin si rammaricava di non poter neanche dormire la notte nel proprio letto. Tanto era diverso da un successivo Manin l'animo e l'ingegno dell'ultimo Doge della Repubblica!

Il 16 maggio 1797 il Senato faceva annunciare che il Governo cedeva i suoi poteri al Municipio. [39] E il giorno dopo, il generale Baraguay-d'Hilliers occupava con quattromila francesi la piazza di San Marco. Erano i primi soldati stranieri che da quattordici secoli Venezia avesse veduti!

Questa fu l'opera del generale Bonaparte; che iniziava così quella politica di disprezzo delle nazioni e di mercato di popoli, a cui ubbidì in tutto il corso della sua meravigliosa dominazione.

So che la leggenda napoleonica trova degli evocatori anche in Italia, e degli evocatori dominati da simpatia. A questi io non posso unirmi. Ammiro il genio dell'uomo, come si ammira un vulcano in eruzione. Ma non posso avere nessuna simpatia pel despota, che, avendo nelle sue mani l'Italia, ha venduto la Repubblica di Venezia e ha fatto di Roma un dipartimento francese.

Non sempre dalle pagine storiche si possono trarre delle formole educative. Questa volta, penso, si può.

Il secolo nostro vedeva, al suo cominciare, radiati dalla carta politica dell'Italia due Stati, una repubblica e un principato. Settant'anni dopo, quella repubblica appariva, negli animi, più morta che mai; quel principato era divenuto, per affetto di popoli e per virtù di casi, il regno d'Italia.

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Vuol dire, se non erro, che dalle catastrofi difficilmente risorgono i governi, quando ubbidiscono soltanto ad un programma cieco ed egoista di conservazione, come quello che prevaleva negli ultimi tempi della Repubblica di Venezia. Vuol dire che, malgrado le catastrofi, hanno avvenire splendido e sicuro quegli Stati, quei governi, quelle dinastie, che fondano il loro diritto di conservazione sopra un ideale, sia di completamenti nazionali, sia di progressi morali.

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