I.

Il pugnale di Lorenzino de' Medici, il cui sinistro bagliore rompeva la penombra lusingatrice all'ultima fra le turpi notti del ducale cugino Alessandro, non poteva rendere la libertà a Firenze. Quel giovinastro malinconico e motteggiatore sognava, così almeno lasciò scritto in pagine di frase eloquente, e come del resto gli altri regicidi di quella età paganeggiante, sognava Bruto e l'opera sua: ma la voce di Bruto è ascoltata ed efficace, quando si leva presso al cadavere d'una sposa intemerata, non voluta sopravvivere a sè medesima, frementi attorno cittadini che nella violazione del sacrario domestico sentono offesa la santità della convivenza civile; si disperde e muore sulla pianura scellerata di Filippi, quando, divenuta nome vano la [44] virtù, il grido di libertà non è più l'eco della coscienza cittadina, e l'amor della patria non arma che il braccio d'un gruppo di congiurati. E poi, Lorenzino non era un Bruto autentico. Rampollato da uno de' minori rami Medicei, del quale accoglieva in sè l'ultimo fiato e le mancate ambizioni, aveva rimuginati nell'animo culto e pervertito quei medesimi elementi del classico Rinascimento, in mezzo alla cui acre fermentazione si era trasformata la Firenze repubblicana; e come pel ramo dominante, si venne in Cosimo vecchio, nel magnifico Lorenzo, in Lorenzo duca d'Urbino, elaborando il Cesare liberticida, così in questo diseredato, alle fattezze sue vere, che erano di un Medici inviso a Medici e invidente, si era sovrapposta la larva, non altro che la larva, di Bruto. Quando poi, spinta da cotesto uomo, giunse l'ora, Firenze, che non aveva più popolo dal giorno in cui l'Impero e la Chiesa le ebber dato un Senato, Firenze, da quei senatori - uno de' quali si chiamava pur troppo Francesco Guicciardini, il Tacito mancato alla storia della destinata servitù - avea docilmente ricevuto in un giovinetto di diciotto anni il suo Cesare.

Cesare, il duca Cosimo, per modo di dire; ma veramente, un proconsolo del vero Cesare ispano-austriaco, alle cui mani diventava cosa [45] l'utopia romana medievale del Santo Impero. All'ombra di questo, i Signori insediatisi per vario modo sulle rovine del Comune, esercitavano, vicarî coronati, un principato, che, illegittimo d'origine, perchè nato di violenza o di frode contro le libertà popolari, riceveva degna sanzione nella investitura segnata dalla mano di un monarca, che di romano e d'italico non aveva se non il nome, poichè nel fatto era il continuatore della oppressione barbarica sul gentil sangue latino.

Se non che i principati paesani, qualunque essi si fossero, ebbero questo di buono: che salvarono le rispettive regioni italiche dal giogo obbrobrioso dei Vicerè, sotto il quale Milano e Napoli, Sicilia e Sardegna, patirono sulla viva carne il solco profondo e sanguinoso della servitù straniera. Chiamiamoli pure proconsolati; ma codesta loro condizione ne assicurava l'esistenza, ai termini di quel diritto pubblico imperiale, che, dalla Dieta di Roncaglia per la bolla d'oro di Carlo IV sino alla prammatica sanzione di Carlo VI, sovrastò, senza del resto poterlo dominare, allo svolgimento politico di quasi sei secoli della vita civile italiana; mentre nell'esercizio effettivo della sovranità, nelle relazioni coi cittadini divenuti suo popolo, il principe poteva, se volesse, e tanto quanto volesse, rimanere cittadino. [46] Il che ai Medici era fatto poi quasi naturale dalle tradizioni del tutto cittadinesche della loro ambizione e grandezza: originata dal lavoro dei commerci fortunati; e solidatasi genialmente col favore e la cooperazione alle manifestazioni dell'ingegno; sempre, dunque, in termini di civile convivenza, o, come con bella parola nel Quattro e Cinquecento dicevasi, di civiltà; che la fortuna del triregno (con Leone e Clemente) aveva non altro che amplificati. Ben diversi dai Gonzaga o dagli Este, venuti su di sangue feudale, e mediante l'abuso violento, mercanteggiato con l'Impero, dei magistrati municipali; ben diversi dai Farnesi, creature papali avventizie; i Medici, se la usurpazione, sia violenta, sia artificiosa, della comune libertà, potesse essere legittimata mai, avrebbero avuto al principato titoli legittimi; ne avevano certamente di gloriosi.

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