VI.

Ma e da quel che fece e da quel che non fece, pesa egual carico di biasimo sul penultimo dei sette granduchi, Cosimo III, che nella più lunga pur troppo di quelle signorie, lunga di oltre mezzo secolo dal 1670 al 1723, accompagnò e di propria mano sospinse il discendere in basso di tutto e di tutti; - politicamente, rinchiudendosi, dinanzi alle guerre prima di Austria e Luigi XIV, poi per la successione spagnuola, in una neutralità passiva e non patteggiata, che esponeva lui al discredito, e la misera sua Toscana a pagare le spese di quel rincantucciamento fuor dell'orbita degli interessi europei; - amministrativamente e moralmente, con l'avere eretto in sistema di governo il più goffo e irragionevole pietismo che mai abbia adulterate e disonestate le alte e feconde ispirazioni del principio religioso, e riducendo così tutta la vita civile ad una mostruosa parodia di convivenza monastica, sbanditone ogni libertà non che d'azione, non che di pensiero (pena, dal detto al fatto, la frusta, la berlina, la forca), ma pur di [70] sentimenti e d'affetti e d'abitudini; sino al regolare, a norma d'editti e con pratiche inquisitorie, sanzionate spesso da violenze crudeli, non solamente la dieta ecclesiastica del magro e del grasso, ma le conversazioni, i matrimoni, l'uso della parrucca, il servizio dei domestici, il fare all'amore: nobilissime cure di governo, ch'egli alternava con la propaganda religiosa a quattrini contanti, pagando conversioni e battezzamenti, che, con meritata profanazione, erano spesso presi in burla da venturieri di questa novissima industria santimoniale messa al mondo da lui. Dai viaggi per molte regioni d'Europa, sebbene fatti in compagnia di valentuomini come Filippo Corsini o Lorenzo Magalotti, poco più altro ritrasse che il venirgli a noia la scienza, e il contrarne la fastosa burbanza di gran monarca; alla cui maestà l'aver potuto aggiungere, a competenza di Casa Savoia, il titolo d'Altezza Reale, fu una delle sue più segnalate imprese, insieme con l'altra di esser tornato dall'anno santo di Roma con la dignità di Canonico di San Pietro. Di quel non molto in che favorì alcune parti dell'umano sapere e i loro cultori, mal ci apporremmo a derivare la ispirazione da liberale moto d'animo culto, anzichè rintracciarne i motivi in considerazioni di personale interesse o sodisfazione; come nella familiarità col Magliabechi, [71] che al servizio del principe metteva non la maravigliosa dottrina soltanto, ma la coscienza altresì; o col padre Segneri, del quale non so quanto, senza la tonaca del gesuita, avrebbe pregiato il signorile possesso dell'artificio oratorio e dell'idioma italiano; o col Redi, che gli tutelava lo stomaco e glielo afforzava per la vecchiaia; o col Micheli, la cui sapienza botanica impreziosiva i granducali giardini e gli arrubinava i fiaschi degli squisiti doni di Bacco che il medico poeta cantava; i fiaschi di buon Chianti, che esso Cosimo mandava a regalare ai coronati d'Europa, in una stessa spedizione col vocabolario della Crusca, per la terza volta rinnovato da una delle più valenti generazioni di quelli accademici. La qual paesana mescolanza di vino e di lingua, sangue l'uno e l'altro de' rispettivi organismi, il corpo e la nazione, sarebbe stata di buon augurio, se le vigne granducali non avesser prosperato, com'una cultura di stufa, in mezzo a regione squallida e depauperata; e se alla lingua di Dante e del popolo non fosse stato il nostro Vocabolario, per tutto un secolo dipoi, piuttosto deposito e tomba che riproduttivo vivaio; se la parola, più che lucida forma di pensiero e virtù alata d'affetto, non avesse finito quasi interamente con l'essere inerte materia frammentaria al congegno meccanico della frase; [72] cosicchè quando dalle labbra d'uno di quei cruscanti cortigiani, che la natura avea fatto poeta, balza quasi inconsapevolmente il santo nome d'Italia, e da quel cuore buono scoppia il rimpiante della “funesta bellezza„ di lei, e delle cupidigie ladre straniere, e del fato indegno che la condanna “a servir sempre o vincitrice o vinta„, noi restiamo incerti se quella voce di Vincenzo Filicaia è l'eco di tempi anteriori, o il grido fatidico d'un lontano avvenire.

Dal matrimonio che dette alla Toscana l'ultimo granduca, ho accennato quali consolazioni avesse Cosimo: consolazioni le quali, anche dopo la o espulsione, che s'abbia a dire, o fuga, della moglie, gli continuarono nelle affannose sollecitudini dell'assicurare la successione con l'ammogliare il fratello e i due figliuoli (nè a lui affezionati nè egli a loro, perchè ambedue, come la madre, alieni dall'umor tenebroso paterno), e col maritare, sola a lui ben accetta, la figlia. E tutti e quattro senza buon resultato: a vuoto il fratello, scardinalatosi, Francesco Maria con la Gonzaga; - a vuoto, e premorto al padre, lo scapestrato e vizioso Ferdinando con la buona e infelice Violante di Baviera; - e pur finiti senza prole, dalla sua brutta e salvatica moglie di seconde nozze boema il successore Giangastone, e l'Anna che vedova dell'Elettor Palatino tornò [73] poi a veder qui consumarsi ed esser trasferito nei Lorenesi il granducato mediceo: - in quei Lorenesi, del cui ducato, invece, se non era la pusillanimità di Cosimo III (che il Magalotti suo diplomatico sdegnosamente proverbiava), i patti di Nimega avrebber potuto incoronare un Medici; uno de' figliuoli datigli così di mala voglia da quella Orleanese, la cui madre era de' Lorena, e il cui primo amore, ossia il solo, era stato con un Lorena. Chi volesse in una rappresentazione scespiriana, intinta di tragico e di comico, drammatizzare la catastrofe di casa Medici, ne avrebbe, dalla venuta, regalmente festeggiata in Firenze, di Luisa d'Orléans fiorente di gioventù, di bellezza, di gaiezza francese, al suo ritorno in Parigi per esser rinchiusa nel convento di Montmartre moglie furibonda d'odio e di disprezzo, ne avrebbe il primo atto del dramma; - nel cui atto ultimo, il figliuolo di lei Giangastone si vedrebbe per le sale di palazzo Pitti, circondato da cortigiani innominabili; fra le brigate, salariate per l'orgia a un ruspo la settimana, de' suoi Ruspanti; in vedovanza volontaria, anzi entusiastica, della sua grossa castalda di Reichstat; trascinare incurante l'agonia del gran nome che pesa su quel corpo disfatto, su quell'anima, del resto non volgare, come brillante e acuto l'ingegno, alla quale mancò fino dai primi anni [74] l'alito salubre della virtù domestica. Ma incurante, non è giusta parola. Un pensiero, un alto pensiero, ebbe Giangastone; lo ebbe lo stesso Cosimo III: e fu, lo credereste? la libertà fiorentina. Il pensiero che angustiava il lutto paterno del vecchio Cosimo pater patriæ, quando aggirandosi per le sale deserte del superbo suo palagio cittadino di via Larga, esclamava: “Questa è troppo gran casa a sì poca famiglia„; quel pensiero, ne' cuori, tanto l'un dall'altro diversi, de' due ultimi granduchi, si atteggiò al rammarico, forse al rimorso, che questa cittadinanza, ormai da tre secoli addivenuta d'una in altra forma l'appannaggio domestico d'un Medici, fosse destinata irreparabilmente a passare ad altre mani, chi sa quali! E allorchè i tentativi di rifar razza si videro l'uno dietro l'altro soggiacere alla sentenza inesorabile di tale destino; e che i vigilanti speculatori del mercato europeo dei popoli furono pronti ad evocare sul capo della nobile vittima di papa Clemente e di Carlo V la trista parola “feudo dell'Impero„; i diritti, dinanzi a Dio non prescritti, della libertà fiorentina, ebbero difensori, per vie diplomatiche e giuridiche, i due ultimi granduchi medicei. In quel dramma, che dicevo possibile, degli ultimi Medici, la scena di queste proteste non mancherebbe di tragica dignità: ma il cosiddetto Senato [75] fiorentino che lamentosamente le accompagna, intonando la propria alla voce senile del principato morituro, farebbe le parti d'un coro piuttosto di Aristofane che d'Eschilo.

Del resto, la gaia reazione che i quattordici anni di regno di Giangastone, dal 1723 suo cinquantaduesimo, portarono nella vita fiorentina, fu, più che altro (salvo qualche utile rivendicamento della potestà civile), una mutazione di scena. Dall'acre bigotteria di Cosimo III al dissoluto cinismo del figliuolo, Firenze compì tranquillamente in sè stessa la distruzione d'ogni morale energia, preparando docile materia alle riforme legislative che poi formarono il vanto de' primi sovrani lorenesi. Dal 1718 al 1735, pe' trattati di Londra, di Cambray, di Siviglia, dell'Aia, la Toscana di Cosimo e di Giangastone fu maneggiata e rimaneggiata secondo gl'interessi di Spagna, d'Austria, di Francia; passò in anticipazione dalle mani dell'infante Carlo a quelle di Francesco duca di Lorena; ricevè guarnigioni spagnuole, per cambiarle poi con tedesche; e nelle mani di questi, alla morte di Giangastone il 9 luglio 1737, rimase. Ombra medicea accanto al nuovo trono lorenese, restò ancora per sei anni la figliuola di Cosimo, la vedova Elettrice Palatina. E poi tutta la prima dinastia de' Granduchi di Toscana fu adagiata nei sotterranei di San Lorenzo.

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