L'ARTE NEL SETTECENTO

CONFERENZA

DI

Antonio Fradeletto

[423]

Signore e signori,

Se il principio o il termine d'un'età può mai datare dall'apparizione o dalla scomparsa d'un uomo, la morte di Luigi decimoquarto segna certo il confine morale che divide il Seicento dal Settecento. Con lui, infatti, col monarca superbo che si piacque di vedersi effigiato in clamide e parrucca, sembra adagiarsi nella tomba tutto un secolo impettito, prosuntuoso, prepotente, intollerante, un secolo nel quale l'accademismo classico non disdegnava d'accoppiarsi in fastoso connubio con l'enfasi barocca. Gli Stati europei, liberi finalmente dall'incubo d'un'ambizione che aveva pesato per tanti anni sul loro destino, mandano un respiro di sollievo. La Francia stira le membra raggranchite nel gelo delle forzate devozioni e agogna a rifarsi con la sfrenata [424] libertà del costume e del pensiero. Si seguono allora due generazioni così spregiudicate, così epicuree, come l'ultimo periodo della vita del Gran Re era stato noiosamente bigotto. Godere, goder presto e in tutti i modi, è l'ideale cui mirano, sia inconsapevolezza che nasconda ai loro occhi l'abisso verso il quale sono trascinate, sia sprone di inconfessati presagi che le spinga ad esaurire ogni ebbrezza prima dell'imminente catastrofe. L'età anteriore s'era segnalata per una tensione suprema d'energia: energia caparbia, rovinosa, folle, ma, insomma, strenuamente pugnace. Essa veniva al despota - che la impose alla nazione - dalla coscienza, non mai scossa per accumularsi di sciagure, dell'alto ufficio al quale egli teneva preordinata la monarchia per diritto divino, incarnantesi nella sua persona. Ora, noi assistiamo ad una di quelle subitanee reazioni che seguono sempre gli sforzi soverchiamente protratti. Le antiche energie si allentano, le antiche convinzioni vaniscono in un sorriso. Etichetta, pompe, cerimonie, consuetudini officiali restano bensì immutate; ma lo spirito che un giorno le animava s'invola; ma le idee, i sentimenti, le fedi tradizionali ad ogni ora si sgretolano. L'edifizio costruito dai secoli si direbbe, a primo sguardo, incolume, quando invece nulla d'incolume n'è rimasto, fuorchè la decorazione [425] esteriore: una decorazione magnifica, amplificata da mille illusioni prospettiche, ma assisa ormai su fondamenta così logore che noi la vedremo oscillare e crollare al primo urto di mano plebea.

E come lo stato politico e sociale non era altrove molto dissimile, come l'esempio della Francia serviva di scuola all'Europa, l'aristocrazia ci porge quasi da per tutto (salvo le nobili eccezioni che non occorre rammentarvi) un'immagine conforme di vita. Veramente quest'aristocrazia non è che un'esigua minoranza; ma essa costituisce la classe dominante e tipica; essa detta la moda e crea il gusto; essa invade il dinanzi della scena e respinge ancora nell'ombra tutto il resto della nazione; essa dà pertanto alla società europea, fino allo scoppiare del movimento filosofico e borghese, e anche più oltre, un'apparenza comune di festività, di spensieratezza, di tolleranza amabilmente scettica, o, in breve, di estenuazione morale.

Fra noi l'estenuazione aveva cause più profonde e più remote. Già l'Italia era uscita dalla gloriosa indisciplina del Rinascimento barcollante e spossata, come chi ha troppo osato, troppo creato, troppo compreso e troppo goduto. Poi, centocinquant'anni di blandizie gesuitica e di oppressione spagnuola avevano plasmato a servilità [426] la mattiniera ribelle. Ingegno, cultura, spirito d'osservazione, fantasia, erano sempre vivi; viva era la pertinacia intellettuale del pensatore, dell'erudito, dell'artefice; ma era venuta meno nei più quella deliberata vigoria di iniziative e di resistenze che è il fiore dell'essere morale. E le riforme stesse che segnalarono la seconda metà del Settecento non ebbero tutta l'efficacia che proviene dai robusti consensi; esse furono reclamate da poche menti superiori e largite dall'alto, piuttostochè scaturire da una coscienza sociale largamente e virilmente operosa.

I forti aspirano a conquistare il dominio della propria anima; essi amano appartarsi e raccogliersi, perchè trovano in sè di che popolare ogni solitudine. Ma agli spiriti deboli e frivoli che resta da fare, se non allearsi ad altre debolezze e ad altre frivolezze? Così questa nobiltà esausta e peritura si conforta con la vita in comune, con le conversazioni, coi festini, coi teatri, col giuoco, con la galanteria, con l'osservanza rituale dei precetti della moda, innalzati perfino a quistione di Stato o a controversia diplomatica. L'impero d'una simile società non può spettare che alla donna, e la donna viene eletta concordemente ad esercitarlo. Ormai ella sembra creata soltanto per entrare con grazia in un salotto a braccio del cicisbeo, per porgere [427] la mano al bacio dei corteggiatori, per sedere ammirata in un palco, per danzare languidamente il minuetto, per dominare il volgo dall'alto d'una carrozza scintillante d'oro e di cristalli, per accennare a un desiderio ed essere a gara obbedita, per divenire maestra di piaceri e parteciparvi fino all'ultimo, come quella dama che ammalata di malattia inesorabile, si fa abbigliare sfarzosamente, colorire di rossetto le terree cavità delle guance, condurre in portantina a teatro, e che, al ritorno, muore.

Vi sono, Signori, rappresentazioni d'arte, le quali valgono storicamente più degli stessi documenti storici, perchè ci tramandano non tanto gli sparsi pensieri del passato, quanto l'intima essenza di tutto il suo pensiero. Tale “L'imbarco per l'isola di Citera„ di Antonio Watteau. Ben prima che Carlo Innocenzo Frugoni cantasse fra noi:

La bella nave è pronta:

Ecco la sponda e il lido

Dove nocchier Cupido,

Belle, v'invita al mar,

ben prima e con ben altra vena, il Watteau aveva dipinto la dilettosa allegoria, che esprime il sogno di due generazioni. Sul lido, sotto i grandi alberi, sorge, infiorata dai devoti, l'erma della Dea; l'onda purissima è in calma e i salici v'immergono le capigliature fluenti; uomini [428] e donne, tenendosi a braccio, traggono alla galèa che sta per salpare, sotto la guida degli Amori, verso l'isola incantata. L'aspetto di quelle coppie è giocondo, le mosse graziose, ma pure noi ci sentiamo vinti da un'ineffabile malinconia. Sono forse i vapori autunnali e vespertini in cui l'artista ha avvolto la scena? O è quel presagio amaro di delusioni che si mesce per noi a tutte le immagini del piacere? O è il lampo d'una comparazione fra i giorni che furono e i giorni che noi viviamo?.... Ignoro; ma certo dinanzi a quello spettacolo di agognate e credute felicità, l'anima è mossa a un sentimento triste, che potrebbe tradursi nelle parole: per l'ultima volta!

*

In quelle creature voi non cercherete dunque passioni, bensì capricci ed emozioni mutabili: l'emozione sentimentale, l'emozione voluttuosa, l'emozione gioconda, l'emozione patetica, l'emozione idillica. Vedete il sentimento tipico: l'amore. “On se plaît, on se prend; s'ennuie-t-on l'un avec l'autre, on se quitte avec aussi peu de peine qu'on s'est pris. Revient-on à se plaire, on se reprend avec autant de vivacité que si c'était la première fois qu'on s'engageât ensemble„ scrive in Francia Crébillon figlio. E in Italia l'abate [429] Chiari: “Dove troverete adesso quelle passioni violente e così memorabili che inspiravano un tempo le donne vedute soltanto attraverso un fosco velo e vagheggiate una volta al mese dall'altezza di una finestra?„ E invero l'amore è ormai divenuto un misto di volubilità sensuale e di consuetudine tra amichevole e cerimoniosa, che tollera filosoficamente le divagazioni e le compartecipazioni:

Qual torto far potrebbonsi,

Colpevoli del pari?

Perchè perdon si nieghino

Troppo ambedue son cari.

Di quando in quando ha anch'esso, l'amore, le sue burrasche, o, come dicevano, le sue smanie; ma sono burrasche a fior d'acqua, subito placate da un abbraccio o da un giuramento in ginocchio. La separazione non lascia dietro a sè che un'ombra di mestizia. Nel ripercorrere i luoghi dov'egli visse beato con la sua donna - forse irreparabilmente perduta - l'amante non medita e non impreca; basta a lui effondersi in questo lieve sospiro:

Dite almeno, amiche fronde,

Se il mio ben più rivedrò;

Ah! che l'eco mi risponde

E mi par che dica no.

E come l'amore, così sottoponete all'analisi [430] tutti gli altri sentimenti - il dolore, la fede, la tenerezza, la pietà, la generosità - quali vi si mostrano negli scritti letterari ed intimi del tempo. Potrete scomporli in una serie di stati di coscienza ora languidi ora concitati, ma quasi sempre mobili, ondeggianti, effusivi, e, per significar tutto con una parola, melodici. Ecco perchè senza la melodìa poetica e senza la melodìa musicale non si comprende il Settecento; ecco perchè le canzonette del Rolli, i drammi del Metastasio, le limpide arie del Pergolesi e dello Jomelli suonano a noi come la voce superstite dell'anima sua!

Ma una parte almeno dell'anima del Settecento si è pure espressa con un linguaggio visibile di forme e di colori. E questo linguaggio è il nuovo stile rococò in cui viene a rammorbidirsi quello più gonfio e pesante del periodo di Luigi XIV. I contorni sinuosi, i cimieri asimmetrici, i festoncini, i ciuffi, le frondeggiature arricciate, vi annunziano chiaramente la capricciosa mobilità degli spiriti. Quelle colorazioni tenui - cilestrine, rosee, verdicce, lilla, giunchiglia pallido, tortora, foglia morta - vi sussurrano all'orecchio le repugnanze sottili dell'epicureismo per ogni sensazione troppo vivace. Quei letti dalle incurvature di bomboniera, dai guanciali digradanti, dalle alcove rallegrate di nudità mitologiche, vi [431] confidano i sonni voluttuosi prolungati fin presso al meriggio. Quei canapè dalle braccia accoglienti vi evocano l'intimità dei lunghi colloqui, alternati di carezze e di consapevoli silenzi....

Vogliamo entrare nel vestibolo di quel grande palazzo, architettura immaginosa del Fuga o di uno dei Bibbiena, dello Juvara o del Vanvitelli? L'ampia scalea balaustrata ci conduce negli appartamenti gentilizi, scintillanti di lumiere. Sulle mensole, sulle cantoniere, spiccano le tazze di Meissen o di Sèvres, le statuine galanti e campestri in biscuit, le piccole miniature in avorio; sul caminetto, il bronzo dorato del pomposo orologio a pendolo e dei candelabri dagli steli attorti. La suppellettile, lucente di lacca, è dipinta a figurine e fiorami; qua e là qualche mobiletto di legno esotico, qualche stipo a tarsie di tartaruga e metallo, qualche gruppo scolpito a putti ed allegorìe, che sorregge un vaso del Giappone o della Cina. - Siamo nel salone, un sontuoso salone tutto fregiato di stucchi, dal soffitto recente di affreschi, dalle pareti chiare - bianco e oro, rosa e oro, pistacchio e oro - che si schiudono ad assidui intervalli nelle chimeriche profondità degli specchi. Le dame dalle acconciature bizzarre, dall'ampio giro della veste di raso ornata di trine e di falbalas, siedono conversando e agitando in ritmo i ventagli; i cavalieri [432] con la giubba e la sottoveste ricamate e i polpacci stretti nelle calze di seta, passano dall'una all'altra, tintinnando di ciondoli e sbattendo lo spadino incruento; qualche abatino novizio fa la sua corte discreta, appoggiato ad una spalliera o protetto dall'ala d'un parafuoco. Ma ecco un accordarsi sommesso di violini, un porgere ossequioso di mani, un fruscio di vesti, un disporsi lieve di coppie; il minuetto sospira i suoi inviti alla letizia; i guardinfanti si piegano come per un accenno di genuflessione; le giubbe ricamate s'inchinano; la danza comincia, molle, aggraziata, pacata, luminosamente proseguita entro le chimeriche profondità degli specchi.

Gli specchi! non è questo, Signori, uno fra gli ornamenti più cari al secolo, e fra quelli che meglio ce ne raccontano la socievolezza leggiera, l'appariscenza, la vanità, la fragilità? Profusi per ogni dove, gli specchi paiono eletti all'ufficio di adulare la realtà, di suscitarle intorno un corteo di seguaci illusioni. Nei festosi ritrovi, essi inducono l'uomo alla ricerca dell'atteggiamento e del gesto, ma insieme coi vigilanti richiami lo frenano; nei convegni libertini sferzano i suoi sensi con le complici denudazioni del pudore; nell'odiosa solitudine lo confortano, porgendogli almeno la visibile compagnia di sè stesso!

Perchè ciò che il Settecento aborre di più, [433] ciò che gli pesa intollerabilmente, è la solitudine. Prima che Giangiacomo Rousseau imprenda il suo apostolato, nessuno sa concepire le gioie austere dell'anima sognante in faccia alla natura. La vita in campagna non è dunque - mutato scenario - dissimile da quella di città: ricevimenti, rinfreschi, fuochi di gioia, tavola sempre imbandita, giuochi, concerti, commedie da camera. E già gli stessi giardini, coi lunghi viali regolari, e la fiorita simmetria delle aiuole che somigliano tappeti a rabesco, e le siepi di bosso tosato, e gli alberi rifondati o squadrati a piramide e a dado, e gli emicicli a gradinate coperte d'erbetta rasa, che altro sono se non una specie di duplicato dei teatri e dei saloni? Saloni all'aria aperta, dove la gente passeggia con lentezza pigra, si scambia nell'incontrarsi complimenti e celie, riposa sui sedili rustici col garbo contegnoso con cui s'adagia sui canapè, si raccoglie in comitive conversanti, si disperde a coppie sotto le vôlte fronzute, tra il sussurrìo delle fontane e l'occhieggiare delle ninfe marmoree dalle pieghe svolazzanti.

In molte fra le dimore ove passò sì lietamente la vita, si stende oggi lo squallore dell'incuria o dell'abbandono. Gli svelti ghirigori di stucco vanno sgretolandosi, o ingoffiscono sotto lo strato denso degli intonachi; la suppellettile impressa [434] di calde abitudini umane non è più; dalle pareti quadri e stoffe damascate scomparvero; gli specchi hanno la faccia livida dell'acqua palustre e non ripetono più luminosamente l'immagine umana, ma la offuscano e la incadaveriscono. Dal cancello rugginoso, fregiato di nastri e di stemmi a cartoccio, intravvediamo i viali del giardino, un giorno così corretti nel loro tappeto di fine ghiaia e nella duplice spalliera pettinata, invasi dal folle scompiglio dell'erbe; la conca marmorea della fontana muta di voci scroscianti; i gradini che mettevano alla veranda, i gradini sui quali passarono, sfiorandoli appena, tanti piccoli piedi, sconnessi e screpolati; e qua e là, di sui piedestalli ingialliti dai licheni, qualche ninfa dal naso mozzo e dalla mano mutilata, che si sforza ancora di sorridere con la triste civetteria delle vecchiaie che non si rassegnano.

Dinanzi a questi fantasmi deformati del mondo distrutto dalla catastrofe dell'ottantanove, sorge nella nostra mente una visione: un abisso nero, in fondo al quale gorgogliano torrenti di sangue, e sulle opposte sue sponde l'antitesi di due scene: di là tenui ombre graziose, aggirantisi, nella luce blanda del pomeriggio, per un Eliso campestre; di qua l'incalzare d'una gran folla irrequieta, in un'atmosfera fumosa e sonante di opere. - I nostri nonni e noi!

[435]

*

Consultiamo i ritratti, paragonandoli a quelli delle due età precedenti.

Nei ritratti del Cinquecento ferve tutta la vita poderosa d'un secolo in cui l'uomo, affidandosi senza freno a' suoi istinti, mostrò di quanta genialità e di quanta perversità egli sia organicamente capace. Direste che gli originali non siano venuti a posare davanti agli artefici, ma che piuttosto gli artefici, con qualche secreto sortilegio, li abbiano imprigionati palpitanti entro la cornice. Sotto la corazza o la porpora, sotto il giustacuore o la toga, con le labbra schiuse al comando o serrate in uno sforzo di proponimento, con la pupilla fiera di risoluzione o lampeggiante di cupidità, con la mano che stringe un decreto, o si posa sull'elsa della spada, o si pianta saldamente sull'anca, o s'abbandona sur un bracciuolo nell'assorta fissità del pensiero, essi ci narrano la storia di quella fatale generazione che splendette e si estinse in una vampata prodigiosa d'energie e di passioni.

Nel Seicento tonalità ed espressioni s'infoscano. Vi sono molte tele, dove, a primo sguardo, non riuscite a discernere nel campo buio che l'incerto biancore d'una gorgiera o di due lattughe. [436] Solo più tardi spuntano dalle tenebre due occhi cavi in un viso smorto. E di quelle immagini, alcune, accigliatamente torbide, vi lasciano intravvedere, o fantasticare, un viluppo di tetre cose interiori: qualche duro costringimento patito, qualche vocazione violata, qualche tedio insanabile, qualche mistero doloroso od atroce mal sepolto nel fondo dell'anima. Altre, invece, sembrano degnarsi di concedervi udienza con quell'aria di arcigno sussiego a cui la faccia umana era forzatamente composta dalle quotidiane tirannie del cerimoniale. Ogni spontaneità è soffocata. Educato alla scuola della paura e dell'ipocrisia, l'uomo non si espande più; si comprime o s'atteggia.

Con l'età nuova i tôni rischiarano e la tristezza dilegua. Diremo che sia egualmente scomparsa la pretensiosità? Tutt'altro. Voi le rivedete, mentre io parlo, certe patrizie del secolo che fu, rigide nell'abito insaldato, certi cavalieri e virtuosi pettoruti, certi senatori e procuratori dalle parrucche colossali e dai faccioni sbarbati, cui la cornice fastosa glorifica come una smaccata iperbole adulatoria. Ma pure l'uomo e la donna sono spesso rappresentati in attitudini più intime: la donna sopra tutto, mentre vezzeggia una cagnolina (quanta parte non ha la “vergine cuccia„ nei ritratti del Settecento!) o siede allo [437] specchio, o tiene in mano il bossolo dei nèi, o coglie un fiore, o accosta alle labbra la tazza invidiata dal poeta:

Cinese tazza eserciti

Beato il suo costume

E il roseo labbro oscurino

Le americane spume.

E in armonia con le attitudini, muta di necessità l'espressione. Alla gonfiezza, al compassato ritegno, subentrano le arie frivole o ingenue, ghiribizzose o sentimentali.

Una donna è appunto il ritrattista più celebre della prima metà del Settecento: Rosalba Carriera. Ella sparge de' suoi lavori l'Europa, ma la prodigiosa fecondità è ancora tarda alle richieste. Dinanzi a lei posano a gara la corte dissipata di Filippo d'Orléans, la corte casalinga di Rinaldo d'Este, la corte pomposa di Carlo VI. Dalle piccole mani, occupate in un'incessante fatica, escono le pagine più varie dell'iconografia contemporanea: la signora di Parabère, Law, Watteau, il piccolo Luigi XV, l'imperatrice Elisabetta, l'imperatrice Amelia, la duchessa di Holstein, la principessa di Teschen, il cardinale di York, Faustina Hasse, Pietro Metastasio. E da per tutto ella è ricercata e festeggiata; da per tutto le risuona intorno un coro d'ammirazione che osa pareggiarla perfino al Correggio, [438] e in cui si perde, senza ottenere ascolto, ogni censura più discreta.

Oggi, noi riconosciamo che il disegno di Rosalba è fiacco, ch'è assai dubbia (almeno in parecchi casi nei quali siamo in grado di giudicarne) la rassomiglianza de' suoi ritratti; - e tuttavia non ci par difficile comprendere le ragioni di quell'entusiasmo.

Certo vi conferì la sua tecnica. Rosalba trattava anche la miniatura e la pittura ad olio, ma il genere da lei prediletto restò sempre il pastello. Ora, l'uso delle matite colorate era in gran voga nel secolo scorso. Vi si addestravano così le educande ne' monasteri come le belle mondane nei loro piccoli appartamenti. Federico di Prussia, quest'uomo che alle doti sovrane della volontà e del genio pareva congiungere tutte le piccole manie del dilettantismo, non ingannava altrimenti gli ozi del carcere a cui l'aveva condannato la caparbia brutalità del padre. E già - come notò il Sensier - con quella pittura secca, ma limpida e facile al ritocco, con quella gamma preparata di toni e semitoni leggerissimi, si credeva di aver reso la mano più franca e più spedito lo studio della natura. Rosalba dovette dunque apparire come una geniale personificazione di questa tecnica, tutt'altro che nuova, è vero, ma che allora trovava nel gusto del pubblico elegante le condizioni [439] più propizie per espandersi, e che poco appresso sarebbe stata illustrata dalle grazie del Liotard e dal vigore di Maurizio La Tour.

Ma l'altra, la maggior ragione di quel fervore d'entusiasmo, fu l'alito di poesia, fra ingenua e melodrammatica, che Rosalba spirava ne' suoi ritratti. Se pur questi erano poco fedeli, i contemporanei dovevano ravvisarvi un fedele riflesso dei sogni loro abituali. Come il pittore dell'Imbarco per Citera idealizzava il costume e il poeta dell'Olimpiade il sentimento, ella mirò, in diversa misura, a idealizzare le fisonomie, e vi riuscì particolarmente nelle immagini femminili, perchè qui i suoi avvedimenti tecnici, i suoi difetti medesimi, come la mollezza del tocco, s'accordavano con la natura del soggetto. Da ciò, forse, la singolare malìa che esercitano le donne dipinte da Rosalba. Quei capelli, sparsi d'una brinata impalpabile di cipria, si sollevano dinanzi a noi come per un esile soffio; le carni di latte e rosa, delicatamente venate d'azzurro, si muovono a un blando ritmo di vita, tra il vaporoso biancheggiar dei veli e il gaio colore delle vesti; gli occhi stanno assorti in una dolcezza di godimenti rammemorati o sperati; la persona sembra circonfondersi della sua essenza spirituale, come il fiore si circonfonde del suo profumo.... Nulla, insomma, meglio della sorridente [440] levità dell'arte di Rosalba poteva tramandare fino a noi l'effimera apparizione di quegli esseri di capriccio e di piacere, ignari della tempesta che li avrebbe indi a poco travolti!

*

Ogni età ebbe un suo proprio ideale di bellezza e amò incarnarlo nella Donna. Il medio evo la figura come un giglio mistico sorgente nei campi paradisiaci della visione; il quattrocento le dà la freschezza umana e le grazie contenute dell'adolescenza; ai giorni lieti del cinquecento noi vediamo il suo bel corpo espandersi in una luminosa palpitazione di vita; col seicento ella si fa agitata e triste e leva al cielo le pupille irrorate di pianto.

Ora un ideale nuovo viene modellandosi sulle nuove consuetudini, e il suo tratto caratteristico è l'eleganza mondana. Alla fantasia dell'artista l'immagine della Donna non si presenta spontaneamente nella sua luce morale, non nella prestanza nativa delle sue forme, non nell'esaltazione dello spirito, ma in tutti i vezzi raffinati del suo abbigliamento. La pittura non si compiacque mai tanto di ritrarre la toilette d'una dama o d'una dea; nè mai la poesia indulse così largamente alla descrizione delle acconciature e delle vesti:

[441]

Col terso pettine tutta inanella

La lunga chioma, e bianca polvere,

Qual neve in albero, spargi su quella.

Pon su 'l bell'ordine de' vaghi crini

I ricchi nastri, le gemme tremule

E i sottilissimi stranieri lini.

Le orecchie adornati con fila d'oro,

Onde, com'astri, brillin purissimi

Diamanti penduli in bel lavoro.

Di perle candide doppio monile

Al collo cingi, e i polsi avvolgine

Pur della morbida mano gentile....

Dov'è la nobile pomposa vesta,

Cui frange d'oro d'intorno ondeggiano,

Tutta pur d'auree fila contesta?

Attorno ai busti che serrano le vitine - agli alti busti coperti di raso o di broccato, sui quali s'indugia con voluttuosa carezza il pennello - vola la strofe laudatrice del poeta:

Ristretto in circolo di spazio angusto,

Affusolato su snelli ed agili

Fianchi sollevasi tuo vago imbusto;

nè la mano par mai così bella come quando tratta civettolamente il ventaglio:

Risvegliator di zefiri

Ventaglio avea la manca,

Onde solea percuotere

Lieve la gota bianca.

Ne' moti or lenti or rapidi

Arte apparìa maestra.....

[442]

Quando l'occhio e l'immaginazione sono così imbevuti d'elementi artificiali, mal si vede la pura bellezza corporea. E, infatti, l'arte del tempo non riesce a rendervi sanamente ed efficacemente il nudo. Nella massima parte di quei dipinti il nudo o è insignificante o è libertino. Ora v'imbattete in forme sommarie, in carni floscie, alle quali fu sempre ignoto il bacio avvivatore dell'aria e del sole; ora avete dinanzi a voi qualche creatura meno nuda che spoglia, sulla cui faccia vi par quasi di ritrovare i nèi ed il rossetto, e di cui il vostro occhio corre istintivamente a cercare le gonne in un angolo del quadro.

Poco atta a cogliere la pura bellezza fisica, l'arte non si mostra meno impotente a farsi interprete della pura spiritualità. Nulla è ormai così raro nelle opere di soggetto sacro come un accento sincero d'unzione; e chi seppe, sia pure inconsciamente, trovarlo, merita per ciò solo un posto a parte nella storia del secolo. Prendete, ad esempio, il tipo della Madonna. In due modi lo avevano reso i grandi artisti: o, come Giotto e frate Angelico, sublimandolo nell'estasi, o, come Giambellino e Raffaello, trasfondendo in esso tanta e così soave placidità da suggerire naturalmente l'idea d'una condizione senza misura superiore all'umana. Nel Settecento, per contro, il tipo della Madonna quando non è volgare, [443] è manierato; quando non riproduce materialmente un modello purchessia, piglia un'aria affettata di mondanità. C'è nella chiesa degli Scalzi, a Venezia, una Santa Famiglia dello scultore Torretti, in cui la Vergine, dalle guance paffutelle, dalle membra affusolate e polite al tornio, ha l'aspetto vezzoso d'una damina, tanto che il Gautier dinanzi a quella morbida pietra figurante la madre del Signore non poteva interdirsi di ricordare, con sacrilego pensiero, la marchesa di Pompadour.

E, del resto, guardatevi d'attorno in queste chiese del Gesù e del Sacro Cuore, erette bensì nel Seicento, ma nel Settecento compiute e adornate. Da ogni cosa che vi circonda, non esce forse una suggestione profana? Pareti incrostate di marmi preziosi che simulano tappezzerie e cortinaggi, glorie di cherubini grassocci, cappelle cariche d'ori e di stucchi che paiono alcove, colonne che s'attorcono, quasi partecipando allo spasimo delle sante e dei santi trafitti dagli strali dell'amor divino. Non sono tempî cristiani codesti, sono santuari ambigui, dove il buon Dio scenderà tutt'al più come un visitatore vergognoso e furtivo, per arrendersi alla preghiera di qualche semplice di cuore!

E se le idee e i sentimenti cristiani sono così adulterati, non può farvi stupore la metamorfosi [444] che subisce il mondo mitologico. Mentre l'arte classica nobilitava plasticamente il Nume pur rappresentandone le passioni, l'arte del Settecento inclina a rimpicciolirlo coi segni esteriori d'una sensibilità effervescente e fugace. Marte, Apollo, Vulcano, Nettuno smaniano e declamano; vi sono Veneri e Diane e Minerve, che, in proporzioni colossali di viragini, mostrano un'anima di donnette svenevoli o bizzose. E già l'Olimpo eroico di Omero e di Virgilio cede all'Olimpo amoroso di Ovidio; Giove è spodestato da Cupido. Coi modelli ammirati dell'Albano sotto gli occhi, con le strofe d'Arcadia negli orecchi, la pittura moltiplica prodigiosamente l'alata famiglia, la annida fra l'erbe ed i fiori, la corica sugli aerei guanciali delle nuvole, la raccoglie in sciami tripudianti, la disperde in fughe maliziose, ne intreccia le infantili sembianze a tutti i momenti della vita. Vuole l'artista significarvi le brame e i sogni della giovinezza? Ecco due Amorini che mostrano gioielli e stoffe preziose ad una fanciulla addormentata, mentre un altro Amore, seduto sulla sponda del letto, prova col dito la punta de' suoi dardi. Vuole esprimervi qualche innocente dolore? Ecco, in un angolo, il piccolo iddio col capo basso e con gli occhi inumiditi di lagrime. - Più spesso, però, le immaginazioni mitiche, [445] anzichè tradursi in allegorie morali, non fanno che fornire dei partiti decorativi, di cui l'artista usa ed abusa nelle macchinose composizioni, come ne usavano ed abusavano gli apparatori scenici, gli autori di balletti e di cantate. Leggiamo: “Ridente e luminosa reggia d'Imeneo... Si veggono Giunone, Pallade, Venere, Imeneo, Mercurio, con folta schiera di genî.... tutti sopra bassi gruppi di nuvole diversamente situati.„ E anche: “Sopra varî gruppi di nuvole.... si veggono molto innanzi Venere con Mercurio da un lato, Marte con Apollo dall'altro, accompagnati da numerosa schiera di genî loro seguaci.„ Sono le didascalie di due azioni teatrali del Metastasio e potrebbero essere le esatte descrizioni di due affreschi contemporanei!

Gli è che ormai il teatro domina anche le arti del disegno; e le domina non solo per l'intima ragione, accennata dal Taine, ch'esso era il genere più appropriato all'indole di quel momento storico, ma altresì pel fatto materiale che molti artisti, e fra i migliori, lavoravano per il palcoscenico. Questa concezione teatrale della vita vi è rivelata dalle impostature, dalle movenze, dalle arie patetiche, dalle fogge capricciose e pompose; e quante volte, a certe uscite dei melodrammi contemporanei, la memoria non vi ripresenta da sè certi gesti imploranti o deprecanti [446] che avevate notato nei quadri di Sebastiano Ricci, dell'Amigoni, o del Cignaroli!

Nè in modo diverso dalla vita è rappresentata la morte. - Nel mausoleo Valier, della chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo, voi vedete un padiglione di marmo giallo cosparso di fiori dorati e sostenuto da angioletti nudi, scendere fra quattro grandi colonne di marmo nero, e, sul fondo di questo sontuoso sipario, allinearsi, come cantanti in un terzetto, le statue dei due dogi e della dogaressa, tutti in gran gala, lei con la capigliatura arricciata, con una mano che sporge stringendo i guanti e l'altra che tiene sollevata leggermente la veste. Il doge Silvestro Valier e sua moglie furono benefici e pii; ma gli artisti che innalzarono il monumento, come espressero l'anima cristiana di quei defunti? Col gruppo d'una prima donna in veste guerriera intitolata Virtù, che incorona un vecchio padre nobile battezzato pel Merito, e più sotto, nei bassorilievi, con una serie di figure manierate e levigate, che vorrebbero simboleggiare la Mansuetudine, la Carità, la Costanza, la Pace. Enfatica e terrifica nel seicento, la tomba si fa ora allettatrice e maestra di sceniche vanità!

Teatrale e mondano l'uomo, teatrale e mondana l'immagine della natura. Non che manchi affatto ne' quadri di paese del Settecento la nota del [447] vero. Affermandolo, mostrerei di dimenticare per lo meno Marco Ricci e il Vernet, un francese che possiamo dire quasi nostro; - ma questa nota è un'eccezione di fronte a due caratteri che generalmente vi prevalgono. Il primo è, intanto, l'abuso degli effetti pittoreschi conseguiti per via di antitesi scenografiche, come sarebbero (vi ricordo le più usuali) una statua dai contorni convulsi sorgente a fianco d'un vecchio olmo pacifico; una fontana che versa i suoi zampilli dalle fauci dei tritoni o dall'urne delle naiadi, vicino a un ponticello costruito di tronchi rozzamente connessi; un frontone classico, una torre diroccata, un'“antica, inselvatichita rovina„, che si delinea tra le piante sagacemente diradate. L'altro carattere è la convenzione arcadica, che trasforma la campagna in un asilo di felicità, popolato da gente per la quale il lavoro non è più una fatica, ma un placido svago. Il nostro Zuccarelli dovette la sua gran fama a questo raggentilimento della vita campestre, da lui significato non pure con gli atti graziosi delle sue contadinelle, che guidano le armente, o ne spremono il latte, o passano a guado un ruscello, o attingono l'acqua alla fonte, o si bagnano celate dall'ombra d'un boschetto, ma con la dolcezza e la leggiadrìa consentanea delle cose: un velo di luce aurea che [448] avvolge chetamente tutto il paesaggio, giallori e vapori miti d'autunno, frastaglio delicato di fronde, soffici ravvolgimenti di nuvole nella blanda azzurrità del cielo. E ancora lo Zuccarelli è un realista severo a paragone della scuola francese, e massime delle famose pastorali di Francesco Boucher! Qui, sì, scomparisce addirittura ogni freno di verosimiglianza; qui non sappiamo se sia la campagna che penetri timidamente nel teatro e nel boudoir, ovvero il boudoir e il teatro che facciano irruzione nella campagna. Le Clori, le Filli, le Ninette, le Lisette, le Eurille tengono circolo sull'erba, si fanno dondolare sulle altalene dai Tirsi e dagli Eulibi, ne ascoltano i madrigali e le serenate, si abbandonano alle strette di qualche braccio avventuroso, mentre là, a pochi passi, le pecore e gli agnellini dalla morbida veste ricciuta fingono discretamente di pascolare. Carnevalata bucolica di marchesi e conti e abatini e cantanti e danzatrici, degna d'un tempo in cui l'idillio dava braccio alla galanteria e il Pastor fido era tra i libri cari alla regal cortigiana che imponeva il gusto all'Europa.

[449]

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È questo, Signori, il secolo di Giovanni Battista Tiepolo.

Nato a Venezia nel 1696, morto a Madrid nel 1770, egli compie una mole sterminata di lavoro. Pur facendo la debita parte alla collaborazione del figliuolo Domenico, possiamo dire che l'opera sua basterebbe a colmare dieci vite d'artisti moderni. In Italia, in Germania, nella Spagna, egli viene suscitando su tele e pareti e vôlte una moltitudine senza fine di figure. Cattolicismo e mito, storia antica e medievale, poesia epica e romanzesca, muovono egualmente la sua vena tumultuaria di creazione, che trabocca nella pennellata larga, veloce, risolutiva.

Leviamo un po' lo sguardo a' suoi prodigiosi soffitti.

Gli angeli e i geni si disperdono nell'ampiezza soleggiata e solcata di nubi; le Fame alate si precipitano a capo fitto, dando fiato alle trombe; le divinità mitiche trascorrono sui cocchi trascinati da cavalli scalpitanti e sbuffanti; le madonne si librano a volo, recandosi tra le braccia il pargolo celeste; i santi e le sante si protendono in uno slancio d'implorazione; alle balaustre pensili s'affollano, riguardando e gesticolando, [450] assemblee di spettatori; le figure violano gli scompartimenti e scavalcano i cornicioni; braccia e gambe si sprofondano, con temerità di scorti, entro la vôlta o penzolano sul nostro capo; gli edifizi pigliano un aspetto di sospensione oscillante che sembra la minaccia continua d'un crollo; i campi dello spazio sono corsi da un vento impetuoso che sferza l'azione, esalta il gesto, solleva e sbatte i panneggiamenti, contorce e lacera le nuvole in cielo.

L'impressione che questo pittore desta immediatamente in noi è enorme. Ci chiediamo stupiti: è costui un solitario? un sopravvissuto? una sovrana smentita alla teoria delle affinità necessarie tra il genio individuale e quello collettivo?

Poi intervengono la riflessione e l'analisi. - Noi riconosciamo che l'indole agitata dell'arte tiepolesca, tutt'altro che costituire una singolarità senza esempio, è anzi una nuova riconferma di quest'antitesi ripetutamente avvertita: che quando, cioè, la società è nel vigore irrequieto della giovinezza, la tecnica bambina crea un mondo immobile o esitante; quando, per contro, la società viene adagiandosi nei torpori senili, la tecnica ormai scaltrita si avventura a tutte le audacie del movimento. - E anche in quella fecondità irruenta, in quella prontezza estemporanea [451] di esecuzione, non tardiamo a ravvisare una caratteristica propria di tutti i pittori decoratori del Sei e Settecento, da Pietro di Cortona a Luca Giordano, al Solimene, al Giaquinto, infaticabili “fa presto„, cui bastavano pochi giorni a riempire immense pareti. - Considerando a parte a parte gli elementi da cui scaturisce l'efficacia degli affreschi del Tiepolo, come il deliberato scompiglio della composizione, il modo di aggrupparsi e di sperdersi delle figure, l'arditezza degli scorci dal sotto in su, le illusioni prospettiche, l'estro pittorico che viola con bizzarre licenze la regolarità dei contorni architettonici, ci tornano alla memoria nomi di artefici oggi men conosciuti, cui il veneziano è manifestamente debitore, e prima di tutti quel padre Andrea Pozzo, sul quale il Burckhardt richiamava, con la sua consueta sagacia, l'attenzione degli studiosi. - Ma davanti a certe immaginazioni leggiadre, a certe nozze di colori, a certe arie di visi, a certa poesia magniloquente e sfarzosa, un altro nome ci corre spontaneo alle labbra: Paolo Veronese! - il che non toglie che accanto alle reminiscenze paolesche, qualche figura accessoria non ci ricordi Giambattista Piazzetta. - Osservando ancora, ci si fa qui pure evidentissima l'azione del teatro, e se par troppo che certe Dee e certe Virtù caccianti [452] le gambe all'aria siano state gratificate col titolo di sgualdrine, ci sentiamo però in diritto di chiamarle, con benignità di eufemismo, virtuose.... di palcoscenico. - Procedendo in questa analisi, non ci pare che l'energia espressa dal Tiepolo sia proprio energia di muscoli; non sempre attraverso all'epidermide delle sue figure ci si rivela l'onda viva del sangue; sotto l'ampiezza dei torsi noi scopriamo, con Camillo Boito, uno strato non esiguo d'adipe; nella colorazione delle carni ritroviamo talora la mollezza sbiancata delle dame del secolo, che abusavano della cipria, e prolungavano le veglie fino all'alba per rifarsi col sonno fino al mezzodì. - E infine ci è forza confessare che neppur egli, il Tiepolo, si è sottratto all'impotenza de' suoi confratelli: l'impotenza a rendere la pura bellezza fisica. Nelle sue teste virili balena, infatti, il tipo caprino; nei corpi femminili le giunture sono poco delicate, i colli poco svelti, le gambe e le braccia hanno rotondità goffe, il seno è privo di pulsante freschezza....

Eppure, nonostante le derivazioni e le assimilazioni, le intemperanze e le lacune denunciate dall'analisi, il primo sentimento d'altissima ammirazione non viene distrutto. Giambattista Tiepolo rimane non solo l'artista più originale e più vigoroso del secolo, ma una delle tempre [453] più felici di pittore che abbiano mai esistito. Tutto ciò ch'egli potè attingere da altri, si fonde nell'attività sfavillante del suo genio, come i metalli diversi si compongono in lega alla vampa della fornace. E il suo genio, che oserei chiamare di natura fiabesca, è fatto essenzialmente di luce. Con l'elemento incoercibile e imponderabile il mago si trastulla, per evocare le mutabili scene del suo mondo incantato. Nessuno allora, come ben giudicò Anton Maria Zanetti, seppe vedere con miglior occhio “gli accidenti più opportuni delle ombre e dei lumi„; nè usare con maggior maestria “l'arte dei contrapposti„; nè, aggiungiamo noi, più sicuramente intuire le suggestioni di opulenza, di letizia, di drammaticità, di pompa rituale, che emanano spontaneamente da certi connubi di tinte. E se egli ha i suoi predecessori, quanti a loro volta non muovono da lui! Francesco Boucher, ad esempio, non è, come decoratore, che un riflesso femminilmente e procacemente illanguidito del Tiepolo. Quel senso decorativo che era una qualità organica del tempo, che rispondeva all'apparenza e alla struttura dello stesso edificio sociale, ma che in tanti altri trascorse o nel farraginoso o nel frivolo, toccò altezze insuperate nell'opera del pittore veneziano. Il quale rappresenta dunque la sua generazione ; ma la [454] rappresenta dominandola di tanto, da non far meraviglia se, a primo sguardo, egli può sembrare un superstite di età più fortunate.

E davvero c'è in lui qualche cosa di atavico. S'egli s'inspira a Paolo Veronese, non lo fa, credetelo, per vezzo d'imitazione, bensì per istinto di postuma fraternità. Come la natura si piace talvolta di ricreare sembianze corporee spente da secoli e tramandate fino a noi dalle opere d'arte, così ella può anche risuscitare, in condizioni diverse, qualche forma di spirito che fu. Tale il caso del Caliari e del Tiepolo. L'anima gaudiosa di Paolo, che s'era scaldata al sole fulgente della repubblica, parve reincarnarsi nell'artefice che illustrava di glorie supreme il suo vespero!

Ma, com'è proprio dei grandi ingegni, il Tiepolo, oltrechè riaccendere fantasie e splendori del passato, ha pure, senza volerlo, senza saperlo, qualche accento vivo di precursore. La sua inconsapevolezza - quella magnifica inconsapevolezza che fu tanta parte della sua forza - gli trae dal pennello motivi inediti, che i posteri s'affretteranno a raccogliere. Nel San Rocco e San Sebastiano del Duomo di Noventa vicentina, la supplice donna che ci si presenta di schiena, assisa sul suo carretto d'inferma, con le grucce accanto, può essere un modello di evidenza realistica, congiunta a una discreta intimità d'emozione. [455] Nella Santa Tecla del Duomo d'Este vi hanno tratti, come la cassa mortuaria sul dinanzi del quadro e l'episodio del bambino stringentesi al petto della madre esanime, che Arnoldo Böcklin forse non disdegnerebbe. Nella Santa Rosa da Lima della chiesa dei Gesuati, a Venezia, il candore della veste armonizzante con la tenerezza candida dell'espressione pronunzia lontanamente le dolci Madonne ravvolte in bianca tunica di lana di Gabriel Max e del Dagnan-Bouveret.

Ma l'opera che più di tutte fa del Tiepolo un artista unico è l'Ulisse nell'isola di Ogigia. In uno dei superbi affreschi della Villa Valmarana, fuori Vicenza, l'eroe sta appoggiato ad una colonna, in atteggiamento di negligenza sdegnosa, immerso in cupa meditazione, davanti alla distesa del mare. Trattenuto su quella sponda solitaria, renitente all'amore di Calipso, ripensa egli la patria lontana e si strugge nel desiderio accorato del ritorno, quando, ad annunciargli l'imminente liberazione, muovono verso di lui, rompendo a nuoto i flutti spumosi, due ninfe, Calipso forse, seguita da un'ancella.... Chi altri mai, in quell'età dai facili oblii, espresse così nobilmente le desolazioni nostalgiche? Chi giunse a intuire con eguale intensità, sia pure per un istante solo, la poesia d'Omero?

[456]

Divine fortune dell'inconscio! Per l'artista tu sei come il pozzo buio e inesplorato delle leggende popolari, alla cui sponda s'affacciano repentinamente le apparizioni luminose delle fate.

*

Senonchè, o Signori, i temi tradizionali, religiosi, mitici, eroici, bucolici, non bastano al Settecento. Altri soggetti reclama il secolo, volubile, curioso, irrequieto, innamorato di pittoresche novità.

E l'arte è sollecita ad appagarne le richieste.

Essa gli evoca, intanto, una regione fino allora ignota alla tavolozza europea, una strana regione illeggiadrita dal prestigio della lontananza: la Cina! Su pareti, porte, armarî, paraventi, parafuochi, ventagli, compariscono le case dai tetti a campanella, le piccole torri di porcellana, le figurine coi capelli annodati a coda e gli occhietti a fior di testa, i parasoli, i palanchini, le giunche. E non pure troviamo in Francia i pittori esclusivi di “chinoiseries„ e fra noi i “depentori alla Chinese„, ma gli artisti più celebri, il Watteau, il Boucher, il Tiepolo stesso, cercano ispirazione all'Estremo Oriente. Le ragioni della moda? Il Molmenti la attribuisce al largo incremento preso allora dall'industria della [457] porcellana. Sì, ma non credo che basti. Non dimentichiamo l'interesse vivace che destavano già da tempo le lettere e i racconti dei missionari e dei viaggiatori, massime le descrizioni minuziose e fiorite dei padri della Compagnia di Gesù. Non dimentichiamo neppure quel vezzo, fra arcadico e satirico, onde il secolo scorso si compiacque di contrapporre alla civiltà europea i costumi d'altri popoli remoti, mediante una specie d'apologhi sociali dov'era introdotto come protagonista un Persiano pieno d'acume, un Urone ingenuo, un savio bonzo giunto dall'India o dalla Cina. Da tutte queste fonti derivò, pare, la gran voga delle scene cinesi: voga non dissimile da quella che era riserbata più tardi alle scene pompeiane. Solo che in queste, opera d'artefici più o meno eruditi, la cornice ornamentale vuole armonizzare stilisticamente col soggetto, mentre quelle, dipinte in un periodo di produzione spontanea, sono spesso contornate e tramezzate da ricci e cartelli e conchiglie e svolazzi: prepotente riaffermazione dei diritti sovrani del rococò anche sui territorî dell'impero celeste!

Con nuove fantasie ancora risponde l'arte alle raffinate esigenze del capriccio e del lusso, e le trae da un altro mondo, che sembra, come quello della Cina, pendere incerto tra il vero e [458] la fola: il mondo della commedia e delle maschere.

La commedia a soggetto con la sua scapigliata indipendenza da ogni disciplina di logica, co' suoi personaggi un po' attori e un po' mimi, con le sue lepide allegorie delle condizioni e dei caratteri umani; le mascherate coi loro giocondi scompigli, con la provocante libertà e ambiguità dell'incognito, offrivano al pittore una duplice vena di motivi. Di qui i “pulcinelli„, composizioni bizzarre, di piccola o mediana misura, ricavate appunto o da episodi carnevaleschi o dal teatro estemporaneo. Primi, o fra i primissimi, a porsi su questa via, erano stati il Callot, Stefano dalla Bella e, più tardi, Claudio Gillot; poi venne il Watteau; poi il Tiepolo - ancora e sempre il Tiepolo! - di cui il contino Algarotti poteva vantarsi di possedere “i più belli pulcinelli„. Come rivive nell'opera di Antonio Watteau la fantastica famiglia delle Colombine, delle Cassandre, dei Tartaglia, dei Dottori, dei Pantaloni, degli Scaramuccia, degli Arlecchini, dei Pulcinella, dei Mezzetini! Con che finezza d'accento il pittore sa raccontarcene le feste, gli amori, le gelosie, le avventure! Come sa esprimere quel non so che di enigmatico, che dal loro destino contradditorio di esseri acclamati sul palcoscenico e spregiati per la via dalla loro [459] esistenza vagabonda, sopra tutto dalla permanente identificazione con un simbolo, doveva discendere nei fondi delle loro anime:

Jouant du luth, et chantant, et quasi

Tristes sous leurs déguisements fantasques!

Questo non chiederemo al Tiepolo, poichè l'arte sua par che ignori le sfumature sottili; ma resteremo ammaliati dall'estro signorilmente brioso con cui egli dipinge, a fresco, le sue mascherate; e davanti a quella tela deliziosa di casa Papadopoli dove Pantalone dei Bisognosi danza il minuetto, ripenseremo con desiderio a tante altre gemme d'umorismo e di fantasia, che furono profanamente disperse.

Proteo inesauribile! Dopo aver corso i fulgidi Olimpi, egli scendeva pianamente a terra, e s'aggirava per queste viottole ombrose, fiancheggiate di siepi dalle strane fragranze ed echeggianti per letizia irrompente di trilli, che si stendevano a segnare un incerto confine tra il paese della Chimera, e quello della Realtà.

[460]

*

E alla Realtà eccoci, finalmente, coi pittori di genere e coi vedutisti.

Fra i due secoli sporge la faccia arguta Giuseppe Maria Crespi, bolognese, il quale, dopo aver alternato e anche liberamente mescolato a soggetti religiosi e storici soggetti di genere, nell'ultimo periodo della sua vita si diede esclusivamente a questi e vi si segnalò per naturalezza e per brio. Il Burckhardt, giudizioso sempre, ne loda il sano realismo, e il Morelli, in una lettera pubblicata da Ernesto Masi, scriveva, a proposito di certi quadri di lui, come la Scuola di fanciulle del Louvre, che sono piccoli capolavori.

Si ricollegano al Crespi due pittori veneziani di gran lunga più noti: Giambattista Piazzetta e Pietro Longhi.

Il primo, autore di studi cui l'incisione diede addirittura popolarità, illustratore anche della Gerusalemme Liberata, aveva sortito un grande acume di osservazione e insieme una lentezza scrupolosa di mano rarissima a quel tempo. Ma, con tutti i loro pregi, le sue teste hanno un che di eccessivo e di forzato. È lecito attribuire anche questa viziatura alle tendenze teatraleggianti [461] del secolo? O non deriverebbe essa, logicamente, da un naturalismo che volendo dare il massimo rilievo ai tratti più emergenti del vero, doveva finire un po' coll'alterarlo? Fatto è che il Piazzetta inclina a contraffare la fisonomia umana nelle smorfie della maschera o nei lineamenti troppo risentiti della truccatura. Un giorno l'Algarotti gli mostrò un quadro di Hans Holbein, e allora l'artista ebbe, come in un lampo, la visione del suo irrimediabile difetto. “Questi xe visi! - egli esclamò accorato - nu depenzemo dele mascare!„

Il Piazzetta deve al Crespi alcune qualità tecniche, come la macchia forte e risoluta. Pietro Longhi gli deve probabilmente qualche cosa di più: la coscienza della natura e dei limiti del proprio ingegno.

Comprendendo la difficoltà di distinguersi nello Storico, posesi a dipingere, in certe piccole misure, civili trattenimenti, cioè conversazioni, riduzzioni, con ischerzi d'amori e di gelosie, i quali tratti esattamente dal naturale fecero colpo.„ Così il figliuolo Alessandro. Il Longhi è dunque, come fu detto tante volte, il pittore della vita mondana di Venezia nel secolo scorso; egli ci fa assistere alla mattinata delle [462] gentildonne, alla loro toilette, alla lezione di ballo, alle visite, al corteggiamento dei cicisbei, ai veri o finti deliqui; ci conduce nel Ridotto affollato di giuocatori e di maschere, nel parlatorio del convento frequentato da patrizi e dame, col castelletto dei burattini nel mezzo, e le monache, insieme con le educande, raccolte dietro le grate. Una leggiera vena canzonatoria non è talora estranea all'inspirazione del Longhi; ma più spesso egli consente ai soggetti frivoli che ritrae, o almeno li ritrae con allegra indifferenza, e resta così - sono ancora parole del figlio - l'artista “amato da tutta la veneta nobiltà„. Disgraziatamente la sua pittura è povera, dura, cincischiata, levigata; molti di quei visetti hanno l'aria attonita e melensa; molte figure sembrano fantoccini di legno, rimbelliti a furia di stoffe, di nastri, di nappine, di merletti. Fanno, è vero, singolare eccezione il Ridotto e il Parlatorio del Convento, conservati nel Museo Civico di Venezia; ma quelle tele appartengono proprio al Longhi, o non piuttosto a Francesco Guardi? Il dubbio non è illegittimo, ed io l'ho sentito accennare anche da tale che dell'arte del Settecento s'era intimamente imbevuto, dal compianto Giacomo Favretto. Ben altro (nè è questo l'unico caso di tal genere) ben altro si mostra il Longhi ne' suoi schizzi a penna e a matita. Qui tutto è agilità [463] e brio. Stentato nell'uso del pennello, l'artista maneggia con disinvolta padronanza un più lieve stromento; egli coglie sul vivo e ti fissa con pochi segni i tratti fuggevoli del moto, una maniera di presentarsi, un girar di persona, un'andatura, una sosta, un'attesa. Per tutto ciò, quegli abbozzi sono una specie di istantanee del secolo scomparso.

L'importanza maggiore, o la maggior voga, che la piccola pittura di genere viene così acquistando, è uno fra i caratteri che distinguono più palesemente il gusto del Settecento da quello del Seicento. La pittura di prospettive invece - cui si diedero, per non ricordare che i principali, Giovan Paolo Pannini, romano d'elezione se non di nascita, Antonio Canal e Bernardo Bellotto, veneziani, - potrebbe riconnettersi assai meglio al periodo anteriore, sia perchè i secentisti trattarono con somma perizia la prospettiva e seppero ricavarne i partiti più efficaci, sia perchè un vedutista di molto valore, un olandese fatto italiano, Gaspare Vanvitelli, viene a congiungere le due età, sia, infine, perchè il nuovo gruppo non isdegna di piegarsi al gusto decorativo, o ricercando gli effetti pittoreschi delle rovine, o rappresentando costruzioni immaginarie, o, più spesso, accostando immaginosamente edifizi reali. Senonchè, due doti staccano gli artisti dei quali [464] parliamo dai loro predecessori e li avvicinano a noi: il senso più schietto dell'ambiente e, almeno nei veneziani, la luminosità.

Antonio Canal, chiamato il Canaletto, subì forse l'azione del Pannini, da lui conosciuto a Roma, ma la sua fisonomia di pittore rimane essenzialmente locale. Come l'opera del Longhi è una specie di monografia della vita galante di Venezia, così le tele e le incisioni del Canaletto sono una monografia del suo aspetto esteriore, calli, canali, campi, palazzi, chiese, feste civili e sacre. Talvolta egli è un po' angoloso, un po' geometrico; ma più spesso riesce a darci la fresca sensazione del paesaggio pur non dipingendo che marmi lambiti dall'acqua, e vi riesce col solcare quell'acqua d'un tremolìo di innumerevoli crespe, coi volubili aggruppamenti delle nuvole disperse ne' suoi cieli, sopra tutto con la chiarità e trasparenza dell'aria. Suo nipote, Bernardo Bellotto, che lavorò a Monaco, a Dresda, a Varsavia, ha un senso così fine della luce solare da essere considerato come un precursore delle scuole artistiche più recenti. Ma chi riesce su ogni altro geniale è Francesco Guardi. Egli è insieme vedutista e pittore di genere; egli intercede fra il Longhi e il Canaletto, suo maestro, perchè non disgiunge quasi mai dalla rappresentazione dell'ambiente naturale e architettonico [465] quella della persona umana. Il suo tocco caldo, gustoso, pieno di prestigio avvivatore, risuscita le processioni, le incoronazioni dogali, il Bucintoro seguito dal suo corteo acquatile, le gaie comitive che scorrono la laguna sulle barche fantasticamente pavesate, le piramidi umane che sorgono in Piazzetta il giovedì grasso, il variopinto brulichio della folla tra le linee superbe dei monumenti. Francesco Guardi è meno esatto ma più spirituale, meno prospettista ma più poeta del Canaletto, tanto da far dire a un critico straniero, forse non senza un po' d'esagerazione, che il maestro riproduce la Venezia reale, mentre il discepolo evoca quella dei nostri sogni.

Agli artisti che vi ho ricordato, il secolo dà un carattere comune: la frequente letizia dei soggetti. Quante volte non la ritroviamo nelle loro tele la società godereccia che li circondava! Il Pannini è il pittore delle feste ch'egli medesimo allestisce, come quelle magnifiche ordinate dal cardinale di Polignac, ambasciatore francese a Roma, per la nascita del figlio di Luigi XV; agli spettacoli pubblici s'inspirano il Canaletto e il Guardi; il Longhi è tutto giocondità e comicità di scene private. E chi è, in fondo, il protagonista dei quadretti veneziani? È ancora la maschera, la bautta, che proteggeva la licenza per sei mesi dell'anno e che i magistrati smettevano [466] nell'anticamera delle aule destinate alle udienze e alle assemblee; nè mai ho sentito così vivamente il carnevalesco tramonto di quella grande repubblica come dinanzi al quadro di Francesco Guardi, in cui si vede, nella Sala del Collegio, il doge assiso sul trono, fra i suoi consiglieri, e tutt'intorno una folla festante di maschere!

*

Ma sotto alla classe dominatrice, di cui l'arte rallegra così gli ultimi giorni, sta una borghesia laboriosa, seria, frugale, onesta, ben diversa da quei fastosi risaliti che maneggiano ormai il danaro dello Stato, che si strofinano ai nobili contraendone la corruttela senza acquistarne la grazia, o che tra poco s'affretteranno a comperare con un titolo l'oblìo delle origini invise. E se noi, Signori, dal fulgido ozio dei grandi e di chi li lusinga o li sfrutta, volgiamo lo sguardo alla vita di quella piccola gente, tocchiamo con mano l'antitesi forse più spiccata che ci offra il costume del secolo. Altre fogge; non più, per le vesti virili, le stoffe delicate, le tinte languide o vistose che annunciano di lontano la mollezza e la gaiezza spensierata dell'animo, ma tessuti schietti, dai colori scuri, i [467] colori della riflessione e del lavoro. L'apparenza delle botteghe si mantiene dimessa; in casa gli agi sono scarsi; la masserizie conserva le vecchie forme solide e grevi; è già molto se la curva garbata d'un cassettone o d'uno stipo recente, dono strappato alla parsimonia maritale e paterna dalle istanze ripetute della padrona e delle padroncine, reca un leggiero indizio di consenso alla moda. E tutto quanto ne circonda, la semplicità delle linee, la sobrietà delle tinte, la nudità delle pareti, le stampe appese all'ingiro, la ruvidezza arcigna delle seggiole che paiono interdire i lunghi riposi, tutto porge una comune testimonianza di quella vita: vita semplice e proba, le cui giornate si succedono con vicenda uniforme, non interrotta che da qualche vampata di festa nei mesi del carnevale.

In Francia, questa borghesia ha fino dalla prima metà del Settecento il suo pittore: ed è Giambattista Simeone Chardin. Tempra robusta e schietta di popolano, egli la ritrae non pure con efficacia di artista, ma con affetto di consanguineo, e ne ottiene un ricambio d'ingenua simpatia. Coloro tra le cui file egli sceglie argomenti e tipi, vengono a contemplarsi ne' suoi quadri con un sentimento misto di riconoscenza e d'orgoglio. “Non c'è donna del terzo stato (dice un opuscolo del 1741, citato dai fratelli Goncourt [468] nei loro mirabili studî sull'arte del secolo XVIII) che non creda di scoprire in quelle tele un'immagine di sè, che non vi scorga l'andamento della sua casa, le sue maniere, le sue occupazioni quotidiane, la sua morale, l'umore de' suoi ragazzi, la sua mobilia, la sua guardaroba„. Per quanto, però, lo Chardin ami i soggetti da lui presi esclusivamente a trattare, egli si mantiene un puro artista. Intendimenti filosofici, precetti, moniti, tesi, sono del tutto alieni dall'opera sua.

Senonchè in Francia i tempi ingrossano. La piccola borghesia guarda in su, confronta, medita, conclude; essa legge gli scrittori usciti dal proprio seno; ne ritiene le parole argute o concitate, che cominciano a tradurre in formule i suoi istinti vaghi di rivendicazione. Tutto un moto di polemiche e di propaganda si manifesta ormai a favor suo, e vi partecipano assiduamente gentiluomini e dame, chi per sincerità di convincimento, chi per vezzo di cose nuove, chi per quello spirito di dilettantismo suicida che ostentano talvolta gli ordini privilegiati alla vigilia d'una rivoluzione. Quanto più il secolo procede, tanto più ci par di vedere avanzarsi la gran folla, per tanto tempo negletta o spregiata, come un coro che si inoltri via via dal fondo della scena fino a raggiungere gli attori principali. Direste anzi che questi attori ambiscano a confondersi col coro; [469] direste che la piramide consacrata dai secoli sia già idealmente sovvertita, perchè l'interesse che destavano fin qui i soli potenti, si volge di preferenza verso gli oscuri. Fu Giangiacomo Rousseau l'artefice primo di codesto rivolgimento; ma a lui tornò facile promuoverlo, perchè seppe giovarsi d'una fra le idee più diffuse, più radicate nelle viscere del tempo, più care a quelli medesimi ch'egli imprendeva a combattere: l'idea arcadica. E in verità, che altro fece l'apostolo ginevrino, colorendo con la sua poderosa retorica quella gran bugia che l'uomo è per natura buono e felice e che la società soltanto lo rende malvagio e infelice, se non erigere l'Arcadia a dogma filosofico e sociale? Di qui, Signori, l'effusione idillica che distingue quel movimento e che viene rispecchiandosi perfino nelle frivolezze della moda. Nei salotti non si parla ormai d'altro che di virtù, di sensibilità, di filantropia, di stato di natura. Le dame portano le acconciature au sentiment, dove son messi in mostra ritratti e capelli di parenti ed amici. Alla compassata simmetria dei giardini francesi si preferisce l'irregolarità dei giardini inglesi, “il disegno dei quali è stato tracciato non da un'arte sapiente, ma da un cuore sensibile„. A breve distanza dai viali pomposi di Versailles, sta per sorgere il villaggetto dove la regina di Francia, la regina graziosa [470] e infelice che lascierà sul patibolo la testa, verrà, intanto, in abito di percalle bianco, a pescare e a veder mungere il latte.

Comparisce allora l'estetica moraleggiante del Diderot. Dinanzi ai quadri di Francesco Boucher, tutti galanteria e sensibilità, l'appassionato scrittore si sdegna. Egli vitupera insieme l'artefice e l'uomo: “Che volete che questo pittore getti sulla tela? ciò che ha nell'immaginazione; e che può avere nell'immaginazione costui, che passa la vita con le prostitute d'infimo grado?„ Anche l'arte deve avere “des moeurs„, deve insegnare, deve correggere, deve rendere la virtù amabile, il vizio odioso, il ridicolo evidente. E all'estetica del Diderot corrisponde la pittura di Giambattista Greuze, un Hogarth alla francese, voglio dire amabile, mondanetto, spoglio d'ogni ruvidezza e d'ogni brutalità, il quale celebra gli affetti famigliari, premia il virtuoso, denuncia il tristo, non dimentica, naturalmente, le conseguenze ben diverse d'una buona e d'una cattiva educazione; è, insomma, il pittore un po' melodrammatico della borghesia che si afferma e si atteggia, come lo Chardin era stato il pittore sincero della borghesia che s'annunciava.

E l'Italia? L'Italia non ha chi contrapporre [471] nè all'uno nè all'altro. Tipi di borghesi e di popolani - più assai di questi che di quelli - ritroviamo nel Crespi (che illustrò con una serie d'acqueforti le avventure di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno), nel Piazzetta, nel Longhi, nell'Olivieri, nel Tiepolo stesso, in tanti altri ancora; vi ritroviamo sopra tutto quelle figure che hanno, per ragion di professione, una tal quale fisonomia comica o pittoresca, quasi di maschera, come il barbiere, il sarto, lo speziale, il suonatore mendico, il merciaiuolo ambulante, il cerusico, il cavadenti, il saltimbanco; ma rappresentazione costante e consapevole, o almeno particolarmente preferita, delle classi subordinate, non v'ha. Nel Longhi, ad esempio, borghesia e popolino compaiono di sbieco, come personaggi accessori o di contorno; essi stanno - avverte giustamente Ernesto Masi - “in attitudine di servilità verso i patrizî, in attitudine di mercanti e di bottegai, o in quella più frequente di pubblico che fa numero e che s'affolla intorno al trespolo del ciarlatano e del cantastorie o alla baracca del domatore di bestie feroci„. Solo frequentando le botteghe degli antiquarî, o qualcuna di quelle famiglie, così rare ormai, dove si conserva la religione delle vecchie cose, possiamo essere più fortunati. In certe collezioni di stampe dozzinali, commentate a piè di margine da distici [472] goffi, noi c'imbattiamo in una bolla d'episodî e scenette e caricature e satire e drammi della vita dei nostri umili avi; siamo introdotti nella loro giornaliera consuetudine; entriamo nel tepore della cucina e del tinello, nella povertà della soffitta, nell'osteria, nella chiesa, nella scuola; e un sentimento di umana commozione ci assale davanti a quelle pagine ingiallite e macchiate dall'umidità, - povere foglie divelto da un albero morto e galleggianti sui naufragi del tempo! - dove un'anonima mano inesperta tentò di raccontare le gioie e le sofferenze, i passatempi e i ridicoli di tante creature che passarono ignorate.

Quest'assenza d'uno Chardin e d'un Greuze dalla storia dell'arte italiana ha, del resto, le sue intime ragioni. Perchè il pittore o lo scultore s'impadronisca d'un elemento sociale e gli dia valore estetico, è necessario che questo elemento abbia, a' suoi occhi, uno spiccato risalto. Scovare ciò che nell'ordine dei fatti è ancora nascosto o dissimulato, svolgere ciò che è iniziale, compiere ciò che è frammentario, integrare ciò che è disperso, non s'appartiene, o assai poco, alle arti figurative. Ora in Italia, l'elemento borghese, disgregato, docile, remissivo, sano ma tutt'altro che vigoroso, aveva, nella prima metà del Settecento, assai minore evidenza e consistenza sociale che non in Francia, [473] dove costituiva in fine uno degli ordini officialmente riconosciuti della nazione, dove si trovava raccolto in uno di quei vasti focolari d'attività e di pensiero in cui le classi soggette acquistano più facilmente la consapevolezza del proprio destino, e dove non erano del tutto spente le vestigia dell'antica tradizione ugonotta, tradizione di austerità democratica e di virile fermezza. E quanto al movimento della seconda metà del secolo, esso, se non mancò nel paese nostro, se anzi vi fu per parecchi riguardi più serio e più praticamente efficace, non ebbe però quell'espansione, quella vivacità, quello slancio, quel clamore di pubblici consensi, che sono atti a sollecitare la fantasia dell'artista. Ecco perchè, a differenza dei nostri vicini, noi non abbiamo un pittore della borghesia e del popolo.

*

Così nell'arte del Settecento abbiamo finora ravvisato due tendenze: l'una che continuava a sospingerla verso le licenze decorative e il lavorar di pratica; l'altra che la richiamava allo studio del vero. Oggi ci è facile riconoscere quanti tesori d'ingegno brillassero nella prima e quanto avvenire fosse riserbato alla seconda; ma non sarebbe equo pretendere che i nostri [474] nonni avessero pensato come noi, i quali giudichiamo con l'immenso beneficio della lontananza e dell'aver assistito allo svolgimento posteriore dei fatti. Era naturale, invece, ch'essi finissero col sentirsi sazî di sbrigliate fantasie, senza per ciò appagarsi di realismo semplice, tanto più che quelle davano ormai segno d'esaurimento, e questo si esercitava ancora in una cerchia troppo angusta di soggetti. Era naturale che, reagendo, essi vagheggiassero un'arte più decorosa, più alta, più classicamente castigata, cioè voluta e creduta tale. Del resto, fin dallo scorcio del secolo decimosettimo, la pittura del Maratta a Roma e quella del Lazzarini a Venezia avevano in certo modo tentato d'informarsi a questo concetto. Nell'architettura poi, non solo non ci avviene più d'imbatterci in quei deliranti ammassi di pietre ch'erano usciti dalla stramba immaginativa d'un Maderna o d'un Tremignan, ma, coll'avanzare del Settecento, vediamo le linee classiche aprirsi la strada e prevalere a poco a poco fra le persistenti bizzarrie dell'ornamentazione, come propositi di semplicità in un'anima che abbia troppo abusato di sentimenti artificiali e che peni ancora a spogliarsene. E avrebbe potuto la reazione contro il barocco essere concepita in una forma diversa, quando la tradizione, la cultura letteraria, le accademie si univano per dare all'artefice [475] un eguale consiglio? Quando, come guida suprema, come freno a tutte le intemperanze, come correttivo a tutti gli errori, come unica via che gli promettesse una gloria non mentita, esse gli additavano concordemente la disciplina del pensiero antico?

Ad affrettare codesto ritorno verso un ideale consacrato dall'ammirazione dei secoli, verso un ideale che rispunta sempre dopo i periodi di licenza artistica, come una dittatura dopo l'anarchia politica, concorsero le scoperte ercolanensi, gli scavi moltiplicati, le gallerie e i musei illustrati dall'incisione, e una serie di grandi opere archeologiche, fra le quali primeggiò quella del Winckelmann. Lavoratore erculeo, impasto singolare d'entusiasmo e di pedanteria, di minuziosità analitiche e di comprensione sintetica, di dottrina e di esclusivismo, di pertinacia tedesca e di genialità latina, il Winckelmann imprese a ricomporre, frammento per frammento, la religione dispersa dell'antica Bellezza; egli innalzò un inno a quei sublimi artefici che avevano (ripeto quasi le sue parole) concepito le loro creature come essenze eteree, generanti, per virtù connaturata, l'impeccabile venustà delle proprie forme; egli si prosternò a' piedi di quei simulacri superstiti di pario e di pentelico, come dinanzi all'incarnazione eternamente giovine dell'ideale. [476] Il movimento (lo avvertì già il Carducci), era cominciato in Italia, dove l'infaticabile erudito trovò una schiera di collaboratori, noti ed ignoti; ma nella sua Storia dell'arte nell'antichità egli mise di indiscutibilmente proprio quella vasta facoltà di coordinazione, quella fiamma di apostolato, quel dogmatismo solenne, quella nobiltà un po' astratta e metafisica di linguaggio che allora conquistarono di colpo l'Europa, e che anche oggi trascinano il lettore, nonostante tutte le riserve del gusto e tutti i dissensi dell'indagine progredita.

L'altro stromento di reazione contro l'arte che aveva fin qui prevalso, fu l'eclettismo pittorico, propugnato da un fervido amico e seguace del Winckelmann, da Antonio Raffaele Mengs. Insegnava il Mengs doversi dare la palma a Raffaello pel disegno e per l'espressione; al Correggio per la grazia e pel chiaroscuro; al Tiziano pel colorito; soggiungeva potersi cogliere il fiore di tutti e tre, ma Raffaello sembrargli su ogni altro degno di studio, come colui che s'era meglio accostato alla serena perfezione degli antichi. - Nulla di più convenzionale, nulla di più contrario ad ogni concetto organico della produzione artistica, sentiamo dire. - D'accordo; ma anche questo principio dell'eclettismo aveva dietro a sè una lunga e non mai spenta tradizione; era [477] stato patrocinato dai Carracci, come antidoto sicuro contro il manierismo; avevano talora mostrato di seguirlo, a saggio di abilità tecnica, gli stessi barocchi; e infine, di fronte alle esagerazioni unilaterali della linea e del colore, dell'espressione e del movimento, esso pareva promettere alla ragione un più costante equilibrio fra gli elementi essenziali dell'arte.

Veramente tra i primi a suscitare il nuovo indirizzo era stato il lucchese Pompeo Girolamo Batoni, il quale, giunto giovanissimo a Roma e condotto dal Conca e dal Masucci, affinchè si scegliesse l'uno o l'altro per maestro, aveva voltato le spalle a tutti e due, per darsi allo studio della pittura raffaellesca e dei marmi antichi. Senonchè il Batoni, ingegno vivace ma poco colto, staccatosi soltanto a mezzo dal gusto contemporaneo ed esclusivamente pittore, non pensava a far propaganda; mentre l'azione esercitata dal Mengs si dovette non solo alla sua laboriosità ammirabile di artista, ma alla sua grande cultura, alla sua parola viva, alle sue lettere, agli scritti pubblicati dopo la sua morte, al suo spirito dottrinario, che rispondeva appieno all'indole dei nuovi tempi, in cui la logica alzava il capo orgogliosa e stava per cimentarsi alla titanica prova di ricostruire schematicamente tutta la società!

[478]

E un po' discosto da lui collocheremo Angelica Kauffmann, cui l'ingegno, la bontà e una romanzesca vicenda valsero fama non inferiore a quella di Rosalba Carriera; quasi fosse destino che in questo secolo di dominazione muliebre, anche i due diversi atteggiamenti dell'arte s'incarnassero in due amabili figure di donna. Ho detto un po' discosto, perchè mentre il Mengs dal delizioso pastellista che s'ammira anche oggi nel Museo di Dresda s'era venuto trasformando nel dotto frescante del Parnaso di Villa Albani, il temperamento femminile preservò la Kauffmann dalle severe costrizioni del neofitismo e lasciò persistere nell'opera sua - massime nei ritratti, per quanto avvolti nei veli dell'allegoria - un'impronta nativa di grazia seducente e di molle abbandono.

Del resto, ove si eccettui qualche resistenza felice dell'istinto, la nuova produzione artistica assumeva caratteri direttamente opposti a quella che l'aveva preceduta. L'arte barocca era stata il frutto di facoltà indisciplinate; questa, invece, vuole obbedire alla riflessione, onde il Mengs viene lodato principalmente per essere un filosofo che parla ai filosofi. La prima non s'era affatto curata della verosimiglianza storica e locale, tanto che il Tiepolo aveva potuto piantare gli abeti in Egitto, cacciare la pipa fra le labbra d'un console romano, e vestire su per giù allo [479] stesso modo Cleopatra e Beatrice di Borgogna; la seconda s'imbeve d'erudizione e non si stanca di consultare minuziosamente gli storici e i poeti. L'una amava abbandonarsi a tutte le audacie del movimento, e l'altra, per contro, invoca la calma, e proclama gli scorci dal sotto in su uno stravagante capriccio. Quella mescolava con libertà senza misura il nobile e il plebeo, il triviale e il manierato; questa adotta una norma adequatrice di tutti i caratteri e di tutte le espressioni, a cui dà nome di “stile eroico„ o di “stile sublime„.

Non equivale tutto ciò a concludere che l'arte nuova, per quanto le origini e le ragioni sue ci appaiano storicamente legittime, doveva scontare la troppa dottrina con la freddezza, e le aspirazioni al sublime con una mortifera uniformità?

Codesto moto s'era compiuto in Roma, in quell'aria satura di atomi vaganti di classicità, su quel suolo fecondo di memorie, dinanzi ai ruderi superbi della civiltà cesarea e ai fantasmi radiosi del Cinquecento, fra quei rosei monsignori e porporati che smettevano le gioconde indifferenze del nil admirari, per accendersi in dispute di erudizione e di antiquaria. Fu la città cosmopolita, dove convenivano d'ogni parte pittori, scultori, incisori, architetti, poeti, dove ritroviamo Gavin Hamilton, il Piranesi, il Volpato, il Milizia, il Monti, l'Alfieri, il Tischbein, i due Visconti, il [480] Fea, il Canova, il David, il Prudhon, quella che diede un impulso europeo alla corrente suscitata, o meglio accelerata, dall'archeologo brandeburghese e dal pittore boemo.

Ma questa corrente doveva prendere una via nuova, doveva corrispondere ad uno stato effettivo degli animi, mercè un avvenimento così universale per la sua fulminea efficacia, come Roma pel fascino delle sue memorie: la rivoluzione francese!

Gli uomini che fecero la rivoluzione, vi si erano preparati non soltanto sulle pagine degli enciclopedisti, ma su quelle dei classici. Leggendo Plutarco, Livio, Tacito, avevano imparato ad aborrire i tiranni, ad esaltarsi nell'apologia dell'austerità repubblicana e del delitto patriottico; sicchè, quando scoppiò la procella, nomi, linguaggio, consuetudini, sentimenti, tutto arieggiò all'antico, e il classicismo, dalla pace dei musei e dal silenzio polveroso degli in-folio, fu trabalzato fra il tumulto dei comizi e i dibattiti delle assemblee. Ora, come avrebbero potuto questi uomini assentire alle fantasie adescatrici del rococò? Nella loro catonica intolleranza, essi le odiavano dell'odio medesimo che gli animava contro il regime aristocratico; essi vedevano nell'autore gentile delle Feste galanti e nell'autore procace delle Pastorali due esseri poco meno spregevoli [481] delle cortigiane che avevano allietato gli ozi del Reggente e di Luigi decimoquinto. No; fra un popolo di liberi, l'arte non poteva avere che un ufficio solo: inspirarsi agli esempi della Grecia e di Roma, per temprare gli animi a civili virtù.

Singolare coincidenza! Fu proprio un parente di Francesco Boucher, del pittore protetto dalla signora di Pompadour, colui che si fece l'araldo di questo classicismo militante. Quando Giacomo Luigi David espose nel 1784 il Giuramento degli Orazi e nel 1789 il Bruto, l'entusiasmo non ebbe confine. Tutta una generazione acclamò il suo interprete, e, con una di quelle esplosioni della moda ch'erano allora tra le maniere più eloquenti di manifestarsi del sentimento pubblico, modellò sui quadri di lui il proprio gusto. Per vero, lo stile intitolato da Luigi decimosesto incoronava già delle sue curve più sobrie gli emblemi decorativi tratti dalla vita e dal costume antico; ma ora questi trionfano tra le linee che si vanno facendo sempre più rigide; ora s'incontrano da per tutto le pettinature e le fogge alla greca e alla latina, le fibule, le armilie, le patere, i tripodi. Sul palcoscenico gli eroi romani non osano più comparire con la parrucca e le mani inguantate e gli stivaletti dai tacchi rossi, da che un grande attore ha vestito per la prima volta la toga e calzato il coturno.

[482]

Io spero di avere anche qui, o Signori, insistito abbastanza sulla necessità storica di un tale avviamento dell'arte. Ma che poi l'originalità, la verità, la schiettezza, l'umanità della concezione dovessero scapitarne, è troppo chiaro. Vedete lo stesso David. Egli possedeva doti eccezionali di visione e di tavolozza, che furono rimesse pienamente in luce dai ritratti e dai quadri commemorativi esposti a Parigi nella Mostra centenaria del 1889. Ma che importa, se il preconcetto dello stile eroico gli inspirava pure il Ratto delle Sabine, la Morte di Socrate, il Leonida, il Belisario, tutte quelle tele dure, asciutte, convenzionali, destinate a formare una scuola pittorica che alle creature vive sostituì i simulacri di gesso?

E una discordia non dissimile di creazioni si avverte in Andrea Appiani e in Antonio Canova, i due più nobili rappresentanti di questo periodo in Italia, per quanto l'arte loro sia lontana dalla rigidezza del David e faccia piuttosto ripensare alle grazie del Prudhon. Nell'Appiani, a fianco alle figure dove lo studio della purezza cospira col senso del vero a produrre una impressione di placida ma vivente armonia, sono troppi i profili che ricalcano con fredda, letterale insistenza, gli antichi cammei. E quanto alla plastica canoviana, lo squilibrio è ancora più manifesto. Chiunque di voi, o Signori, sia [483] entrato nella Gypsotheca di Possagno, dove stanno raccolti tutti i modelli dell'insigne scultore, ne sarà rimasto profondamente colpito. Qua e là il vero, modellato da una mano creatrice; tutt'attorno le mascherature greco-romane. Il gruppo di Icaro e Dedalo, composto in gioventù, è un miracolo di ingenua freschezza, degno, oserei dirlo, della primavera del Rinascimento. Nell'effigie di Clemente XIII, genuflessa sotto la maestà delle vesti pontificali, con la bonaria testa senile devotamente reclinata e le mani giunte e a' suoi piedi il triregno, voi sentite tutta la poesia evangelica delle grandezze umane umiliate nella preghiera. Ma insieme vi si affaccia una famiglia di figure, nelle quali ogni carattere, ogni espressione, ogni vita, ogni movimento individuale si sono perduti entro lo stampo archeologico; vi si affacciano le deità dell'Olimpo, che uscite raggianti e palpitanti dalla fantasia dell'Ellade, intirizziscono qui nel gelo dell'imitazione accademica.

Così l'arte, dopo aver folleggiato con la cadente società aristocratica, si asserviva al pensiero medesimo che aveva inspirato le effimere democrazie, al pensiero che avrebbe legittimato tra poco la dittatura guerriera.

Consultiamo per l'ultima volta i ritratti.

Eccoli gli uomini nuovi, con la fronte largamente [484] scoperta sotto i capelli brevi, gli occhi intenti, le fedine ispide, alcuni nella negletta intimità della casa, altri nell'atteggiamento declamatorio di chi medita un'apostrofe o nell'accigliata concentrazione di chi sta per decidersi a un partito supremo; ecco l'implacabile tribuno, giacente nella vasca di pietra, col viso contratto dagli spasimi dell'agonia, con la mano che stringe convulsa un editto, forse una lista di proscrizione; ecco i commissari e i generali della repubblica, pallidi, gravi, con le divise dagli urtanti colori plebei; ecco la faccia fatale, livida e ossuta, incorniciata dai neri capelli spioventi e illuminata dal saettare delle pupille, che sta, come un'erma viva, alla frontiera tra i due mondi; ecco - dopo la sfrontata iconografia del Direttorio, questa Reggenza plebea della rivoluzione - le donne dal profilo marmoreo, dalle tuniche a larghe pieghe, dalle chiome raccolte alla greca, che riposano compostamente sur un letto o sedile di forma antica, sporgendo i piedi nudi come quelli d'una statua.

Dove sono le testine imparruccate e incipriate, i tipi virili infemminiti dalle gale della moda, le pupille ammiccanti, le bocche tumidette, i nasini a gloria? Dove la sentimentalità, il languore, la gioia frivola, le arie sventate e trasognate del gaio tempo vano?...

[485]

*

Ma prima, Signori, di staccarci da questo secolo così ricco di vicende e di antitesi, che esordisce col minuetto e si chiude con la carmagnola, permettetemi di cogliere qualche estremo tratto della sua fisonomia artistica, di notare qualche attività ch'esso portò con sè nella tomba e qualche tendenza che gli è sopravvissuta.

Si manifesta allora per l'ultima volta quella comunione fra l'arte pura e le arti decorative che aveva durato per così lungo volgere di tempi, generatrice di forme fraterne di bellezza, e che era destinata a dissolversi nel nostro. Per l'ultima volta l'Arte, qual ch'ella sia, apparisce come cosa organica, come pianta corsa da una sola linfa in ogni suo ramo e in ogni suo stelo; e il soffio medesimo che spira dalle tele e dalle statue si sente pur alitare dalla sagoma d'uno stipo e d'una seggiola, dai fregi d'un parafuoco e d'un cembalo, dalla cornice d'uno specchio, dall'inquadratura d'un uscio, dal contorno d'un orologio a pendolo e dalle rabescature d'un broccato.

Certo, pe' suoi stili ornamentali, come per le sue mode e le sue fogge, il Settecento è francese anche in Italia, come il Cinquecento era stato [486] italiano anche in Francia. Pure non ci mancarono impronte e iniziative originali. Andrea Brustolon, vissuto tra i due secoli, tratta la scultura in legno con robusta floridezza di vena; Carlo Briati risolleva a Venezia l'arte vetraria; gli arazzi di Firenze, di Torino, di Napoli, di Roma non sono in tutto eclissati dallo splendore dei gobelins; la ceramica s'allieta di leggiadrie nuove nell'Abruzzo, nella Liguria, nella Toscana, nel Veneto; fiorisce la tarsia nella Lombardia.

E v'ha un'arte che meriterebbe da sola lungo studio, come quella che partecipa con alacrità di consenso a tutta la vita spirituale del tempo: l'incisione sul rame. Essa presta alle fantasie esuberanti un linguaggio suggestivamente sommario e sciolto da ogni rispetto alla realtà; popolarizza aristocraticamente la coltura estetica; introduce un'immagine d'arte fra le cure della famiglia; asseconda il ritorno all'antico, illustrando i monumenti classici e i capolavori paesani. E ognuno di codesti incisori trasfonde la personalità propria nella lastra metallica, lestamente investita dal Canaletto, imbevuta di luce solare nel Tiepolo, carica di chiaroscuri nel Piranesi, morbidamente accarezzata dal Bartolozzi, segnata con dotta evidenza dalla mano del Volpato e del Morghen.

Ma uno dei caratteri che più distinguono l'operosità [487] intellettuale del Settecento è la passione, talora si dovrebbe dire la follia, delle raccolte. Siamo nell'età degli amatori, i quali vengono radunando d'ogni parte, senza badare a dispendio, bronzi, marmi, terracotte, medaglie, monete, tele, disegni; l'età in cui un principe, pur amante della guerra, cede un reggimento di dragoni per alcuni vasi di porcellana, come più tardi suo figlio, durante una ritirata, penserà a mettere in salvo quadri e gioielli, dimenticando gli archivi. E non soltanto nei centri maggiori, dove se ne porge più facilmente l'opportunità, vengono formandosi codeste collezioni. Talora in qualche sonnolenta cittaduzza di provincia, quasi tagliata fuori del mondo, il forestiero colto scende dalla berlina per visitare il museo, il medagliere, la quadreria, messi insieme dal discendente di un sinistro gufo feudale raggentilito in cavaliere di buon gusto. Ora, come mai queste assidue occasioni di raffronti, questo riaccostamento di forme e inspirazioni diverse, non avrebbero contribuito a fecondare, ad allargare le intelligenze?

A ciò conferisce pure l'insolita frequenza dei viaggi, che annuncia un bisogno irrequieto di espansione, di nuovi orizzonti, di nuove idee, di nuove forze. L'arte si fa anch'essa venturiera. L'Amigoni si educa nelle Fiandre; lo Zuccarelli e il Bartolozzi sono tra i soci fondatori dell'Accademia [488] di Londra; il Rotari è chiamato da Caterina di Russia; Giambattista Tiepolo muore a Madrid; Bernardo Bellotto a Varsavia. Nè alcuni fra i letterati e i pensatori nostri sono meno nomadi degli artisti; essi vanno in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Polonia, persino oltre l'Atlantico, vengono ricercati e accarezzati dai principi, brillano nei salotti, penetrano in qualche gabinetto diplomatico. Dopo la lunga solitudine, l'Italia comincia a rientrare nelle correnti vive del pensiero europeo, e vi rientra se non più come guida, non sempre e non in tutto seguace.

Quante volte non fu detto che l'uomo del passato posto dinanzi all'Iliade, alla Commedia, all'Amleto, a un tempio greco, a una cattedrale archiacuta, a un edificio del Rinascimento, avrebbe ripudiato qualcuna di codeste creazioni, mentre noi, moderni, le abbracciamo e onoriamo tutte, come portati egualmente legittimi di peculiari condizioni e attitudini dello spirito! Ebbene, il Settecento segna quasi il punto di trapasso dall'una all'altra età. I più non comprendono, è vero, o, peggio, disprezzano lo stile ogivale, la pittura primitiva, la visione dantesca, il dramma shakespeariano, ma v'è già chi si leva a rivendicare la nativa virtù di quelle forme; v'è già chi proclama la relatività del gusto e dei canoni estetici. [489] E con qual sentimento di cara sorpresa, e quasi d'ammenda a sconoscenti durezze di giudizio, non sorprendiamo noi nelle pagine accademicamente grevi o gallicamente trasandate dei nostri vecchi, impressioni e osservazioni che saranno le nostre! Certo, le intolleranze del risveglio classico interruppero il più illuminato avviamento che veniva qua e là annunciandosi, sicchè, anche in questo campo, pare che una voragine divida i due secoli; ma tuttavia, chi ben guardi, non tarderà a riconoscere che nel Settecento spuntarono i germi della presente larghezza dell'intendimento estetico, a quel modo che l'erudizione aperse allora la via agli odierni trionfi del senso storico.

E un altro senso, di cui andiamo a buon diritto orgogliosi, si desta allora; quello che dicono dell'ambiente. Non che si concepisca, netta, l'idea delle analogie recondite che esistono fra l'uomo e gli aspetti circostanti della natura, ma certo si comincia ad intuirla, poichè questi aspetti vengono considerati con occhio più attento e perspicace. Ne fa fede non pur la pittura ma la letteratura; non il Canaletto e il Guardi soltanto, ma il Goldoni e il Baretti. Vi sono, ad esempio, certe commedie goldoniane, che vi ritraggono al vivo la fisonomia di Venezia, le sue calli anguste, i ponti, i rii, i campieli dove le popolane seggono lavorando e ciarlando sulla soglia delle case, le [490] altane di legno su cui le famiglie salgono a cercare un filo d'aria negli afosi pomeriggi d'estate. E leggendo le Baruffe Chiozzotte, ci par proprio, come ha notato acutamente il Masi, di aspirare le acri esalazioni della marina, di vedere dinanzi a noi la flottiglia delle tartane e dei bragozzi cullata dall'onde.

E già, Signori, quell'armonia che esisteva allora tra le forme varie delle arti figurative, si palesa, con evidenza eguale, fra l'arte e le lettere. Forse, parlandovi di quadri, mi sarà accaduto troppo spesso di ricorrere a citazioni di poeti; ma come evitarle, quando ci si presentano spontanee? quando incontriamo di qua e di là gli stessi tipi, gli stessi soggetti, gli stessi sfondi di paese, le stesse trovate di composizione, le stesse allegorie? Tutta quanta l'evoluzione artistica del Settecento ha pieno riscontro nella sua evoluzione letteraria. Così le due tendenze che si esplicano da una parte nella pittura drammaticamente immaginosa del Tiepolo, dall'altra nella pittura realistica e comica del Longhi, sono, in fondo, le medesime che inspirano il teatro del Metastasio e quello del Goldoni. Pietro Metastasio è il poeta decoratore, che colorisce liberamente la storia ed il mito, che li converte in un ludo scenico di passioni effusive e canore, destinato ad esaltare la sentimentalità fantastica; Carlo Goldoni è il poeta osservatore, [491] che stando, sorridente ma vigile, in mezzo alla vita, ne raccoglie le immagini nel giro tranquillo dello sguardo. Anche le date tornano, perchè il Tiepolo nasce nel 1696 e il Metastasio nel 1698, il Longhi nel 1702 e il Goldoni nel 1707; solo le doti individuali sembrano in certa maniera scambiarsi, in quanto il mondo della fantasia ha nell'artista un evocatore più possente e più vario del poeta, e quello della realtà ha nel poeta un rappresentatore più largo e più efficace dell'artista. Il secolo declina e il movimento che avvia l'arte all'Appiani e al Canova, conduce la letteratura, attraverso il Parini e l'Alfieri, al Monti ed al Foscolo. E anche qui esso non procede senza abusi e senza sopraffazioni; tutt'insieme, peraltro, riesce più benefico, perchè il suo carattere era essenzialmente idealista, e delle idee lo strumento naturale non è già il colore o la linea, è la parola. Mentre, infatti, pittura e scultura rimangono troppo spesso agghiacciate, dalla quotidiana consuetudine con l'antichità, la poesia ne ritrae quel vigore di linguaggio e quel calore di pensiero, che dovevano accendere e rinnovare le coscienze. Nel Parini il classicismo, tutt'altro che adulterare la rappresentazione del vero, la condensa in forme sintetiche, restituisce i nervi allo stile, dà alla voce del poeta, ch'essa derida o ammaestri, un accento di energia deliberatamente [492] pacata; nell'Alfieri esso esprime la tensione dell'anima, che svincolandosi dalla società decrepita, tutta languori e inchini e cerimonie e accondiscendenze e remissività, si aderge in uno sforzo di opposti proponimenti. La morte era venuta dalla spensierata fiacchezza; la vita doveva scaturire dalla riflessione e dalla volontà.

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