VII

Ma tutto ciò non seguiva senza continui e sempre nuovi pericoli, che minacciavano l'esistenza stessa della Repubblica, e per difendersi dai quali occorrevano qualche volta forze piú che umane. Quando si ricorre col pensiero all'antica Firenze col suo Consiglio, coi suoi Consoli, che usciva ogni anno, unita e concorde alla guerra, per abbattere i baroni, ed assicurare le vie del suo commercio; che, sottomessi uno alla volta questi baroni, li obbligava a vivere dentro lo due mura, sotto l'uguaglianza delle leggi repubblicane; che per vincere i piú potenti vicini, dovette accrescere le sue forze, liberando i servi della gleba, concedendo i diritti politici a quei mercanti che ancora non li avevano; quando il pensiero ricorre a quei tempi, ritrova subito in essi i germi della futura grandezza del Comune, che con una guerra continua riuscí ad accrescere da ogni lato le proprie forze. Ma le cose andarono poi sostanzialmente mutando, per molte ragioni, specialmente per quella rivoluzione nell'arte della guerra, alla quale abbiamo già accennato, e che dobbiamo ora piú particolarmente ricordare.

Fino al secolo xiv gli eserciti repubblicani erano composti di pedoni leggermente armati d'uno scudo, un elmo ed una daga, con qualche piastra di ferro che difendeva il petto o le gambe. La cavalleria era poca, e non decideva mai la sorte delle battaglie. Cosí avevano combattuto, presso a poco, tutti i barbari, meno gli Unni e gli Arabi, che andavano quasi sempre a cavallo, ed i Bizantini, che colla cavalleria piú volte vinsero i Goti. Con la fanteria aveva principalmente combattuto in Italia Federico Barbarossa, e con essa gli avevano resistito i nostri Comuni, che, da un giorno all'altro, potevano allora mutare in soldati tutti quanti i cittadini abili a portare le armi. Ma le guerre di Federico II, di Manfredi e di Carlo d'Angiò avevano di Francia e di Germania portato in Italia una nuova maniera di combattere. I Fiorentini se n'erano dovuti avvedere sin dalla battaglia di Montaperti, quando il loro numeroso esercito fu disfatto dall'urto di pochi cavalieri tedeschi. E d'allora in poi la cavalleria pesante o degli uomini d'arme fu quella che cominciò a decidere la sorte delle battaglie in Italia. Il cavaliere, sebbene non fosse ancora, come alla fine del secolo xv, chiuso, esso ed il suo cavallo, in un'armatura cosí pesante che, caduti una volta a terra, non potevano rialzarsi senza aiuto; pure già era coperto di ferro da capo a piedi. Colla sua lunghissima lancia, egli atterrava il fantaccino, prima che questi potesse raggiungerlo colla corta sua spada, la quale, in ogni caso, non riusciva mai a forare l'armatura del cavaliere o del cavallo. Né gli strali tirati dagli archi riuscivano a far danno maggiore. Bastava quindi, che poche centinaia d'uomini d'arme si spingessero, come una fortezza mobile ed impenetrabile, nel mezzo d'un esercito di fanti, per disfarlo in poco tempo. Un tale stato di cose durò sino alla invenzione della polvere e del fucile, e portò un radicale mutamento nelle condizioni dei Comuni italiani. Infatti, per formare questi cavalieri, ci voleva un lungo tirocinio ed una grande spesa. Bisognava non solo aver grandi fabbriche d'armi, non solo formare una nuova razza di cavalli, ed addestrarli; ma il cavaliere stesso doveva essere in continuo esercizio, dedicare la sua vita intera alle armi, tener continuamente occupati ed addestrati due o tre scudieri. Questi portavano tutti gli arnesi da guerra, e menavano il cavallo armigero del cavaliere, che se ne serviva solo nel giorno della battaglia, e solamente allora s'armava di tutto punto, perché altrimenti si sarebbero l'uno e l'altro trovati esausti di forze nell'ora del pericolo. Ma ciò doveva riuscire impossibile nelle nostre repubbliche, perché i loro cittadini vivendo tutti col commercio e coll'industria, non potevano abbandonare i traffici per darsi alle arti della guerra. Queste divennero allora un vero e proprio mestiere, e coloro che vi dedicavano la vita, cominciarono ben presto a mettere a prezzo la loro spada. Cosí è che sin dagli ultimi anni del secolo xiii, noi cominciamo a sentir parlare negli eserciti repubblicani di soldati catalani, borgognoni, tedeschi ed altri cavalieri oltramontani, che vanno ogni giorno crescendo di numero.

A poco a poco i mercanti dovettero persuadersi, che essi non potevano piú avere alcuna personale efficacia nella guerra. E però, quando le repubbliche erano minacciate, esse non s'arrischiavano piú a combattere, senza assoldare qualche capitano, che venisse col suo manipolo di cavalieri stranieri. Il nome del valore italiano cominciò rapidamente a decadere per tutto, e si formarono quelle compagnie di ventura, che furono una delle nostre maggiori calamità. È ben vero che, quando poi Alberico da Barbiano, Attendolo Sforza, Braccio da Montone ed altri si dettero a questa vita, essi raggiunsero e superarono anche gli stranieri, che piú volte dovettero retrocedere nuovamente dinanzi al valore italiano. Molti anzi vennero allora di fuori ad imparar la nuova arte della guerra, sotto il comando dei nostri capitani, per opera dei quali essa cominciò la prima volta a divenire anche una scienza. Ma eran sempre pochi coloro che nelle libere città potevano darsi a questa vita. I nobili, gli sfaccendati, gli esuli, coloro che non avevano un altro mestiere, i sudditi dei piccoli tiranni eran quelli che andavano a far parte delle compagnie di ventura. E poche molte, italiane o straniere, esse affrettarono sempre la rovina di tutti i nostri Comuni, massime di Firenze.

Le continue guerre, che essa ora deve fare, non riescono piú a mantener vivo il suo spirito militare, l'energia del suo popolo. Costretta a servirsi sempre di gente straniera e venduta, cominciò ben presto a perdere la coscienza delle proprie forze, che di fatto andarono rapidamente decadendo. La guerra si ridusse ad una operazione di banca o di nuove imposte, per trovare il danaro necessario ad assoldare uno di quei capi di compagnie, i quali si davano sempre al maggiore offerente. Quando era trovato il danaro, bastava spesso mandarlo al piú potente e sicuro alleato, che pensava al resto, cioè al contratto da fare con un capitano, che assoldasse il maggior numero di gente. Bisognava sapersi procurare amici, saper provocare avversari al nemico, ed in ciò i Fiorentini fecero sempre prova di grande accortezza. Ma queste non erano di certo virtú militari. I personaggi piú importanti, che essi inviavano al campo, erano i loro commissari che vegliavano all'andamento generale delle cose, all'amministrazione dell'esercito, all'indirizzo politico della guerra; e sebbene, piú d'una volta, noi troviamo che questi commissari d'improvviso si trasformavano in Capitani, pigliando il comando delle armi, e con singolare ardimento decidendo le sorti d'una battaglia, pure il loro ufficio rimaneva sempre piú civile e diplomatico che militare.

Quali conseguenze tutto ciò dovesse avere per l'avvenire della Repubblica, e sul carattere morale de' suoi abitanti, è facile immaginarlo. I popolani grassi erano nel governo occupata in un continuo lavoro di furberia e di sottigliezza. Bisognava essere accorti nei Consigli; osteggiare i Grandi; trovarsi sempre desti per non lasciare divenir troppo forte il popolo minuto, e pure indurlo a pagare il denaro per fare le guerre, che erano necessarie alla prosperità ed alla sicurezza del commercio esterno. Bisognava essere ancora piú accorti nei maneggi diplomatici, per non trovarsi isolati, e saper sempre mantenere l'equilibrio degli Stati italiani a vantaggio della Repubblica. La guerra stessa, risolvendosi, come abbiam visto, in un'operazione di banca, era del pari una nuova prova d'accortezza. Non si vedeva piú alcuno di quei grandi sacrifizî di sangue cittadino e di uomini, coi quali un popolo si rigenera continuamente; niun atto di forza generosa ed aperta. E quando questi popolani grassi non erano immersi nella politica, allora, insieme con tutta la cittadinanza, si davano anima e corpo al commercio, occupando le ore di ozio nel leggere Tacito, Virgilio od Omero, che tenevano perciò sotto il banco. Ma era sempre e solo la loro intelligenza, che si trovava in una continua attività; le altre piú nobili facoltà dello spirito restavano come soffocate, atrofizzate in questo esercizio costante di sottigliezza e di furberia. Ciò doveva prima o poi portare una decadenza inevitabile nella vita morale e politica della Repubblica, nella piú alta cultura dello spirito. E se le guerre riuscivano funeste pel modo in cui bisognava apparecchiarle e condurle, non riuscivano meno funeste per le conseguenze che portavano dopo la vittoria. Gli eserciti di ventura, appena che cessavano le paghe di guerra, da amici divenivano nemici, e cercavano subito un altro padrone che li pagasse. Quando non lo trovavano, e restavano perciò senza paga, si scioglievano in bande armate, che mettevano a soqquadro le campagne e le città, con una specie di brigantaggio militare. Il piú delle volte era forza venire con esse a patti, e dar danari per tenerle tranquille.

Ma quello che piú di tutto importa qui notare si è, che anche la conquista di nuovi territori, divenuta pur tanto necessaria alla Repubblica, cominciava ad essere un pericolo grave, una sorgente di future calamità. Il Comune italiano era stato nel Medio Evo causa feconda di progresso; ma quando il suo contado si cominciò ad ingrandire, esso si dimostrò affatto impotente, se non mutava radicalmente la sua costituzione, a trasformar la libera città in quello che noi oggi chiamiamo lo Stato. Infatti anche a Firenze, che fu il piú democratico dei nostri Comuni, la cittadinanza era tutta dentro la cerchia delle mura. Si fecero leggi per abolire la servitú nel contado, per migliorarne le condizioni; ma non si pensò mai a concedere i diritti politici agli abitanti di esso. Il nome di cittadino restò sempre come un privilegio concesso solamente ad una minoranza, e la plebe non l'ottenne mai neppur dentro le mura. Ogni volta che una nuova città veniva conquistata e sottomessa alla Repubblica, essa era governata con maggiore o minore durezza; le lasciavano piú o meno franchigie locali; potevano anche concederle che continuasse a ritenere una forma repubblicana, sotto gli ordini di un Podestà, d'un Capitano o d'un Commissario, pagando le gravezze che volevano imporle; ma i suoi abitanti non erano mai ammessi ai diritti della cittadinanza fiorentina, né i loro rappresentanti entravano mai nei Consigli o negli uffici politici in Firenze. Quindi, a misura che le conquiste crescevano, quel nucleo di cittadini che teneva in mano il governo, e che era già una minoranza, si trovava in una proporzione sempre minore verso le popolazioni, ogni giorno piú numerose, che doveva governare. Nelle idee dei Fiorentini come di tutti quanti i repubblicani del Medio Evo, non entrò mai il pensiero d'uno Stato governato nell'interesse di tutti. L'interesse e la grandezza di Firenze erano, invece, la sola norma costante, lo scopo a cui ogni cosa doveva essere sottomessa. Né quel popolo minuto e quella plebe, che per sé chiedevano sempre maggiori libertà, avevano in tutto ciò principi piú larghi o diversi. Anzi le loro idee, aggirandosi in una cerchia piú angusta, si dimostravano anche piú pregiudicate, e le loro passioni piú cieche. In conseguenza di ciò, era per una repubblica tenuta allora maggiore sventura venir conquistata da un'altra repubblica, che da una monarchia; giacché i principi, nella comune oppressione, trattavano tutti alla pari, e quindi, politicamente almeno, la grande maggioranza dei vinti soffriva danni minori. Invece, quando Firenze poté raggiungere il suo lungo desiderio della conquista di Pisa, essa fu padrona del mare, e vide subito il proprio commercio crescere assai rapidamente; ma l'essersi aggregata una repubblica grande e potente, piena di vita e di forza, ricca di tanti traffici, non le portò nessuno di quei vantaggi che una piú libera unione ed una partecipazione comune ai diritti politici le avrebbero recati. I piú notevoli cittadini, le piú ricche famiglie pisane emigrarono, preferendo vivere in Francia, a Milano, o in Sicilia sotto gli Aragonesi, che almeno concedevano loro una civile uguaglianza, piuttosto che nella propria città, sotto il duro, tirannico governo dei popolani grassi di Firenze. Il commercio, l'industria, la marineria militare e mercantile di Pisa scomparvero con la sua indipendenza; il suo Studio, antica gloria italiana, fu disfatto, per essere piú tardi ricostituito dai Medici; ed essa in breve tempo presentò l'aspetto della miseria e dello squallore. Lo stesso seguiva in tutte le città vinte; esse venivano con tanta maggior durezza trattate, quanto piú grandi e potenti erano state nei giorni della loro libertà. È facile da ciò il comprendere come ogni volta che Firenze si trovava in pericolo, tutte quelle città sottomesse, nelle quali la vita non era stata anche spenta del tutto, cercavano sollevarsi per rivendicare la loro indipendenza, ed in ogni caso preferivano un tiranno domestico o anche straniero alla loro forzata sottomissione ad una repubblica, la quale non imparò mai dalla esperienza a mutare consiglio. E non poteva, giacché per farlo avrebbe dovuto mutare sostanzialmente tutta la sua costituzione, il suo proprio essere.

In questo modo, accumulando ricchezza e potenza, essa moltiplicava le cagioni della sua futura e inevitabile decadenza. Il Comune appariva sempre piú impotente a fare scaturire dal suo seno lo Stato moderno, e però quando il commercio su cui esso si reggeva, cominciò a decadere, la forza dei popolani grassi fu sgominata, e la forma monarchica fu subito giudicata come un sollievo dalla moltitudine degli oppressi, che erano di gran lunga i piú numerosi. Cosí fu che i Medici poterono salire al potere in nome della libertà, appoggiandosi al popolo minuto ed alla plebe. E cosí fu che, ora con la violenza, ora con l'astuzia, ora con l'una e con l'altra insieme, il Comune italiano venne da per tutto sottomesso al principato, e là dove, per condizioni eccezionali, la forma repubblicana poté piú lungamente salvarsi, ivi essa sembrò solo sopravvivere a sé stessa, non portando piú alcuno dei benefizî, pei quali era nata. Bisognava che il principato rendesse, sotto un medesimo scettro, uguali in faccia al dispotismo quelle popolazioni che non s'erano sapute rendere uguali dinanzi alla libertà. Le Signorie furono il necessario passaggio dal Comune medioevale allo Stato moderno. Queste Signorie indicarono la via alla formazione ed alla retta amministrazione delle grandi monarchie, che s'andavano ora costituendo nel continente d'Europa, e si mantennero anch'esse assolute e dispotiche fino a che la Rivoluzione Francese non venne a compiere nelle campagne, nelle città e per ogni ordine di cittadini, quel lavoro di emancipazione sociale, che i Municipî italiani avevano mirabilmente iniziato, ma che non avevano saputo mai estendere fuori la cerchia delle proprie mura. Firenze resisté ancora lungamente, ma dovette pur correre la sorte comune.

fine del volume primo

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