CAPITOLO IV

Gli Unni

Tutti i popoli, che abbiamo finora incontrati, Greci, Romani, Celti, Germani, appartengono alla stessa famiglia ariana, che dall'Asia sud-ovest, movendosi per direzioni diverse, venne in Europa. Ma ora comparisce per la prima volta sulla scena un popolo affatto nuovo, che faceva parte di un'altra grande famiglia, sostanzialmente diversa, cui si dà il nome di turanica. Esso era destinato ad avere, per qualche tempo, non piccola parte nei destini dell'Impero.

In quel vasto altipiano dell'Asia centrale, che si distende dall'est all'ovest fino ai Monti Ural, e trovasi fra la catena altaica e quella del Tauro, il quale manda le sue diramazioni verso il sud, abita una vasta moltitudine [43] di popoli diversissimi. Sono all'occidente i Finno-Ugri, più all'oriente i Turchi, i Mongoli, i Mandsciù. Non ostante le molte e grandi loro diversità, essi hanno pure costumi e caratteri etnografici comuni. Anche le molte e molto varie lingue che parlano, sono tutte monosillabiche ed agglutinate. Le condizioni d'un clima assai freddo, con un suolo poco fertile, con fiumi che non irrigano abbastanza da poter rendere la terra coltivabile coll'aratro, non hanno mai lasciato uscir dalla vita nomade quelle popolazioni, che dimorano perciò nelle tende, circondate da numerosi armenti di cavalli, di vacche, e secondo i luoghi, d'altri animali. Si cibano principalmente di carne e di latte, dal quale cavano un liquore, che è loro ordinaria bevanda. Si vestono di pelli, vivono a cavallo, occupati sempre, quando non sono in guerra, della caccia anche d'animali feroci, come la tigre, l'orso, il cignale salvatico. Oltre la tenda, non hanno case, nè villaggi o città. Sono poligami e non conoscono altra forma sociale che la famiglia e la tribù. Ma queste tribù aderiscono facilmente le une alle altre, e quando trovano un capo valoroso che le comandi, s'uniscono qualche volta in moltitudini sterminate. Le quali, per la consuetudine che hanno di vivere in continuo moto, sempre in armi, possono, senza alcuna difficoltà, recarsi, colle tende, i carri, le donne, i bimbi, da una regione ad un'altra. Più volte queste popolazioni ebbero una gran parte nei destini del mondo. Di tanto in tanto le vediamo precipitarsi come valanghe dal loro altipiano, inondando, sconvolgendo tutto, formando dei grandi imperi, che sembrano un momento impadronirsi del mondo, per poi scomparire a un tratto con la stessa rapidità con cui si sono formati, per dar luogo più tardi, con uguale procedimento, alla rapida formazione d'altri imperi, che progrediscono e spariscono del pari. I Mongoli, sotto i successori di Gengis Kahn, [44] combattevano nello stesso tempo in Silesia e sotto il muro della China. È sempre un governo militare affidato a numerosi capi di eserciti, i quali governano con assoluto dominio, pagando solo un tributo al loro capo supremo. Qualche cosa di simile si vide anche negli Arabi, sebbene d'altra indole, d'altra razza, i quali si distesero dall'Indostan al Marocco, alla Sicilia ed alla Spagna. È una forma primitiva ed inorganica di Stato, la quale sembra potersi distendere all'infinito, sino a che l'amalgama dei vincitori coi vinti non ne comincia la decomposizione, che procede anch'essa rapidamente.

Queste popolazioni dell'Asia centrale o turaniche, non portano nel mondo nuove idee, ma spesso diffondono quelle degli altri popoli coi quali vengono a contatto. Esse sembrano dalla Provvidenza mantenute nelle loro prime sedi, in uno stato di perenne giovanezza e barbarie, per agitare e rinvigorire il mondo, ogni volta che intorpidisce e decade. A questa vasta famiglia di popoli appartenevano gli Unni, ritenuti antenati degli Avari e di quei Magiari che più tardi occuparono l'Ungheria, dove sono anche oggi. Erano Finni, che dimoravano nell'Ural. Nel quarto secolo, spinti forse da altre popolazioni più orientali, si precipitarono a un tratto verso il sud, con una furia indicibile, ispirando un terrore universale, producendo un grande spostamento di popolazioni verso l'occidente. Nel 374 piombarono sugli Alani, nella Russia orientale, e dopo averli disfatti, ne aggregarono una parte ai loro eserciti, che così ingrossarono, spingendosi fino alla Palude Meotide o Mare di Azov, dove si fermarono alquanto, prima d'avanzarsi verso i Goti. Il grande terrore che ispirarono in tutti apparisce assai chiaro nelle descrizioni che ce ne lasciarono i cronisti, nelle leggende che intorno ad essi si formarono. Jordanes, il più antico storico dei Goti, che nella metà del sesto secolo, compilò [45] la sua storia su quella che fu scritta da Cassiodoro, e che andò poi perduta, dice di questi Unni, nomadi, pagani e poligami: «Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe e il dorso dei cavalli che cavalcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo; la loro faccia, più che a viso umano, somiglia ad un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti, invece di occhi. Hanno pochissima barba, perchè usano tagliar col ferro il viso dei loro bimbi, acciò imparino prima a sopportar le ferite, che a gustare il materno latte. Adorano per loro Dio una spada infissa nel suolo, e sotto forme umane vivono come animali. Nacquero dal connubio di spiriti maligni con streghe cacciate nelle foreste dai Goti, alla cui rovina esse li generarono. Questi medesimi spiriti furon quelli che insegnarono loro la via da tenere nell'andare all'assalto dei Goti. E fu in questo modo. Andando alcuni Unni a caccia, s'imbatterono in una cerva misteriosa, la quale, volgendosi nel suo cammino continuamente indietro, pareva li invitasse a seguirla. Così fecero. E dopo che essa ebbe, camminando, mostrato loro come e dove poteva facilmente passarsi la Palude Meotide, scomparve a un tratto, segno manifesto che essa era veramente uno degli spiriti maligni avversi ai Goti.»

Certo è che da un momento all'altro gli Unni si precipitarono contro gli Ostrogoti, con impeto tale che il resistere divenne impossibile. Il capo degli Ostrogoti, Ermanrico, si uccise colle proprie mani; i suoi, dopo essere stati affatto sgominati, finirono coll'aggregarsi all'esercito unno. E così continuarono per ottant'anni circa, rinunziando alla loro nazionale indipendenza, ma restando uniti sotto propri capi. In questo modo gli Unni, [46] sempre più ingrossati, sempre avanzando, arrivarono al fiume Dniester, al di là del quale erano i Visigoti. Lo passarono improvvisamente di notte (376), assalendo i Visigoti di Atanarico, ed incutendo loro tale spavento, che una parte di essi si rifugiò nei Carpazi, un'altra andò nella Dacia occidentale, dove erano i Visigoti di Fritigerno, ai quali si unirono, comunicando loro il proprio spavento. E fu tale questo spavento che, sebbene Fritigerno fosse assai valoroso e si trovasse, come affermano, alla testa di 200,000 armati, non potè pensare ad altro che a mettersi in salvo, insieme ai suoi, colla fuga. Fu uno spettacolo non mai più visto. Un esercito numerosissimo, con le donne, i vecchi, i bimbi, le loro suppellettili sui carri, sulle spalle; una moltitudine di gente, che si fa ascendere ad un milione, correva al Danubio, per passarlo e mettersi sotto la protezione dell'Impero. I soldati romani cercarono dapprima impedire questa specie di inondazione umana. Alcuni infatti vennero colle armi respinti nel fiume dove affogarono. Ma come si poteva resistere ad un milione di persone d'ogni sesso ed età, che si avanzavano tremando, e colle mani in alto imploravano pietà, accecati, impazzati dalla paura, la quale comunicava ad essi un impeto più irresistibile d'ogni coraggio? Fritigerno dichiarò, che essi erano pronti a servire sotto le bandiere romane, accettando ogni condizione. Ma chi gli poteva credere? Chi poteva prevedere che cosa sarebbe seguito? E chi poteva resistere?

Imperatore d'Oriente era allora Valente, che da suo fratello Valentiniano I era stato associato all'Impero, e dopo avere domata la ribellione di Procopio, regnava sicuro. Di natura debole ed incerta, non vedendo nessuna possibilità di fermare l'onda che s'avanzava, s'illuse nella speranza che l'acquistare un esercito di 200,000 uomini dovesse riuscire utile all'Impero. E [47] concesse loro il passaggio. I patti furono che dovessero cominciare col deporre le armi e consegnare ostaggi. Ma quali patti si potevano in tanta confusione mantenere? E come trovare a un tratto vettovaglie per un milione di persone sopravvenute all'improvviso? Si principiò col numerarli e disarmarli. Ma poi bisognò subito smettere. Alcuni già morivano estenuati dalla fame, altri senza dare ascolto s'avanzavano chiedendo, implorando da mangiare. Gli ufficiali romani, profittando di ciò, cominciarono a vendere cibi d'ogni sorta, anche corrotti, ad altissimo prezzo. Ed i Goti, che eran pronti a tutto, meno che a cedere le armi, davano denaro, suppellettili, stoffe, per aver da mangiare. Si dice, che alcuni, pur di non veder morire di fame le mogli e i figli, s'indussero a venderli schiavi.

E così un milione di barbari, duecentomila dei quali in armi, si trovavano dentro l'Impero. Non il valore, non la vittoria, ma la paura e la fuga avevano loro aperto la via. Ma intanto erano entrati, ed erano sofferenti, affamati, irritati per le violenze ed ingiustizie patite. Fritigerno, uomo valoroso, cercò subito raccogliere ed ordinare i soldati, ristabilire su di essi la disciplina, far rinascere la coscienza del proprio valore, della propria forza. Nel che egli era secondato dall'arrivo di sempre nuovi Visigoti ed Ostrogoti che, passato il Danubio, venivano a raggiungerlo, e dalle simpatie mal represse, che i barbari dell'esercito imperiale mostravano per lui ed i suoi. Ben presto si trasferì con essi a Marcianopoli, capitale della Mesia, a settanta miglia dal Danubio. Ivi i Goti si dimostrarono subito uniti e pronti a procurarsi da vivere anche colla forza delle armi. E si capì allora quali gravi conseguenze era per portare la decisione presa da Valente di lasciarli venire. Ma come avrebbe egli potuto impedire che un fiume così impetuoso, rotto l'argine, straripasse?

[48]

La diffidenza fu subito da una parte e dall'altra grandissima. Si narra che, avendo il generale romano Lupicino invitato a banchetto i capi dei Goti, essi vennero, pieni di sospetto, con una scorta numerosa. E quando s'era ancora a banchetto, s'udirono grida di Goti e Romani venuti fra di loro alle mani. Fritigerno, sguainata la spada, uscì fuori, ponendosi senza indugio alla testa de' suoi. Ben presto, a poche miglia dalla città, vi fu uno scontro (377), nel quale Lupicino e gl'imperiali furono battuti. Quel giorno, scrive Jordanes, pose fine alle calamità dei barbari ed alla sicurezza dei Romani. Ed in parte era vero. La battaglia era stata per sè stessa di poco momento, ma grandissime ne furono le conseguenze morali. Coloro che erano entrati nell'Impero come fuggiaschi, implorando pietoso aiuto, s'erano a un tratto mutati in numerosi e minacciosi aggressori, che liberamente percorrevano la Tracia, saccheggiando. Tuttavia quando essi circondarono Adrianopoli, vennero facilmente respinti, giacchè, prima delle armi da fuoco, le mura delle città presentavano al nemico ostacoli quasi sempre insuperabili. Ritiratisi nella Dobruscia, furono dai Romani assaliti, con impeto degno degli antichi tempi, in un campo trincerato dai carri e bagagli; ed ebbe luogo una seconda battaglia, che essendo stata d'esito incerto, ne rese inevitabile una terza.

L'imperatore Valente, che in questo mezzo era a combattere i Persiani, saputo della ribellione dei Goti, concluse in fretta la pace, per venire con le sue genti ad affrontarli. Il 9 agosto 378, a dodici miglia da Adrianopoli, ebbe luogo una grossa e decisiva battaglia, nella quale il valore dei soldati romani dette splendida prova di sè; ma vennero guidati con una così inesplicabile incapacità, che la loro disfatta fu inevitabile. Dopo una lunga marcia, sotto il sole ardente di agosto, si trovarono di [49] fronte al nemico, in un luogo così stretto, che non potevano muoversi nè fare libero uso delle proprie armi. Quarantamila di essi incontrarono eroicamente la morte. Di Valente, che era nella battaglia, non si seppe più nulla, e ne fu quindi in diversi modi narrata la fine. La disfatta fu grande, ed alcuni scrittori, esagerando non poco, la paragonarono a quella di Canne. Certo è che quando i Goti si riprovarono ad attaccare Adrianopoli, dove era il tesoro imperiale, vennero respinti con una energia che non si aspettavano. E quando si ritirarono saccheggiando, dando poi l'assalto alle mura di Costantinopoli, ebbero una lezione anche più severa. La cavalleria saracena, assoldata dall'Impero, li inseguì, sui suoi cavalli arabi, con una fulminea rapidità, e con un furore addirittura selvaggio. Uno di essi fu visto correre nudo sul suo cavallo, inseguire un Goto, raggiungerlo, sgozzarlo e beverne il sangue. Ciò mise un gran terrore, perchè i barbari avevano trovato chi era più barbaro di loro.

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