CAPITOLO IX

Venezia e Napoli

L'Esarcato come abbiamo già visto s'era andato rapidamente decomponendo; ormai non esisteva che di nome, era poco più che un Ducato come gli altri. Già Roma s'era costituita in una specie di repubblica col suo esercito, che più di una volta, senza esitare, aveva combattuto contro di esso, da cui anche l'Italia bizantina del sud s'andava staccando. I tumulti avvenuti a Ravenna e nella Pentapoli avevano naturalmente reso sempre più vivo il sentimento d'indipendenza. Prima e più di tutti s'era avviata per questa via Venezia, grandemente favorita dalla sua posizione geografica. Noi abbiamo già visto che fin dai tempi di Teodorico Cassiodoro scriveva, in nome del suo sovrano, ai Tribuni veneti; e dalla sua lettera apparisce che nelle isole della laguna s'era già formata una popolazione ardita e navigatrice, che viveva in uno stato di semi-indipendenza, con Tribuni nelle varie isole, le quali assai probabilmente erano fra loro già confederate. Certo Venezia era allora in qualche modo dipendente dai Goti; e quando Belisario e Narsete s'impadronirono dell'Italia, anch'essa venne naturalmente sotto il dominio bizantino, e vi sarebbe per lungo tempo restata, se non fossero più tardi sopravvenuti i Longobardi. A questi il possedimento di Venezia poteva essere di una grandissima utilità, e quindi, per impedire che cadesse nelle mani dei loro avversari, i Bizantini cercarono sempre di contentarla, lasciandole una qualche indipendenza. Nel 580 il patriarca d'Aquileja, stanco della dura oppressione esercitata colà dai Longobardi, se ne fuggì a Grado, il che dette ai Veneti anche un proprio capo ecclesiastico. I Longobardi [343] ne furono scontentissimi, e Liutprando chiese allora ed ottenne dal Papa, che il vescovo di Cividale venisse trasferito in Aquileja, mutandolo in Patriarca. Ma quando egli pretese, che da questo nuovo Patriarca dipendesse anche quello di Grado, i Veneti vi si opposero, ed il Papa li contentò; per il che i Longobardi dovettero accorgersi, che se erano stati soddisfatti nella forma, nulla avevano ottenuto quanto alla sostanza. Così Venezia restò politicamente ed ecclesiasticamente libera da essi, governata invece da Costantinopoli, per mezzo di Tribuni eletti dal popolo, e confermati dall'Imperatore. Questi Tribuni erano probabilmente dodici quante le isole, e si trovavano anche in altre città bizantine dell'Italia centrale e meridionale, come Napoli, Gaeta, Rimini, ed anche nella Pentapoli. Già la Prammatica sanzione voleva che i Judices delle province (Tribuni, Duces, Praesides) fossero eletti dai Vescovi e dai più ragguardevoli personaggi fra gli abitanti del territorio che dovevano amministrare. Essi venivano confermati in nome dell'Imperatore.

Coll'andar del tempo, le continue insurrezioni degli Slavi da una parte e dei Longobardi dall'altra fecero sentire il bisogno d'una maggiore unità di governo, per poter fare una più energica difesa; e si pensò quindi alla creazione di un Doge. Secondo le norme allora prevalenti, l'Esarca avrebbe dovuto invitare i vescovi ed i notabili a farne la elezione. Ma il cronista Dandolo ci narra invece che nel 697 s'adunò il popolo col patriarca di Grado, coi vescovi, i notabili, i tribuni, i quali elessero Paoluccio, uomo «egregio ed onorevole», o sia nobile. Questo Doge non pare che avesse allora il potere militare, che, secondo la Prammatica sanzione, doveva esser diviso dal civile, ed era rappresentato dal Magister Militum. Il Doge convocava il popolo, nominava i tribuni e giudici perchè rendessero giustizia al popolo ed al clero, escluse naturalmente [344] le cause ecclesiastiche, per le quali v'era un Foro speciale, da cui si appellava al Doge. Questi, secondo le consuetudini bizantine, convocava anche i Sinodi, invitandoli ad eleggere i vescovi, che da lui ricevevano l'investitura. Pare che la sua elezione venisse allora confermata dall'Imperatore, e che a tutti gli uffici fossero dal popolo eletti i nobili. Morto Paoluccio nel 717, gli successe Marcello, stato prima Maestro dei militi, che governò nove anni, dopo dei quali gli successe Orso. E fu sotto il costui dogato che Liutprando, profittando della lotta per le immagini, prese Ravenna, di dove l'esarca Eutichio fuggì a Venezia. Colà pervennero le lettere del Papa, che invitarono il doge Orso ed il patriarca Antonino a riprendere la capitale dell'Esarcato, per ristabilirvi l'Esarca, il che fu fatto; e dimostra l'autonomia e la forza che la città della laguna aveva sin d'allora già acquistata. Nel 737 il doge Orso venne ucciso in conseguenza d'una guerra civile scoppiata fra il partito nazionale, alla cui testa egli si trovava, ed il partito che voleva una maggiore dipendenza da Costantinopoli, e che ebbe un temporaneo sopravvento. Allora per cinque anni (737-41), invece del Doge a vita, fu eletto un Maestro dei militi, il quale durava solo un anno come i Tribuni. Ma verso la fine del 741 una nuova rivoluzione depose ed accecò il Maestro dei militi Giovanni, e ripristinò l'ufficio del Doge (742) nella persona di Diodato, figlio di Orso. Il quale, essendo avverso al partito imperiale, s'appoggiò invece ai Longobardi, e cadde quando questi furono sconfitti dai Franchi. La grande lotta tra i Franchi ed i Longobardi, che fu provocata dai Papi per assicurare la propria indipendenza, ed aprirsi la via al potere temporale, rese, come vedremo, inevitabile la caduta dei primi, favorì la potenza dei secondi, e più tardi anche l'autonomia municipale delle città.

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Assai diversa da quella di Venezia è la storia del ducato di Napoli, dove il popolo, diviso probabilmente in Scholae come in altre città bizantine dell'Italia, era del pari governato dagli Optimates. L'antica Curia municipale v'era affatto decaduta, e nella Campania, cui la città di Napoli apparteneva, comandava un Giudice o capo della provincia, alla dipendenza del Prefetto, mandato dall'Imperatore in Italia. La Prammatica sanzione v'accrebbe assai il potere civile dei Vescovi, e sotto la loro sorveglianza veniva eletto il Giudice fra coloro che erano nati nel territorio. Dopo il 638, vediamo che invece del Giudice governava il Vescovo, accanto al quale si trovava un capo militare, Duca o Maestro dei militi. Dapprima erano due magistrati diversi, ma poi si fusero in uno, che governò quello che fu chiamato il ducato di Napoli. Il Duca era inviato dall'Imperatore a comandare l'esercito, o più veramente il popolo armato della città, ed aveva a sua dipendenza conti e tribuni, che erano a capo dei vari presidii del territorio. Così Napoli potè non senza gloria resistere ai Longobardi, a quelli soprattutto di Benevento e di Spoleto, salvando la propria indipendenza, che andò sempre crescendo.

Ai tempi di Gregorio I troviamo che la città non aveva nè un Duca nè un Maestro dei Militi, di che il Papa moveva lamento all'Imperatore, pregandolo che provvedesse. Ma quando vide che non si otteneva nulla, mandò egli un Tribuno, eccitando il popolo alla difesa; e ciò gli dette una grande autorità su tutto il Ducato, che restò per qualche tempo sotto la sorveglianza del Papa. Questi infatti s'occupò lungamente a frenare la corruzione dei Vescovi della città, a difendere i Decurioni e i cittadini dalle oppressioni fiscali degli agenti imperiali. Circa il 661, venuto l'imperatore Costante in Italia, dette nuova forma al Ducato, per formarvi un nucleo di più forte resistenza [346] contro i Longobardi. E d'allora in poi noi vediamo che Napoli resiste sempre più energicamente contro di essi, contro i Musulmani, e più tardi anche contro i Normanni, ai quali dovè finalmente soccombere. Il nuovo Duca, a cui si dette pure il nome di Console o Maestro dei militi, fu assai diverso dell'antico, col quale ebbe in comune poco più che il nome. Non sappiamo però con precisione quali fossero le sue vere attribuzioni. Eletto dal popolo di cui faceva parte, comandava l'esercito, ed in lui, con l'antico Duca e l'antico Maestro dei militi, s'era fuso anche l'antico Giudice, assumendo, al pari dell'Esarca, l'autorità civile e la militare. Non sappiamo neppure quali erano esattamente i confini geografici di questo Ducato, che da principio almeno dovette estendersi a quasi tutta l'antica Campania, e quindi contenere anche Amalfi e Gaeta, che più tardi se ne staccarono. Certo è che il ducato di Napoli formò parte integrante dell'Impero e dell'amministrazione imperiale. La sua lingua ufficiale era la greca, e sulle monete, da una parte v'era l'immagine dell'Imperatore col suo nome in greco, dall'altra il nome della città anch'esso in greco. Dopo la morte di Costante, gl'Imperatori cominciarono a trascurare l'Italia continentale, specialmente la meridionale, della quale non potevano occuparsi coloro che erano mandati a governare la Sicilia, perchè dovevano pensare a difender questa dai Musulmani, che di continuo l'assalivano. Il ducato di Napoli, abbandonato allora a sè stesso, dovè fare assegnamento sulle sole sue forze, e vivere combattendo, tanto che prese anche il nome di Milizia o Milizia dei Romani o anche Milizia dei Napoletani. Lentamente s'andò sempre più staccando dall'Impero, per arrivare a reggersi addirittura come uno Stato autonomo. E fino al 764 ebbe tredici Duchi, che restarono in ufficio durante periodi diversissimi di tempo, tanto da far credere che fossero eletti a vita.

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Molte e varie furono le vicende del Ducato. Dapprima, ai tempi di Gregorio I, l'abbiam visto sotto la preponderanza del Papa; più tardi lo vedemmo aggregato all'Impero, cui rimase unito anche durante la lotta per le immagini, non pigliando parte veruna alla ribellione di Ravenna e della Pentapoli; finalmente cominciò a staccarsi dall'Impero, da cui il duca Stefano II, eletto nel 755, lo separò affatto, rendendolo indipendente, avvicinandolo di nuovo a Roma. Allora la lingua ufficiale non fu più la greca, ma la latina; e nelle monete più comunemente in uso, all'immagine dell'Imperatore venne sostituita quella di S. Gennaro, che fu simbolo d'indipendenza. Il suo nome fu scritto in latino, e sul rovescio, al nome greco della città si sostituì quello del Duca, anch'esso in latino; sopra altre monete però, e sugli atti pubblici continuò a porsi il nome dell'Imperatore. Ma i duchi, oramai indipendenti, fanno la guerra e la pace, concludono trattati in proprio nome. In questo mezzo Stefano II s'era siffattamente avvicinato alla Chiesa, che, restato vedovo con figli, dopo che nel 766 era morto il vescovo di Napoli, venne egli nominato vescovo, ed ebbe a Roma la tonsura, continuando a governare insieme col figlio Gregorio II, che gli successe, e fu duca per 27 anni e sei mesi. Con lui il Ducato cominciò a divenire, in parte almeno, ereditario.

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