Primo prologo

«Non è vero. Non accetto la vostra versione dei fatti. L'ha ucciso e ha nascosto gli indizi.»

«Li ha nascosti cosí bene che nessuno è più in grado di provare che è stata lei?»

«Certo, è proprio cosí, mamma sai benissimo che tutti lo pensano.»

«Sei tu che lo pensi, soltanto tu.»

«Lo pensano eccome, però si lasciano confondere. Lei ha il gioco facile, la sua versione è celeberrima, il ritratto stesso dell'innocenza: un copione migliaia di volte replicato. Non c'è chi non abbia già visto la scena, chi non abbia già sentito ogni sua battuta, prima che lei debba aprire bocca. E avvenuto sotto gli occhi di tutti, ma lei ha saputo cosa non dire e cosa non fare talmente bene che...»

«Ma se tutti la credono, polizia compresa. Saresti tu la sola tanto intelligente da capire come stanno veramente le cose? Finiscila Anna!»

«Non la finisco. Lei è viva e vegeta al massimo delle sue prestazioni di martire, lui invece è morto, è crepato, non c'è più. Allora mi pare che lei possa aggiungere alla sua sofferenza anche la mia versione dei fatti; lascia che anch'io pianti un mio piccolo chiodo nella sua croce...»

«È una morte sconcertante, che ci lascia con mille dubbi, tu invece dubbi non ne hai!»

«Infatti non ne ho. Sono certa che è andata proprio come dico io: non ho l'ombra di un dubbio, né l'ombra di una prova. Tutta la storia è talmente classica, che la facciata della normalità copre meglio di qualsiasi trucco l'efferatezza del delitto. Lei si è ben guardata dal dichiarare mai "Io voglio questo, io non voglio quest'altro"; lei non ha mai umiliato il marito con la sua prepotenza, lei è sempre stata una brava donna, bravissima. Il giorno che si è sposata ha appallottolato gli occhi, li ha rivolti al cielo e starà in quella posa finché campa. Marito e figli? Da quella postazione li puoi distruggere a tuo piacimento: soffocati d'amore o strozzati di cibo. Tutti lo sanno che questo avviene ma nessuno riesce a dirlo, come in quei sogni, quando non si può gridare. Adesso infatti chi ha il coraggio di dire: "L'ha ucciso." Lí sempre con i suoi occhi appallottolati, immobile, chi osa puntare il dito contro quest'anima bella?»

«Anna Anna! Ti faccio osservare che questa donna non ha fatto una vita piacevole: una persona isolata e infelicissima...»

«No, questo non lo devi dire! Lei adora la sua infelicità, adora la sua straordinaria capacità di sopportare, adora se stessa e basta a se stessa; ha un'incrollabile passione per la sua propria generosità. Non ha mai rinunciato a un briciolo della sua generosità per nessuno. A chi fosse rivolta la generosità non aveva nessuna importanza, mai nulla di ciò che le capitava intorno l'ha distolta. È una donna eccezionale e lei è intimamente fiera di sé e molto contenta della sua vita anche.»

«A me sembra, semmai, una persona malata, non una persona malvagia come tu, alla fin fine, dici. Tu ne fai una questione di giustizia, la giustizia in questa storia non c'entra.»

«Certo, il nodo è proprio questo. È più semplice far appello alla malattia che alla giustizia. È molto più facile uccidere impunemente che non dire voglio e pretendo. Lei si è servita della malattia per difendersi: un cumulo di frustrazioni che hanno trovato dei canali predisposti per scaricarsi.

«Sí, lo so, sono laureata in medicina, ma uno non può fare il suo mestiere ventiquattro ore su ventiquattro e la signora – mamma – ci ha chiesto un'opinione e non una diagnosi.»

Ascoltavo e guardavo profondamente sconcertata. Non vedevo madre e figlia da quindici anni, non mi aspettavo certo che dopo tanto tempo, senza preamboli, mi mettessero di fronte a un litigio in cui sembravano tutte e due molto tese. Mentre parlavano, poco per volta, avevo dovuto rendermi conto che mi consideravano al corrente della situazione. In qualche modo lo ero: avevo conosciuto la loro famiglia e avevamo convissuto. Un soggiorno professionale era stato, per questo immaginavano che io intuissi di che cosa stavano parlando. Le due donne infatti erano disposte a scatenarsi di fronte a me in una lite senza pudori, mentre sembravano entrambe reticenti sul nome della persona morta: se io avessi capito da me di chi si trattava, avrei perciò stesso confortato le tesi dell'una o dell'altra. Ero stata da loro come ricercatrice, sicché – pensavano – avrei dovuto avere in mano i mezzi per afferrare quel ch'era accaduto. Mi trovavo li non per caso, ma per far da testimone imparziale, da testimone professionale tra madre e figlia.

Per un verso io non volevo entrare nel loro gioco e per altro verso non ero affatto sicura di sapere a chi si riferissero. E dire che prima d'incontrarle avevo minuziosamente ripensato ai personaggi e agli eventi di quei mesi lontani.

Dovevo lavorare alla biblioteca e all'archivio arcivescovile di U., cercavo la storia dei comportamenti familiari: volevo ricostruire l'andamento dei rapporti madri-figli nel corso del tempo, a partire dal Seicento. Cosí avevo chiesto a una collega di trovarmi una casa per i mesi estivi. Lei ne aveva parlato alla signora Albanese (nonna di Anna e madre di sua madre), una signora che aveva una grande villa poco lontano da U., fresca durante il caldo. Avevo subito scoperto che gli Albanese erano grandi amici di miei amici di T. e che un loro cugino aveva lavorato, tempo addietro, per i miei suoceri, sicché la signora Albanese stessa mi aveva telefonato per dirmi che mi aspettava e che era felicissima di accogliermi nella sua casa.

In verità io avevo anche un altro progetto di lavoro in testa. Volevo raccogliere dati sulle madri di oggi, prima di studiare quelle del Seicento; e volevo raccoglierli attraverso l'«osservazione partecipante». Il metodo dell'osservazione partecipante era quello classico dell'antropologia d'inizio secolo; gli antropologi di allora erano andati in Polinesia e nelle Americhe ad osservare appunto direttamente le popolazioni lontane e diverse da loro. A differenza dei viaggiatori delle compagnie o dei mercanti, si erano inseriti nella vita dei gruppi etnici lontani, condividendone per lunghi periodi la quotidianità; di qui il nome non solo di osservazione, ma di osservazione partecipante: provare a condividere i comportamenti di altri, per capirli.

Non volevo andare lontano nello spazio, quanto piuttosto indietro nel tempo, ma volevo andarci per la strada giusta. Bisognava capire a fondo com'erano le madri di oggi per trovare quel che m'interessava nel passato, per sapere quali domande fare ai documenti in modo da ottenere risposte significative. A questo scopo avevo già fatto diverse interviste biografiche a donne intorno ai settant'anni, ma – avevo confidato alla collega – mi sarebbe piaciuto fare un po' di osservazione, vederle in azione, viverci insieme. Non avevo un piano di lavoro chiaro e preciso, volevo esplorare le possibilità che dovevano esserci. Avevo letto dei libri e questi libri qualcosa mi avevano suggerito, anzi il mio progetto non sarebbe nato se non li avessi letti, tuttavia era pur vero che quegli stessi libri avevano suscitato in me tantissime diffidenze: mettevano sí in luce delle cose, ma allo scopo di occultarne altre. Un viaggio in mezzo a questi luoghi nascosti a bella posta era più o meno il modo in cui immaginavo la mia ricerca. Ogni tanto questi propositi mi parevano vanamente presuntuosi: «la ricerca è un mestiere come un altro, perché io voglio farne una spedizione esotica?». Poi la curiosità aveva preso il sopravvento.

La signora Albanese fa al caso tuo. Visto che starai con lei un periodo, falle un'intervista e cerca di ricavare delle indicazioni, se il tuo progetto sia realizzabile. Le parlo io, stai tranquilla – mi aveva rassicurato la collega – sarà d'accordissimo, è una grande raccontatrice e ama molto raccontare.»

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