Capitolo I Anna Albanese racconta

La signora Albanese mi aveva dato appuntamento per le quattro del pomeriggio.

«La mia casa è un po' fuori del paese, salendo verso R.; la riconoscerà facilmente. Ha un alto muro di cinta, e, proprio all'inizio del muro, c'è un cancello con il mio nome.»

Il taxi sale per dieci minuti circa dalla piazza del paese, lungo la provinciale ombreggiata da grandi castagni; arrivo a una villa confusa nel verde, a metà fra un prato e un bosco. Mentre pago esce dalla portineria un uomo, prende la mia valigia, si avvia verso un'entrata di servizio e, indicandomi un'ampia scalinata, dice: «Prego si accomodi, la signora l'aspetta di sopra.»

Il muro di cinta è davvero molto alto, ha la funzione di contenere il terreno, ma anche di avvolgere, come in un anello, la casa. Lungo il muro sale una rampa di larghi e bassi gradini, che costringono il visitatore a girare intorno alla villa e a osservarla accostandosi, in modo che, quando vi giunge davanti, ha già negli occhi un'impressione, come accade agli spettatori nei momenti di attesa che precedono l'entrata degli attori, una volta alzato il sipario.

La facciata è molto lineare: un tetto moderatamente spiovente, due piani di finestre. Al piano superiore due finestre per parte, ai lati di un balcone; al piano inferiore di nuovo due finestre per parte, ai lati di una porta d'ingresso ampia, con un grande vetro di opalina bianco-azzurra. Porta e finestre del piano più basso poggiano su una vasta terrazza, larga quanto la casa, che costituisce il limite del terrapieno su cui la costruzione è stata elevata.

La terrazza è bordata da una balaustra di cemento a colonnine, sormontata da vasi di campanule. Una grande aiuola separa il muro di cinta dalla casa, vi sorgono due monumentali ciliegi di Spagna e un abete.

Tutto l'insieme, la casa, le piante, hanno qualcosa di non armonico, qualcosa di contraddittorio, sembrano capaci di mutare all'improvviso girando su se stesse, come le quinte e i praticabili di uno scenario. Guardo meglio, osservo più lentamente e vedo che i materiali (la pietra di fiume dei muri, le tegole di Marsiglia), la struttura tozza della costruzione, i legni pesanti degli infissi, hanno un aspetto solidamente montanaro: la casa è in tutto simile alle altre del paese. Tuttavia, se i materiali sono del luogo, cosí come le piante, la disposizione della casa, dei fiori, il senso estetico del giardino e dell'intera costruzione, il modo di presentarsi ai visitatori viene di lontano. L'intero quadro è riadattato, ogni pezzo sta in luogo di qualcos'altro che manca, ma a cui la padrona di casa non ha saputo rinunciare. L'abete, con il suo aspetto natalizio, fa con grande imbarazzo la parte di una palma, le campanelle non reggono il confronto con lo squillante e clamoroso ibisco; la rosa rampicante e l'edera imitano come possono lo strabocchevole fiorire di gelsomini e buganvillee. Solo i ciliegi di Spagna rossi e scuri sembrano un po' meno fuori luogo, un po' meno impari. La casa, inconsapevolmente destinata ad affacciare sul blu a perdifiato del mare, si trova invece di fronte una nera montagna incombente ed è grigia, ma sembra aspettare da un momento all'altro che la luce diventi abbagliante e la renda finalmente bianchissima come calce.

«Perché mi capita questa storia? Voglio essere qui? Direi di no.»

Ero andata in Francia con il preciso scopo di studiare le società contadine e ora stavo entrando in una villa. «Ti ho trovato una sistemazione principesca» aveva detto la mia collega. Non era quel che le avevo chiesto, ma se ora mi ci trovavo doveva pure avere un senso: i conti si fanno con quel che capita, non con quel che si sceglie. Le gambe e i piedi, leggermente appesantiti dall'esitazione, erano giunti in cima alla gradinata.

La mia ospite mi attende seduta su una poltrona di vimini in fondo alla terrazza, fa caldo e lei si rinfresca con un ventaglio, all'ombra delle piante della casa. Mi ha certo vista e osservata, guardando fra le colonnine della balaustra mentre salivo, ma non si muove. Una volta varcato il cancello sono entrata nel suo teatro d'azione, mi vuole dare il tempo di rendermene conto. Vado verso di lei; quando sono a metà della terrazza si alza e mi viene incontro. Dapprima mi sembra alta, è invece piccola. E piuttosto pesante, questo la rende maestosa, denuncia tutti i settant'anni che ha, ma i suoi movimenti sono armoniosi, elastici e sicuri. Porta la piccola testa bianca come un trofeo, si appoggia a un bastone per camminare, ma sembra che lo faccia per disegnare i suoi percorsi sul pavimento.

Quando siamo a pochi passi una dall'altra si ferma, mi fissa con due occhi marroni chiarissimi, tanto chiari che per un attimo mi sembrano azzurri. Mi sta misurando, mi sta soppesando, il suo sguardo velocissimo mi esamina dalla testa ai piedi, mi giudica pezzo per pezzo, mi scompone e ricompone per quel che appaio, per quel che tento di sembrare, per quel che sono. Mi sta vagliando con calma, non mi farà concessioni, passerà al setaccio ogni mia parola e ogni mio gesto. Porgendomi la mano mi sorride dolce e ironica: «Cosí giovane e carina non posso credere che sia un professore universitario!»

«La ringrazio; desideravo tanto parlarle e conoscerla.»

Ci sediamo in fondo alla terrazza intorno a un tavolo di vimini su cui c'è un vassoio pieno di bibite e dolci.

«In realtà anch'io l'aspettavo, quello che fa mi incuriosisce molto! – e, ridendo del tutto incredula, aggiunge – Mi piacerebbe contribuire alla costruzione della Scienza. Si sieda qui, queste poltrone sono molto comode e questo è un punto fresco, ho detto di non disturbarci, abbiamo tutto il tempo davanti a noi. Mi ha spiegato un po' la sua collega.»

Mi porge un piattino bianco e azzurro con del gelato di pesche e chiede, troncando i preamboli e gli indugi della conoscenza appena fatta: «Allora, di dove cominciamo?»

«Da dove vuole lei.»

«Lei è sposata?»

«Sí.»

«Ha figli.»

«Sí, due.»

«E suo marito?» Dopo una pausa e uno sguardo sorpreso e ammonitore: «Suo marito sopporta che lei se ne vada via, che lei sia qui a chiacchierare con me. Lo lascia solo con i figli? Via! Perché mette in pericolo la sua famiglia? Non crede che sia imprudente?»

«Sí e no. Sí, lo so, ma...»

«E allora cosa la spinge a correre questo rischio? I pochi aneddoti che io le posso raccontare?»

«Non so dirle esattamente perché. Ho tentato di rispondere a questa domanda, che mi viene spesso rivolta, ma non sono mai riuscita a spiegarmi bene. Molti anni fa.»

«Non possono essere poi cosí tanti! Quanti anni ha?»

«Venticinque, undici anni fa, quando avevo quattordici anni, ho deciso che volevo studiare e lavorare, mi piaceva pensare, non saprei dirle di più!»

«Capisco benissimo, a me piacevano tanto la poesia e la musica, non ho una precisa idea della filosofia e di queste scienze di cui si occupa lei, ma non sarà molto diverso.»

«Infatti.»

«Mi stava dicendo che ha deciso di studiare; e poi?»

«Sempre a quattordici anni mi sono innamorata di un ragazzo poco più vecchio di me, a ventidue anni mi sono sposata e sto cercando di non rinunciare né a pensare, né ad avere mio marito.»

«Lei è diventata triste. Io faccio delle domande che non dovrei fare!»

«No, sono io che non ho delle risposte che dovrei avere. Lei fa benissimo a chiedermi spiegazioni. Dobbiamo capirci, lei deve sapere che cosa cerco e perché.»

«Quanto tempo impiega a venire qui, da casa sua?»

«Sette ore.»

«Ma allora lei non vive qui?»

«No, vivo a T.»

«Non capisco. Come fa? Qualcosa non va con suo marito?»

«No.»

«Ma chi le guarda i bambini?»

«C'è mia madre.»

«Ah! E ancora giovane sua madre!»

«Poi c'è una donna – esitando e abbassando la voce, aggiungo – e poi c'è mio marito.»

Come mi aspettavo e come ben so mi guarda perplessa, mi guarda come un'insensata, mi guarda come un professore universitario.

«Suo marito? Beh!»

Tace, distoglie gli occhi da me, rivolge la sua attenzione a tazze e cucchiaini, ha un'espressione severa. So cosa pensa e so che questo è il momento cruciale dell'incontro. Se decide che sono un'irresponsabile sarà gentile, ma troppo sprezzante per dirmi qualcosa di veramente serio.

Tentare di giustificarmi ulteriormente sarebbe terribilmente incauto: mi ha capito benissimo, ogni altra parola suonerebbe come una conversazione e tramuterebbe il colloquio in un tè delle signore.

Sta giudicando della mia umanità, sta chiedendosi se so quanto vale un essere umano nel suo più bel fiore e io stessa me lo sto chiedendo, schiacciata dalla gravità della domanda, ma ben più dalla forza distruttiva della sua evidente risposta.

La signora Albanese ha gli occhi bui, intensi e distanti, lascia che il silenzio, con la sua consueta crudeltà, completi il messaggio. Con piccoli e morbidi gesti delle mani minute aggiusta i biscotti nel cestino. Come se non si rivolgesse a me, guardando se lo zucchero si è depositato in fondo a una brocca, inizia a raccontare con voce sommessa e sicura.

Anch'io vengo da lontano come lei e anch'io non so perché rimango qui. Ci sono cose che non si possono capire, ci sono cose che uno fa e continua a fare: alla mia età ho finalmente dimenticato com'è cominciato. Sono nata a N., in una casa del centro; mia madre mi ha partorita in una grande stanza con il soffitto a vela, da una parte affacciava sulla via e dall'altra su un cortile lastricato di piastrelle gialle e blu, pieno di piante di limone. Il ricordo più intenso è appunto il profumo dei limoni che saliva dalla finestra e il fresco dell'acqua di mare.

Ero una brava nuotatrice. Andavo al mare con mio fratello, da sola non era nemmeno concepibile. Correvo velocissima, mi lanciavo nel vuoto e poi giù nell'acqua che era uno specchio. Ero la sola ragazza che facesse i tuffi e per questo ero molto criticata.

Quando sono arrivata qui, a sedici anni, ero snella e flessibile (è il mal di cuore che mi ha fatto ingrassare), avevo quarantotto centimetri di vita e una gran massa di capelli neri. Ci mettevo più di mezz'ora ogni mattina a pettinarmi. Allora si facevano delle vere e proprie costruzioni con i capelli; e mi piaceva cambiare: un giorno alti a grandi volute, un giorno bassi sulla fronte, un giorno raccolti sulla nuca, un giorno a corona intorno alla testa.

Ho subito conosciuto mio marito, faceva parte di un piccolo gruppo di N. venuti a T., un gruppo molto unito, ci si incontrava spesso. Mio marito era nerissimo di capelli, di pelle e di baffi, aveva dei baffetti come usava allora, alla Rodolfo Valentino, aveva gli occhi grigi invece, molto chiari. Il suo sguardo era dolce com'era dolce lui. I miei non volevano che lo sposassi perché aveva un padre famoso in tutta T. per la sua prepotenza e il suo pessimo carattere. La moglie era morta molti anni prima, si diceva perché non lo poteva più sopportare. E poi la mia famiglia aveva pretese di cultura e di denaro e mio marito era benestante, ma il suo famigerato padre era un artigiano, un raffinato artigiano, un artista, ma non era laureato e questo spiaceva a mia madre e a suo fratello, che mi faceva da padre.

Mio zio una domenica mattina mi portò a fare un lungo giro in barca, poi ci fermammo sul fiume a pranzare e lui sempre mi parlava e mi parlava e mi spiegava che non dovevo sposarlo, che avrei passato le giornate a piangere, non per lui ch'era un bravo giovane, ma per la sua impossibile famiglia. Lui parlava parlava e io tacevo, tacevo. Di tanto in tanto s'interrompeva: "Non rispondi nulla?" diceva. E io: "Lo sposerò lo stesso."»

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