CAPITOLO XIV Una cameriera racconta: Maria e Giulio Rinaldi

«Quando sono arrivata a casa Y. ero piena di ammirazione per la signorina Maria, studiava, suonava il piano, aveva dei bellissimi vestiti. Lei era stata molto affettuosa con me, mi mostrava quel che faceva, per esempio io avevo guardato, sfogliato e imparato a conoscere con lei molti libri su cui studiava: fotografie di quadri dei più importanti pittori. Ero felicissima di quel posto, la famiglia Y. era molto colta e mia madre aveva scelto quella famiglia proprio per compensarmi un po' di non aver potuto studiare. Ben sapevo che il mio futuro non sarebbe stato né pieno di musica, né pieno di libri, ma non era capitato a tutte le mie amiche, che il bisogno aveva spinto a servizio in città, di trovare persone tanto istruite con tante belle cose a portata di mano.

Quando era comparso Giulio mi era sembrato che la fortuna di Maria continuasse e che quel fidanzato dall'aspetto tanto raffinato ed elegante era proprio quel che doveva toccare a lei. Grande era stata la mia gioia quando ero andata a vivere da Maria, grande il desiderio di aiutarla, perché Maria mi sembrava affezionata a me e io l'amavo molto.

Maria invece è diventata una moglie infelice. Appena sposata si era aggrappata a me come una disperata, come fosse stata abbandonata nelle mani di un mostro e io fossi la sua unica salvezza, poi, poco per volta, senza accorgersi, aveva deciso di spingere me nelle grinfie del mostro. La tragedia, la vera tragedia, è che lei non se ne rendeva conto e nemmeno lui, tutti e due non capiscono, non sanno quello che capita nella loro casa, ma io che lo vedo non ho potuto che fuggire.

La storia è cominciata quando lei si è messa a dirmi: "Diglielo tu a mio marito", "ti dispiace fare questo per mio marito?", "con te mio marito non si arrabbierà". Pur di non avere a che fare con lui, faceva spesso lavori che toccavano a me e io dovevo prendere il suo posto. Aveva cura di mandarmi a fare proprio quelle cose che, sapeva bene, lui avrebbe voluto che facesse lei.

"Mi piace molto come fai da mangiare" lui le aveva detto una volta e infatti era brava, ma da quel giorno, lei può non credermi, non ha mai più fatto da mangiare. Si metteva il grembiule verso le undici poi, invariabilmente, se lo sfilava e diceva: "Oggi non ne ho voglia, stiro io, fai tu qui."

Cosí suo marito arrivava e trovava me a preparare da mangiare. L'unica cosa in cui io non ho mai potuto sostituirla è stato il pianoforte, lei suonava talvolta, ma appena sentiva i passi di suo marito per le scale smetteva.

Io avevo tentato di tanto in tanto di dirglielo che sbagliava a fare in quel modo. "Che cosa dici?! Hai troppa fantasia" m'interrompeva prima che fossi riuscita a spiegarmi, seccata, nervosa e allora io avevo smesso di criticarla e facevo quello che mi diceva, senza discutere.

Dopo la nascita di Piero, la signora Maria era schiacciata da due opposti terrori, che suo marito la avvicinasse e che suo marito se ne andasse, abbandonandola.

Mi diceva continuamente che lei era ormai sfasciata, le gravidanze l'avevano sformata, non c'era più nulla del suo corredo che le andasse bene. Io dovevo prendere la sua roba, la sua biancheria di seta, le sue scarpe, sí perché le erano gonfiati anche i piedi, le sue camicette, i suoi vestiti, tutto. Abbiamo passato pomeriggi e pomeriggi a misurare, puntare spilli, allungare, accorciare. Lei cosí avara per tutto, aveva deciso che i miei grembiuli non andavano e mi aveva portato nella sua sartoria dove me ne aveva fatto fare diversi su misura. Poi mi aveva insegnato a truccarmi, a mettermi la crema nei capelli prima di lavarli in modo da renderli lucidi, a pettinarmi. Si divertiva tanto a passare quei pomeriggi di frivolezze, si comportava con me come fossi stata un manichino. Anche a me piaceva ed ero affascinata da tutti quei regali. Vestita che sembravo una principessa andavo per i negozi del centro per conto suo a fare gli acquisti e tutti mi trattavano come fossi stata lei, più nessuno diceva è la domestica della signora Rinaldi, "questa signorina lavora per la signora Rinaldi" dicevano i negozianti. Più io acquistavo in eleganza e disinvoltura, più lei si richiudeva fra le pareti di casa sempre con i suoi figli, sempre più sciatta e malinconica. Io me ne rendevo conto e avevo dei rimorsi nei suoi confronti, ma ero troppo eccitata per riuscire a rifiutare. Del resto, le assicuro, non avevo affatto capito dove lei voleva andare a parare, per meglio dire nessuna delle due si rendeva del tutto conto di quello che stava facendo. Quando ho cominciato a capire il più era fatto, si poteva solo cercare di uscirne e io ne sono uscita e dentro a quella storia io non ci torno.

Mentre mi vestiva e mi truccava, mi guardava come se lei fosse stata vecchia di cent'anni, e io la ragazzina a cui si apriva l'avvenire e a cui sarebbe toccato tutto quello che lei non aveva avuto, invece io avevo pochi anni meno di lei. Avrei dovuto essere io a invidiare lei e invece era lei che un po' per volta si era messa a invidiare me: "A te sta cosí bene" diceva ogni volta che indossavo qualcosa di suo.

E cosí la inevitabile conseguenza era che anche quel marito, che a lei stava cosí male, stesse bene a me.

Giulio io lo consideravo il padrone, il marito della signora Maria ed era cosí fuori delle mie possibilità come il pianoforte, gli studi e la vita della signora Maria, come mi parevano splendide cose la musica e la pittura cosí mi era parso uno splendido marito, proprio come io non avrei mai potuto avere. Lui era un tale signore che non aveva che rispetto per me. Quando le cose tra loro hanno cominciato ad andare male, io ho cominciato a difenderlo con la signora Maria e cosí ho cominciato a considerarlo meno impossibile per me. Pensavo e dicevo continuamente che lei non sapeva prenderlo, che io avrei fatto cosí e cosí, che lei lo faceva cattivo, mentre invece era una persona con molte più debolezze di quello che lei pensava. Lei un po' mi diceva che non potevo capire, un po' mi diceva, che io ero molto più paziente, comprensiva e capace di lei. In tutto il lungo tempo che lei ha sperato di riuscire ad amare suo marito, io l'ho conosciuto sempre di più, sono diventata sicura di sapere com'era, insomma mi sono innamorata io. Quando lei ha deciso di abbandonare la partita e si è fatta da parte, Giulio si è trovato davanti una persona che la sapeva molto lunga su di lui.

In questo modo non soltanto la signora Maria, ma anche Giulio ha cominciato a servirsi di me come intermediaria e io, lei può dire il contrario quanto vuole, sono rimasta la loro intermediaria.

"Lei non ha mal di testa, brava" mi diceva dapprima, poi, dopo la sarta, i trucchi e cosí via "Com'è elegante stasera."

La signora Maria aveva visto con i suoi occhi la situazione fra me e Giulio cambiare lentamente e quando aveva visto l'attenzione del marito verso di me prendere un'altra piega, aveva favorito in tutti i modi, tutto quanto poteva aiutarmi a sedurlo. Ero un'esca per farlo venire nel suo appartamento. Si precipitava a dormire quando lui rientrava la sera, non metteva piede nelle sue stanze e glielo diceva continuamente in modo che lui lo sapesse e se lo ricordasse e lo ripeteva sempre anche a me, in modo che anch'io lo sapessi e lo ricordassi. Stuzzicava la mia vanità con regali sempre più raffinati; aveva deciso che una cameriera elegante ha le scarpe di vernice con un po' di tacco e non porta i capelli sulle spalle, ma li tiene alti con dei pettini, non porta le calze di cotone ma di seta.

Ho cominciato a rendermi conto che aspettavo il ritorno di Giulio con ansia, poi mi sono resa conto che lui tornava a casa più regolarmente di un tempo e cercava me. Mi sono vergognata, ho pensato di andarmene, ma non ero più in tempo. Cosí ho concluso che sarei diventata la sua amante, ma a quel punto, quando cioè ero io e non la signora Maria a decidere che volevo aspettarlo anche se tornava tardi, volevo andare per lui a cercare la stoffa per le sue camicie, volevo per lui alzarmi i capelli, mettere i tacchi e il rossetto, mi sono resa conto che lei mi spiava, mi controllava e regolava ogni mia mossa. Ho cominciato a vedere la sua ombra scivolare dietro le porte quando, uscendo dalle stanze di lui, rientravo nella mia, ho cominciato ad accorgermi, che lei era sveglia quando Giulio cenava in mia compagnia, e ho cominciato ad accorgermi che sapeva cose che Giulio e io ci eravamo dette in sua assenza.

Per un verso lei voleva che finissi nelle braccia del marito al posto suo, ma per altro verso pensava ch'io non dovevo arrivare fino a questo punto. Mi spingeva verso di lui e stava contemporaneamente in agguato per sorprendere la scena che da mesi andava costruendo. Io me lo sentivo, anche se era lei ad avermi tanto vestita e se era lei ad avermi spinto avanti al posto suo, adesso non vedeva l'ora di rinfacciarmi che ero una sgualdrina.

La situazione era diventata troppo angosciosa per me e dopo anni di pazienza e di comprensione una certa rabbia mi era maturata dentro. Perché non avrei dovuto prendermi quel che mi veniva offerto, perché questa comprensione per loro e questa disattenzione di loro per me?

Ho scritto ai miei, dicendo che volevo fidanzarmi, che sarei tornata all'inizio dell'estate per questo. C'era da tempo al mio paese un ragazzo che mi faceva la corte e che mi voleva sposare. Era un mio compagno di giochi quand'eravamo piccoli, aveva lavorato di qua e di là per il mondo, era tornato e mi aveva detto che quando fossi tornata anch'io ci saremmo sposati. Io non gli avevo detto né sí né no, mio padre lo trattava bene perché era un buon lavoratore e aveva qualche mezzo, inoltre era un bell'uomo. Ho detto alla signora Maria che i miei mi avevano chiesto di andare al paese ad aiutarli un po' di giorni per dei lavori che dovevano finire e lei mi ha dato il permesso. Io sono andata al paese e mi sono fidanzata, abbiamo deciso la data, ci siamo accordati per le nozze, lui è venuto a cena dai miei. Alvise è un uomo semplice e schietto, quella sera stessa, salutati i miei, è uscito dalla porta ed è rientrato dalla finestra in camera mia.

Una settimana dopo sono tornata dai Rinaldi nella casa di campagna, per prendere quel che ritenevo mi spettasse, una piccola cosa ma scelta da me. Due giorni di sincerità completa dopo anni di finzioni, questo era il massimo che io potessi avere.

E lui, che cosa vuole ora? Vuole chiudermi in un elegante appartamento per venirmi a trovare di tanto in tanto, lasciando intendere a lei che viene da me, cosí lei lo spia e lo odia. Non mi cerca solo per me, mi cerca anche per far soffrire lei; è tanto intelligente e tanto istruito, ma questo non riesce a capirlo e io mi sono stancata di spiegarglielo e non sto più al gioco, anzi per dire il vero non ci sono mai stata, appena l'ho capito sono scappata. Lei è un medico, lei sa che non mento, lo spieghi a Giulio e lo convinca a lasciarmi in pace con mio marito. Anzi, la prego, gli dica che se per caso riuscisse ad allontanare mio marito da me, io non tornerò comunque da lui.»

«Non si poteva dubitare che era assolutamente irremovibile, e del resto io pensavo che avesse perfettamente ragione. Lo dissi a Giulio ed è da quella data che lui ha cominciato a comportarsi come tutti dicono.

Il dramma di Piero, mia cara dottoressa, non puoi farlo risalire ad Alda e a lei soltanto, il dramma di Piero è di non aver avuto un'educazione sentimentale. Quando è nato sua madre non amava più suo padre, se mai si può dire che l'avesse amato, e suo padre aveva ricavato dalla storia con quella donna una sorta di lesione affettiva, era diventato impermeabile ai sentimenti, li rovesciava in una grossolanità esasperata, molto umiliante per un figlio. Sicché Piero era del tutto disarmato di fronte a qualsiasi emozione.

Se le circostanze lo avessero consentito e Giulio avesse potuto sposare quella ragazza, sarebbe stato ben diverso per un figlio avere due genitori che si amavano. Sei convinta dottoressa?»

«No, non del tutto. Certo questa storia deve aver contato anche per Piero, ma uno non è i suoi genitori. Poi non credo che se il nonno Giulio avesse potuto sposare chi voleva sarebbe stato un matrimonio riuscito. Lui era innamorato perché i loro rapporti erano segreti, se fossero stati ufficiali, lui non avrebbe saputo trovare il modo di comunicarle il suo affetto e la sua sensualità come non riusciva con sua moglie. Se lei non si fosse decisa, non si fosse fatta avanti, lui probabilmente non avrebbe nemmeno conosciuto quei pochi momenti furtivi di affetto. Lei aveva fatto bene ad andarsene perché non si può e non si deve accettare di fare la parte di un'altra tutta la vita, ci si carica di odio e in un modo o nell'altro, quasi senza rendersene conto, ci si vendica. Questo è appunto quel che ha fatto Alda.»

«Testarda!»

«Lo può ben dire.»

Mentre ascoltavo il signor W. e la discussione fra lui e Anna, mi era lentamente tornata alla memoria una scena familiare.

Quando ero molto piccola e mio padre rincasava dal lavoro mi raccontava una «storiella», si sedeva lasciandosi affondare in una poltrona di pelle verde, mi sistemava sul bracciolo e tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi, per riposarsi della lunga giornata, mi raccontava. Nessuno doveva disturbarci, nemmeno mia madre aveva diritto d'interromperci. Quando la storia era finita mio padre la chiamava e lei mi portava a dormire.

La fiaba cambiava ogni sera, ma la trama in realtà rimaneva sempre la stessa: un lupo grande, grosso e feroce voleva catturare una volpe per mangiarsela. La volpe non poteva competere con lui quanto a forza, dunque non poteva contare che sulla sua intelligenza, se voleva avere salva la vita. Il lupo ogni sera inventava una trappola perfetta, la volpe apparentemente non aveva modo di sfuggirgli, ma quando ormai tutto sembrava perduto, con un guizzo d'astuzia la volpe riusciva a dare scacco al lupo e a dimostrare che era «uno stupido».

La fiaba non lasciava speranza su un'eventuale estinzione dei lupi e nemmeno di quel lupo: era chiaro che ci sarebbero sempre stati e che bisognava essere pronti ad affrontarli. Dalla storia si ricavava che l'eroismo è un comportamento inutile e sciocco, degno del lupo, ma se ne ricavava altresí che la fuga è il comportamento più pericoloso di tutti: scappare sgangheratamente, questo sí che avrebbe messo la volpe alla mercé del lupo. Uno ha l'intelligenza per cavarsi d'impaccio e non deve trovar scuse, ma concentrarsi bene e darsi da fare.

Io tenevo moltissimo a quella fiaba e rimanevo sempre molto delusa se mio padre tardava e mi toccava di andare a dormire, prima che rincasasse. Tanto ci tenevo che il mattino dopo, mentre in tutta furia mi accompagnava a scuola, io sulla macchina, nella confusione del traffico, cercavo di recuperare almeno un pezzo della storia.

Avevo sette o otto anni, un giorno a scuola c'erano gli esercizi spirituali e nel corso di una riflessione morale la maestra, che era una monaca, ci aveva cosí indottrinato: «Non so se ve lo debbo dire...?»

«Sí, sí..» avevamo pigolato noi, tutte curiose, perché queste domande precedevano sempre discorsi di sesso. E infatti la bonne soeur aveva proseguito: «Ricordatevi, ragazze, non trovatevi mai sole in una stanza con un uomo, mai, chiunque sia.» Io avevo subito pensato che la norma non poteva riguardare i padri e stavo per alzare la mano e chiedere questa ragionevole eccezione. Poi non l'avevo alzata perché, avevo pensato, forse l'ha detto proprio perché è orfana oppure perché è figlia di un signore che non conosce la storia della volpe. Infine, non senza spavento, avevo concluso che in realtà la monaca era il lupo in uno dei suoi soliti travestimenti femminili.

Nelle vicende dei Rinaldi erano in molti a non sapere la storia giusta: qualcuno aveva cominciato a raccontare la storia sbagliata, ben prima che Maria e Giulio si sposassero; e purtroppo non era stato smascherato.

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