SECONDO PROLOGO

Per anni avevo abitato a T. e insegnato a T., 560 kilometri tra l'una e l'altra città. A Venezia avevo cominciato ad andare quasi per caso. Liliana mi aveva fatto conoscere una ricercatrice di Venezia che era venuta all'Università di T. per discutere con me del suo lavoro, congedandosi mi aveva detto di andarla a trovare. Cosí avevo fatto, mentre ero sulla strada per tornare a T.

Conoscevo Venezia naturalmente, era stato il primo viaggio che io e mia sorella Paola da ragazzine avevamo fatto con i genitori: era un ricordo affascinante, ma Venezia era rimasta per me un posto che si va a vedere, ma dove non si abita e tanto meno si lavora.

La città cambiava ora d'aspetto per me. Poco per volta, avevo infatti cominciato a pensare che, dopo tutto, era la capitale da cui la città di U. un tempo dipendeva. Avrei dunque fatto bene a fare alcuni confronti fra provincia e centro: dopo tanti anni di viaggi a U., mi si aprivano davanti agli occhi nuove possibilità. La decisione dipendeva solo da me e interessava solo me: della mia ricerca nessuno s'interessava all'Università.

A ottobre, per gli esami, cominciai a fermarmi a Venezia. Ottobre e novembre sono rimasti i due mesi che preferisco: il cielo è terso, l'aria fresca, c'è una bella luce limpida e non ci sono più turisti. Il treno è semivuoto quando s'avvia sul ponte, da Mestre nell'acqua. Si oltrepassano delle attrezzature industriali poi ci sono degli alberi, dei cespugli e incominciano delle pozze d'acqua, quindi l'acqua aumenta finché dalle due parti è solo acqua e la città appare dopo un braccio di mare. Il segno distintivo di Venezia, anche nei porti istriani è l'aspetto del mare: sebbene sia calmo come un lago, non somiglia affatto a un lago, si avverte subito che non è chiuso, è aperto all'infinito, è senza limite e si avverte anche che la sua acqua non è insidiosa, non ha né gorghi, né mulinelli, né correnti sotterranee, è li come la vedi, scura, salata, abituata alle persone e alle cose, se ne va e torna, un po' verso il largo e un po' verso riva.

Mi piacerebbe una volta almeno arrivare come arrivavano i viaggiatori un tempo, prima che costruissero il ponte: doveva essere rassicurante calarsi in una barca con le proprie valigie e accostarsi lentamente alla città, mentre il remo spostava l'acqua sciacquettando appena e lo scafo scivolava senza rumore, dandoti l'impressione che l'acqua, capace di spaventose tempeste, fosse in quel luogo, il più sicuro degli elementi.

Quando arrivavo, prendevo il vaporetto fino a Rialto e andavo alla pensione San Fantin: piccola, pulita, a conduzione familiare, aveva un'aria di casa veneziana che bensí adattava al mio desiderio di essere del luogo. Posavo le valigie e uscivo subito: camminavo e camminavo, calle dopo calle, ponte dopo ponte, ascoltando i miei passi e le voci nelle case.

Avevo iniziato il lavoro passeggiando, come avevo fatto a U. Se a U. era stato utile, per entrare in contatto con la città, qui era essenziale. Le passeggiate fornivano infinite indicazioni, il fatto che lo spazio e la sua suddivisione fossero rimasti pressoché intatti rispetto all'epoca che studiavo, era un'esperienza nuova e ricchissima, oltre a essere un piacere incantevole.

Grande era stata la soddisfazione di scoprire, che fuori stagione la città sembrava di nuovo dei veneziani.

Quel giorno ero salita in treno e stavo pensando a un appartamento in Campo del Sol, vicino all'imbarcadero di San Silvestro che avevo appena visto, caro, ma tutto a posto. Che cosa si poteva vendere per comprarlo? Come persuadere i miei a venirci?

Ero sola nello scompartimento, una vettura vecchia, non ci si può aspettare niente d'altro su quella linea. Entra dopo un po' una giovane signora e si siede di fronte a me. Noto la sua borsa da viaggio di stoffa ricamata, il suo cappotto nero stretto in vita, lo scialle con delle rose viola, gli stivali con i bottoni. Si accerta che il riscaldamento funzioni, si toglie il cappotto, lo appende, sistema la borsa nel bagagliaio ed estrae da una cartella, fatta un po' come le borse dei medici del secolo scorso, un libro, si siede e si mette a leggere. Tutta la sua mise un po' madame Curie mi era piaciuta e anche il vestito, come c'era da aspettarsi, era bello: lana beige con foglie e bacche in vari toni dal viola al rosso bruciato. Anche il libro che aveva aperto era viola chiaro, era Gradiva di Sigmund Freud.

La scena nel suo insieme richiamava la mia attenzione e la mia simpatia. Non potevo fare a meno di pensare a me una diecina d'anni prima, era proprio andata cosí. Ero alla stazione di Venezia, aspettavo la coincidenza per T. in una giornata un po' nebbiosa, con la cupola di San Simeone velata. Pensavo che non avevo niente da leggere, cosí mi ero avvicinata al chiosco dei giornali per guardare i libri esposti, fra gli altri c'erano i Boringhieri piccoli, ne vedo subito diversi di Freud. Di Freud avevo sempre avuto gran paura. Ero passata dalla filosofia alla storia, dalla storia contemporanea alla storia moderna, dalla storia moderna all'antropologia, ci mancava ancora la psicanalisi! Avevo sempre pensato che Freud avrebbe finito con l'interessarmi troppo e l'avevo coscienziosamente evitato, soprattutto dopo aver vinto il posto all'Università. Mi sembrava di dover garantire un servizio di tutto riposo e di non aver più diritto di correre dietro a tutte le suggestioni che incontravo. Quel giorno mi lasciai persuadere: dopo tanti austriaci che avevo letto con l'idea che, andando a T., dovevo prepararmi l'animo, Freud non poteva mancare.

Scelsi Gradiva perché era un testo letterario, non era un testo di teoria psicanalitica, giusto per passare il tempo da Venezia a T. andava bene. Non avevo forse letto Doppio Sogno da T. a Venezia? Andando avanti l'uno, tornando indietro l'altro. E cosí lo comprai, alle dodici circa di un giorno di ottobre alla stazione di Santa Lucia. Fu l'inizio di un amour-passion, dopo Gradiva lessi tutti i casi clinici, sempre come racconti in treno, uno andando e uno tornando, poi passai alla Traumdeutung perché, in fondo, i sogni sono letteratura e poi, del resto, appena scendevo dal treno smettevo di leggere, a riprova del fatto che non intendevo occuparmi del meccanismo psicanalitico, ma di Freud come scrittore austriaco.

Tuttavia qualcosa del mio nuovo interesse doveva essere trapelato almeno in famiglia e mio marito e i miei figli, in occasione del mio compleanno, finirono di regalarmi l'opera completa in undici volumi. Pagina dopo pagina non ne avevo tralasciata nemmeno una, però, come la Clélia di Stendhal che faceva sempre l'amore al buio con il suo amante perché aveva fatto voto di non vederlo più, io non avevo mai letto Freud se non in treno. Dieci anni e oltre di pendolarismo ferroviario si potevano considerare qualcosa di più di una semplice tresca e del resto questa specie di rendez-vous in carrozza aveva consentito ripensamenti e rivisitazioni infinite.

Cosí quel giorno, avrei voluto dire alla mia giovane compagna di viaggio: «Ma lei sa in che avventura si mette? Ci pensi, ragazza mia, finché è in tempo.»

Osservandola mi convinsi che l'avevo già incontrata; viaggiando si rincontrano altri viaggiatori che fanno la stessa linea. Eppure me ne sarei ricordata meglio, chissà a chi assomigliava o dove potevo averla vista.

Il treno partì e anch'io mi immersi nella lettura. Mi resi conto ben presto che anche la sconosciuta mi osservava.

Prima di Padova si decise: «Signora scusi, lei non è forse L.A.?»

«Sí certo sono io.»

«Io sono Anna Rinaldi, si ricorda?»

«Veramente..., ma sí, sí certo che mi ricordo, mi stavo proprio chiedendo... Beh, adesso che lo so ti riconosco. Mi deve scusare, ma tu avevi... lei aveva quindici anni, è un'altra persona.»

Della ragazzina magra, pallida e timida che avevo conosciuto rimanevano i colori: gli occhi, i capelli, la pelle, ma l'aspetto complessivo era quello non solo di una donna in carne, ma anche di una persona disinvolta, con l'aria di chi se la cava nel mondo. Era Anna junior, la nipote di Anna Albanese, la mia ospite. Erano passati tanti anni e anni decisivi ed era ovvio che non l'avessi identificata.

«Come va, cosa fa da queste parti?»

«Faccio la specializzazione, anestesia e terapia del dolore, qui a Venezia c'è un centro importante diretto da... di terapia del dolore.»

«Ha studiato medicina allora?»

«Sí, sono laureata in medicina.»

«Vive a Venezia?»

«No a T. sono sposata con un medico e mio marito lavora anche lui a T. Ho due figli, una bambina di sei anni e un bambino di tre. E lei?»

«La mia vita è cambiata meno della sua, io continuo ad insegnare a T.»

«E come ricerca, che cosa fa?»

«Faccio una ricerca sulla famiglia. Ma mi dia notizie di tutti i suoi.»

«Allora, in campagna quell'anno c'erano: la nonna Anna, zia Antonella, i miei cugini, mia madre, mia sorella. Al sabato erano venuti mio padre e mio zio, poi erano venute anche l'altra mia nonna e zia Alda.»

«Ho conosciuto soprattutto sua nonna Anna.»

«Beh, mia nonna è morta sei anni dopo quell'estate.»

«L'ho saputo circa un anno dopo, è accaduto mentre mi trovavo in congedo in America. Mi è dispiaciuto molto!»

Non era solo per educazione che lo dicevo, molte volte avevo desiderato di rivedere e riascoltare quella signora.

«Quanti anni aveva?»

«Settantotto. In realtà si era stancata di vivere, a settantacinque anni le era venuto un infarto gravissimo e questo aveva terribilmente limitato i suoi movimenti e lei non lo tollerava affatto. Diceva "Dio ha una lista con i nostri nomi, quando viene la nostra ora tira una riga sul nostro nome ed è finita. Quando è arrivato al mio nome aveva la matita senza punta. Fatto sta che la riga non è stata ben chiara e io sono mezza di qua e mezza di là."

Quanto agli altri, mia madre fa con entusiasmo la nonna. Anche mia sorella ha due figli. Mia zia invece aspetta con ansia di fare la nonna, uno solo dei miei cugini è sposato e non ha ancora figli. L'altro è da sposare, è in America che studia marketing o management, queste cose. Mia sorella si è laureata in legge e fa l'avvocatessa a T. Ha sposato un disegnatore, che progetta impianti di illuminazione. Come le dicevo ha due bambini, uno di poco meno di tre anni e uno di sei mesi.»

«Suo cugino, il maggiore, Filippo mi pare che si chiamasse, è quello che si è sposato?»

«Sí.»

«E che cosa fa? Si è laureato in medicina come voleva sua madre?»

«Certo, qualche anno dopo di me, ma il suo vero compito è fare soldi, soldi a palate con degli apparecchi sanitari, attrezzature per medici. La laurea in medicina gli serve solo a piazzarli meglio.»

«E lo zio Raffaele, il fratello di sua madre?»

«Lo zio, fa l'architetto sempre più di successo. Ha fatto ville qua e là per tutta Italia.»

«Lo dice con tono critico. Perché che male c'è a fare ville?»

«È un uomo con molte capacità, forse avrebbe potuto fare cose più impegnative, le ville mi sono sempre parse un po' banali e un po' noiose. Sebbene riconosca che un paio di sue realizzazioni in Toscana mi sembrano veramente belle.»

«E suo padre?»

«Mio padre sta bene, anche lui ama sempre molto il suo lavoro, moltissimo direi. Gira il mondo per lavoro e lavora per girare il mondo.»

«E lei, lei legge Freud?» dissi infine.

«Io mi occupo di una medicina molto chimica, l'anestesia: sono dosaggi di sostanze.

Senza pretendere di addentrarmi leggo un po'. Lo faccio anche perché mi interessa al di fuori del mio mestiere, come cultura generale.»

«Ah!»

Il treno correva, c'era poca gente, nessuno era ancora entrato nello scompartimento e cosí avevamo tutto l'agio di chiacchierare: ero davvero molto contenta di questo incontro.

Le ragioni per cui avevo sospeso il progetto di lavoro che mi aveva portato a casa Albanese erano tante: incertezze sul modo di procedere, incertezze sulla mia preparazione, incertezze sugli obiettivi. D'altra parte in quegli anni avevo si fatto altre cose, ma sullo stesso terreno, sempre rapporti interfamiliari avevo studiato per altre strade. Non erano dunque mancate le occasioni per ripensare a episodi, scene, narrazioni di quei mesi lontani: il ruolo autorevole che la signora Albanese esercitava nella sua famiglia. Non meno memorabile si era rivelato il mio breve incontro con la signora Rinaldi: del tutto diversa dalla signora Albanese, alla fine mi era parsa altrettanto significativa. Nella mia mente le due signore erano diventate due punti di riferimento, due ben diversi tipi di donna a cui ricondurre le numerose donne che incontravo nelle mie letture e nelle mie ricerche. La signora Albanese presentava se stessa come una persona decisa a far valere le sue richieste rispetto ai familiari: era una matriarca esplicita. La signora Rinaldi invece non si presentava affatto, spingeva piuttosto gli altri a rappresentarla, non adducendo altra giustificazione alla sua reticenza che le abitudini riservate.

Chiacchierando, leggendo il giornale e bevendo caffè eravamo infine arrivate. Avevamo deciso di rivederci e Anna mi aveva detto che anche sua madre mi avrebbe incontrata tanto volentieri. Anzi era bene non rinviare ancora, cosí prendemmo un appuntamento, per il giovedí seguente alle cinque da sua madre.

Ero andata a casa con la sensazione di essere stata spinta finalmente dalle circostanze a riprendere il filo di pensieri e progetti che avevo un po' accantonato.

Il giovedí seguente, mi stavo preparando a uscire quando il telefono aveva squillato: «La signora L.A.?»

«Sí.»

«Sono Giorgio R., il marito di Anna Rinaldi, le telefono a nome di mia moglie. Mia moglie si scusa ma è costretta a rinviare l'incontro di oggi, è successa una disgrazia, la morte improvvisa di una persona. Mia moglie la richiamerà non appena possibile.»

Anna Rinaldi non si era più fatta sentire e pensavo che di nuovo i rapporti si fossero interrotti. Invece, era passato più o meno un anno, suona il telefono, è lei. Si scusa per il lungo silenzio, una serie di circostanze l'avevano indotta a rinviare il momento di rivederci e mi propone di fissare un nuovo incontro, sempre da sua madre.

Nel lungo intervallo trascorso avevo avuto modo di rivedere i miei pensieri, i miei ricordi, i miei appunti. Ero arrivata a casa dei Rinaldi con in mente i vari personaggi che componevano la famiglia, gli amici, l'ambiente.

La signora Emma era rimasta come l'avevo conosciuta, appena qualche capello bianco. Viveva in un bell'appartamento, grande e in pieno centro. Sia la casa che l'arredamento erano molto anonimi, con qualche punta di cattivo gusto, proprio come la figlia mi aveva fatto intendere nella conversazione in treno. Pensavo a una delle solite malignità tra figlia e madre, invece era proprio una abitazione fredda, anche se non mancava nulla. La signora Emma come persona era elegante e curata, aveva superato abbondantemente i cinquant'anni. Mi aveva accolta con autentica gioia: «Mi è spiaciuto tanto di rimandare ma sa, è stata una morte sconvolgente per tutti e cominciamo appena adesso a riprenderci.»

Avevo chiesto dunque che cosa era avvenuto, mi sembrava inevitabile, sebbene avessi subito percepito che la domanda calava in un'atmosfera di tensione.

La signora Emma aveva cominciato a spiegarmi: «La disgrazia è stata improvvisa...» La figlia, come se non aspettasse altro, l'aveva violentemente interrotta: «Ma quale disgrazia? Non è vero. Non accetto la vostra versione dei fatti. L'ha ucciso e ha nascosto gli indizi.»

«Li ha nascosti cosí bene che nessuno è più in grado di provare che è stata lei?» «Certo, è proprio cosí, mamma sai benissimo che tutti lo pensano.»

«Sei tu che lo pensi, soltanto tu...»

«Non le dia retta. È un partito preso, la odia, la detesta. Creda, anche lui era un uomo difficilissimo.»

«Lo so com'era lui, lo so che era pieno di problemi, lo so che aveva un sacco di torti, ma io a lei rimprovero proprio questo. Di non aver reagito, di non essersi fatta le sue ragioni, da sempre, subito, con forza. Non la teneva nel dovuto conto? Doveva imporsi, protestare, litigare, andarsene. Lei invece è rimasta e non per amore, come a te fa comodo credere, è rimasta per non perdersi l'occasione di farlo affondare. Tu non puoi negare questo, per anni l'hai vista e sai come faceva. Non puoi dire che non ricordi o che non capivi. Lei lo aveva sposato, lasciava intendere, per aiutarlo nei difficili guadi della vita, ma con quella sua faccia da eroina benigna in realtà lo teneva a pelo d'acqua e non perdeva occasione per farlo bere. Prima lo faceva bere e poi lo salvava, ma lo salvava unicamente perché potesse bere di nuovo e bere di più. Finché lui, con l'astuzia della disperazione aveva deciso di bere e bere e bere ed era riuscito a bere tanto da sparire sott'acqua una volta per tutte, esausto dei suoi soccorsi e finalmente salvo.»

«Per favore..., che cosa dici? Tu straparli... Ma se lei, poveretta, cercava di assecondarlo in tutti i modi. Ha rinunciato a una vita sua, per fare come lui desiderava. È stata esemplare, sei profondamente ingiusta.»

«Io ingiusta? Esemplare lei! Sí certo, lei verso di lui non aveva che crediti: lui non poteva chiedere di più. Non si può chiedere di più di tutto. Lui si è trovato pieno fino al collo di debiti, lui non aveva altro. Non poteva restituire proprio nulla, il suo compito era ricevere. E allora? Lui doveva dimostrare di aver capito che lei era il suo oggetto totale, l'oggetto che esaurisce tutti gli oggetti. Lui doveva riconoscerla in ogni cosa e in ogni persona. Lei era tutte le persone e tutte le cose, lui doveva stare con lei e solo con lei perché lei esauriva tutte le sue possibili richieste. E se lui si allontanava lei, che era tutte le sue persone e tutte le sue cose, lei rischiava di sparire, di non esistere più. Nulla doveva disturbarlo mentre lui constatava come lei lo completava perfettamente.

Lei non voleva niente perché voleva tutto. La totale dedizione è una voragine senza fondo in cui precipitano tutti quelli che si avvicinano. Una trappola tanto terribile perché chi la predispone non ha un disegno, non vuole catturare la preda, non saprebbe affatto che cosa farsene. Chi la predispone è in agguato e basta. Non ha altro scopo che veder precipitare la sua vittima, silenziosamente, senza aver fatto nemmeno un gesto, come una persona perfettamente innocente. Sono trappole costruite per anni,

con una precisione che non lascia scampo.»

«Santo cielo..., ma Anna, non sai proprio quello che ti dici. Guardi signora che invece si trattava di una coppia molto unita, si sono voluti bene, si sono fatti un'ottima compagnia. Mia figlia stravedeva per lui e non può rassegnarsi alla sua morte.

Come negare che lei gli voleva bene? L'ha adorato quell'uomo, era possessiva perché era innamoratissima.»

«Una volta o l'altra, di fronte a un discorso come questo esplodo per la rabbia.»

«E perché? Non ti sembra di esagerare?»

«Non esagero di certo...»

«Anna, francamente non capisco perché ti arrabbi tanto.»

«Non sono arrabbiata con te, sono arrabbiata in generale. So benissimo che non sei la sola a pensare quanto è stata altruista lei.»

Dopo quindici anni che non ci vedevamo, mi trovavo in mezzo a una violenta discussione della quale riuscivo a capire ben poco.

Avevo un ricordo piuttosto confuso della signora Emma, mi era apparsa in secondo piano in quei mesi passati con loro e per altro la tensione che avevo subito avvertito, non corrispondeva al ricordo che avevo di quel soggiorno. Anzi nella mia mente l'impressione di insieme che conservavo era di persone allegre, molto autoironiche. Interdetta, cercavo nella memoria gli elementi per ricostruire quella storia.

Emma e Anna Rinaldi stavano parlando della morte certamente violenta di un uomo sposato. Emma pensava si trattasse di un suicidio, Anna pensava si trattasse di un omicidio; la prima pensava che la moglie non fosse riuscita ad aiutarlo, malgrado tutti i suoi sforzi, la seconda pensava invece che la moglie lo avesse ucciso deliberatamente. La madre e la figlia litigavano, inconciliabili e io le stavo fra me e me confrontando con la capostipite, la signora Anna Albanese. Emma le assomigliava parecchio fisicamente, adesso ch'era grigia di capelli e un po' invecchiata e tuttavia non me la ricordava; Anna Rinaldi, la nipote, non aveva proprio nulla di sua nonna, diversa da lei ancor più di quand'era una ragazzina. Nondimeno, quando Anna, presa dall'impeto della discussione, si era alzata e si era messa a camminare per la sala, adirata e silenziosa, avevo immediatamente riconosciuto il passo deciso, ondeggiante e leggero con il quale la signora Albanese si muoveva. Era bastato questo preciso richiamo alla memoria, perché i sentimenti molto intensi e molto contradditori che l'anziana matrona suscitava in me si riproducessero. Si affacciava alla mia mente con insistenza l'ipotesi che la «moglie» più spregiudicata della famiglia fosse senz'altro lei, ma non parlavano di lei, giacché sapevo bene che suo marito era morto e da tempo quando l'avevo conosciuta. In realtà io stavo pensando a un'altra cosa, alla folla di uomini morti dei racconti della signora Albanese: aveva, almeno moralmente, eliminato suo padre («per me è morto il giorno che se n'è andato»); la zia Adelina aveva causato la fine del suo primo amante (e forse di numerosi altri) per non parlare della parte che aveva avuto nella scomparsa del suocero Albanese, Domenico Albanese; il padre di zia Adelina era improvvisamente morto giovane; il questore invaghito di Anna Albanese era stato anche lui folgorato da morte subitanea, proprio nel momento in cui alla signora Albanese non serviva più, anzi quando cominciava a darle fastidio. E tuttavia questi morti non avevano punti in comune con il morto di cui si stava parlando; i morti della signora Albanese scivolavano sotto terra senza dramma per semplici motivi di opportunità: quando nella sua regia la loro parte era finita, uscivano fuori di scena. La discussione che avevo davanti rivelava ben altre tensioni, tensioni oscure se madre e figlia le interpretavano in modo diametralmente opposto. Ciononostante continuavo a pensare che la donna (omicida secondo Anna Rinaldi) dovesse assomigliare alla signora Albanese, più o meno chiaramente immaginavo che questa morte fosse da imputare a una cattiva allieva della signora Albanese che aveva dato una interpretazione troppo letterale del suo personaggio. Un'ansia profonda si era impadronita di me. Anna Rinaldi, l'avevo appena visto, assomigliava a sua nonna e io sapevo che era stata la sua alunna prediletta, forse accusava tanto per difendersi da qualche responsabilità. Non poteva essere lei, non era questo che pensavo (suo marito stesso infatti mi aveva annunciato la «disgrazia» di cui ora stavano parlando) in verità mi pareva che lei volesse scuotersi di dosso i dubbi di avere sia pur poco in comune con quella «moglie».

«E Marta, non l'hanno nominata, ma sa il Cielo se non assomiglia a sua nonna! Mi dispiacerebbe troppo che fosse lei!» Il ricordo della signora Albanese associato alla tragedia di cui mi era stata data notizia, avevano evocato in me il vecchio sospetto che la signora Albanese fosse troppo spregiudicata per non essere pericolosa.

L'innegabile simpatia che nutrivo per lei mi aveva impedito a suo tempo di approfondire quest'ipotesi, sempre scansata con fastidio, nelle numerose occasioni in cui si era presentata. Anche ora fra me e me rasentavo da vicino la complicità vera e propria: «no, la responsabilità non risale a lei – mi dicevo – se risalisse a lei non ci sarebbero tracce, nemmeno la sua amatissima nipote troverebbe indizio alcuno; e se fosse una sua nipote non lascerebbe indizio alcuno.» Tuttavia, malgrado i miei disperati sforzi, la difesa della signora Albanese vacillava. Si faceva strada la triste ipotesi che questa donna (nonostante i suoi difetti) molto affascinante avesse (proprio con il suo fascino e per il suo fascino) irrimediabilmente danneggiato le persone che più amava: doveva esserci lei dietro le quinte del dramma. In verità – stavo faticosamente ammettendo – una persona aveva più di altre motivi di rancore, la «moglie» con i migliori motivi di rancore verso il marito era la «povera Antonella»; l'eventualità più probabile era che Antonella si fosse svegliata dal suo letargo, avesse scoperto quant'era umiliante la sua situazione e avesse deciso di vendicarsi. La frase che, non senza turbamento, era emersa dalla mia mente, quasi contro la mia volontà, suonava: «possibile che quella cretina le abbia ucciso il figlio? Quel bel figlio, a sua immagine e somiglianza!»

Non era la prima volta che avevo dei dubbi sulla parte che la signora Albanese si era assegnata nella sua famiglia, non sapevo se fosse positiva o negativa: troppo forti i toni della sua interpretazione per lasciar spazio a giudizi intermedi. Quindici anni prima me ne ero andata da casa Albanese con la sensazione di aver visto e capito molte cose, ma senza sapere se fossi stata parte di una commedia o di una tragedia.

Quella villa, quartier generale della signora Anna, si presentava alla memoria come un suo luogo di dominio sicuro e di trionfo. A un tratto mi chiedevo se non fosse stata, invece, il teatro di una sconfitta. Io, prudentemente, me ne ero andata quando ancora la posizione di Anna Albanese sembrava inespugnabile. Ora assistevo all'epilogo, alla devastazione prodotta da una battaglia che mi sembrava vinta, mentre era persa, che mi sembrava combattuta fuori e lontano dalla villa, mentre si era svolta lí, dentro quelle mura, senza che io me ne avvedessi. La verità è che sulle battaglie io avevo dei preconcetti, immaginavo un rumore infernale, fuoco, fiamme, urla, disordine, scompiglio inauditi, spaventose cortine di fumo che impedivano di distinguere gli amici dai nemici. Non immaginavo davvero che una quiete ovattata potesse essere il vuoto che faceva da sfondo a una guerra. I giorni identici uno dopo l'altro, lo scorrere regolato delle ore mi avevano fatto pensare a villa Albanese come a un territorio pacificato, invece quella calma era la calma ambigua del feudo cinto d'assedio e da tempo destinato a cadere.

Questi stessi pensieri – come dicevo – erano già parzialmente affiorati nella mia mente quindici anni prima, osservando proprio la casa di Anna Albanese. Anna Albanese non mi aveva mai fatto visitare la sua casa, semplicemente vivendoci dentro era capitato che entrassi più o meno dovunque. Tuttavia in certo modo mi aveva esortato a esplorarla da me sola ogni domenica mattina, quando lei andava a messa accompagnata da tutta la famiglia e «la servitù» era in cucina a preparare il pranzo. «Le affido la mia casa, a fra poco» mi aveva detto con un gesto largo del braccio che significava: «Ti lascio la mia casa a disposizione, se t'interessa guardala.» Non poteva significare altro quel gesto perché la domenica mattina la signora Albanese, in sua assenza, soleva «far arieggiare la casa»; le cameriere dopo aver riordinato aprivano alcune finestre e lasciavano spalancate tutte le porte delle camere in modo che l'odore acre della cera stesa sui pavimenti se ne andasse. La signora Albanese sapeva dunque che tutto rimaneva aperto; sicché «le affido la mia casa» detto con un'inflessione ironica nella voce, non poteva voler dire altro che «avanti, osserva come ti pare». Perché non mi aveva mai offerto di mostrarmi la casa e perché io non gliel'avevo mai chiesto, sebbene m'incuriosisse indubbiamente? Perché una zona strategica non è aperta al pubblico, né si può chiedere di vederla senza, in qualche modo, comprometterla. La domenica mattina quando aprivo la porta della stanza degli ospiti e mi apprestavo a scendere tutti erano usciti e la casa era insolitamente silenziosa. Camminavo lenta per non far rumore, volevo capire indisturbata la casa nella sua solitudine, come un guscio vuoto senza persone. Ero entrata meticolosamente in tutte le stanze, in ognuna il pavimento scricchiolava, in ognuna c'erano infiniti soprammobili, coperte a fiori, tende di pizzo, tappeti colorati. Ognuna apparteneva a persone diverse, c'era la camera di Antonella, quella di Emina, quella di Marta, quella di Filippo e cosí via. In realtà sebbene apparissero molto diverse, tutte avevano l'inconfondibile impronta di Anna Albanese: nessun'altra persona aveva sistemato nulla, se non come aveva stabilito lei. Se appena accelleravo un po' il passo e percorrevo le stanze in rapida successione non mi sembrava più di camminare in un'abitazione, le pareti e gli oggetti lo dichiaravano apertamente: «questi sono i possedimenti della signora Albanese».

Tutto (anche i corridoi e i ripostigli) rifletteva il suo gusto un po' eccessivo, ogni stanza era un po' stracarica, un po' strapiena e un po' casuale. La casualità era il tocco dello stratega. I soprammobili infatti erano troppi perché anche la padrona più precisa potesse ricordare esattamente dove erano collocati, ma soprattutto perché avesse un senso sistemarli sempre nello stesso modo. Invece nel mio giro di ricognizione, dopo due o tre volte, mi ero resa conto di come ogni cosa avesse un suo posto stabilito e cameriere, nuore, figlie, figli, ospiti, sapessero tutti dove ogni oggetto doveva stare e dove la signora Albanese lo voleva. Io stessa, pur senza esserne consapevole, avevo imparato subito com'erano collocati i «pezzi» nella mia stanza e me li ricordavo a memoria. Bastava che si guardasse intorno Anna Albanese per sapere se i suoi messaggi erano giunti a destinazione e per conoscere le risposte delle persone che vivevano e passavano in quella grande villa accogliente, aperta a parenti e amici. «Bello, non è vero?!» mi aveva detto una volta in salotto mentre osservavo un piatto cinese appoggiato sopra una mensola; io all'improvviso ero arrossita, non avevo il progetto di rubarlo, ma non lo stavo nemmeno guardando semplicemente, lo stavo desiderando. La domenica seguente ero molto attenta mentre camminavo e per la prima volta avevo avuto pensieri simili alle considerazioni che mi si affacciavano ora alla mente. Finestre e porte erano aperte, dopo essere lentamente scesa fino al pian terreno, avevo scelto la sala centrale, la più in ombra, per sedermi a leggere, faceva caldo. Fuori si era alzato un vento leggero, io ero lontana dalla finestra e la stanza era cosí grande che il fruscio delle foglie quasi non si sentiva, sembrava l'eco di un rumore molto più lontano. Cosí ero stata colta di sorpresa quando innumerevoli piccole macchie nere erano balzate sulle pareti e di lí avevano cominciato a salire e scendere con rapidissima agilità frenetica su tutti gli oggetti. La quiete quasi perfetta era stata interrotta da quel movimento senza rumore, le ombre delle foglie di tiglio mi sembravano truppe scatenate in una battaglia senza quartiere. A centinaia come ussari all'assalto si lanciavano sui ninnoli della signora Albanese, poi sparivano, messi in fuga chissà da chi, abbandonando dietro di loro il bottino appena conquistato. Là dove si affollavano, spingendosi e calpestandosi, dopo un attimo non c'era più nessuno. Quelle truppe nere – lo ammettevo apertamente solo adesso, ma come un turbine questi pensieri avevano attraversato la mia mente già allora – quelle truppe nere capaci di marciare sulle ceramiche e i cristalli senza romperli, di pattugliare un salone senza travolgere nemmeno un tavolino, suggerivano un modo diverso da quello militare di concepire una battaglia. Nello stile della signora Albanese lo scenario non prevedeva clamori, ma silenzi capaci d'identificare i suoni più lievi; l'aria non aveva odori acri, ma profumi filtrati da cortine di pizzo; al posto del fango cera tirata a lucido. Devo dire che feriti malgrado l'assenza assoluta di sangue, ne avevo identificati parecchi, ora apprendevo che c'era anche un morto.

Ero prostrata dalla fatica di ragionare a tutti i costi per parare un colpo, che supponevo stesse per colpirmi seduta in una grande poltrona, avevo appoggiato la testa e distolto lo sguardo da Emma e Anna Rinaldi. Gli occhi lentamente avevano guardato intorno e riesaminato un'impressione del primo momento. Appena arrivata in casa di Emma Rinaldi avevo in effetti pensato quanto la casa della figlia fosse diversa da quella della madre. C'era molto spazio, pochi oggetti, nessun pizzo; sedie, poltrone e mobili noti per disegno e attribuibili per certo ad architetti qualificati, arredi che non mancavano in tutte le migliori case di T. Niente era di troppo, tanto che quella casa avrebbe potuto essere di chiunque. Costosissima di certo aveva un aspetto spoglio e disadorno, la sua perfezione testimoniava una ricchezza anonima, al posto di quegli oggetti avrebbero potuto essere; altrettanti gruzzoli di monete e al posto nostro altre tre persone: entrando uscendo, non c'era nulla che si dovesse spostare e se anche qualcosa fosse andato fuori posto, in una qualsiasi rivista specializzata di buon livello, chiunque avrebbe potuto scoprire come risistemare tutto. La casa di Emma Rinaldi, nata Albanese non aveva nulla di quella di sua madre, come se la targhetta sulla porta che diceva soltanto RINALDI avesse cancellato insieme al nome anche l'influenza della signora Anna. Quando avevo suonato il campanello avevo pensato: «Rinaldi per modo di dire, in realtà sto suonando da Albanese» e mi aspettavo proprio che la porta si aprisse su un'esagerazione di colori e di cose. «Ho sbagliato! – mi ero detta per un attimo al dischiudersi dell'uscio – Eppure lei le somiglia, ma alla casa cos'è successo? La casa no, la casa, eppure la targhetta dice...» La targhetta diceva per l'appunto RINALDI e non ALBANESE e diceva la verità. Un'impressione di perfezione disadorna era esattamente la prima impressione che avevo avuto della villa Rinaldi, vedendola dalla terrazza della signora Anna. Il morto apparteneva a casa Rinaldi e non a casa Albanese ne ero certa, ora che avevo capito come erano andate le cose potevo anche ascoltare di chi si trattava.

Quando madre e figlia avevano cominciato a raccontarmi quel che era accaduto avrei desiderato saperne di più, tale era nondimeno la tensione dell'alterco e tale l'ansia dentro di me che le avevo interrotte: «non voglio assolutamente che continuiate questa discussione, mi scuso per essere stata involontariamente indiscreta.» Per vincere l'imbarazzo mi avevano a lungo chiesto di me, di mio marito e dei miei figli, dei miei viaggi e delle mie ricerche. Alla fine eravamo capitate a parlare di come erano cambiate di come me le ricordavo e di come ricordavo tutti gli altri. La situazione si era decantata, la tensione fra madre e figlia si era ridotta e Anna aveva concluso: «Le racconterò per esteso come è andata la parte triste della storia della nostra famiglia. Lei conosce tutti i personaggi, ma le mancano alcuni elementi, che si sono resi chiari poi. Quando lei ci ha conosciuti quel che è capitato si poteva solo vagamente intuire.»

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