1. La luce di Verdi

I tre ragazzi camminavano lesti in fila indiana. Giacomino era in testa, capelli al vento, e segnava il passo con energico ritmo, com'era suo dovere. Infatti, quella, per così dire, passeggiata di oltre venti chilometri dalla nativa Lucca a Pisa, vituperio delle genti, l'aveva ideata e organizzata lui, scaldando col suo entusiasmo la incertezza dei due compagni ch'erano Carniccio Carignani e Gigi Pieri.

«O ragazzi» aveva detto «la settimana prossima a Pisa c'è l'Aida. S'ha a andarci?»

«In che modo?» aveva chiesto Carignani.

«O che tu non le hai le gambe come me e San Francesco quando sellava il suo cavallo?»

«Giusto, ma la strada è lunga e non siamo abituati.»

«Basterà che ci alleniamo durante queste sere.»

E nella notte stessa cominciò lo strambo allenamento che consisteva in una specie di caccia al tesoro. Il tesoro era un mezzo toscano che Giacomino forniva e nascondeva sul basso capitello d'una colonna di Santa Maria Forisportam, dov'era l'Istituto Musicale. Partendo da un chilometro distante, con passo regolare i tre amici dovevano arrivare sulla piazza della chiesa, e là, al via, spiccare la corsa a chi arrivasse primo a ghermire la preda. Per offrire alla conquista quel Vello d'oro, Giacomino non aveva che un sistema: sottrarre i soldini destinati alla madre dalla cartuccia che gli davan le monache Benedettine dette de' Servi, quando suonava l'organo. E poiché la Badessa s'era messa d'accordo con la mamma che la cartuccia, ossia il rotolino di soldi – per precauzione – l'avrebbe sigillato d'ambo i lati prima di consegnarlo al giovinetto organista, costui aveva trovato un suo curioso sistema per far saltare il sigillo, provvedersi del necessario e riapplicarlo intatto.

Più tardi il trucco fu scoperto e salvati cielo, ma per quella settimana le cose procedettero bene e i toscani necessari all'allenamento non mancarono mai. Il giorno sospirato della Aida, finalmente arrivò. E in quel settembre del '76 i nostri tre campioni podisti, assetati di musica verdiana, abbacinati più che dal sole dal miraggio di poter assistere al grande avvenimento, erano sulla lunga strada polverosa ricchi di giovinezza e di energia. Giacomo, nato nel 1858, aveva dunque diciotto anni. Gli altri, su per giù, la stessa età.

«Siete stanchi?» egli chiese.

«Per niente.»

«Siamo già a San Giuliano. Non mancano che nove chilometri.»

«Un'inezia.»

«Avete fame?»

«Certo che sì…» ma non s'osava dirlo.

«E allora, una piccola sosta, se volete, là, all'ombra degli ulivi, e apriamo il cartoccio dei viveri.»

Mancavano ancora tre ore allo spettacolo quando giunsero a Pisa, tappezzata di enormi manifesti col titolo dell'opera che era arrivata anche là dopo il grande trionfo scaligero del '72 a pochi mesi di distanza dal trionfo del Cairo. Il capolavoro aveva dunque impiegato quattro anni per offrirsi all'ammirazione dei Pisani. Ma Giacomo pensava che se i Pisani veder Lucca non ponno, egli e i suoi due compagni Lucchesi potevano, camminando bene bene come nelle fiabe, veder Pisa e l'Aida.

Forse quel che l'aveva irresistibilmente trascinato in quella audace impresa gli ribolliva fatalmente nel sangue per destino atavico: il sogno del teatro.

La generazione dei Puccini, infatti, discendeva da Celle, frazione di Gello, ch'è un piccolo paese montuoso alla destra del Serchio, in Comune di Pescaglia.

Di là, nei primi anni del '700, calava alla pianura il padre del primo musicista della dinastia, quel Giacomo Puccini che, nato a Lucca nel '712, dopo aver studiato a Bologna con Giuseppe Carretti, diventò in pochi anni celebre per le sue composizioni sacre e fu nominato dalla Serenissima Repubblica Lucchese direttore di Cappella della Cattedrale. Ora avvenne che avendo egli saputo che il suo stipendio era perfettamente uguale a quello del boia, chiese che la retribuzione fosse, almeno simbolicamente, aumentata ed ottenne che un panino da un soldo venisse aggiunto al suo mensile, tanto per mantenere le debite distanze tra il carnefice e l'organista del Duomo.

Egli ebbe un figlio, Antonio, che incamminò alla musica, anche a costo di duri sacrifici, dato che nelle Mandatarie del 1768, conservate nell'Archivio di Stato di Lucca, si legge che il 23 giugno di quell'anno il Governo della Repubblica accordò a Giacomo Puccini un prestito di scudi 200 da restituirsi a scudi due al mese, per far studiare, a Bologna, Antonio. Il quale, studiando, si innamorò della bellissima Caterina Tesei, valente compositrice e suonatrice d'organo, e la condusse in sposa a Lucca. Antonio Puccini, che prese il posto paterno, musicò anche tredici composizioni teatrali, sicché fu il primo operista della famiglia e passò la sacra face al figliolo Domenico che, anche lui, alternò i Kirie e i Tantum ergo alle opere profane, tra cui un Quinto Fabio e La moglie capricciosa. Morì a soli quarantaquattro anni, lasciando la giovine moglie Angela Cerù con quattro bambini, fra i quali Michele che contava tre anni. E da Michele Puccini, nel 1858, nacque il secondo Giacomo, ossia Giacomo il Grande.

Alla morte del nonno Antonio, anche Michele era stato mandato a Bologna discepolo di Stanislao Mattei, che fu maestro di Rossini. Dopo due anni passò a Napoli sotto la guida di Mercadante e Donizetti che lo rimandarono a Lucca esperto in composizione e contrappunto. Qui sposò Albina Magi, sorella ad uno dei suoi migliori allievi, Fortunato Magi che, con Carlo Angeloni – poi maestro di Giacomo – col Rustici e il Marsili, il cui figliolo sposò più tardi la Nitteti, altra figlia di Michele, uscirono dall'Istituto Musicale Pacini, dove egli era stato nominato insegnante.

Quando cessò di vivere, a cinquantun anni, nel '64, la moglie Albina che ne aveva trentatré rimase con sette bimbi da allevare e mantenere: Otilia, Tomaide, Iginia, Nitteti, Giacomo, Ramelde e Michele non ancora nato quando il padre morì. Lutto enorme per Lucca e solenni onoranze. Dinanzi alla bara, Giovanni Pacini, l'autore della Saffo, nel commosso discorso, ricordò il «tenero garzoncello, solo superstite ed erede di quella gloria che i suoi antenati ben si meritarono nell'arte armonica e che forse potrà egli far rivivere un giorno». E concluse con impeto presago: «Tutta questa desolata famiglia appartiene alla Patria nostra. Chi potrebbe abbandonarla? In Dio la fede, in voi la pietà».

Anni tremendamente duri per la povera Albina, che affrontò con potente coraggio il tragico futuro. Tanto che uno dei primissimi biografi pucciniani, Carlo Paladini, ebbe a scrivere: «Dice una fiaba dei nostri monti che, quando muore il capo di casa, tutti i giorni le bare mandano i loro panni funebri per asciugar le lagrime della vedova e degli orfani.» Le bare debbono aver mandato molti drappi funerari in casa Puccini per asciugare lagrime così copiose. Ma la giovane vedova vinse il dolore mettendosi faccia a faccia con la sventura. Visse di sacrifici, lottando sempre e trovando nell'educazione dei suoi piccoli poesia bastante per affrontare la prosa crudele dei bisogni materiali, temprando l'anima eletta ai più crudi combattimenti. Quando qualcuno scriverà un libro sulle madri celebri, la mamma di Giacomo, modesta e ignota, avrà certo la sua storia d'onore.

Giacomo, nella sua prima giovinezza, non aveva proprio voglia di far nulla. Per levarselo di casa ed imporgli una disciplina di cui era intollerante, la madre era riuscita a farlo accettare prima nel Seminario di San Michele e poi in quello di San Martino. Tentativi inutili. Gran marinar la scuola per correre sulle mura a preparar laccetti e infilar panie sugli ippocastani, per i passerotti. La mamma disperata. E allora lo zio Magi pensò di portarsi Giacomino per le chiese dove egli suonava l'organo e di farlo cantare da contralto. Quando stonava, ed avveniva spesso, eran potenti calci negli stinchi, che lo zio gli sferrava. Finché un giorno, convinto che con la voce non se ne cavava nulla, dichiarò scoraggiato alla sorella che Giacomo per la musica non aveva proprio nessuna tendenza.

«Possibile?» si chiese con il cuore stretto d'angoscia la signora Albina. Essa s'era prefissa di fare almeno del figliuolo un modesto organista, tanto da campare. E per non togliersi anche questa speranza ne parlò all'Angeloni perché se lo prendesse all'Istituto Musicale.

Carlo Angeloni, ch'era fra l'altro un appassionato cacciatore, fino dalle prime lezioni, per conquistare il discepolo, cominciò a discorrere con lui di vischio, di richiami, di civette e di lodole. E in breve si stabilì – tra loro –sì intensa simpatia che il maestro poteva fare di quel ragazzo tutto quel che voleva, persino un organista, com'era tradizione di famiglia.

Ma in quel momento, là davanti al Teatro, Giacomo s'infischiava delle musiche sacre, degli antenati e persino delle monache de' Servi che l'avevano caro e dopo le funzioni gli offrivano fumante la cioccolata. Non pensava che all'opera. Era l'Aida che voleva sentire e per sentirla bisognava escogitare il sistema d'assistere, senza pagare, ché non ne avevan uno, allo spettacolo.

A toglier di pena se stesso e i due amici, vinta l'innata timidezza, Giacomino si diresse al portiere piantato sull'ingresso, chiedendogli d'un fiato: «Dica: potrei parlare all'impresario?».

«Al sor Boccioni?»

«Proprio a lui.»

«Ora non è possibile. È là dentro al botteghino.»

«Gli è che dovrei consegnargli una lettera urgente. Son venuto da Lucca apposta per recapitarla in mano propria. Se mi lascia passare, ho qui con me due amici, ce la sbrighiamo subito.»

Il portiere capì, sorrise sotto i baffi e disse con magnanima bontà: «Passino pure».

Il gioco era riuscito. Appena varcata la soglia, evitando il botteghino, i tre ragazzi sgusciarono all'assalto della scala della galleria.

Il teatro era ancora buio e deserto. A guardare da lassù pareva un baratro immenso e pauroso. A tratti s'udiva dietro il sipario il picchiar dei martelli dei macchinisti che davan gli ultimi tocchi all'impianto delle scene. E ad ogni colpo, Giacomo sussultava come se qualcuno gli battesse sulle spalle per cacciarlo via. Dopo un'ora d'attesa furono atterriti dal vociare di gente che saliva. Avevano fatto porta e la folla a fiumane correva a prender posto. I ragazzi il loro posto ben centrale, in faccia al palcoscenico, se l'erano già preso e meritato. Ma non si sentirono sicuri fino a che, all'otto e mezzo precise, il direttore d'orchestra, battendo tre colpi sul leggìo, diede l'attacco.

Silenzio religioso e misterioso. Giacomo s'aspettava che l'opera s'aprisse con squilli alti e trionfali. Quando dilagò invece quel pianissimo di violini, dolce e lieve come un battito d'ali, trattenne il respiro e si premette il cuore che pareva scoppiargli di commozione. Un'onda di poesia l'avvolgeva e trascinava in un'atmosfera irreale, sempre più in alto, sempre più lontano. E di mano in mano che l'opera procedeva, era una febbre intensa che gli bruciava il sangue, un'ebbrezza di sogni, di speranze, di volontà, una sete ardentissima di gloria, di splendore, in un mondo vastissimo, tutto da conquistare. Verdi gli parve un Dio potente e protettore che guardava a lui, tapino lassù, e misericordioso, con la sua sacra mano, gli apriva le bronzee e chiuse porte d'una strada infinita.

L'anima del giovane Puccini, quella sera, certo comunicò con l'anima del Grande.

E al ritorno, nella notte limpida e stellata, che profumo possente veniva dalla Versilia e dalla Garfagnana!… La strada era leggera e tutta canora. I motivi verdiani alitavano sospesi fra terra e cielo, carezzavano i cipressi e gli ulivi. Nessuno dei tre ragazzi ardiva di parlare per non rompere l'incanto che avevan chiuso in cuore, visione insuperabile e incredibile di bellezza perfetta. Fantasmi di guerrieri e sacerdoti, di egiziani e di etiopi, di flabelli, di idoli, d'inconsuete trombe venivan loro incontro, sorgevano e svanivano a ogni passo.

Le chiare acque del Serchio si tingevano di azzurrità di Nilo e i cespugli diventavano palmizii e le Apuane prendevano l'aspetto dell'immenso Ftha, tanto invocato, dominatore dei destini umani. San Giuliano, Rigoli, Ripafratta, Montuoro e finalmente, all'alba, l'alta torre dei Ghinigi, le verdi mura di Lucca, sì cupe e massicce da sembrare la cerchia d'una grande prigione.

Nasceva il giorno quando gli amici si separarono davanti alla casa dei Puccini, nella stretta e tetra via di Poggio.

Una figura diafana s'affacciò alla finestra:

«O Giacomo, sei tu?… Sei ritornato?».

«Sì, mamma…»

Ma poi, salendo le scale buie ed umide, il ragazzo, come se volesse imprimersi una decisione maturata in quella notte, mormorò a se stesso: «Mamma, sono tornato, ma per poco. Presto ripartirò».

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