2. La festa di San Paolino

Si dice che San Paolino, che fu il primo vescovo della città e in onore del quale i Lucchesi fecero costruire una chiesa da Baccio da Montelupo, sia stato l'inventore delle campane. Ma in quel mattino del 29 giugno '77, i sacri bronzi fecero a gara per proclamare alta la gloria del Santo inventore. Non era ancora spuntata l'alba che già tutti i campanili della Lucchesia si svegliavano chiamandosi l'un l'altro, a tocchi lenti e gravi e martellati, da prima, poi a sommessi concertini garruli, poi addirittura a distesa, con un'esaltazione che aveva bisogno di sfogarsi. E il frastuono solenne dilagava incessante a far balzar dal letto fedeli e miscredenti, devoti o toscanamente implacabili bestemmiatori. Su tanto scampanìo affrettava il passo la gente del contado che da ogni viottolo sfociava a frotte nella strada provinciale e si andava incanalando in pellegrinaggio verso la chiesa del Santo Patrono.

Intanto a poco a poco nella piazza, tutt'intorno al sagrato, s'aprivano le baracche e i banchi d'un mercato chiassoso ed inconsueto, e alle finestre e ai balconi si drappeggiavano a vivaci colori gli orifiammi per la processione.

Insomma festa grande di devozione e di divertimento. Ché, messa l'anima in pace col buon Dio e col Patrono, più tardi, tutta quella gente si sarebbe riversata nelle osterie e, dopo il concerto della Banda, avrebbe visto Lucca accendersi di mille luminarie e splendere di fuochi artificiali.

Per Giacomo fu quella una gran notte insonne. Le prime luci lo trovarono desto a pensare ai casi suoi e a pregare ansioso San Paolino che gli concedesse la grazia di una grossa rivincita.

Pochi mesi prima si era inaugurata a Lucca una memorabile esposizione di tesori d'Arte Sacra. E per l'occasione era stato bandito il concorso per un Inno sul tema «I figli dell'Italia bella» che cominciava così: «De' tuoi figli, Italia bella – Uno il voto ed uno il core – Che rifulga la tua stella – dell'antico tuo splendore». Tra i quattro concorrenti era Puccini, il quale non solo fu bocciato ma consigliato dai giudici di tornare a studiare.

Smacco grande, non tanto per lui, quanto per la madre che in quell'Inno sperava molto. Ma Giacomo la consolava dicendole: «O mamma, non la si confonda. Dimostrerò ben presto che asini son loro».

E per dimostrarlo si buttò a comporre un Mottetto da eseguirsi solennemente in chiesa per la festa del Santo Patrono.

L'Angeloni aveva giudicato quella composizione eccellente, anche se un po' teatrale. Ma la riserva aveva, in fondo, fatto molto piacere al maestrino.

«Bene» aveva risposto «son contento che si senta che dalla cantoria volo verso il teatro.»

Da San Paolino, l'implorata grazia fu concessa: il Mottetto trionfò. E se non fosse stato ch'era in chiesa, al finale sarebbero scoppiati grandi applausi.

Pur tutti, piano piano, mormoravano: «Questa, sì, che è proprio vera musica…».

«Musica della Casa…»

«Questi Puccini, la melodia l'hanno nel sangue…»

«Di padre in figlio, sempre di bene in meglio…»

«È un giovane che farà…»

«Sarà una gloria di Lucca, quel ragazzo…»

Del Mottetto si parlò tutto il giorno: nei crocchi, nei caffè, nelle osterie, alla passeggiata sulle mura, durante il concerto della Banda municipale. Un successone unanime. Ed otto giorni dopo sul foglio locale Il Moccolino, un lungo articolo del dottore Nicolao Cerù, che chiudeva con questa frase tipicamente toscana: «È inutile negare che i figlioli dei gatti pigliano i topi».

Questo dottor Cerù ch'era il prozio di Giacomo perché la nonna Angela Puccini nasceva una Cerù, aveva oltre a un gran cuore una gran barba bianca e un'altezza gigantesca. Essendo agiato, quando morì Domenico, fu lui che aiutò la disgraziata Albina coi suoi piccoli che gli si stringevano attorno con tenero affetto. A Lucca lo chiamavano il babbo dei bimbi poveri, e i bimbi lo guardavano estatici dal basso in alto come fosse un cipresso od una torre che si piegava in due verso di loro, piccoli e tapini. In compenso i monelli si sbizzarrivano a tracciarne le più goffe caricature sui muri col carbone, abbinandolo spesso con Don Pernice ch'era il prete più piccolo di tutta la diocesi.

Fu a lui che si rivolse Giacomino dopo il successo, con la scusa di ringraziarlo per il bell'articolo del Moccolino, e attaccò a bruciapelo:

«Sa che lei ha ragione?… È proprio vero».

«Vero che cosa?»

«Che i figlioli dei gatti piglian topi.»

«L'ho scritto per incoraggiarti.»

«Ma io del coraggio ne ho da vendere… E come figlio di gatto voglio ghermire dei topi grossi così, che sono nelle chiaviche di Milano.»

«Di Milano?… O che c'entra?»

«Sì, caro zio… È là che voglio andare. Lo dice anche il mio Maestro Angeloni che qui ci creperei d'inedia, ed è tempo che entri in quel Conservatorio.»

«A dirlo si fa presto… E i soldi… intendo dire i bigei

«Questo è il punto.»

«Appunto.»

«Lo dice anche la mamma che per andare occorrono dei bigei… Ma viceversa è per far dei bigei che vorrei partire… O che non sono partiti a centinaia, a migliaia, da Lucca, quei figurinai che in America hanno fatto fortuna e son tornati, alcuni, ricchi sfondati che si sono comprate le più belle ville dei dintorni?… Ecco… se un giorno anch'io… non si sa mai…»

«Verrò a casa stasera, e ne riparleremo con tua madre.»

Alla sera, in via di Poggio, consiglio di famiglia a cui partecipò anche il fratello Michele che s'era messo a studiar musica lui pure e appoggiava il progetto della partenza di Giacomo, covando in cuore il segreto desiderio di poterlo un giorno o l'altro raggiungere alla capitale lombarda, dove si era fissato che avrebbe dato lezioni di canto a molte americane.

La mamma, con trepida delicatezza, pure mettendo in primo piano la necessità del denaro, si guardò bene dal chiederne al Cerù, che, d'altronde, non guazzava nell'oro nemmeno lui. Anzi premise subito: «Tu, per noi, hai già fatto troppo. E se Giacomo s'ostina a voler partire, ora che con l'Aida s'è montato la fantasia del teatro, so bene io quale via si potrebbe seguire».

«Quale, mamma?…» chiese Giacomo pieno di speranza.

«La via della Regina.»

«E dov'è, mamma, questa strada? Vuoi dirmelo?»

«Non a Lucca, figliolo, ma a Roma, dove, in Quirinale, batte un gran cuore, quello di Margherita che, m'han detto, è sempre pronta a proteggere gli artisti… Ora, proprio questa mattina, ho scritto alla marchesa Pallavicini, dama di Corte, esponendole il nostro caso perché se ne interessi. Sono certa che lo farà. Perciò, se la Regina concederà il sussidio, tu puoi partire e che Iddio ti protegga. In quanto a me, sono pronta al sacrificio di perderti, se questo è il bene tuo.»

Così concluso, la riunione si sciolse. E dopo un paio di settimane di ansiosa aspettativa, tutta Lucca venne a sapere che la bontà regale aveva accordato a Giacomo Puccini ben cento lire al mese per un anno, perché potesse entrare nel Conservatorio di Milano.

Nell'autunno del 1880, la partenza fu una dimostrazione di fede in quel ragazzo che lasciava la sua città natale, e gli amici, il fratello, le sorelle, la mamma, per tentare il gran passo. E intorno allo scompartimento di terza classe c'era una folla degna d'un sovrano.

Il Carignani e il Pieri piangevano, invidiavano e giuravano che l'avrebbero raggiunto non appena raggranellati i mezzi. Lo raggiunsero infatti e lo seguirono poi, per tutta la vita. Carignani, da prima diventò un valente direttore di orchestra e fu poi il riduttore di quasi tutte le opere pucciniane. Invece il povero Pieri, che di musica non aveva mai voluto saperne, a passo a passo raggiunse la carica di direttore dei Telegrafi di Stato.

Molti giorni passarono prima che arrivassero notizie in via di Poggio. Ma finalmente, ai primissimi d'ottobre, ecco l'attesa lettera:

Cara Mamma, per ora non ho ancora saputo niente della mia ammissione al Conservatorio perché sabato si aduna il Consiglio per deliberare circa gli esaminati e vedere quali possa ammettere. I posti sono molto pochi. Io ho buone speranze, avendo riportato più punti. Dica al mio caro Maestro Angeloni che l'esame fu una sciocchezza, perché mi fecero accompagnare un basso scritto di una riga, senza numeri e facilissimo, e poi mi fecero svolgere una melodia in re maggiore che mi riuscì felicemente. Basta, è andata anche troppo bene. La melodia era questa…

E qui Giacomo tracciava un pentagramma a penna e sopra vi scriveva: «Soggetto dato», e poi, su una fila di puntini: «di qui in giù è mio».

Angeloni, al quale la madre sottopose subito l'autografo, sorrise e disse: «Benissimo. Sarà ammesso senz'altro».

La signora Albina di ciò non dubitava. Ma le premeva invece di sapere come il suo Giacomo si fosse sistemato in quella baraonda che doveva essere Milano, come se la passasse e se mangiasse abbastanza. E gli rispose pregandolo di darle notizia di tutte queste cose importantissime. Il figliuolo la rassicurò subito:

La sera, quando ho palanche, vado al caffè, ma passano moltissime sere che non ci vado, perché un ponce costa quaranta centesimi. Però vado a letto presto. Mi stufo a girare su e giù per la Galleria. Ho una camera bellina, tutta ripulita, con un bel banco di noce a lustro ch'è una magnificenza. Insomma ci sto volentieri. La fame non la pato. Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni, brodo lungo… e seguitate. La pancia è soddisfatta… Oggi è una giornata pessima, tempo noiosissimo. Sono stato a sentire la Stella del nord colla Donadia e il Fra Diavolo di Auber col celebre tenore Naudin. Però ho speso poco. Alla Stella ho speso poche palanche in galleria e al Fra Diavolo niente perché m'ha dato un biglietto il Francesconi, quello ch'era impresario a Lucca.

Tutto a posto, dunque, anche la pancia, e un vivere per bene, da gran bravo ragazzo preoccupato solo di istruirsi ascoltando le opere anche a costo di rinunciare al ponce ch'era la sua passione e a Lucca se lo beveva ogni sera.

Adesso non restava che aspettare notizie positive sull'ammissione.

E un bel giorno arrivò la cartolina:

L'esame è andato bene. Sono riuscito il primo. Il sedici dicembre cominciano le lezioni.

Nient'altro, ma era tutto. Alla mamma, che aveva gli occhi lustri, parve che per quella festa del suo cuore le campane di Lucca sonassero a distesa come in quell'alba luminosa di San Paolino. E il vecchio zio Cerù, quando lesse le righe, esclamò raggiante: «Non te l'avevo detto?… I figlioli dei gatti sanno pigliare i topi».

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