21. L'opera che Puccini non scrisse

Come non mi è possibile immaginare un Verdi non circonfuso dell'aureola della sua leonina e imponente vecchiezza, così non potrò mai concepire un Puccini che non sia eternamente giovane. Anche se penso che oggi, sedicesimo anniversario dalla sua tragica fine nella Clinica di Brusselle, il 29 novembre 1924 egli avrebbe ottantadue anni, non mi riesce di figurarmelo gravato dal decadimento fisico, in contrasto con la sua fresca essenza spirituale che mai aveva cancellato quel riflesso murgeriano che, dalla Bohème, era rimasto in lui caratteristico. Sempre lo rivedrò col soprabito dal bavero rialzato, il cappello un po' storto, il passo leggermente claudicante, traversare la Galleria, o piantato all'aria aperta in larghi calzoni da cacciatore, trionfante di salute, scrutare traverso il lago in faccia alle Apuane il levar delle fòlaghe, beato di quella solitudine che gli era sì cara.

Anche se talvolta diceva che era vecchio e che si sentiva franar giorno per giorno il terreno sotto i piedi, lo diceva senza convinzione, in quei momenti di sconforto che affioravano quando gli mancava la materia librettistica e più intensa pulsava l'accanita ansia di lavorare. Affermava che il lavoro era l'unica medicina per vivere alla meno peggio. Scriveva d'aver sempre portato con sé un gran sacco di malinconia… pene d'anima e scontento perenne. Ma il sacco era buttato allegramente all'aria e le pene e lo scontento seguivano quel sacco e volavano via, se nelle lunghe notti silenziose poteva abbandonarsi al tormento gioioso della ricerca di una melodia.

Crear musica a vuoto non sapeva. Mai ha fissato, per tenerli in serbo, delle idee, degli spunti, dei temi. Egli aveva bisogno di vedere i suoi «carnefici burattini» –come chiamava i personaggi – affacciarsi a quella finestraccia ch'era il grand'arco scenico. Di vederli e sentirli palpitare, di patire con loro, di prenderli per mano e accompagnarli e travolgerli nel cerchio magico del disperato amore. E di amarli, a sua volta, covarseli nel cuore, che era ben di là che germogliavano le sue ispirazioni musicali.

Quante volte m'ha detto: «Io ho più cuore che ingegno». Quante volte ammoniva, toccandosi con l'indice il petto: «Convincetevi che tutto deve partire di qui, se si vuole creare qualche cosa che prenda e che resti».

Perciò la ricerca d'un libretto era sempre faticata e richiedeva press'a poco tre anni tra l'una e l'altra opera. E quel perdere tempo lo struggeva, anche se, dopo aver fissato e trama e situazioni in pieno accordo, noi si tardava a spedirgli i versi. Per qualche giorno stava zitto in attesa, ma poi non resisteva e scriveva così:

Caro Adamino, è sera. Metto le mani sul pianoforte e mi si sporcano di polvere. La mia scrivania è una marea di lettere. Non c'è traccia di musica. La Musica?… cosa inutile. Non avendo libretto, come faccio della musica? Ho quel grande difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena. Se fossi un sinfonico puro, ingannerei il mio tempo e il mio pubblico. Ma io?… Nacqui tanti anni fa, tanti, troppi, quasi un secolo…e il Dio Santo mi toccò col dito mignolo e mi disse: «Scrivi per il teatro – bada bene – solo per il teatro», e ho seguito il Supremo consiglio. M'avesse designato per qualche altro mestiere, forse non mi troverei come ora senza materia prima.

E poi, quasi agitasse la frusta per svegliarci, ci rimproverava:

O voi che dite di lavorare per me e che invece fate tutt'altro, chi dei films, chi delle commedie, chi poesie, chi articoli, e non pensate come dovreste ricordarvi di un uomo che ha la terra sotto i piedi e che si sente sfuggire ogni giorno, ogni ora il terreno come una frana che lo travolge!… Mi scrivete delle lettere tanto carine e incoraggianti… Ma se invece m'arrivasse un atto di questa Principessa di princisbecco, o non sarebbe meglio?… Mi ridareste la calma, la fiducia e la polvere sul pianoforte non si poserebbe più, tanto lo pesterei, e la scrivania avrebbe il suo bravo foglio a mille righe.

E concludeva:

O cittadini, pensate più sul serio a chi in campagna aspetta.

Ma alla fine di maggio del 1924, Puccini era contento, sereno, soddisfatto. La Principessa di princisbecco si poteva considerare già finita. Non mancava che l'ultimo duetto, ma la partitura, fino a quel punto, era lì bell'e pronta nei suoi paginoni larghi che il Maestro, sfogliandoli, pareva carezzasse. In quanto a stendere la musica finale non si preoccupava. Era tutta abbozzata a larghi tratti. Per svilupparla e fissarla bastavan pochi giorni e alla prima rappresentazione alla Scala mancavano dei mesi. Mai Puccini era stato sì riccamente in anticipo.

Anche quel mal di gola, s'era convinto che dipendesse da un fatto reumatico e che, coi primi caldi, se ne sarebbe andato. Perciò, niente paura. Meglio non pensarci, ma pensare invece a gettare le basi per un'opera nuova.

«Adesso che sono un povero vecchietto» mi disse un giorno, sorridendo della sua stessa affermazione, «non ho affatto intenzione di gingillarmi anni per trovare un soggetto. Meglio provvedere subito. Così, mentre finisco e m'occupo della organizzazione di Turandot voi, con Simoni, potreste prepararmi una trama. Le mie idee le conoscete. La nostra triplice unione deve continuare. Voi sarete sempre i miei attaccaticci-vento-bovini…»

«Cioè?»

«Intendo i miei colla-bora-tori…» E il gioco di parole di cui spesso si dilettava, gli piacque moltissimo. Poi continuò: «In complesso non vi ho neanche torturati gran cosa. Siete voi che, se mai, qualche volta avete torturato me, facendomi aspettare il pane della poesia per il mio companatico di musica… Adesso, di aspettare non me la sento più… Troppi anni sulle spalle!…».

Sì. Noi conoscevamo le sue idee, ma quelle generiche. Egli sentiva, cioè – e lo sentiva tanto più dopo la Turandot – che il melodramma doveva rinnovarsi, incamminandosi per strade non battute. Che bisognava evadere dal verismo della sua precedente produzione. Rinunciare alla formula, affrontare il vasto campo della fantasia. Sorprendere con quadri magari fuori d'ogni realtà, pur sempre in atmosfera di umanità e poesia. Solo che, per salire dal generico al concreto, quale orientamento sull'epoca, l'ambiente, il colore, Puccini poteva darci? Glielo chiesi per lettera. Rispose:

Chiaro non saprei dirvi… Ma voglio che, appena abbandonata, al suo destino la nostra Principessa crudele, pensiate subito a me. Voglio una cosa – moderna o antica poco importa – ma nuova e variopinta. Voglio discorrerne con voi. Ci intenderemo e insieme troveremo.

In queste poche righe c'erano tanta fede e volontà da affermarci la certezza di vedere presto nascere l'opera nuova. Puccini stesso sentiva maturata in sé l'evoluzione di cui la musica di Turandot costituiva la prima tappa.

L'intermezzo di Rondine aveva segnato la fine della formula della sua prima maniera. Il Trittico imprimeva già più solidi passi. Turandot piantava un solco profondo. Come il suo gran predecessore Verdi, la vecchiaia avrebbe aperto a Puccini vasti orizzonti stupendi.

Corsi subito a Viareggio. Si parlò. Seppi quello che avrebbe desiderato. Le laccature cinesi che coprivano i settecenteschi paraventi veneziani, i paludamenti pomposi che camuffavano da grotteschi ministri imperiali le antiche maschere lagunari, avevano affascinato il Maestro, guidando il suo pensiero verso le dorature di San Marco.

La nuova opera doveva aver per sfondo Venezia. Ma non, per carità, la stucchevole cipria coi nei e l'occhialino. Una Venezia piena di riflessi patetici, commoventi, poetici, profumati come i fiori pendenti da un'altana, o cupi e torbidi come lo sciabordare dell'acqua contro i marmi levigati di un rio misterioso.

A un certo punto trasse da un cassetto una rivista francese palpitante di nudi femminili. La sfogliò lentamente, fermandosi a una pagina che recava un quadro audacemente suggestivo. E me la porse: Venezia. Un rio remoto, battuto dalla luna. Una grande finestra armata d'inferriata. E, dietro, in piena luce, aggrappata alle sbarre, una fanciulla scapigliata e ignuda che inarcava il suo corpo flessuoso in procace offerta a un ragazzo rematore che sostava là sotto, torcendosi di spasimo, con le braccia protese verso quella visione inafferrabile.

Immediatamente il pensiero mi riportò al romanzo di Pierre Louys. C'era in quel quadro un nitido riflesso de La femme et le pantin. Ricordavo che molti anni prima, fino dal 1904, Puccini era stato per un momento attratto da quel soggetto torbido. E ci si era appassionato al punto che aveva chiamato a Torre del Lago il poeta Maurice Vaucaire per tracciarne insieme una riduzione librettistica. Lui stesso, anzi, ne aveva fissato il taglio dei quadri, efficacissimo. Ma poi, come avveniva spesso, a libretto finito, non gli piaceva più; l'aveva abbandonato. E quella Conchita rimasta senza musica più tardi fu data a Zandonai.

Era dunque un ritorno in altra forma alla remota idea? L'offerta della veneziana attraverso le sbarre della finestra non si ricollegava alla perversa scena del cancello di cui Pedro squassa disperatamente i ferri che gli contendono il possesso della piccola perfida spagnola?

Lo feci osservare al Maestro. Non si turbò. Ribatté:

E perché no? Perché non creare una favola remota, con protagonista, mettiamo, una giovane patrizia tormentatrice d'uomini, che finisca col trascinare al parossismo e magari al delitto un gondoliere che, per capriccio, ha affascinato mostrandosi così, nelle notti lunari?… Pensate ai Pozzi, ai Piombi, al Consiglio dei Dieci, al Ponte dei Sospiri, alla condanna a morte fra le colonne di Marco e Todaro in Piazzetta… Pensate a un finale con scoppio di passione e trionfo d'amore, tra la folla… Non so… Dico così per dire… Vi espongo a sbalzo delle idee che mi frullano in testa… Intanto vi regalo la rivista. Mostratela e parlatene a Simoni… Un sogno veneziano… mica male anche il titolo… Pensateci… Qualcosa nascerà.

Ma parlarne era tardi.

Il sogno veneziano naufragò nella morte.

Quando l'ombra implacabile scivolò nella clinica al suo capezzale, le mani irrequiete del Maestro si mossero sul bianco lenzuolo, come a segnare il ritmo di una inafferrabile melodia.

Giacomo Puccini chiudeva la sua vita lavorando, creando ancora. «L'unica medicina per vivere alla meno peggio» diceva «è lavorare.»

Ma in una notte di desolazione aveva tracciato dei versi, poi nascosti, che cominciavano così:

Quando la morte
verrà a trovarmi
sarò felice
di riposarmi…

In quel riposo eterno portava via con sé l'ultimo canto, che nessuno udrà più.

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