20. Attorno al Maestro che si spegne

«Niente, niente, Maestro… Non si preoccupi: è un forma reumatica… Faccia dei gargarismi, qualche pennellatura… Eccole la ricetta.»

Questo il giudizio di un medico di Viareggio, chiamato a visitarlo per quel male di gola che da giorni gli dava tanta noia. Qualcuno gli chiese: «Non può darsi anche, dottore, che si tratti d'un riflesso del famoso osso d'oca?».

«Sì… Anche questo può darsi.»

Per spiegare la storia dell'osso d'oca, bisogna risalire all'anno precedente. In quell'estate Puccini aveva combinato col figlio Antonio e gli amici Magrini una lunga gita in automobile attraverso la Svizzera e la Foresta Nera. In un pomeriggio di agosto la comitiva fece tappa ad Ingolstadt, sulle rive del Danubio, ma non trovò più camere. Gli alberghi erano tutti rigurgitanti. Fu allora che Giacomo, vinto ogni riserbo e timidezza, volle dimostrare ai compagni di viaggio che il suo nome valeva pur qualche cosa. Tornò all'albergo principale dove erano stati rimandati con un «tutto esaurito», chiese del proprietario e gli disse:«Lei, per caso, ha mai sentito la Bohème, la Tosca, Butterfly?».

«Come no!» rispose l'albergatore assai stupito. «Io adoro la musica di Puccini.»

«Questo mi fa piacere, perché Giacomo Puccini sono io in persona. Ho con me degli amici. Siamo senza alloggio e senza mangiare. Vuole accoglierci lei?»

Dieci minuti dopo Giacomo e compagni erano principescamente installati con tutti gli onori che l'ospite meritava.

A pranzo venne servita arrosto un'oca colossale. Nel divorarla con avidità, un piccolo osso si piantò in gola a Puccini sì malamente che pareva soffocarlo. Accorse un medico che dovette, per l'estrazione, ricorrere alla sonda. Molta paura, ma poi tutto passò. Senonché, durante il viaggio la ferita rimase dolorante. E adesso, fra le tante ipotesi, il fatto tornava a galla come una delle possibili causanti del male. Nessuno poteva prevedere che ben altra e ben grave fosse la malattia, che di mese in mese cominciò ad allarmare. Eppure, egli scriveva ancora lettere piene di gioia e allegrezza. Era felice che Turandot fosse alla fine, tutta pronta e strumentata fino alla morte di Liù. Era felice che Mussolini l'avesse nominato senatore, e annunciandolo firmava «Giacomo Puccini – Senatore del Regno». Era felice d'essersi riabbracciato con Toscanini dopo un lieve screzio della precedente primavera. Era felice di aver acconsentito che l'opera fosse messa nel cartellone della prossima stagione scaligera. Ai primi di settembre mi scriveva:

È partito or ora di qui Toscanini. Dissi il sì per la Scala. Avrò fatto bene? Riprenderò il lavoro interrotto da sei mesi, e spero di arrivar presto alla fine di questa benedetta Principessa. Ora ho l'orizzonte più chiaro per tutti i sensi. Con Toscanini siamo in perfetto e simpatico accordo e finalmente respiro. Così è finito l'incubo che mi sovrastava fino dall'aprile. Quello che gli ho fatto sentire gli ha fatto buonissima impressione. Si è parlato anche del duetto. Forse Toscanini convocherà Simoni e voi a Salsomaggiore. Verrò anch'io e si studierà la situazione. Bisogna uscirne perché ora ho l'acqua alla gola…

Da Salso venne a Milano; in una sala all'ultimo piano della Scala, fece sentire l'opera. Il suo viso era stanco e smagrito, così come l'aveva disegnato poco tempo prima una giovine pittrice veneziana, Lina Rosso, che il Maestro aveva accolto con affettuosa cordialità. Il ricordo di quell'ultima apparizione di Puccini alla Scala fu, due mesi dopo, rievocato da Renato Simoni con queste righe:

Negli ultimi giorni del settembre 1924, alla Scala egli suonò davanti ad Arturo Toscanini gran parte della sua Turandot. Toscanini ascoltava e poi commentava, con una affettuosità così delicata, così sollecita, che si sarebbe detta presaga. E nessuno, invece, sapeva nulla! Nesuno vide la morte che era in agguato. Puccini accompagnava a mezza voce la musica, un po' curvo sulla partitura. Era l'ora del crepuscolo, l'ora delle pallide tristezze. Ed ecco quella è di lui l'ultima immagine che resta nel grande teatro dove trionfò tante volte: un uomo che, nella quiete della sera, dice le ultime parole della sua arte, chino sul pianoforte, con la voce un poco stanca.

Al ritorno a Viareggio la sentenza, e l'inizio della tragedia.

2 novembre: è fissato un consulto a Firenze. I professori Gradenigo, Toti, Bianchini, Torrigiani sono concordi nella diagnosi. Una sola speranza di salvezza: la clinica del professore Ledoux, a Brusselle, che possiede la maggior quantità del radio miracoloso.

4 novembre: il Maestro, che ignora la verità, parte per il Belgio. La moglie Elvira, malata di bronchite, si reca a Milano per avere più rapide comunicazioni telefoniche. Il figliolo, desolato, affranto, accompagna il gran padre soffocando con viso sorridente la sua angoscia. Durante il viaggio, sbocchi di sangue. Per nasconderlo a Antonio, Giacomo getta l'un dopo l'altro dal finestrino i fazzoletti inzuppati.

7 novembre: Puccini entra nella Clinica di Avenue de la Couronne. E subito mi scrive su un cartoncino intestato: Caro Adamino, ci sono… Povero me!… Dicono che ne avrò per sei settimane. Questa non ci voleva! E Turandot… Nello stesso giorno il prof. Ledoux lo visita, stabilisce la cura: intanto applicazioni esterne con un collare che circonda la gola. Poi, se sarà necessaria, l'operazione chirurgica, immettendo all'interno gli spilli di radio. Il Maestro può uscire. Può distrarsi. Infatti, nel pomeriggio esce. Va al cinematografo. La sera dopo al teatro della Monnaie si dà la Butterfly. Puccini assiste. È visto ed acclamato.

I Reali del Belgio si interessano ogni mattina del suo stato di salute. A visitarlo in Clinica si recano l'Ambasciatore d'Italia Orsini-Baroni e Monsignor Micara, Nunzio Apostolico. Da Milano arrivano la figlia Fosca, la signora Carla Toscanini, Carlo Clausetti della Casa Ricordi.

10 novembre: Puccini appare sollevato. Afferma di sentirsi assai meglio. Quel collare gli dà molta noia e spera di poterselo assai presto togliere per sempre. Continua a uscire dalla Casa di cura. Quella mattina è stabilita una colazione fuori. Passando col figlio e con gli amici dal mercato, sosta davanti a un banco di beccaccini. Dice: «Appena guarito ne voglio fare strage». Si rivede in Maremma e nella macchia di Migliarino. Ripensa alla sua casa, ai pini abbandonati.

Per dieci giorni, tutto procede quasi regolarmente. Egli scrive al Magrini: Caro Angiò… solito tran-tran: collare, inalazioni, non appetito, tre cuscini a letto… Speriamo che mi salvino.

20 novembre: Antonio è chiamato d'urgenza dal professor Ledoux. Gli dice che giudica necessaria l'operazione. Il figlio trema, impallidisce. Il medico conclude che la fortissima fibra del Maestro resisterà, ma non resta che questa soluzione. È necessario non perder tempo: fra un paio di giorni al massimo. Prepareremo insieme il paziente a sottoporsi all'atto chirurgico.

Puccini, decisissimo, acconsente. In quello stesso giorno mi scrive le ultime sue righe:

Per ora è poco male la cura. Applicazioni esterne. Ma lunedì Dio sa che cosa mi faranno per arrivare all'interno, sotto l'epiglottide. Assicurano che non soffrirò, e dicono anche che guarirò. Ora comincio a sperarlo. Giorni fa avevo perso ogni speranza di guarigione… E che ore, eche giorni… Io sono pronto a tutto…

24 novembre: Enorme, tragica attesa, in Clinica. Puccini è entrato in sala operatoria. L'operazione dura esattamente tre ore e quaranta minuti. L'eternità, per coloro che aspettano. Il professor Ledoux si presenta alla porta. È tranquillo. Afferma che tutto è andato bene. Ancora addormentato il Maestro è riportato nel suo letto.

Al risveglio si vede tutti intorno, sorridenti. Egli non può parlare. Ha un foro nella gola, tenuto aperto da un cannello traverso il quale filtrano gli aghi del radio che dissolverà per sempre il male. Ma parlano i suoi occhi, dilatati, impregnati di mestizia. Antonio gli mette tra le mani un blocchetto e una matita. Scrive e chiede: «Mi salverò?».

Concordi gli rispondono: «Il brusco è già passato… Siamo tutti sicuri. Ormai sei salvo».

26 novembre: Ricevo da Clausetti questa lettera:

Vi scrivo anche a nome di Tonio e di Fosca. Riassumo tutte le notizie in queste parole: le cose vanno come meglio nessuno avrebbe sperato. Oramai i medici dicono, senza alcuna esitazione, che Puccini si salverà certamente. Comprenderete che nessun medico oserebbe pronunciarsi in questo modo se non avesse l'assoluta sicurezza di non sbagliarsi. Il dott. Ledoux, poi, non è persona proclive all'ottimismo, è anzi rigido e riservato per natura. Nei giorni precedenti l'operazione, interpellato dalla direzione della Monnaie, aveva dato notizie piuttosto preoccupanti. Ieri, invece, spontaneamente, annunziò a quei signori: «Puccini en sortirà…».

Nessuna complicazione è avvenuta in questi quattro giorni seguenti l'operazione. Non vi è dunque più a temere che nascano. Il cuore è in perfetto ordine, polmoni e bronchi funzionano regolarissimamente. Ora tutto il compito è affidato al radio che sarà il miracoloso salvatore. Giacché proprio di vero e autentico miracolo della scienza deve parlarsi.E senza i valorosi medici di Brusselle il nostro povero e grande amico non avrebbe avuto speranza di guarigione. Mentre vi scrivo egli riposa serenamente. A volte è un po' nervoso e irrequieto, ma ciò fa quasi piacere perché dimostra il ritorno della sua vitalità. Ora bisogna avere un po' di calma e di pazienza, perché indubbiamente la cura e la convalescenza saranno molto lunghe. Ma tutti siamo felici di aspettare, ora che la guarigione è assicurata. Domenica il dottor Ledoux toglierà gli aghi e così la prima e più dura fase della cura sarà terminata…

28 novembre: Un telegramma:

Sopraggiunta grave crisi cardiaca. Temesi catastrofe. Siamo straziati.

Il cuore, quel grande cuore che con la sua musica è sceso nel cuore di tutti, non resiste più. Il polso fino allora regolare ha uno sbalzo improvviso: da 60 a 105. Si tentano due iniezioni per farlo reagire. Ledoux è preso da un panico terribile. Toglie immediatamente gli aghi infitti in gola. Poi, come pazzo scappa dalla Clinica. Ha bisogno di aria. Gli pare che l'affannoso respiro del Maestro mozzi il respiro suo. Al volante della macchina infila a precipizio la prima strada, a caso. Una donna attraversa. La investe. La uccide.

Nella notte, ora per ora, Puccini s'aggrava.

Soffre tremendamente le torture dell'arsura. Trova ancora, per l'ultima volta, la forza di scrivere su un foglietto queste parole: “Sto peggio di ieri – l'inferno in gola – e mi sento svanire – acqua fresca.”

Monsignor Micara è in anticamera. L'ha chiamato Tonio che, ora, curvo sul padre, gli mormora: «C'è monsignore con Orsini-Baroni. Faccio passare?».

Il Maestro fa cenno che sì. Ma entra soltanto il prelato. S'avvicina al letto. Tonio scivola via. Restano soli Puccini, il sacerdote e Dio misericordioso.

Poi entra la suora che l'ha sempre assistito e che egli accarezzava dolcemente e chiamava Suor Angelica. Ogni mattina, essa deponeva in un vaso un mazzo di violette che un'ignota ammiratrice lasciava in portineria e la suora diceva che erano le violette che mandava Mimì.

È quasi l'alba. Suor Angelica non reca tra le mani le viole, ma un piccolo crocifisso che accosta alle labbra del morente.

*

Ore 4 mattina del 29 novembre 1924: La via crucis è finita. L'anima di Giacomo Puccini è nell'eternità. Con lui s'è spenta nel mondo la chiara luce dell'immortale melodia.

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