IL PRINCIPE MENDICO

Questa l’ho letta in uno scrittore turco del secolo XVII, e la riferisco perché i novellieri turchi han sempre un’intenzione morale.

In uno di quei paesi ove non si sposa piú d’una donna, e cosí non vi si hanno i fastidi dell’harem, viveva un giovane principe ancora senza moglie. – Allah – egli diceva – non mi volle seguace del suo Profeta, né mi è lecito prender piú mogli e compensare con le virtú dell’una i difetti dell’altra. Perciò – diceva – io non mi aggiogherò con donna se non sia veramente bella e veramente savia.

Attorniando l’assennato giovane molti amici e gran parentado, v’era chi pensava: – mia figlia è bella e savia; forse la sposerà –; ed alcuni speravano allo stesso modo per la loro sorella, e non pochi per la loro nipote. Ma a veder coteste fanciulle l’occhio del principe si velava quale per nebbia il lume del sole, e a udirle discorrere il suo orecchio perdeva senso come quando introna un’acqua cadente. Se poi l’amico o il congiunto l’esortava senza ritegno al matrimonio, rispondeva anch’egli senza ritegno: – Di rado va bene il bue aggiogato con la sua femmina se non è fatta paziente dalla fatica e dalle bòtte. – E l’altro comprendeva che egli non ne stimava abbastanza savia la figlia o la sorella o la nipote; e tutti attendevano di malanimo la scelta che farebbe.

Accadde che un giorno, mentre il principe cavalcava a diporto per la città, una giovinetta gli stese la mano, dal lato della via, in attitudine d’elemosinare. Il signore si avvide che la poverina aveva viso gentile e vesti pulite, e trattenendo il cavallo le dimandò della sua miseria; né ella indugiò a dirgli ch’era orfana e che con la carità del mondo doveva sostentar sè stessa e l’avola inferma. Cosí disse; e le rifulgeva negli occhi un innocente fervore.

— È bella – mormorò il principe, rivolto all’amico che l’accompagnava –; quindi diede alla fanciulla molte monete.

Piú mesi passarono da quell’incontro; e la giovane mendica era del tutto uscita di mente al signore, quando egli di nuovo la scorse alla svolta di un’altra via.

Gli parve fosse divenuta piú bella.

— Perché – le dimandò –, perché non ti sei piú mostrata sulla mia strada dopo che ti ebbi fatta buona elemosina?

— La vostra elemosina fu troppo grande – ella rispose, a occhi bassi.

Allora il principe mormorò, rivolto all’amico che l’accompagnava: – È savia –; e porgendo alla fanciulla un pugno di monete: – Prendi – le disse –; non per carità ma per premio della tua discrezione.

Questa volta però la mendicante bella e onesta rimase a lungo nella memoria del signore. Molte feste occorsero, molti sollazzi, perché egli non pensasse piú a lei, e resistesse alla voglia di ricercarla.

E passaron dei mesi. E un giorno che il principe andava cavalcando con gli amici per le vie meno solite, ecco prorompere da una casa un clamore di voci e uscirne piangente quella misera giovane. Essa scappava, vergognosa, con le mani al volto; e una donnaccia la minacciava con le scarne braccia, e un’altra quasi la percuoteva gridando:

— Sei giovane, sei bella, e chiedi il nostro pane! Impara a godere il bene che hai, o va in malora!

Disse il principe:

— Vedete? Se la meschina fallasse, la caccerebbero come una cagna tignosa. È onesta, e la scacciano perché non falla!

Una pietà profonda egli sentí per lei; lo afflisse il dubbio che purtroppo la buona fanciulla non tarderebbe a cedere ai mali consigli; l’ebbe in mente il giorno e la notte. Alla fine pensò che s’ella doveva cadere e perdere la virtú sarebbe men male cadesse per lui, che la compiangeva.... o non era già forse caduta, perduta?

Con deliberazione improvvisa il principe chiamò il suo maggiordomo, e gli ordinò d’andar a vedere dove e come vivesse la mendica di cui descriveva sí vivamente l’aspetto.

Ma, per quanto astuto, l’uomo stentò assai a rintracciarne la squallida dimora. Solo giorni dopo recò la notizia, che il padrone attendeva ansioso.

— La tempesta agita l’esile giunco ma non lo rompe – il maggiordomo disse. – Aggiunse che la giovane cuciva o ricamava a poco prezzo. Né bastando col lavoro a nutrir sè e l’avola, doveva ancora chiedere, a quando a quando, la carità; e ne aveva rimproveri e oltraggi. Pure resisteva alle incitazioni del male.

— Non resisterà forse alle mie! – esclamò il principe. – Torna a lei e dille che rosa fiorita vuol esser colta. Questo è il mio consiglio e il mio desiderio.

Quegli andò. Ritornò.

— Rosa senza fiore è spino che si getta nel fango. Cosí mi ha risposto.

Per questo non dubitò piu il signore che la giovine fosse veramente savia; e ardente di amore, venne a lei.

Gli parve pieno di sole il tugurio ov’essa abitava; gli toccò il cuore il sospiro della vecchierella, che giaceva nel bianco letto. E intanto ch’egli cercava parole, la fanciulla non trovava parole. Poscia il principe parlò e disse:

— Sii non fiore del mio giardino ma signora della mia casa! Tutti ti onoreranno perché sarai non l’amante ma la moglie di un principe come me.

Non era promessa di felicità? Qual maggior grazia poteva premiare la piú chiara virtú? La tentazione per poco non avvinse subito l’anima dell’amata; e tanto essa combatté se stessa da dover rompere, poverina, in singhiozzi.

L’avola sospirava; l’esortava dolcemente:

— Ascolta la tua coscienza, figliuola!

— Signore – allora la giovine rispose al signore –: se io acconsentissi, voi potreste rinfacciarmi un giorno la mia miseria, e la vostra moglie patirebbe quel giorno d’aver mendicato.

Proteste d’amore e di fede non valsero all’amante. Ella ripeteva no. Ripeteva: – Un giorno potreste dirmi: non ti ricordi di quando andavi all’elemosina?

A lui non valse nemmeno chieder pietà.

— Comandami dunque come fossi tuo servo! – esclamò il principe. – Costringimi a un duro patto! Domandami di compiere un sacrificio per cui io ti abbia in premio. Io t’amo e devi esser mia per forza d’amore!

E la vecchierella disse:

-— Ascolta il tuo cuore, figliuola!

Tacque in lunga perplessità la fanciulla. Finché ebbe un’idea.

— Ebbene, siate voi pure mendico per un mese. Se un giorno mi farete vergogna, io potrò svergognarvi alla stessa maniera.

— Cosí vuoi, cosí voglio – concluse il principe. E giurò che per il suo amore patirebbe il freddo e la fame.

Infatti, solo avvertendo di questo proposito il fido maggiordomo, annunciò ai parenti e agli amici che per un mese starebbe assente, senza dire dove andrebbe e perché; e in abito di accattone, mutato in volto da una finta barba, cominciò ad accattare. Egli, ch’era uso ai conviti copiosi, morse il tozzo di pan secco e quetò la sete con acqua cruda; egli, che riposava tra i molli cuscini, ora dormí su le pietre negli angiporti; egli, che comandava a cento servi, pregava ora il prossimo per amor del suo dio. E piú che a udir chiamarsi vagabondo da chi gli negava la carità, soffrí a ricever monete dai ricchi orgogliosi. Ma tutto ciò era poco; l’attendevano ben altre pene! Giacché al maggiordomo dispiacque veder il signore in tali affanni per una femminuccia; e credendo che se uno degli amici o parenti riconoscesse il principe forse lo indurrebbe a rinsavire, rivelò il segreto ad uno. E come la notizia corse di bocca in bocca, fu strepitoso lo scandalo di coloro che avevano sperato d’aver il principe per cognato o per genero: i migliori andarono in cerca di lui e con amare parole lo richiamavano alla dignità del suo grado; i piú tristi lo insultarono e lo derisero; e la gente vile, che a poco a poco lo riconosceva, fingeva di non riconoscerlo e lo respingeva quasi infetto; lo percoteva; gli sputava in viso. Mai piú grande miseria! mai vita piú grama, piú spregevole, intollerabile!

Frattanto la bella giovane ardeva anch’essa d’amore e le sembrava che il mese tardasse a passare.

Ma finalmente, compiuta la prova, il principe non piú mendico corse a lei. Ella lo ricevé umile e lieta; e la vecchierella, dal suo letto, lo chiamò figliuolo.

Le nozze furono presto celebrate con magnificenza che non s’era mai vista; e, nonostante l’invidia e l’odio di molti e di molte, la sposa fu giudicata da gran parte dei cittadini gentile e bella qual’era, e lodata per savia; e la gente vile che aveva percosso il principe, adesso spargeva fiori su la via degli sposi e augurava: – Siate felici!

*

E sí; furono felici. Ma sin a quando? Sino a quando il principe ebbe a dire, un giorno, alla principessa:

— Non ti ricordi piú del tempo che andavi all’elemosina?

La principessa ribatté, pronta:

— E tu non ti ricordi piú del tempo che ti bastonavano fuor delle case come un cane randagio?

Senonché la risposta non chiuse la bocca al marito, second’ella si credeva. Egli volse tutto il pensiero al passato; il suo sguardo s’accese quasi a un rinnovamento di gioia; poi, a mo’ di chi ricade in tristezza, sospirò e disse

— Oh che bei giorni erano quelli!

Che bei giorni eran quelli in cui i superbi insultavano alla sua miseria! Che bei giorni eran quelli in cui la gente vile lo respingeva quasi infetto; lo percuoteva; gli sputava in viso! Bei giorni?

*

I novellieri turchi hanno sempre un’intenzione morale, e la moralità della storia è facile intenderla: beato colui che soffre per amore!

Solo da un novelliere che non fosse turco ci sarebbe da aspettarsi moralità diversa. Quale? Questa: che il matrimonio è la piú grande di tutte le miserie!

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