— Portatemi fuori; al sole....
Faceva sí bel tempo! e la tordela aveva già chiamata la primavera.
Ma l’aria risentiva ancor dell’inverno, e la madre temeva d’aprir la finestra nella camera della poverina.
Finché venne marzo tepido; all’alba e al tramonto cantarono le capinere su le quercie e i cipressi. Rimettevan le foglie.
E veniva anche la morte, presto; all’Emilia mancava la forza di tossire.
— Il sole – mormorava a pena.
— E il Signore – disse la madre. – Oggi.
Anticipandole la Pasqua forse il Signore si muoverebbe a pietà; compirebbe il miracolo; manderebbe indietro la morte.
Cosí, finalmente, le prepararono un letto nell’ingresso della casa, che era – a mezzogiorno – la stanza piú calda, davanti all’aia. E il padre ve la recò in braccio, come una bambina (come leggera!) e, spalancata la porta, la copriron ben bene.
Accesero il lume alla Madonna. Poi aspettarono il prete.
E dopo la confessione il prete avvisò che le farebbero la comunione piú tardi.
Il sole inondava la stanza; nell’anima ricreata e nello sguardo languido dell’Emilia si specchiavano le primavere perdute. Si rivide fanciulletta a correr laggiú, al rio, tra la vigna e l’acaciaia; a raccoglier le viole.
— Mamma.... – sorrideva. Aggiunse:
— Ho voglia di viole.
*
D’andare a raccoglierne ebbe l’incarico – tornata che fu dalla scuola – l’Annuccia, la sorella di quella che moriva. Bianca e rossa, gagliarda, ardita, essa era tal quale era stata quella che moriva.
A voce alta chiamò gli amici della Casaccia, di là dalla strada; e vennero correndo l’un dietro l’altro, con a capo Carlino, il piú grande.
Or come precedeva i compagni, nel passar di corsa dall’aia al prato, per, di là, scendere al rio, Carlino gettò un’occhiata paurosa alla casa ove sapeva che l’Emilia doveva morire, ove con immaginazione attratta sospettava di vedere sol cose oscure, sol cose nere: mistero e morte; e, al contrario, improvvisamente, inaspettatamente, nella luce del sole nuovo che rivelava il mondo in una trasparenza fluida e fulgida, vide, dalla porta spalancata, quella figura bianca, distesa nel letto bianco, il viso cereo, le mani ceree. E gli occhi languidi; e gli parve che sorridesse con le labbra ceree: gli sorridesse.
Un’impressione terribile... «Morire!».
— Aspetta, Carlino! Aspetta! – urlavano gli altri sgambettando quanto potevano.
Fu prima a raggiungerlo l’Annuccia, svelta quasi al pari di lui. Aveva qualche mese meno di lui – tredici anni –; ma lo superava nella vivezza del sangue.
Irritata che non l’avesse attesa, lo rimproverava con i piú fieri nomi, senza curarsi delle strida che, indietro, levava il piú piccolo della brigata, il quale, essendo grasso e tozzo, cadeva a ogni dieci passi giú per il declivio.
— Ghigna! scimmia! civettone! buaccio! chiú! – l’Annuccia nominava Carlino. Ma Carlino non si voltava.
Solo quando si fu fermato alla riva, egli rispose con una smorfia e un grugnito; cosí buffo, che la ragazzetta scoppiò a ridere. Rideva col cuore; forte; bella; come una ragazza fatta. Nel correre le si era sciolta la treccia, e i capelli lunghi e sparsi avevano riflessi d’oro.
E Carlino si mise a raccogliere esclamando:
— Qui! Venite, dunque! guardate! quante!
Tra gli sterpi e i bronchi dell’acaciaia, che era stata potata al suolo, le mammole fiorivano fitte, scoperte, quasi in usurpato dominio, quasi a scampo della riva erbosa, dove prevalevano margheritine e ranuncoli; bucaneve, primule e anemoni.
Laggiú gravava, nell’aria calda, un indistinto sentore di fiori, di erbe, di bocci, di germi, di gemme, di rimessiticci. Il sole scottava. I pioppi mandando le tremule ombre dei rami, appena rinverditi, all’acqua che scorreva chiara e silenziosa, parevano già desiderar la frescura; e i cristallini riflessi, qua e là, invitavano a bere le passere e i merli. Suoni prossimi e lontani accrescevano il senso della vita rinnovellante, della primavera che spirava da tutte le cose: rombi di grossi insetti, fruscii di lucertole o di ramarri, tonfi di ranocchi, e, da lungi, a quando a quando, gloglottare di tacchini, crocchiar di galline, crocidar di gazze; qualche trillo, sperduto, d’allodola, qualche strido di coltorto; ed era, nell’insieme, in quel luogo e a quell’ora, un senso di esuberante energia, di fervore soverchio, di risveglio febbrile e veemente.
Piú caritatevoli di Carlino e dell’Annuccia, Tonietto e la Linda avevan messo il fratellino a sedere all’ombra dei vinchi, persuadendolo a star buono e fermo se non voleva esser mangiato dal lupo e dalle bisce; e s’erano dati anche loro alla raccolta.
Ma presto sorse contesa. Tonietto coglieva, piú che viole, altri fiori, vantandone la bellezza, come se non ne avesse mai visti; la Linda proclamava il pregio delle viole bianche, rarissime.
— No! no! solo di queste! – urlava Carlino mostrando le mammole scure.
— Vogliamo solo di queste! – l’Annuccia ripeteva. – Civettoni che siete!
Né il clamore cessò fino a quando la Linda e Tonietto non furon d’accordo di mutar giuoco, per sè, ribelli. Discesero ove l’acqua scemava a rivolo e cominciarono a far chiusa con sabbia, stipa e terriccio: dopo, aprirebbero un varco e godrebbero del gorgo irrompente.
Il piccolino, stanco d’essere in bando, piagnucolava: – Anch’a me! me! me! –; guatava cogli occhioni sbigottiti, se arrivassero le bisce o il lupo; e non osava scostarsi.
A gara intanto affrettavano Carlino e l’Annuccia: egli stringeva un manipolo di viole; essa ne deponeva un mucchietto a piè d’un pioppo.
Quand’ecco li fece ristare un insolito suono di campana; a pochi botti, rapidi.
— Portan la Pasqua a mia sorella – disse l’Annuccia, senza tristezza.
Senza pensiero, rossa in faccia, con i capelli diffusi e accesi dal sole, tutta riscaldata dalla fatica e dalla gara, piena nel sangue e nell’anima del vigore che palpitava nell’aria, nella luce e nella terra, la ragazzetta attese, diritta, immota. Alla vista, aperta fra le due coste, apparivano, sul colle, la chiesa e il tratto di strada dalla chiesa fino al ponte. Di là, ecco, si videro avanzar lentamente, in cappe bianche e mantelline rosse, i reggitori delle lampade, che mandavano intermittenti bagliori; poi il prete avvolto nell’umerale, e un chierico da una parte, con l’ombrello a ricami splendidi, e un chierico, dall’altra, col campanello: sui camici bianchi l’aria agitava due nastri sanguigni. E, dietro, in fila, gli uomini e le donne con le torce.
Attoniti, i ragazzi contemplarono la breve fila che arrivava al ponte e si celava nella discesa. Ma il maggiore, al cessare di quella visione, ebbe ravvivata di subito, davanti agli occhi, la visione di poco prima: l’ammalata distesa nel letto candido, immersa nel sole che invadeva la stanza; il volto cereo, le mani ceree, un barlume di sorriso sulle labbra ceree.
— La Comunione... Morirà oggi – pensò Carlino, mentre guardava i compagni.
Tonietto e la Linda tornarono all’acqua; e rabbrividivano e strepitavano a spruzzarsi con una rama, e il piccolino, dimenticato e dimentico, s’era addormentato nicchiando. L’Annuccia aveva ripresa la raccolta chinandosi or qua or là nello sterpeto, tacita e alacre.
Ora nella mente di Carlino seguí un’altra idea triste: con le sue viole comporre una ghirlanda, da mettere sulla bara dell’Emilia; e al mortorio tutti direbbero: – Bella ghirlanda che ha fatta Carlino
Zitto, sempre serio, egli dunque ruppe due giunchi; li ritorse; li piegò in cerchio fermandoli con una corteccia alle estremità: e, seduto su la riva, prese a innestar le sue viole fra le ritorte. Il segreto panico di poco prima e l’arcano sgomento che riprovava al pensiero del morire, alla tentazione, che provava per la prima volta, di riflettere a quel mistero buio, lo riconducevano in questo mentre al ricordo per cui inconsapevole aveva avuto disposto l’animo a cosí sentire e a cosí pensare. La domenica, dopo la benedizione, egli e alcuni amici si erano intrattenuti sul ponte, come i giovani grandi, quelli della Lega, che non avevano piú niente da imparare del mondo e aspettavano le donne, di ritorno dalla chiesa.
Uno aveva detto:
— L’Emilia di Morigi sta male.
Un altro:
— Muore tisica.
E un altro:
— Cosí bella!
E aggiunse piano cose che non eran da dire presenti i ragazzi, cose d’amore.
«Morire!».
Or, tacita e alacre, pensava anche l’Annuccia. Non che sua sorella fosse moribonda. Usa a veder l’inferma, non aveva avuto, lei, rincasando, l’impressione di Carlino. E tutt’intorno a lei era luce fervida; e quel giorno le pareva di vivere in un luminoso ardore.
Pensava a quanto, della Comunione, aveva appreso al Catechismo: che per ricevere l’ostia sacra si deve essere in grazia di Dio e che non è in grazia di Dio chi non si confessa. Di quali peccati, di quando, s’era confessata sua sorella? Ricordava; ricordi torbidi anche in essa, ma ricordi che tornavano appunto per rischiararsi in quel fulgore di sole; tentazione d’un mistero che stava per essere svelato, che voleva essere rivelato in quell’ardor luminoso: ma era il mistero dell’amore, il mistero della vita.
Passo passo giunse dietro una macchia di razze e di rovi. Ivi le parve d’esser piú sicura; di poter cedere senza pentimento, con una strana commozione, alle rimembranze che l’avvincevano.
Un significato nuovo, inatteso, di desiderio e promessa, le rendevan le parole che una sera di soppiatto aveva udite susurrar da sua sorella all’amante – Se mi sposerai...
E un giorno, un giorno caldo dell’autunno che lei era nascosta nel campo tra il granturco, aveva scorta l’Emilia, rossa, affannosa, correre, per il sentieruolo, incontro all’amante...
Già la Linda e Tonietto, stanchi di guazzare nell’acqua, proponevano d’andarsene.
— State qui! – intimò Carlino.
— State qui con noi! – ripeté l’Annuccia.
Ma quelli, felici di disubbidire, risalirono alla costa, rialzarono il piccolino ridesto e prendendolo a mano e trascinandolo seco s’avviarono faticosamente per l’erta verso la casa.
E l’Annuccia, come se l’interruzione invece che distoglierla l’avesse respinta con maggior impeto nel pensiero tenace, nella memoria vivida, nella tentazione irresistibile, non udi piú nulla, non badò piú a nulla. Scorgeva sua sorella correre al sole cocente, rossa in faccia, affannosa, a incontrar l’amante.
E a rammentarsi in tal modo dell’Emilia sana e lieta, gioiosa, felice, l’Annuccia sentí, per la prima volta, vivere il mondo in sè stessa.
Perché non sarebbe lei pure felice, ugualmente, presto?
Chiamò
— Carlino!
Non rispondeva.
— Vieni qua da me! Ti voglio dire una cosa!
E lui: – Lasciami finir la ghirlanda.
Ond’essa uscí dal cespuglio, e disse a mezza voce: – Domenica mi metto la vestina nuova. M’accompagnerai tu a casa, dopo i vespri; soli noi due? Discorreremo piano...
Il ragazzo, serio, non stupito, alzò il viso. La guardò mentre essa con la mano impaziente ravviava i capelli, quasi a liberarne del tutto gli occhi lucenti e la bocca vermiglia. Ma, abbassando lo sguardo, egli rispose, serio: – Quando poi saremo grandi.
Né turbato nel suo pensiero, Carlino, poiché gli mancavano viole a compiere il lavoro, andò a prendere di quelle che essa aveva deposte a pié del pioppo.
L’Annuccia era rimasta trasognata; turbata. «Quando poi saremo grandi...»
E per queste parole, finalmente, il mistero le si rivelava del tutto; il mistero dell’amore e della vita.
Rimase un istante, cosí, ebbra; poi, di súbito, le salí alla gola una grande amarezza; un’angoscia l’afflisse, cosí grande che gli occhi le si riempirono di lagrime...
Con uno sforzo elevò lo sguardo verso la sua casa, come per ricuperarsi o come per accertarsi che non fosse mutata ogni cosa piú cara.
La Linda e Tonietto trascinandosi sempre dietro il piccolino erano a sommo del prato...
E allora, solo allora l’Annuccia dubitò che sua sorella fosse moribonda. E con una nuova stretta s’addiede che Carlino aveva carpite le sue viole. Gli fu incontro, addosso, rabbiosa.
— Le mie viole! Son per l’Emilia! – urlava. – Dammele!
Si schermí Carlino. Elevando la ghirlanda urlava a sua volta:
— Per chi la faccio?
— No! l’Emilia vuole un bel mazzo! Non una ghirlanda!
Gliel’afferrò. Egli tentò sottrarla alla presa; e la corteccia, che ne teneva le estremità, si ruppe i giunchi s’apersero; le viole caddero.
Addolorato, pur il ragazzo si fece torvo; assalí l’amica, l’acciuffò con rabbia; ed essa si difendeva a graffi, a calci. Pestavano, accapigliati, le viole.
.... Ma un grido acuto irruppe dalla casa. Un lamento di strazio, che il pianto prolungava e soffocava, li divise d’un tratto. Allibbirono; si interrogarono con gli occhi.
— La mamma! – gemè l’Annuccia. E disperata, corse via, su, verso la casa.
— È morta – pensò Carlino.