L’orrida bellezza dei «calanchi»!. Dalla parte ove il monte dirupa nella Landa fiorita sino al limpido rio quella rovina par l’opera d’una grande fantasia turbolenta e ansiosa che la morte abbia interrotta, freddata quasi a castigo d’orgoglio; e l’anima che ammanta di verde i dorsi al di sopra e riempie la valle di colori e di voci, ivi sembra tenuta in un lungo stupore, sembra attonita e stanca in un sogno che fu e non è piú pauroso.
Diroccate muraglie, quali tramezzi disposti con regola e sostenuti da irti speroni, protendono guglie e cuspidi, estendono creste, si aprono a tagli, a frastagli, a crepe, a solchi, a strappi, a lacerazioni, a incavi tra cui le ombre e le luci mutano lente; e i tronchi vertici e le sottili lame dentate e i corrosi ricami – quando un soffio di vento si direbbe bastasse ad abbatterli, confonderli, disperderli – rimangono in vista, fuori degli sconvolgimenti massicci e su le profondità opache, come fortunati avanzi di un infantile capriccio o di una sublime audacia. Il sole accende la sabbia gialla che ricopre le balze argillose e posando su queste fa turchiniccia la grigia scena: non la ravviva: non un filo d’erba erompe dalla inerte materia; non un trillo passa per la squallida uguale tristezza.
Eppure cosí bella!