Dal Castelletto di Làmola vi andavano ragazzi in festa a scoprire e radunar cose morte e strane pietruzze. I timidi ristavano al principio del pendio; gli arditi, ora scivolando ora aggrappandosi, scendevano un poco e, fermi in un ripiano, s’incitavano all’opera. Scavavano. Ed erano frequenti le conchiglie fossili, valve e bivalve; e curiose rotelle azzurrognole con strie d’improntate meduse o a geroglifici; e frusti di marne bianche segnate a figure di foglie e a noduli e vene di calcedonio e diaspro, o velate di una tinta crocea e bruna.
Talvolta sorgevano esclamazioni di gioia: dava certezza di rarità un piccolo dente di squalo; dava illusione di rintracciato tesoro qualche pezzetto di pirite dalle auree faccette o di marcasite spruzzata di mica come d’argento.
Raccolta vi avevano fatta un giorno Aurelio Contralbi, il figlio del conte Genesio che villeggiava nel possesso avito di Làmola, e i figliuoli del sarto, Cesco e la Lisa: seguaci fidi ma non timorosi del duce, sebbene egli superasse di due anni l’uno e di oramai quattro l’altra.
E già Cesco era stanco di ubbidire agli ordini per cui rischiava di precipitare in fondo alla Landa, allorchè la Lisa, intenta a dissodare al sicuro, nel balzo presso la strada, gettò una delle solite strida di meraviglia e di gioia.
— Cosa ho trovato!
Sempre arrogavasi maggior valentia dei compagni e vantava i portenti delle sue scoperte.
— Guardate! correte! Cosa ho trovato! Un bel centesimino!
Aurelio Contralbi non le badava, al solito; ma Cesco colse l’opportunità per tornare a proda. E togliendo alla sorella la moneta ch’essa nettava con la punta del grembiule: – È una medaglina! – gridò a sua volta – D’oro! – aggiunse dopo averla considerata con aria grave. – Vieni a vederla, Aurelio! Corri! C’è un santo!
Il nobile ragazzo venne adagio, incredulo, canzonandoli. E vide che la moneta, ripresa dalla Lisa e ripulita, luceva davvero; e ne sospettò il pregio.
Allora, prepotente, senza parlare, la strappò di mano all’amica e si avviò di corsa verso la villa...
Ladro! Portarla via cosí! Ladro!
Urlava in pianto la fanciulletta, mentre il fratello si provava a inseguire il fuggitivo e gridava:
— È della Lisa! L’ha trovata lei! La sua medaglina! Ladro! brutto ladro! Fèrmati!
Sí! Dové fermarsi Cesco, invece; disperato prima che stanco; fremente d’ira e accorato dal dolore della sorella, che veniva pian piano tutta scossa dai singhiozzi, nascondendo col braccio il volto lagrimoso.
— Sta buona – le diceva il fratello. – Lo diremo a suo padre; ce la renderà. È la nostra! Brutto ladro! ladro! ladro!
Altre contumelie, che aveva imparate dagli uomini grandi, il ragazzo aggiungeva per isfogo; altre minacce.
Ma la Lisa sapeva bene che erano vane parole; che non riavrebbe piú il suo centesimino d’oro, e piangeva inconsolabile.
— Sta buona. Ne troveremo un’altra, delle medagline! Torniamoci; e se ne troviamo....!
E tornarono a scavare, speranzosi.
Intanto: – San Marco – borbottava il conte Genesio, rigirando fra le dita la moneta che suo figlio diceva d’aver trovata lui nei «calanchi». Proprio d’oro! Uno zecchino veneto – S. M. VENET – decifrava il dotto conte. E brontolava: – San Marco e il doge inginocchiato. – Di qua. Dietro, il Signore; con la scritta chiarissima: EGO SUM LUX MUNDI.... Ma che diavolo significavano le lettere marginali nel lato diritto: MARINGRI?
— Chi diavolo era Maringri? – chiedevasi il dotto conte Genesio.