I.

Quasi in mezzo al viale, fuori della polvere, un chiodo arrestò lo sguardo, il passo e il pensiero del conte Mauro. Era un chiodo ancora buono, benchè un po’ arrugginito e storto. Quanti l’avevano veduto? E perchè nessuno di quanti l’avevano veduto si era chinato a raccoglierlo? Trovate le risposte, del resto semplici ed ovvie, lo prese su lui, e seguitò la passeggiata verso la chiesa dei Cappuccini.

Pensava intanto: — Ogni cosa, sia pur minima, ha il suo valore. Dunque: cercate di non perdere nulla; non spregiate nulla; raccogliete sempre ciò che fu perduto, o gettato via, e tenetene conto. Imparate, cioè, a osservare e a riflettere.

Ai quali consigli altri ne seguivano, se non del tutto nuovi, sempre belli. – Profittare anche andando a spasso; vincere la pigrizia; esercitar la pazienza.

Ma dal considerare il chiodo che rigirava fra le dita il pensatore arrivò a conseguenze di maggiore importanza, per lui. Nelle brevi soste al Caffè Vecchio, dal tabaccaio nel Borgo, nella farmacia di San Rocco, non era solito ammonire che a consolazione della vita bisogna mirar in alto? Ora a vederlo prendere su da terra un chiodo tutti l’avrebbero accusato di contraddizione. E no. Se quella era un’azione giovevole, se un’azione giovevole in sè vale a pubblico esempio, ecco che si può mirare in alto anche guardando in basso. Nè bastava. Per la democrazia predominante là, nella piccola città romagnola, egli era forse un aristocratico in cui l’orgoglio della razza aveva assunto l’abito del filosofo fannullone, appartato e schivo.

— Ebbene – concluse Mauro Agabiti giunto che fu alla chiesa francescana –, anche per questo, da stasera in avanti, cercherò dei chiodi. Chi si umilia sarà esaltato.

Gli accadeva sempre così. Concepita un’idea, a forza di dedurre, la tirava alle conseguenze estreme, che stupivano chi non possedeva l’energia logica di lui. E avendo pensato che pur l’esercizio di rintracciar chiodi non mancasse di morale efficacia, fu condotto a cercarne dove più se ne trovassero, e quindi dove la necessità dei chiodi nuovi rendesse maggiore la dispersione dei vecchi.

In via del Fossato, lungo le mura, erano botteghe di falegnami, fabbri, maniscalchi. Ivi, due o tre volte la settimana, la persona del filosofo, alta, magra, vestita di nero, il volto pallido e la bianca barba sotto il cappellaccio grigio, passava adagio adagio rimuovendo la polvere con la punta del bastone; talvolta arcuandosi nell’atto di tendere il braccio e la mano. Allora, se coglieva qualche cosa, gli balenava un sorriso dagli occhi chiari e guardava qua e là, come aspettasse di essere interrogato. Ma coloro che l’avevano osservato, e ridevano, si voltavano in fretta per non farsi scorgere; rispettavano in lui l’uomo generoso e diverso dagli altri ricchi appunto perchè, a parer loro, tócco nel cervello; e ne compativano la nuova, innocente manìa. Nessuno gli chiedeva: — Cosa accatta, signor conte? –; nessuno lo pungeva ironico o mostrava meraviglia; ed egli doveva mettere in tasca il chiodo e rimettere il discorso, pronto da un pezzo, a migliore occasione. Presto o tardi la sperimenterebbe, la virtù dell’esempio! – Infatti....

Una delle ultime fucine del Fossato era quella del fabbro Dondelli, detto Dondèla; e un giorno che questi lavorava altrove, il conte, quasi davanti al portone di lui, si chinò; con impeto allungò la mano.... Ahi! che dolore! Scottato. Le dita lasciarono subito la presa. Scottava, bruciava! Ma stringendo fra i denti il pollice e l’indice, in cui il chiodo aveva lasciato l’impronta della strinatura, il filosofo restò immobile ad aspettare. Il chiodo si raffredderebbe: no?

Intanto risate di ragazzi, trattenute a fatica, giungevano da ogni bottega, come gemiti.

— Ridono? – pensò il pensatore –. Dunque è una burla!

E quasi il bruciore, che non scemava, gli affrettasse il raziocinio, seguitò: — Una burla senza intenzione di ferire in me avarizia o gretteria; tutti mi conoscono. È una burla ingenua, che attesta però una intelligenza non comune. Bravi!

A questo punto nella bottega del falegname di contro il ridere si mutò in pianto schietto, e sotto la grandine degli scapaccioni paterni un garzoncello gridava: — Non sono stato io! È stato lui, là, che l’ha riscaldato! Celso!

— Birichini! canaglie! – urlava il genitore per farsi ben udire dal signor conte.

«Lui, là?» «Celso?»

Il filosofo pigliò su, risolutamente, il chiodo ancor caldo; lo mise in tasca ed entrò nella fucina di Dondèla.

— Celso – disse con l’usata dolcezza –, mi daresti un po’ d’acqua?

Subito, di dietro all’incudine dove se la godeva ridendo piano piano e solo, il ragazzo balzò a prender la secchia, la portò, la depose ai piedi del signore. Il quale v’immerse la destra e sogguardò mentre, refrigerato, seguitava tra sè:

— Ha dell’ingegno; molto ingegno! Si vede dagli occhi; si capisce dalla prontezza degli atti. Dunque non è contento del suo stato. – E disse:

— A te non ti piace di fare il fabbro.

Il monello, che si aspettava tutt’altro discorso e tutt’altro tono, sorrise e rispose franco:

— Nossignore.

— Bene. Cosa ti piacerebbe di fare?

Sempre più inanimito da quel "bene" rispose:

— Il signore.

— Ho capito – disse il filosofo. – Vorresti diventare ingegnere o avvocato o medico, o che cosa?

Ma ora Celso rimase perplesso. Non erano dimande inopportune? «Fare il signore» non significava «far niente»?

— Via! – insistè il conte rialzandosi e asciugandosi le dita nel fazzoletto. – Quale professione sceglieresti?

Bisognava finirla.

— Nessuna.

Fu un nuovo colpo inatteso. Ma non doloroso; anzi! Al filosofo parve di giungere improvvisamente a una felice scoperta; tale che tacque a lungo. Poi tolti dal gilet alcuni soldi, li porse al ragazzo.

— Ti ringrazio; e ci rivedremo.

Era poco lungi, per la strada, quando udì dei passi dietro a sè. Si volse. Celso col cappello in mano, disse (e le labbra gli tremavano): — Mi perdona?

Il conte gli pose la destra sulla spalla e tornò a fissarlo. Che occhi! — Sì, figliuolo!

E riprese la strada pensando: — Intelligenza; animo ardito; cuore, e, per di più, inclinazione latente!

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