II.

Questa dell’«inclinazione latente» era una delle sue idee. Anche nel campo dell’intelligenza – diceva – la natura è non di rado riserbata, quasi timida, gelosa dei suoi tesori; e ingegni non comuni restano improduttivi e sconosciuti non solo perchè sono mancate le condizioni propizie al loro sviluppo, ma perchè nessuno ne ha saputo intuire la disposizione segreta, rimasta ignota a loro stessi; nessuno ne ha eccitate le intime facoltà creative. – E soggiungeva candidamente: — È il mio caso. Io non sono un imbecille, eppure a sessant’anni non so ancora come sarei potuto riuscire più utile alla società e alla patria, e divenire un bravomo.

— Facendo il professore di filosofia – insinuava qualcuno, credendo di fargli piacere. Egli scuoteva il capo.

— No, sarei stato ugualmente inutile.

Per esser utile, da un pezzo, aveva rivolta l’attenzione psicologica agli adolescenti che conosceva. Ma non uno che dimostrasse d’aver molto sale in testa e alla domanda: — In qual modo, per che via preferiresti diventare un uomo celebre? – rispondesse: «Non lo so». Lo troverò una volta o l’altra – ripeteva il filosofo, saldo nella sua convinzione.

Finalmente! L’aveva trovato nella fucina di un povero fabbro!

Dondèla ebbe l’avviso di presentarsi la mattina dopo al palazzo Agabiti; e vi andò di malavoglia, per causa del chiodo scottante, la cui storia già esilarava tutta la città. Invece l’aspettava una bella fortuna. Il conte gli propose di stipendiargli un garzone più abile di Celso e di assumere Celso al suo servizio.

— Ho bisogno di un giovine che aiuti la vecchia Cleofe nelle faccende di casa; ho bisogno di uno che aiuti me nelle mie faccende: contabile, segretario, bibliotecario, ecc.

— Misericordia! – esclamò Dondèla in un impeto di lealtà. – Ma cosa vuol cavarci da mio figlio? Non ha voglia di far niente! È la mia disperazione!

— È la mia speranza! – ribattè il conte Mauro con solennità profetica.

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