III.

Povera Tarabotti! A undici anni per volontà del padre suo, duro uomo di mare, era stata costretta a vestir l'abito di monaca nel convento di Sant'Anna in Venezia; a cambiare il bel nome di Elena in quello brutto d'Arcangela; a porgere un vóto quando in lei «diversa dalla lingua e dagli atti esteriori, altro intendeva la mente». Cosí «fino alla consecrazione» era rimasta «monaca di nome, ma non d'abito e di costumi; quello pazzamente vano e questi vanamente pazzi»: consacrata, nella condanna della sua calda giovinezza; nello strappo pur dai sogni di quelle gioie che avrebbe voluto gustare, quante gliene suggerivano la fantasia ed i sensi; nella racchiusa e muta disperazione d'ogni bene, d'ogni conforto avvenire, aveva imparato a scrivere, la monacella, e aveva studiato assai per richiamarsi un giorno con le sue opere alla giustizia e alla pietà del mondo. E riuscita che fu a comporre La semplicità ingannata, La tirannia paterna e L'inferno monacale, le parve d'aver tratta per l'infelicità sua e per quella di mille altre sciagurate sue eguali, un'aspra vendetta della crudeltà dei genitori, di una barbara costumanza, di una legge fatta contro la natura per l'amore di Dio. Ai due ultimi libri non fu data licenza di stampa, quantunque s'adoprasse per essa Vittoria Medici della Rovere granduchessa di Toscana: il primo usci a Leida solo nel 1654 e fu proibito da papa Innocenzo decimo perché tra l'una citazione e l'altra di storia sacra, tra l'uno e l'altro ragionamento sconclusionato, erano scatti d'odio contro i parenti che sacrificavano le figliuole alla clausura. - «Com'è possibile, o ingannatori, che chiudiate in seno un cuore cosí crudele, che soffra di tormentar il corpo delle vostre figliuole, che pur son vostre viscere, con perdita forse della lor anima....; e che con la loro procuriate di precipitar anco le vostre medesime negli abissi dell'inferno, come rei di colpa mortalissima, per aver violentata la volontà di quelle, alle quali Iddio l'ha conceduta libera?.... Voi, tiranni d'averno, aborti di natura, cristiani di nome e diavoli d'operazioni...., pretendete d'esser scrutatori di quei cuori che non si vedono se non da gli occhi di Dio, e disponete con pazza pretensione sino dell'arbitrio di quelle creature che pur anche stanno chiuse nell'alvo materno, senza aspettare ch'esse vi dichiarino a qual stato le inclini il loro genio, senza pensare quale iniquità sia lo sforzare l'altrui istinto».

Questo e gli altri due libri passavano manoscritti di mano in mano, recando all'autrice lodi di scrittori famosi, che le si professavano divoti, e biasimi di frati maligni, che l'accusavano di farsi bella d'opere d'altri. Ma nel 1633 il cardinal Federico Cornaro patriarca di Venezia ebbe voglia di convertire al bene e alla rassegnazione la suora ventottenne divenuta oramai una ribelle pericolosa, e co' suoi consigli e rimproveri raggiunse l'intento: d'allora in poi Arcangela intese a scrivere cose buone: Il paradiso monacale; La luce monacale; La via lastricata per andare al Cielo; Le contemplazioni dell'anima amante; Il purgatorio delle mal maritate . E si diede a compiere buone opere, tra cui piú la dilettava quella di maritar le novizze. Fra le sue lettere sono parecchie del tema di questa: «La novizza assolutamente non vuole il....; ella dice che quarant'anni son troppi per una giovanetta.... Per ella (!) è piú proporzionato un giovinetto bello, vivace et affaccendato, che un uomo sodo e mezzo buffalo, qual'è il vedovo propostole. V. S. Illustrissima sa il suo bisogno; provveda di cosa a proposito, se vuole la mancia....»

Anche doveva sdegnarsi se, come io credo le accadesse, qualcuno s'innamorava di lei: certo metteva in burletta un tal B... (fosse il frate Brusoni, che era e dicevano suo amico e che - vedremo pur questo - dopo averle fatti grandi servigi s'inimicò con lei?), un tal B., il quale forse temperando l'amore con lo scherzo, o piú tosto, ciò che non era strano in quei tempi, adombrando l'amore con versi oscuri e bizzarri, le inviava de' cosí fatti sonetti:

Lucido mio piropo! E quando mai

Potrò stemprarti in olocausto il core?

Tu rintuzzi del sol fulgidi i rai,

Oroscopo fatal del pronto ardore.

Io t'offersi la fede e già passai

Per smeraldi di fuoco al ciel d'Amore,

Sollecito amatore il pié portai

Sotto i vestigi tuoi ricco d'onore.

Circonciso mio lume, ahi ch'io t'adoro

Funerato fra bende oscure e nere,

E mentr'io t'amo piú languisco e moro!

Vessillario son io di tue bandiere;

La fiamme mie velate alzo al martoro,

Solennizzando il cor vittorie intiere.

Ma benché pentita e ammalata la Tarabotti persistette ad amare, se non gli uomini, il mondo, e piú la sua fama di scrittrice. E quando a quarantasette anni si sentí vicina a morire scrisse alla amica Betta Polani: «Perché il peregrinaggio della mia vita è giunto alli ultimi confini di questo mondo, a voi, che siete stata assoluta padrona della parte piú cara di me stessa, mando li miei scritti, che sono le piú care cose ch'io abbia e che mi rincresca di lasciare. Direi che fossero bruciati, ma qua dentro non ho di chi fidarmi. Le contemplazioni dell'anima amante, La via lastricata del Cielo, e La luce monacale sieno stampate, se cosí piace a voi; il resto sia gettato nel mare dell'oblio: ve ne prego in visceribus Christi.... Amatemi se ben morta, e addio per sempre».

Oh s'ella avesse potuto trar seco nella tomba tutte le copie di quell'Antisatira in risposta al Lusso Donnesco del signor Francesco Buoninsegni, che per poco non le aveva sciupata ancora vivente quella celebrità a cui, approssimandola la morte, desiderava lasciare il suo nome per l'età sua e per l'avvenire!

Udite pettegolezzo, il quale, tanto era vano il seicento, parve rumore di gravi casi.

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