Nel 1638, alla stagione che il vin nuovo ribollisce nelle botti, venne voglia ai signor Francesco Buoninsegni, detto da un contemporaneo l'«Apollo di Siena», di scrivere una satira «menippea» contro il «lusso donnesco», la quale dovea, credo, servirgli a un discorso nell'Accademia degli Intronati. Egli cominciando con l'avvertenza dell'Ariosto:
Donne, e voi che le donne avete in pregio.
Per Dio, non date a questa istoria orecchia,
giocherellava a motti insulsi e con uno stile saltellante e barcollante, per sciocca simulazione d'ebbrezza, intorno la vanità delle donne e delle loro mode al tempo suo, e gli sembrava di pungere piú vivamente con questi che furon tenuti per sali finissimi.
- Si sa che mezzo di vittoria a quelle che «s'impiegano nelle onorate ambascerie d'amore» son le promesse di gemme, oro e vesti, perché le donne cedono tutto al lusso e al vestire, che testimonia «la pena dell'antico peccato». Ed è giusto indossino abiti di seta, la quale è «vomito d'un verme», se esse sono «vermi i quali rodono il cuore degli amanti», e se possono dirsi un «vomito delicato della natura». Per le pianelle tutte dorate e sí alte che con la coda coprono una mezza donna di legno, potrebbero anche imaginarsi trasformate in alberi da un novello Ovidio; ma giacché i loro capelli, che sono posticci, non potrebbero divenir frondi, meglio è chiamarle il rovescio del colosso di Nabuccodonosor: hanno i piedi d'oro e il capo di legno. Anche, perché ai cenci che si legano in capo sormontano «un'attrecciolatura di perle orientali», e perché le perle e il sale «escono da uno stesso padre», consentite si affermi ch'esse dove non han sale mettono perle.
L'arguzia meriterebbe un castigo al signor Buoninsegni, ma egli né pure ha da temere pianellate dalle donne, le quali «hanno piú vigore nelle gambe per istrascinar le ingenti pianelle che forza per avventarle»; e però segue a burlare l'acconciatura alla moda del capo femminile rammentando un poeta:
I corpi delle donne
Che corrono alla festa
Con cosí ricche gonne,
Con tante gioie in testa,
Son cappanne di fieno
Coperte con pazzissimo lavoro
Di tegole, di perle e doccie d'oro.
Non basta: un paragone piú sottile, che fece fortuna, è tra le donne e un mazzo di carte. Di queste il matto da tarocchi risponde alla testa di quelle: quelle hanno i denari e li sciupano nelle gioie; le spade piccoline le portano tra i capelli e tengono uno spadino ai fianchi; nascondono i bastoni sotto i ciuffi; attaccano coppe alle borse dei mariti; e cosí via. Né il satirico scrittore smette di saltellare fino a che si ricorda essere inutile discorrere contro le donne, alle quali non bastano ad aprire gli orecchi, non che i consigli ed i frizzi, i lunghi e i gravi pendenti. -
Questa «satira menippea» pervenne alle mani del padre Angelico Aprosio da Ventimiglia, dottissimo uomo ma di testa corta, il quale ne inviò copia al senatore Loredano affinché procurasse le fosse fatta una risposta da pubblicarsi con essa; e Giambattista Torretti, per preghiera del Loredano, al quale una moltitudine di scrittori s'inchinava come a un maestro e a un Mecenate, compose una Controsatira «modestissima» e tale «che non mosse alcuno a scrivergli contro». Ma cinque anni dopo ad Arcangela Tarabotti, che nel monastero di Sant'Anna leggendo e scrivendo mitigava i tormenti delle memorie vecchie, dei nuovi desideri e dell'isterismo, fu recato da alcune dame il brutto scherzo del Buoninsegni; ed essa, la monacella che già aveva sostenuto contro un altro scrittore, in pseudonimo Orazio Plata, non essere le donne di natura inferiore agli uomini, divampò d'ira a scorgerle tanto schernite pei loro difetti e pei loro gusti.
- «Oh scellerata ed impervertita mente degli uomini, ai quali mancando forse il potersi impiegare in iscrivere fatti egregi et racconti virtuosi, poiché al nostro secolo vi sono pochissimi di loro che operino azione degna di immortalità, quasi tutti si danno ad oltraggiare e sprezzare le nobili operationi donnesche!». - E pare di vederla e udirla inveire contro il Buoninsegni nella sua fantasia a cospetto di lei con l'attitudine d'un delinquente.
- Ah sí!, le donne veston di seta perché sono vermi? portano perle perché mancano di sale? Vermi gli uomini «che rodono l'onor delle donne e hanno tarlata la loro libertà»; e, quanto alle perle, esse sono «proporzionate al candore e alla purità dell'animo loro», precisamente come del nero dei loro vestiti, che a voi, signor Buoninsegni, pare un mezzo di seduzione, è ragione «quella mestizia che le tiene oppresse, per esser sottoposte alla tirannia degli uomini e ai loro indegni capricci». E le pianelle alte sono un'«invenzione lodevole», giacché per queste le donne «van sempre sollevate dal suolo e tendono al Cielo»; e se han dorate le pianelle, «se l'infima parte è d'oro, che sarà il resto?» Gli uomini, non le donne, cerchino le loro qualità e le loro cose in un mazzo di carte. Per i denari infatti si disonorano; con le coppe si ubbriacano; e portano spade dorate ai fianchi, gli Orlandi!; e riversano i bastoni su le spalle delle mogli sciagurate. E poi nei tarocchi sono i loro ritratti con le facce da diavolo, appiccato, bagatelliere, amore falso. - Capo di legno alle donne? Teste di legno hanno i mariti, signor Buoninsegni; ma già voi procedete troppo a sofismi. «Ah se alle femmine non fosse diniegata l'applicazione alle scienze bensí si sentirebbero concetti non sofistici e mendicati paradossi!» Del resto - aggiungeva suor'Arcangela - , «ad ogni ora può provarsi se le donne han piú forza nelle gambe o nelle braccia!» -
Cosí dunque la Tarabotti si sfogò in un'Antisatira oppugnando ogni frizzo dell'«Apollo di Siena» e mettendo ella in burletta le mode degli uomini, che portavano zazzere comprate a contanti, si profumavano alla francese e per far apparire belle e grosse le gambe si riempivano le calze di bambagia; e l'Antisatira mandò a vedere al cognato Pighetti. Il quale la lesse con l'Aprosio ed entrambi trovandola «ripiena di mille spropositi e di non poche impertinenze», cercarono di dissuadere l'autrice dallo stamparla. Di che la Tarabotti pativa e s'inquietava con l'Aprosio.
«Essendo V. S. parziale del Buoninsegni mi vorrebbe senza lingua per lui, e perciò va dissuadendomi col dar nome di satire e di duelli impropri ad una buona religiosa la verità tanto grata a Dio»; ma quanto alla sua esortazione d'esser «buona religiosa», «spero di giungere nel coro de' Serafini, non che d'essere annoverata nel catalogo delle Santissime Vergini, delle cui sacre bende allor che mi cinsi il capo, non solo fui riposta nel lor numero, ma ancora annoverata fra le martiri». Insomma, come ella era deliberata a «diriger sempre le sue parole a dire la verità delle malizie degli uomini», i due censori dovettero accontentarsi che essa stampasse l'Antisatira con qualche mutazione e con qualche complimento, cosí, per indorare la pillola, all'autore della «satira menippea.».
Ma se la Tarabotti era monaca, l'Aprosio era frate, e come tale sentiva imperioso il bisogno di non darsi per vinto; ond'è che rivedendo a mano a mano le bozze le quali la Tarabotti mandava a correggere al Pighetti, gongolando e zitto zitto egli preparava una difesa del Buoninsegni che abbattesse l'oltracotanza della suora. Compose, consapevole il Pighetti, La maschera scoperta; ma presto dovette apprendere per essa che se il resistere alle donne è impresa difficile, è tempo perduto prendersela con le monache. La maschera scoperta, quando fu sbrigata dal revisore per il Sant'Uffizio, passò a Luigi Quirini, segretario dello studio di Padova; e questi, prima di dar l'ultimo permesso di pubblicazione, la diede a leggere a quella buona lana del frate Girolamo Brusoni, allora in carcere per colpa di apostasia: né il Brusoni si distrasse solo con la lettura del manoscritto, ma ne prese copia, e uscito di prigione pochi dí dopo, corse a cederla, o, se è vero quel che dice l'Aprosio, a venderla alla Tarabotti, «per ritrovar qualche sovvenimento alla sua fame.» Onde la Tarabotti diede in ismanie; e come alcuni dicevano che l'Antisatira - già pubblicata e dedicata alla granduchessa di Toscana - non era scritta da lei, parendo loro troppo ben fatta, ed altri asserivano che doveva proprio esser sua, essendo zeppa di strafalcioni nelle sentenze e nei ricordi classici, addio fama di donna illustre se anche fosse stato concesso all'Aprosio di mandare alle stampe la Maschera scoperta!
A riparare l'ultimo colpo bisognava dunque il soccorso di quanti potenti le volevano bene, e scriveva al Loredano invocandolo come «protettore benigno e difensor valoroso del senso donnesco»; al granduca di Parma Ferdinando Farnese assicurandolo della tristizia dell'Aprosio, «predicatore delle glorie del vino, confessore de' bugiardi. Mecenate degli ubbriachi», - -cioè del Buoninsegni; - scriveva per aiuto a molti altri, e alla fine ottenne quel che desiderava: La maschera scoperta non fu pubblicata. Imaginate voi l'ira dell'Aprosio? Io l'imagino per le lettere che gli inviava la monacella, la quale sembrava corbellarsi di lui e affermava con una piccola bugia ch'ella non s'era adoperata affatto «nella sua patria o fuori» a ch'egli non potesse stampare scritti contro di lei. - «Io non pretesi altro da Lei che fosse levato il mio nome da quell'opera (La Maschera), acciò che la commedia della Maschera discoverta non finisse in tragedia per qualcuno». - Capite? In tragedia! Ma il Pighetti, per riaversi nella stima della cognata, che l'aveva creduto «promotore» della Maschera e gli aveva scritto: «le ferite che si danno alle spalle sono da traditore e le parole che si dicono in assenza di coloro di cui si parla non possono offendere», dovette interporsi tra il frate e la monaca, perché quello desistesse dal vendicarsi di questa e dal minacciarla: infatti l'Aprosio s'accontentò d'allargare la materia della Maschera, e dandole sembianza d'una censura «non contro le donne, ma le vanità e i vizi in generale», compose Lo scudo di Rinaldo, ovvero lo specchio del disinganno, che vide la luce nel 1646. Veramente nello Scudo, opera in cui l'autore biasimava il lusso del suo e di tutti i tempi riferendo brani d'innumerabili scrittori antichi e contemporanei, se non mancavano rimproveri agli uomini perché mettevan la parrucca, lasciavan crescere lunghe le unghie e tormentavano «li mustacchi», erano piú le frecciate alle donne, le quali coprivan la fronte e scoprivan le poppe, si tingevano i capelli o ne assumevano di posticci, s'imbellettavano, facevano mostra d'orecchini e di zoccoli ridicoli. Tuttavia nella prefazione la Tarabotti riceveva lode di scrittrice famosa, e nel capitolo settimo ella poteva rileggere l'elogio che già le aveva fatto in latino il Pighetti: - «La purissima penna di cui ti servi, un angiolo deve aver tratto per te dalle sue ali». -
Se non che era appena quetato un frate quando un altro si fece addosso ad Arcangela, e fu, chi lo crederebbe?, l'amico suo Girolamo Brusoni. Perché l'assalisse negli Aborti dell'occasione io non so bene; so che una volta la Tarabotti gli chiedeva scusa scrivendogli: - «Può aver peccato in me una bile, che mossa dal male continuato che tengo attorno, cagiona in me una certa rabbietta ch'alle volte mi farebbe precipitare»; - e che un'altra volta si doleva con lui: - .«Quando mi capitarono nelle mani Li aborti dell'occasione, allora mi conobbi d'avvantaggio tradita.... S'ella però ha cosí operato per rendermi la pariglia d'un inganno scherzevole dovea star nelli limiti....» -
Che piú? Avanti di morire l'infelice suora ebbe ancora da difendere le donne proprio dagli scherni di quel cavaliere ch'ella avea chiamato «protettore del sesso donnesco»: il Loredano, il quale per certa accademia compose sei sonetti satirici non tutti blandi e né pure arguti come questo che segue:
S'allude al costume della Spagna di donare il condannato all'ultimo supplicio alla donna pubblica che lo chiede per marito.
Con li occhi chiusi e con le man legate,
Assicurato con infami scorte,
Veniva un meschinel condotto a morte
Perch'avea in chiesa bastonato un frate.
Quando mossa una femmina a pietate
Gridò: - Fermate, sbirri: il vo' consorte. -
A questo dire s'allargò la corte
E poneva il paziente in libertate.
Ma il reo con una faccia gioviale
Ricusò di tal grazia il benefizio
E corse ad incontrar l'ora fatale.
Poi disse al boia: - Esercita il tuo ufficio
Ché se la forca è un tormentoso male
La moglie è in verità maggior supplicio .
Ma il piú acerbo avversario d'Arcangela fu Lodovico Sesti (Lucido Ossiteo), che nel 1656 stampò a Siena una Censura dell'Antisatira dedicandola al granduca Mattia di Toscana. Cotesto «accademico Aristocratico» tra le altre cose diceva alle donne che non conveniva loro il darsi alle lettere perché «la sella disdice al somaro»; che gli uomini «usavan la parrucca per coprire i difetti cagionati dai loro regali»; che esse ostentavano il seno perché «si mostra la mercanzia che si vuol vendere», e rifacendo il famoso confronto delle carte da gioco aggiungeva che le donne
Sono nate
Sol per esser mescolate,
E si vede al paragone
Chi le mescola piú piú n'è padrone.
Ma dotto nell'arte,
Sia pur delle carte,
Chi primiera con queste unqua non fa?
Chi nella borsa sua flusso non ha.
E terminava la Censura esortando la Tarabotti «che per l'avvenire misurasse le sue forze, prima di cimentarsi con gl'ingegni di prima classe.»
Vano consiglio! La suora era morta da quattro anni.