I.

La fattoria vecchia, grande come un castello, con davanti l'ampio prato e lo steccato in mezzo per i puledri, e il muricciuolo di cinta investito dai capperi (il profumo di questi fiori, così tenui, al luglio!); la montagnola della conserva che le acacie difendevano dal caldo; l'orto con la vasca (belle, ora, anche le salamandre!); eppoi i campi di grano e di canapa, tra gli olmi, belli...

La stretta per cui si svegliava con un nodo alla gola non gli veniva da un'improvvisa imaginazione brutta o triste nella serenità del sogno; gli veniva da quel sereno fondo senza fine, da quel sole abbagliante, fermo. Nel destarsi, se vi era luce, stentava a riconoscere lo stambugio ove lo ricoverava la lavandaia; e gli pareva che il cuore gli si allargasse a vedere il cane dormente lì a lato della branda.

Non gli restava più che il cane. E il suo passato era nel sonno e nei sogni. Ma quanto soffriva!

Invano pregava Dio ogni sera che lo liberasse da questa pena. Non bastava che espiasse, nella miseria, e tenesse l'espiazione quasi elemento della sua ultima vita; no, non bastava: l'afflizione più grande doveva patirla dormendo. E il contrasto fra la sua sorte e la sorte di tutti gli altri, che al soffrire trovavano riposo al dormire, gli imprimeva in faccia quel triste sorriso mesto, come d'ironia mitigata da un doloroso pudore.

Ma diventava una contrazione spasmodica, quel sorriso, se qualche antico conoscente incontrandolo lo salutava e gli porgeva la mano.

— Stringermi la mano? — egli chiedeva mentre porgeva timidamente la sua.

E con fatica, quasi gli mancasse il respiro, rispondeva alle dimande spietate per essere pietose. Le figliuole? Una era suora, a Lugo; l'altra, moglie di un avvocato, stava a Firenze.

— Perchè non andate con lei?

Rispondeva:

— Capirete...

Già: capirete che un avvocato che si stima non può mantenersi tra i piedi il suocero in voce di aver rubato, e il conte Sesti, da cui era stato cacciato per ladro, aveva tante conoscenze, in tutta Italia!

— Non mi avanza che questo — aggiungeva Procolo Granari accennando al cane.

— Fatevi coraggio, Procolo!

Egli si avviava scuotendo il capo senza dir nulla, senza salutare. Avrebbe potuto dire che il genero guadagnava poco e che la figlia aveva da mandargli solo un piccolo aiuto di quando in quando? che l'ignoranza d'ogni cosa all'infuori della campagna, e gli anni e i malanni, non gli permettevano di buscar un soldo? che mancando di protezioni non sperava di essere ammesso nel Ricovero di Mendicità?

Andava vagabondo e il cane, alla corda, lo seguiva più mesto di lui perchè pativa più fame.

Ah! quel bracco così alto e macilento!

Faceva sin ridere i monelli; e lo chiamavan Tredici ! E se a vederlo solo, Procolo Granari, curvo nella lunga persona, coi capelli candidi sfuggenti di sotto il cappellaccio, la barba bianca rada su le guance smunte e quel suo sorriso, con gli abiti oramai cenciosi, eppure puliti, e le mani di un pallore esangue, pulite, avrebbe commosso per quasi un'apparenza di nobiltà decaduta ma non perduta, a vederlo con il cane enorme, pelle e ossa, agli occhi anche non maligni egli assumeva un aspetto sinistro; il suo sorriso pareva cattivo.

Maltrattare così una povera bestia!

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