IV.

Certo che essa l'amava, senza piú titubare don Alfonso intese al fine del suo amore; e le ripulse della dama non lo frenavano, non l'intimidivano gli ostacoli; ed essa gli scriveva invano: «Vorrei, ma non posso».

Egli un giorno, stanco, le scrisse cosí: - O la sera sarebbe venuta da lui, nel giardino, ad udire quel che aveva a dirle, od egli, alla prima buona circostanza, la porterebbe via a forza.

Domitilla, com'ebbe letto il biglietto, sorrise all'idea d'essere rapita di notte in una carrozza trascinata da due veloci cavalli e scortata da ceffi spaventosi; ma la ragione la distrasse dalle fantasie romanzesche, e poiché l'amante si ribellava, comandava, minacciava, il meglio era non badargli - se pure, a tirar troppo, la corda non si fosse rotta. No, meglio era andare da lui - se pure al convegno, per debolezza sua, non fosse seguíto ciò che sarebbe seguíto al rapimento. - Parcere subiectis et debellare superbos! Domitilla, la sera tardi, s'attenne alle norme che l'amante le aveva scritte; e don Alfonso, ricevutala da una scala nel giardino, non stentò a persuaderla che entrasse nella sua casa. - «Soggiogare il ribelle e, dopo, nel perdono, acconsentirgli» aveva determinato a sé stessa Domitilla; ed entrando disse in tono ostile, súbito:

- Per voi io comprometto, questa sera, il mio onore. Del vostro amore quali prove avete date voi a me?

- Io vi amo - rispose don Alfonso.

La dama senza badargli continuava: - Voi m'avete fatta una proposta indegna, l'insensata minaccia d'impossessarvi di me con la violenza! Ma io non vi temo; v'ascolto. Che volete?

Già alle prime parole di lei cosí avversa nell'aspetto e nella voce il cavaliere aveva perduta la riflessione del disegno che s'era preparato in mente; e alle ultime lo turbò il dubbio che la dama nascondesse un'arma; onde, umile, le chiese:

- Vittoria, che cosa debbo fare io per voi?

- Nulla, se non potete soffrire e non sapete dominarvi!

Allora egli si lamentò di lei: egli soffriva da troppo tempo, egli soffriva di quell'amore che gli pareva tenebroso ed aspro quasi un delitto o una condanna; e da lei non aveva conforto se non di poche parole vane; non aveva speranza e confidenza alcuna. - Desiderate che io soffra. E avete detto che mi amate!

- Io vi amo - ripeté essa; e ai lamenti contrappose gli aforismi appresi nei romanzi. - Non è amante degno chi non rinunci la propria volontà a quella dell'amata; né v'ha amore buono che non sia combattuto dalla sorte; né è passione nobile e pietosa in chi non sia pronto ad ogni sacrificio, al sacrificio della vita stessa.

Il rimprovero offese don Alfonso. Esclamò: - La mia vita non è vostra? Ogni mio pensiero, da quando vi ho veduta, ogni mio desiderio non è in voi? Non vorrei io liberarvi ad ogni costo della tirannia che v'affligge? Un cerchio di ferro vi stringe e vi soffoca: vorrei spezzarlo, e v'avvolgete nel mistero e mi fuggite; vorrei consolarvi o dividere nel vostro segreto i vostri affanni, e mi fuggite! Che amore è il vostro?

- Un amore onesto, paziente, generoso!

Don Alfonso tacque con uno sforzo palese per contenere il diniego contro il quale la dama era agguerrita: nel dibattito l'ira deformava la bellezza della donna ed egli che aveva creduto d'ottenerla presto in pace, quella sera, pativa come sentisse dileguarsi un sogno di felicità. Perciò egli taceva. Ed ella, quantunque quel silenzio non la sbigottisse molto, per lasciar trapelare un po' di barlume agli occhi dell'amante, proseguí.

- In quest'amore io aveva riposto il conforto d'affanni vecchi e nuovi: ad esso confidavo l'avvenire: per il bene di esso, il mio e il vostro bene, mi credevo costretta a nascondervi ciò che cercate di scoprire, a celarvi ciò che cercate di sapere, quasi dubitaste di qualche mia azione indegna. Voi ignorate le lagrime che mi costa il solo sospetto dell'amore che vi voglio; e non mi vedete quando vi sospiro, non mi udite quando vi chiamo a me, non mi sentite in voi come io sento voi in me. Mi sono ingannata. Voi, voi mi avete ingannata turbando cosí per gioco e per sfogo della vostra giovinezza la poca quiete che la sorte mi lasciava. Ma se non m'avete compresa, non m'avete meritata, don Alfonso! Addio dunque.

E stupita ora ch'egli non fiatasse, andò all'uscio per uscire: l'uscio era chiuso a chiave. Si rivolse, di bianca divenuta livida.

Il cavaliere disse orgoglioso e solenne: - Voi siete in mia balia. Ma don Alfonso della Torre vi difende proponendovi il suo nome, il suo cuore, la sua nobiltà. - E le si accostò tendendole la mano. La dama non sorrise: piú fiera, piú solenne di lui, rifatta bellissima da quell'orgoglio superiore, ella disse: - Per difendermi basta il mio nome, puro come il vostro, e la mia nobiltà, piú antica della vostra, don Alfonso della Torre!

No: ella non aveva nessun'arma; tremava e, tanto il cuore le batteva, ansimava quasi il respiro le mancasse. E vinse lei.

Ai suoi piedi il cavaliere domandava perdono con le piú umili e dolci parole che la passione gli suggeriva e con gli occhi ansiosi cercava nell'aspetto di lei il segno del perdono, come la speranza della sua vita. Essa ascoltava rasserenandosi a poco a poco, e infine su quell'ira domata, quell'orgoglio avvilito, quella fierezza abbattuta, essa sorrise e sollevò lo schiavo a baciarla nella bocca.

V.

Domitilla non aveva a pena goduto del suo trionfo che si dié colpa d'essere stata troppo debole ed arrendevole; e quantunque non dubitava della parola di don Alfonso, temeva che egli appagato nel desiderio e già pentito si disamorasse, o almeno non giudicasse grande quant'ella voleva la grazia ottenuta quella notte. Essa l'amava; ma per dominarlo le bisognava che l'ardore di lui fosse piú vivo del suo stesso ardore; e per acuirne o riagitarne le brame e inretirlo piú strettamente, le bisognava farle stentare la ripetizione e l'intero possesso della voluttà.

Gli scrisse il giorno dopo: «Guardatevi, ché è in pericolo la vostra vita.»

Don Alfonso, il quale non aveva paura di pericolo conosciuto e certo, a quell'avviso cominciò quasi sgomento a imaginare ogni piú strano affronto ed ogni danno che potesse fargli il nemico nascosto e sconosciuto; e come da un pezzo sospettava fosse il Palmenghi il carceriere della dama, cosí suppose che il Palmenghi, scoperto il trascorso della dama, cercasse vendicarsi: non usciva se non armato e seguíto da piú servi e comandava di vigilare presso la casa del vicino. Di che questi s'avvide presto; né avendo ragioni proprie d'inimicizia con il Della Torre, credette a un accordo fra i parenti di Domitilla, che l'odiavano a morte, e don Alfonso; e si guardava anch'egli. I servi dell'uno e dell'altro si guatavano in cagnesco. La rissa avvenne, e quando già Domitilla, dimentica del suo biglietto, aveva ripreso a scrivere all'amante e a confortarlo.

Un giorno don Alfonso veniva verso la porta del Palmenghi, sulla quale due figure di bravi stavano in attitudine spavalda; e poiché egli fu passato, quelli risero in faccia ai due fidi che gli erano di scorta. Offesa ai servi, offesa al padrone: don Alfonso fe' un cenno e i suoi attaccarono gli altri.

Alle grida il Palmenghi uscí con la spada in pugno, e allora don Alfonso s'avventò su di lui rapido, in un attimo, e lo colpí al cuore; poi in due salti entrò nel suo palazzo e dalla pusterla del giardino corse alla casa di Gabrio, che era poco lungi. E mentre l'amico l'aiutava a cambiar vesti perché cambiasse aria, egli gli raccomandava di ottenergli il perdono della dama, che credeva aver privata del fratello e che presto o tardi, se gli perdonasse, farebbe sua moglie. Gli raccomandava di indurla a scrivergli a Torino, dove sperava recarsi; di provvedere a che giungessero a lei le sue lettere e di adoperarsi, quando fosse tempo, ad ottenergli dal duca la grazia di quell'omicidio che aveva commesso quasi involontariamente. Gabrio promise.

Don Alfonso all'imbrunire fuggí da Parma.

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