Argia, Antigone
Argia
Una infelice io sono.
Antigone
In queste soglie
che fai? che cerchi in sì tard’ora?
Argia
Io... cerco...
... d’Antigone...
Antigone
Perché? – Ma tu, chi sei?
Antigone conosci? a lei se’ nota?
che hai seco a far? che hai tu comun con essa?
Argia
Il dolor, la pietà...
Antigone
Pietà? qual voce
osi tu in Tebe profferir? Creonte,
regna in Tebe, nol sai? noto a te forse
non è Creonte?
Argia
Or dianzi io qui giungea...
Antigone
E in questa reggia il piè straniera ardisci
por di soppiatto? a che?...
Argia
Se in questa reggia
straniera io son, colpa è di Tebe: udirmi
nomar qui tale io non dovrei.
Antigone
Che parli?
Ove nascesti?
Argia
In Argo.
Antigone
Ahi nome! oh quale
orror m’inspira! A me pur sempre ignoto,
deh, stato fosse! io non vivria nel pianto.
Argia
Argo a te costa lagrime? di eterno
pianto cagion mi è Tebe.
Antigone
I detti tuoi
certo a me suonan pianto. O donna, s’altro
dolor sentir che il mio potessi, al tuo
io porgerei di lagrime conforto:
grato al mio cor fora la storia udirne,
quanto il narrarla, a te: ma, non è il tempo,
or che un fratello io piango...
Argia
Ah! tu se’ dessa;
Antigone tu sei...
Antigone
...Ma... tu...
Argia
Sei dessa.
Argìa son io; la vedova infelice
del tuo fratel più caro.
Antigone
Oimé!... che ascolto?..
Argia
Unica speme mia, solo sostegno,
sorella amata, al fin ti abbraccio. – Appena
ti udia parlar, di Polinice il suono
pareami udire: al mio core tremante
porse ardir la tua voce: osai mostrarmi...
Felice me!... ti trovo... Al rattenuto
pianto, deh! lascia ch’io, tra’ dolci amplessi,
libero sfogo entro al tuo sen conceda.
Antigone
– Oh come io tremo! O tu, figlia di Adrasto,
in Tebe? in queste soglie? in man del fero
Creonte?... Oh vista inaspettata! oh vista
cara non men che dolorosa!
Argia
In questa
reggia, in cui me sperasti aver compagna,
(e lo sperai pur io) così mi accogli?
Antigone
Cara a me sei, più che sorella... Ah! quanto
io già ti amassi, Polinice il seppe;
ignoto sol m’era il tuo volto; i modi,
l’indole, il core, ed il tuo amore immenso
per lui, ciò tutto io già sapea. Ti amava
io già, quant’egli: ma, vederti in Tebe
mai non volea; né il vo’... Mille funesti
perigli (ah! trema) hai qui dintorno.
Argia
Estinto
cadde il mio Polinice, e vuoi ch’io tremi?
Che perder più, che desiar mi resta?
abbracciarti, e morire.
Antigone
Aver puoi morte
qui non degna di te.
Argia
Fia degna sempre,
dov’io pur l’abbia in su l’amata tomba
del mio sposo.
Antigone
Che parli?... Oimè!... La tomba?...
Poca polve, che il copra, oggi si vieta
al tuo marito, al mio fratello, in Tebe,
nella sua reggia.
Argia
Oh ciel! Ma il corpo esangue...
Antigone
Preda alle fiere in campo ei giace...
Argia
Al campo
io corro.
Antigone
Ah! ferma il pie. – Creonte iniquo,
tumido già per l’usurpato trono,
leggi, natura, Dei, tutto in non cale
quell’empio tiene; e, non che il rogo ei neghi
ai figli d’Argo, ei dà barbara morte
a chi dà lor la tomba.
Argia
In campo preda
alle fiere il mio sposo?... ed io nel campo
passai pur dianzi!... e tu vel lasci?... Il sesto
giorno già volge, che trafitto ei cadde
per man del rio fratello; ed insepolto,
e nudo ei giace? e le morte ossa ancora
dalla reggia paterna escluse a forza
stanno? e il soffre una madre?...
Antigone
Argìa diletta,
nostre intere sventure ancor non sai. –
Compier l’orrendo fratricidio appena
vede Giocasta, (ahi misera!) non piange,
né rimbombar fa di lamenti l’aure:
dolore immenso le tronca ogni voce;
immote, asciutte, le pupille figge
nel duro suol: già dall’averno l’ombre
de’ dianzi spenti figli, e dell’ucciso
Lajo, in tremendo flebil suono chiama.
Già le si fanno innanti; erra gran pezza
così l’accesa fantasia tra i mesti
spettri del suo dolore: a stento poscia
rientra in sé; me desolata figlia
si vede intorno, e le matrone sue.
Fermo ell’ha di morir, ma il tace; e queta
s’infinge, per deluderci... Ahi me lassa!...
incauta me!... delusa io son: lasciarla
mai non dovea. – Chiamar placido sonno
l’odo, gliel credo, e ci scostiamo: il ferro,
ecco, dal fianco palpitante ancora
di Polinice ha svelto, e in men ch’io il dico,
nel proprio sen lo immerge; e cade, e spira. –
Ed io che fo?... Di questo fatal sangue
impuro avanzo, anch’io col ferro istesso
dovea svenarmi; ma, pietà mi prese
del non morto, né vivo, cieco padre.
Per lui sofferta ho l’abborrita luce;
serbata io m’era a sua tremula etade...
Argia
Edippo?... Ah! tutto ricader dovea
in lui l’orror del suo misfatto. Ei vive?
E Polinice muore?
Antigone
Oh! se tu visto
lo avessi! Edippo misero! egli, in somma,
padre è del nostro Polinice; ei soffre
pena maggior che il fallo suo. Ramingo,
cieco, indigente, addolorato, in bando
ei va di Tebe. Il reo tiranno ardisce
scacciarlo. Edippo misero! far noto
non oserà il suo nome: il ciel, Creonte,
Tebe, noi tutti, ei colmerà di orrende
imprecazioni. – Al vacillante antico
suo fianco irne sostegno eletta io m’era;
ma gli fui tolta a forza; e qui costretta
di rimanermi: ah! forse era dei Numi
tale il voler; che, lungi appena il padre,
degli insepolti la inaudita legge
Creonte in Tebe promulgò. Chi ardiva
romperla qui; chi, se non io?
Argia
Chi teco,
chi, se non io, potea divider l’opra?
Qui ben mi trasse il cielo. Ad ottenerne
da te l’amato cenere io veniva:
oltre mia speme, in tempo ancora io giungo
di riveder, riabbracciar le care
sembianze; e quella cruda orribil piaga
lavar col pianto; ed acquetar col rogo
l’ombra vagante... Or, che tardiam? Sorella,
andianne; io prima...
Antigone
A santa impresa vassi;
ma vassi a morte: io ’l deggio, e morir voglio:
nulla ho che il padre al mondo, ei mi vien tolto;
morte aspetto, e la bramo. – Incender lascia,
tu che perir non dei, da me quel rogo,
che coll’amato mio fratel mi accolga.
Fummo in duo corpi un’alma sola in vita,
sola una fiamma anco le morte nostre
spoglie consumi, e in una polve unisca.
Argia
Perir non deggio? Oh! che di’ tu? vuoi forse
nel dolor vincer me? Pari in amarlo
noi fummo; pari; o maggior io. Di moglie
altro è l’amor, che di sorella.
Antigone
Argìa,
teco non voglio io gareggiar di amore;
di morte, sì. Vedova sei; qual sposo
perdesti, il so: ma tu, figlia non nasci
d’incesto; ancor la madre tua respira;
esul non hai, non cieco, non mendico,
non colpevole, il padre: il ciel più mite
fratelli a te non diè, che l’un dell’altro
nel sangue a gara si bagnasser empj.
Deh! non ti offender, s’io morir vo’ sola;
io, di morir, pria che nascessi, degna.
Deh! torna in Argo... Oh! nol rimembri? hai pegno
là del tuo amor; di Polinice hai viva
l’immagin là, nel tuo fanciullo: ah! torna;
di te fa lieto il disperato padre,
che nulla sa di te; deh! vanne: in queste
soglie null’uom ti vide; ancor n’hai tempo.
Contro al divieto io sola basto.
Argia
... Il figlio?...
Io l’amo, ah! sì; ma pur, vuoi tu ch’io fugga,
se qui morir si dee per Polinice?
Mal mi conosci. – Il pargoletto in cura
riman di Adrasto; ei gli fia padre. Al pianto
il crescerei: mentre a vendetta, e all’armi
nutrir si de’. – Non v’ha timor, che possa
tormi la vista dell’amato corpo.
O Polinice mio, ch’altra ti renda
gli ultimi onori?...
Antigone
Alla tebana scure
porger tu il collo vuoi?
Argia
Non nella pena,
nel delitto è la infamia. Ognor Creonte
sarà l’infame: del suo nome ogni uomo
sentirà orror, pietà del nostro...
Antigone
E tormi
tal gloria vuoi?
Argia
Veder io vo’ il mio sposo;
morir sovr’esso. – E tu, qual hai tu dritto
di contendermi il mio? tu, che il vedesti
morire, e ancor pur vivi...
Antigone
Omai, te credo
non minore di me. Pur, m’era forza
ben accertarmi pria, quanto in te fosse
del femminil timor: del dolor tuo
non era io dubbia; del valore io l’era.
Argia
Disperato dolor, chi non fa prode?
Ma, s’io l’amor del tuo fratel mertava,
donna volgare esser potea?
Antigone
Perdona:
io t’amo; io tremo; e il tuo destin mi duole.
Ma il vuoi? si vada. Il ciel te non confonda
colla stirpe d’Edippo! – Oltre l’usato
parmi oscura la notte: i Numi al certo
l’attenebrar per noi. Sorella, il pianto
bada tu bene a rattener; più ch’altro,
tradir ci può. Severa guardia in campo
fan di Creonte i satelliti infami:
nulla ci scopra a lor, pria della fiamma
divoratrice dell’esangue busto.
Argia
Non piangerò;... ma tu,... non piangerai?
Antigone
Sommessamente piangeremo.
Argia
In campo,
sai tu in qual parte ei giace?
Antigone
Andiam: so dove
gli empj il gittaro. Vieni. Io meco porto
lugùbri tede: ivi favilla alcuna
trarrem di selce, onde s’incendan. – Segui
tacitamente ardita i passi miei.