SCENA TERZA

Argia, Antigone

Argia

Una infelice io sono.

Antigone

In queste soglie

che fai? che cerchi in sì tard’ora?

Argia

Io... cerco...

... d’Antigone...

Antigone

Perché? – Ma tu, chi sei?

Antigone conosci? a lei se’ nota?

che hai seco a far? che hai tu comun con essa?

Argia

Il dolor, la pietà...

Antigone

Pietà? qual voce

osi tu in Tebe profferir? Creonte,

regna in Tebe, nol sai? noto a te forse

non è Creonte?

Argia

Or dianzi io qui giungea...

Antigone

E in questa reggia il piè straniera ardisci

por di soppiatto? a che?...

Argia

Se in questa reggia

straniera io son, colpa è di Tebe: udirmi

nomar qui tale io non dovrei.

Antigone

Che parli?

Ove nascesti?

Argia

In Argo.

Antigone

Ahi nome! oh quale

orror m’inspira! A me pur sempre ignoto,

deh, stato fosse! io non vivria nel pianto.

Argia

Argo a te costa lagrime? di eterno

pianto cagion mi è Tebe.

Antigone

I detti tuoi

certo a me suonan pianto. O donna, s’altro

dolor sentir che il mio potessi, al tuo

io porgerei di lagrime conforto:

grato al mio cor fora la storia udirne,

quanto il narrarla, a te: ma, non è il tempo,

or che un fratello io piango...

Argia

Ah! tu se’ dessa;

Antigone tu sei...

Antigone

...Ma... tu...

Argia

Sei dessa.

Argìa son io; la vedova infelice

del tuo fratel più caro.

Antigone

Oimé!... che ascolto?..

Argia

Unica speme mia, solo sostegno,

sorella amata, al fin ti abbraccio. – Appena

ti udia parlar, di Polinice il suono

pareami udire: al mio core tremante

porse ardir la tua voce: osai mostrarmi...

Felice me!... ti trovo... Al rattenuto

pianto, deh! lascia ch’io, tra’ dolci amplessi,

libero sfogo entro al tuo sen conceda.

Antigone

– Oh come io tremo! O tu, figlia di Adrasto,

in Tebe? in queste soglie? in man del fero

Creonte?... Oh vista inaspettata! oh vista

cara non men che dolorosa!

Argia

In questa

reggia, in cui me sperasti aver compagna,

(e lo sperai pur io) così mi accogli?

Antigone

Cara a me sei, più che sorella... Ah! quanto

io già ti amassi, Polinice il seppe;

ignoto sol m’era il tuo volto; i modi,

l’indole, il core, ed il tuo amore immenso

per lui, ciò tutto io già sapea. Ti amava

io già, quant’egli: ma, vederti in Tebe

mai non volea; né il vo’... Mille funesti

perigli (ah! trema) hai qui dintorno.

Argia

Estinto

cadde il mio Polinice, e vuoi ch’io tremi?

Che perder più, che desiar mi resta?

abbracciarti, e morire.

Antigone

Aver puoi morte

qui non degna di te.

Argia

Fia degna sempre,

dov’io pur l’abbia in su l’amata tomba

del mio sposo.

Antigone

Che parli?... Oimè!... La tomba?...

Poca polve, che il copra, oggi si vieta

al tuo marito, al mio fratello, in Tebe,

nella sua reggia.

Argia

Oh ciel! Ma il corpo esangue...

Antigone

Preda alle fiere in campo ei giace...

Argia

Al campo

io corro.

Antigone

Ah! ferma il pie. – Creonte iniquo,

tumido già per l’usurpato trono,

leggi, natura, Dei, tutto in non cale

quell’empio tiene; e, non che il rogo ei neghi

ai figli d’Argo, ei dà barbara morte

a chi dà lor la tomba.

Argia

In campo preda

alle fiere il mio sposo?... ed io nel campo

passai pur dianzi!... e tu vel lasci?... Il sesto

giorno già volge, che trafitto ei cadde

per man del rio fratello; ed insepolto,

e nudo ei giace? e le morte ossa ancora

dalla reggia paterna escluse a forza

stanno? e il soffre una madre?...

Antigone

Argìa diletta,

nostre intere sventure ancor non sai. –

Compier l’orrendo fratricidio appena

vede Giocasta, (ahi misera!) non piange,

né rimbombar fa di lamenti l’aure:

dolore immenso le tronca ogni voce;

immote, asciutte, le pupille figge

nel duro suol: già dall’averno l’ombre

de’ dianzi spenti figli, e dell’ucciso

Lajo, in tremendo flebil suono chiama.

Già le si fanno innanti; erra gran pezza

così l’accesa fantasia tra i mesti

spettri del suo dolore: a stento poscia

rientra in sé; me desolata figlia

si vede intorno, e le matrone sue.

Fermo ell’ha di morir, ma il tace; e queta

s’infinge, per deluderci... Ahi me lassa!...

incauta me!... delusa io son: lasciarla

mai non dovea. – Chiamar placido sonno

l’odo, gliel credo, e ci scostiamo: il ferro,

ecco, dal fianco palpitante ancora

di Polinice ha svelto, e in men ch’io il dico,

nel proprio sen lo immerge; e cade, e spira. –

Ed io che fo?... Di questo fatal sangue

impuro avanzo, anch’io col ferro istesso

dovea svenarmi; ma, pietà mi prese

del non morto, né vivo, cieco padre.

Per lui sofferta ho l’abborrita luce;

serbata io m’era a sua tremula etade...

Argia

Edippo?... Ah! tutto ricader dovea

in lui l’orror del suo misfatto. Ei vive?

E Polinice muore?

Antigone

Oh! se tu visto

lo avessi! Edippo misero! egli, in somma,

padre è del nostro Polinice; ei soffre

pena maggior che il fallo suo. Ramingo,

cieco, indigente, addolorato, in bando

ei va di Tebe. Il reo tiranno ardisce

scacciarlo. Edippo misero! far noto

non oserà il suo nome: il ciel, Creonte,

Tebe, noi tutti, ei colmerà di orrende

imprecazioni. – Al vacillante antico

suo fianco irne sostegno eletta io m’era;

ma gli fui tolta a forza; e qui costretta

di rimanermi: ah! forse era dei Numi

tale il voler; che, lungi appena il padre,

degli insepolti la inaudita legge

Creonte in Tebe promulgò. Chi ardiva

romperla qui; chi, se non io?

Argia

Chi teco,

chi, se non io, potea divider l’opra?

Qui ben mi trasse il cielo. Ad ottenerne

da te l’amato cenere io veniva:

oltre mia speme, in tempo ancora io giungo

di riveder, riabbracciar le care

sembianze; e quella cruda orribil piaga

lavar col pianto; ed acquetar col rogo

l’ombra vagante... Or, che tardiam? Sorella,

andianne; io prima...

Antigone

A santa impresa vassi;

ma vassi a morte: io ’l deggio, e morir voglio:

nulla ho che il padre al mondo, ei mi vien tolto;

morte aspetto, e la bramo. – Incender lascia,

tu che perir non dei, da me quel rogo,

che coll’amato mio fratel mi accolga.

Fummo in duo corpi un’alma sola in vita,

sola una fiamma anco le morte nostre

spoglie consumi, e in una polve unisca.

Argia

Perir non deggio? Oh! che di’ tu? vuoi forse

nel dolor vincer me? Pari in amarlo

noi fummo; pari; o maggior io. Di moglie

altro è l’amor, che di sorella.

Antigone

Argìa,

teco non voglio io gareggiar di amore;

di morte, sì. Vedova sei; qual sposo

perdesti, il so: ma tu, figlia non nasci

d’incesto; ancor la madre tua respira;

esul non hai, non cieco, non mendico,

non colpevole, il padre: il ciel più mite

fratelli a te non diè, che l’un dell’altro

nel sangue a gara si bagnasser empj.

Deh! non ti offender, s’io morir vo’ sola;

io, di morir, pria che nascessi, degna.

Deh! torna in Argo... Oh! nol rimembri? hai pegno

là del tuo amor; di Polinice hai viva

l’immagin là, nel tuo fanciullo: ah! torna;

di te fa lieto il disperato padre,

che nulla sa di te; deh! vanne: in queste

soglie null’uom ti vide; ancor n’hai tempo.

Contro al divieto io sola basto.

Argia

... Il figlio?...

Io l’amo, ah! sì; ma pur, vuoi tu ch’io fugga,

se qui morir si dee per Polinice?

Mal mi conosci. – Il pargoletto in cura

riman di Adrasto; ei gli fia padre. Al pianto

il crescerei: mentre a vendetta, e all’armi

nutrir si de’. – Non v’ha timor, che possa

tormi la vista dell’amato corpo.

O Polinice mio, ch’altra ti renda

gli ultimi onori?...

Antigone

Alla tebana scure

porger tu il collo vuoi?

Argia

Non nella pena,

nel delitto è la infamia. Ognor Creonte

sarà l’infame: del suo nome ogni uomo

sentirà orror, pietà del nostro...

Antigone

E tormi

tal gloria vuoi?

Argia

Veder io vo’ il mio sposo;

morir sovr’esso. – E tu, qual hai tu dritto

di contendermi il mio? tu, che il vedesti

morire, e ancor pur vivi...

Antigone

Omai, te credo

non minore di me. Pur, m’era forza

ben accertarmi pria, quanto in te fosse

del femminil timor: del dolor tuo

non era io dubbia; del valore io l’era.

Argia

Disperato dolor, chi non fa prode?

Ma, s’io l’amor del tuo fratel mertava,

donna volgare esser potea?

Antigone

Perdona:

io t’amo; io tremo; e il tuo destin mi duole.

Ma il vuoi? si vada. Il ciel te non confonda

colla stirpe d’Edippo! – Oltre l’usato

parmi oscura la notte: i Numi al certo

l’attenebrar per noi. Sorella, il pianto

bada tu bene a rattener; più ch’altro,

tradir ci può. Severa guardia in campo

fan di Creonte i satelliti infami:

nulla ci scopra a lor, pria della fiamma

divoratrice dell’esangue busto.

Argia

Non piangerò;... ma tu,... non piangerai?

Antigone

Sommessamente piangeremo.

Argia

In campo,

sai tu in qual parte ei giace?

Antigone

Andiam: so dove

gli empj il gittaro. Vieni. Io meco porto

lugùbri tede: ivi favilla alcuna

trarrem di selce, onde s’incendan. – Segui

tacitamente ardita i passi miei.

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