Scena terza

Nerone, Tigellino.

Tigel.

Signor, deh, perché dianzi non giungevi?

Udito avresti il singhiozzar di donna,

che troppo t'ama. Aspra battaglia han mosso

nel cor tenero e fido di Poppea

dubbio, temenza, amore. Ah! puoi tu tanto

affligger donna, che cosí t'adora?

Ner.

Cieca ella ognor di gelosia non giusta,

veder non vuole il vero. Amo lei sola...

Tigel.

Gliel dissi io pur; ma chi calmar può meglio

le fere angosce di timor geloso,

che ríamato amante? A lei, deh, cela

quella terribil maestá, che in volto

ti lampeggia. Acquetare ogni tempesta

del suo sbattuto cor, tu il puoi d'un detto,

d'un sorriso, d'un guardo. Osai giurarle

in nome tuo, che in te pensier non entra

di abbandonarla mai; che ad alto fine,

bench'io nol sappia, in Roma Ottavia appelli;

ma non a danno di Poppea.

Ner.

Tu il vero,

fido interprete mio, per me giurasti.

Ciò le giurai pur io; ma sorda stette.

Che vaglion detti? Il dí novel che sorge,

compiuto forse non sará, che fermo

fia d'Ottavia il destino, e appien per sempre.

Tigel.

E queta io spero ogni altra cosa a un tempo,

ove mostrar pur vogli Ottavia al volgo

rea, quanto ell'è.

Ner.

Poich'io l'abborro, è rea,

quanto il possa esser mai. Degg'io di prove

avvalorare il voler mio?

Tigel.

Pur troppo.

Tener non puoi quest'empia plebe ancora

in quel non cal, ch'ella pur merta. Ai roghi

d'Agrippina, e di Claudio, è ver, si tacque:

tacque a quei di Britannico: eppur oggi

d'Ottavia piange, e mormorar si attenta.

Svela i falli d'Ottavia, e ogni uom fia muto.

Ner.

Mai non l'amai; mi spiacque ognora e increbbe;

ella ebbe ardir di piangere il fratello;

cieca obbedir la torbida Agrippina

la vidi; i suoi scettrati avi nomarmi

spesso la udii: ben son delitti questi;

e bastano. Giá data honne sentenza;

ad eseguirla, il suo venir sol manca.

Roma saprá, ch'ella cessava: ed ecco

qual conto a Roma del mio oprare io debbo.

Tigel.

Signor, tremar per te mi fai. Bollente

plebe affrontar, savio non è. Se giusta

morte puoi darle, or perché vuoi che appaja

vittima sol di tua assoluta voglia?

De' suoi veri delitti in luce trarre

il maggior, non fia 'l meglio? e rea chiarirla,

qual ella è pur, mentre innocente tiensi?

Ner. Delitti... altri... maggiori?...
Tigel.

A te narrarli

niun uomo ardí: ma, da tacersi sono,

or che da te repudiata a dritto,

piú consorte non t'è? Stavasi in corte

l'indegna ancora; e dividea pur teco

talamo, e soglio; e si usurpava ancora

gli omaggi a donna imperíal dovuti;

quando giá in cor fatta ella s'era vile

piú d'ogni vil rea femmina; quand'era

giá entrato in suo pensiero e il nobil sangue,

e il suo onore, e se stessa, e i suoi regj avi

prostituire a citarista infame,

ch'ella adocchiando andava...

Ner. Oh infamia! Oh ardire!...
Tigel.

Eucero schiavo, a lei piacea; quindi ella

con pace tanta il suo ripudio, il bando,

tutto soffriva. Eucero a lei ristoro

del perduto Nerone ampio porgea;

compagno indivisibile, sollievo

era all'esiglio suo;... che dico esiglio?

Recesso ameno, la Campania molle

nelle lor laide voluttá gli asconde.

Tra l'erba e i fior, lá di fresc'onda in riva,

stassi ella udendo dalla imbelle destra

dolcemente arpeggiar soavi note

alternate col canto: indi l'altezza

giá non t'invidia del primier suo grado.

Ner.

Potria smentir di Messalina il sangue,

chi d'essa nasce? - Or di'; possibil fora

prove adunar di ciò?

Tigel.

Di sue donzelle

conscia è piú d'una; e il deporran, richieste.

Detto io mai non l'avrei, se Ottavia mai

avuto avesse l'amor tuo. Ma, stolto!

che parlo? Ove ciò fosse, ove mertato

ella avesse il tuo cor, non che mai farti

oltraggio tal, pensato avrialo pure?

Ragion di stato, e mal tuo grado, in moglie

costei ti diede. Ella di te non degna

ben si conobbe, e quindi il cor suo basso

bassamente locò.

Ner.

Ma oscuro fallo,

temo, che il trarlo a obbrobríosa luce...

Tigel. L'infamia è di chi 'l fece.
Ner. È ver...
Tigel.

Sua taccia

abbia ognun dunque: ella di rea; di giusto

tu, che senza tuo danno esserlo puoi.

Ner. - Ben parli. In ciò, senza indugiar, ti adopra.

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