Nerone, Tigellino.
Tigel. |
Signor, deh, perché dianzi non giungevi? Udito avresti il singhiozzar di donna, che troppo t'ama. Aspra battaglia han mosso nel cor tenero e fido di Poppea dubbio, temenza, amore. Ah! puoi tu tanto affligger donna, che cosí t'adora? |
Ner. |
Cieca ella ognor di gelosia non giusta, veder non vuole il vero. Amo lei sola... |
Tigel. |
Gliel dissi io pur; ma chi calmar può meglio le fere angosce di timor geloso, che ríamato amante? A lei, deh, cela quella terribil maestá, che in volto ti lampeggia. Acquetare ogni tempesta del suo sbattuto cor, tu il puoi d'un detto, d'un sorriso, d'un guardo. Osai giurarle in nome tuo, che in te pensier non entra di abbandonarla mai; che ad alto fine, bench'io nol sappia, in Roma Ottavia appelli; ma non a danno di Poppea. |
Ner. |
Tu il vero, fido interprete mio, per me giurasti. Ciò le giurai pur io; ma sorda stette. Che vaglion detti? Il dí novel che sorge, compiuto forse non sará, che fermo fia d'Ottavia il destino, e appien per sempre. |
Tigel. |
E queta io spero ogni altra cosa a un tempo, ove mostrar pur vogli Ottavia al volgo rea, quanto ell'è. |
Ner. |
Poich'io l'abborro, è rea, quanto il possa esser mai. Degg'io di prove avvalorare il voler mio? |
Tigel. |
Pur troppo. Tener non puoi quest'empia plebe ancora in quel non cal, ch'ella pur merta. Ai roghi d'Agrippina, e di Claudio, è ver, si tacque: tacque a quei di Britannico: eppur oggi d'Ottavia piange, e mormorar si attenta. Svela i falli d'Ottavia, e ogni uom fia muto. |
Ner. |
Mai non l'amai; mi spiacque ognora e increbbe; ella ebbe ardir di piangere il fratello; cieca obbedir la torbida Agrippina la vidi; i suoi scettrati avi nomarmi spesso la udii: ben son delitti questi; e bastano. Giá data honne sentenza; ad eseguirla, il suo venir sol manca. Roma saprá, ch'ella cessava: ed ecco qual conto a Roma del mio oprare io debbo. |
Tigel. |
Signor, tremar per te mi fai. Bollente plebe affrontar, savio non è. Se giusta morte puoi darle, or perché vuoi che appaja vittima sol di tua assoluta voglia? De' suoi veri delitti in luce trarre il maggior, non fia 'l meglio? e rea chiarirla, qual ella è pur, mentre innocente tiensi? |
Ner. | Delitti... altri... maggiori?... |
Tigel. |
A te narrarli niun uomo ardí: ma, da tacersi sono, or che da te repudiata a dritto, piú consorte non t'è? Stavasi in corte l'indegna ancora; e dividea pur teco talamo, e soglio; e si usurpava ancora gli omaggi a donna imperíal dovuti; quando giá in cor fatta ella s'era vile piú d'ogni vil rea femmina; quand'era giá entrato in suo pensiero e il nobil sangue, e il suo onore, e se stessa, e i suoi regj avi prostituire a citarista infame, ch'ella adocchiando andava... |
Ner. | Oh infamia! Oh ardire!... |
Tigel. |
Eucero schiavo, a lei piacea; quindi ella con pace tanta il suo ripudio, il bando, tutto soffriva. Eucero a lei ristoro del perduto Nerone ampio porgea; compagno indivisibile, sollievo era all'esiglio suo;... che dico esiglio? Recesso ameno, la Campania molle nelle lor laide voluttá gli asconde. Tra l'erba e i fior, lá di fresc'onda in riva, stassi ella udendo dalla imbelle destra dolcemente arpeggiar soavi note alternate col canto: indi l'altezza giá non t'invidia del primier suo grado. |
Ner. |
Potria smentir di Messalina il sangue, chi d'essa nasce? - Or di'; possibil fora prove adunar di ciò? |
Tigel. |
Di sue donzelle conscia è piú d'una; e il deporran, richieste. Detto io mai non l'avrei, se Ottavia mai avuto avesse l'amor tuo. Ma, stolto! che parlo? Ove ciò fosse, ove mertato ella avesse il tuo cor, non che mai farti oltraggio tal, pensato avrialo pure? Ragion di stato, e mal tuo grado, in moglie costei ti diede. Ella di te non degna ben si conobbe, e quindi il cor suo basso bassamente locò. |
Ner. |
Ma oscuro fallo, temo, che il trarlo a obbrobríosa luce... |
Tigel. | L'infamia è di chi 'l fece. |
Ner. | È ver... |
Tigel. |
Sua taccia abbia ognun dunque: ella di rea; di giusto tu, che senza tuo danno esserlo puoi. |
Ner. | - Ben parli. In ciò, senza indugiar, ti adopra. |