SCENA PRIMA

Almachilde, Ildovaldo.

Almac.

Vieni, Ildovaldo, abbracciami; sostegno

di mia gloria primiero. All'opre tue,

vinto il confesso, guiderdon non havvi,

che lor pareggi: ma, se pure io valgo...

Ildov.

Signor, se presso alla regal bandiera

oggi pugnai contro il vessillo infido

di Clefi, or merto a me non fia: da' primi

verdi anni miei, cresciuto ebbermi gli avi

in tal pensier, ch'ella doveami sempre

sacra parer la causa di chi regna,

qual ch'ella fosse.

Almac.

Il tuo parlar modesto

ben d'alto cor fa fede: il so; prod'uomo,

presto a piú far, poco il giá fatto estima.

Ma, a piú far che ti resta? appien dispersi,

o spenti hai tu que' miei nemici vili,

cui paura impennò rapide tanto

l'ali al fuggire. Io fuor di lena affatto,

in tua man li lasciai: sapea ch'ei fora,

dove adopravi il tuo, vano il mio brando.

Ildov.

A me fortuna arrider volle. In ceppi

Clefi vien tratto in tuo poter; ferito,

ma non di mortal colpo: al cader suo,

se ardea pur anco di valor favilla

in cor de' suoi, tosto si spense; e cadde

ogni orgoglio col duce.

Almac.

A prova poni,

Ildovaldo, il mio core. Havvi nel mondo

cosa, ove intenda il desir tuo? Deh! parla;

nulla t'ardisco offrir; ma puoi (chi 'l puote

altri che tu?) dirmi qual sia mercede,

che offenda men la tua virtú.

Ildov.

Vestirmi

di sviscerato amico tuo sembianza,

prence, non vo', poich'io tal non ti sono.

Men te, che il trono, oggi a salvare impresi;

trono, la cui salvezza oggi pendea

dal viver tuo. Potrebbe il regio dritto

spettare un giorno forse a tal, cui poco

parriami dar, dando mia vita: io quindi

aspro ne fui propugnatore. Il vedi,

che a te servir, non fu il pensier mio primo.

Nulla mi dei tu dunque; e dall'incarco

di gratitudin grave io giá t'ho sciolto.

Almac.

Ti ammiro piú, quant'io piú t'odo. Vinto

pur non m'avrai nella sublime gara.

Me tu non ami, ed altri a me giá il disse;

pur di affidarti della pugna parte,

e la maggior, non dubitava. Or biasmo

giá non ti do, perché a pugnar ti mosse

la vilipesa maestá del soglio,

piú che il periglio mio. So, che non debbe

illustre molto a pro' guerrier qual sei

parere il mezzo, onde sul trono io seggo:

primo il condanno io stesso: ma, qual fera

necessitá mi vi spingesse orrenda,

tu, generoso mio nimico, il sai.

Suddito altrui me pur, me pur tuo pari

vedesti un dí; né allora, (oso accertarlo)

vile ti parvi io mai. Macchiata poscia

ho la mia fama: or sappi; in core io stesso

piú infame assai ch'altri mi tien, m'estimo.

Ma non assonno io giá sul sanguinoso

trono; ed in parte la terribil taccia

di traditor (mai non si perde intera)

togliermi spero.

Ildov.

Io ti credea dal nome

di re piú assai corrotto il cor: ma sano,

pure non l'hai. Sentir rimorsi, e starsi...

Almac. E starmi omai vogl'io? Giá giá...
Ildov.

Ma, questo

trono, tu il sai...

Almac.

So che ad altrui s'aspetta;

che mio non è...

Ildov. Dunque...
Almac.

Deh! m'odi. Io posso

me far del trono oggi assai meno indegno.

Odimi; e poscia, se tu il puoi, mi niega

di secondarmi... Ma, il desir mio cieco

dove or mi tragge? A' tuoi servigi io dianzi

guiderdon non trovava, ed or giá ardisco

chiederne a te de' nuovi?

Ildov.

Ah! sí: favella.

Mercede ampia mi dai, se tal mi tieni

da non cercarne alle magnanim'opre.

Che poss'io far? Favella.

Almac.

Ad altro patto

non sperar ch'io tel dica, ove tu pria,

se cosa è al mondo che bear ti possa,

chiesta non l'abbi a me. Se vuoi gran parte

del regno; (intero il merti) o s'altro pure

desio piú dolce, e ambizioso meno,

ti punge il cor, nol mi celare: anch'io

so che ogni ben posto non è nel trono:

so, ch'altro v'ha, che mi faria piú lieto;

so, che assai manca all'esser mio felice.

Desio sta in me, che di mia vita è base

sola; e piú ferve in me, quanto piú trova

ostacoli. - Deh! dunque apriti meco,

perch'io ti giovi un poco, or che puoi tanto,

gli altrui dritti servendo, in un giovarmi.

Ildov.

Favellerò, poiché tu il vuoi. - Non bramo

impero, no; mal tu il daresti; e doni

son questi ognor di pentimento e sangue.

Ma, poi che aprirmi il tuo piú interno core

ti appresti, il mio dischiuderti non niego.

Ciò ch'io sol bramo, or nulla a te torrebbe,

e vita fora a me.

Almac. Nomalo; è tuo.
Ildov.

... Amante io vivo, è giá gran tempo: opporsi

sol può Rosmunda all'amor mio; tu puoi

solo da ciò distorla.

Almac. Ed è tua fiamma?...
Ildov. Romilda ell'è...
Almac. Che sento!... Ami Romilda?
Ildov. Sí... Ma stupor donde in te tanto?...
Almac.

Ignoto

m'era appieno il tuo amore.

Ildov.

Or ch'io tel dico,

perché turbarti? Incerto...

Almac.

Io?... Deh! perdona...

stupor non è... - Romilda! E da gran tempo

tu l'ami?

Ildov.

E che? forse il mio amor ti spiace?

Sconviensi forse a me? S'ella è di stirpe

regia, vil non son io. Figlia è Rosmunda

di re pur ella, e non sdegnò di sposa

dar mano a te mio uguale.

Almac.

E qual fia troppo

alta cosa per te?... Ma, il sai;... Rosmunda

di Romilda dispone;... ed io...

Ildov.

Tu forse

nulla ottener puoi da Rosmunda? e tanto

ella da te, pur tanto, ottenne. - Or basti.

Io giá son pago appieno: ogni mio merto

mi hai giá guiderdonato regalmente,

promettendo.

Almac.

Deh! no; nol creder;... voglio...

ma di'... - Romilda!... E riamato sei?

Ildov. Romilda... Eccola.

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