CAP. VI. Esiti de' due processi, fine della pazzia e conchiusione.

(dal settembre 1602 al novembre 1604 e seg.ti)

I. Nel settembre 1602, ritornando a Napoli, il Vescovo di Caserta giusta gli ordini avuti dovè riunirsi col Nunzio e col Vicario Palumbo, procedere con loro a' voti su ciascuno de' frati, e poi partecipare questi voti a Roma. Egli avea fatto redigere un completo «Sommario del processo», sulla base di quello formato in Roma dal Monterenzio con l'aggiunta delle cose raccolte posteriormente, ed anche un «Riassunto degl'indizii» per ciascuno degl'inquisiti, in fine del quale si registrò di poi il voto di ciascun Giudice. Queste scritture, composte quasi tutte dal Segretario del Vescovo D. Manno Brundusio, insieme con le bozze e con le copie de' Riassunti fornite di numerose postille di carattere del Vescovo, sono pervenute in mano nostra: esse non fanno parte del processo propriamente detto, ma ne compiono molto bene la conoscenza. Il Vescovo medesimo scrisse di suo pugno un elenco de' giudicabili in testa delle Copie de' Riassunti, e segnò queste con un numero progressivo in corrispondenza dell'elenco suddetto: naturalmente dobbiamo credere che nell'ordine medesimo si procedè alle votazioni; e siccome troviamo in primo luogo fra Pietro Ponzio, sul quale certamente nella 2a metà di agosto non si era votato ancora (ved. pag. 282), possiamo desumere che le votazioni cominciarono al più presto in settembre, verosimilmente nella 2a metà di settembre.

Si votò dunque dapprima su fra Pietro Ponzio. Il Riassunto contro costui recava: non essere stato nominato nel processo di Calabria ma carcerato d'ordine del Visitatore e per detto di D. Carlo Ruffo come germano di fra Dionisio: essere stato più volte accusato dal Pizzoni di minacce fatte nelle carceri da parte del Campanella, perchè esso Pizzoni si ritrattasse, ma avere ciò negato fra Paolo citato per conteste; essere stato sorpreso in colloquio notturno col Campanella che fingevasi pazzo, dal quale colloquio risultava «non lieve sospetto di familiarità lasciva e disonestissima tra di loro, sebbene fra Pietro fosse innanzi negli anni, rilevandosi dalla sua deposizione, e dall'aspetto, di maggiore età, di anni trenta»; infine non essere stato nè reputato nè esaminato come reo dal Vescovo di Termoli e da' colleghi (si sarebbe dunque potuto e dovuto lasciarlo in pace da molto tempo). Il Nunzio, il Vescovo medesimo ed il Vicario Palumbo, a voti uniformi giudicarono dover essere rilasciato per ciò che spettava al S.to Officio, ma con fideiussione, potendo forse risultare qualche cosa contro di lui nel progresso delle cause del Campanella e fra Dionisio. - Da questo primo Riassunto può già rilevarsi l'animo e l'andamento del Vescovo di Caserta; preciso nella esposizione de' fatti, come del rimanente ci consta per tutti i Giudici di S.to Officio la cui opera abbiamo potuto studiare, ma feroce e senz'ombra di carità nella valutazione ed interpetrazione de' fatti esposti, ad un grado che ben raramente ci è accaduto d'incontrare. I lettori conoscono il colloquio notturno del Campanella e fra Pietro che il Vescovo citava (ved. pag. 88); come mai costui potè dargli quella brutale interpetrazione? È la cosa che più ci offende da parte di questo Vescovo, e che mostrerebbe veramente in lui un'anima abietta al maggior segno: si può solo perdonargli, conoscendo come fra tutte le grandi soddisfazioni, che altrettali soggetti possono godere, è del tutto negata loro quella di una tenera e sentita amicizia, onde debbono finire col perderne assolutamente ogni senso.

Si venne poi a fra Paolo della Grotteria. Recavasi contro di lui essergli stato trovato un libercolo di segreti e sortilegi, scritto non di sua mano, pel quale avea prodotto scuse varie e non mai accertate; essere stato nominato tra' complici del Campanella dal Pizzoni, dal Soldaniero, dal Petrolo, ma da una parte averlo poi fra Dionisio negato, e d'altra parte avere il Pizzoni chiarito che non dovea dirsi complice ma familiare, ed anche avere il Petrolo chiarito che lo conosceva amico del Campanella solo per detto altrui. Considerando che il libercolo, per relazione del P.e Cherubino, conteneva semplici superstizioni soltanto, e per diretta ispezione, appena due volte mostrava abuso di parole sacre, tutti e tre i Giudici, a voti uniformi, decisero doversi fra Paolo rilasciare con fideiussione, pel medesimo motivo detto innanzi, valutando qual pena il carcere sofferto. - Così verso questo frate de' più fangosi, e già galeotto, il tribunale fu piuttosto benigno, tanto che vedremo la Sacra Congregazione di Roma giudicare necessaria per lui qualche pena spirituale.

E si passò al Bitonto. Ricordavasi per costui la sua amicizia intrinseca col Campanella e fra Dionisio attestata da diversi, la visita da lui fatta al Campanella, la dichiarazione del Pizzoni di essere complice del Campanella; inoltre l'essere stato preso in abito secolare, l'avere conversato con secolari di pessima vita, tra gli altri con Cesare Pisano; principalmente poi venivano messe in mostra le ripetute deposizioni del Pisano, il viaggio fatto con lui a Messina e le molte eresie formali dette in tale occasione, rilevate anche nell'altro foro innanzi allo Sciarava, senza sapersi con quale autorità raccolte da costui, confermate poi in punto di morte, ratificate col tormento, e non invalidate da una deposizione di Giuseppe Grillo. I Giudici, del pari a voti uniformi, decisero doversi al Bitonto amministrare la tortura per un'ora, e non risultando altro doversi rilasciare con fideiussione. - Venne poi notato, dopo la discussione sul Bitonto, che gl'indizii medesimi constavano tutti anche per fra Giuseppe di Jatrinoli, contro cui non erasi mai proceduto ad Atto alcuno, forse perchè non si trovava preso, ignorandosi anche se ne fosse stata mai ordinata la cattura o la citazione; e però i Giudici emisero il voto che fosse carcerato e si procedesse contro di lui.

Contro fra Pietro di Stilo rammentavasi la sua familiarità ed amicizia intrinseca col Campanella fin dalla puerizia; la testimonianza del Lauriana, che il Campanella ne faceva gran capitale e parlava con lui delle eresie; la testimonianza del Soldaniero che fra Pietro era venuto presso di lui a sollecitarlo perchè andasse a visitare il Campanella; l'aver lui portata una lettera al detto Soldaniero, ciò che lo dimostrava consapevole de' segreti del Campanella. Inoltre il non aver denunziato il Campanella, mentre ne conosceva alcune eresie, e come religioso e come Vicario del convento era strettamente obbligato a denunciarlo e a fuggirlo; averlo invece continuato a commendare per uomo dotto e sapiente, ed essersi poi negato a deporre, nel 1° processo, ciò che egli ne conosceva. E qui, accennate le divergenti opinioni de' dottori intorno al doversi o no ritenere veementemente sospetto di eresia lo sciente e non rivelante, concludevasi per l'affermativa, aggiungendo che tale veemente sospetto di eresia veniva comprovato dall'avere fra Pietro più volte dichiarato di volere ammogliarsi, benchè si fosse poi scusato allegando di averlo detto in via di scherzo. E però il Vescovo di Caserta emetteva il voto che gli si dovesse amministrare la tortura per purgare gl'indizii: ma il Vicario Palumbo opinò che dovesse prima sottostare ad un nuovo interrogatorio più diligente e poi darglisi una lieve tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come lievemente sospetto di eresia ed essere rilasciato, ma col bando dalla Calabria; il Nunzio, da parte sua, si uniformò al voto del Palumbo. - Così questa volta la maggioranza del tribunale non seguì la foga del Vescovo di Caserta, il quale evidentemente potea riuscire tollerabile come accusatore ma non come Giudice. Egli confondeva nel più basso modo curialesco i fatti concernenti la ribellione con quelli concernenti l'eresia, non teneva conto dell'essere stato il Lauriana dimostrato falso testimone, non teneva conto dell'essere stato il Soldaniero dimostrato di pessime qualità e forzato da fra Cornelio a dire quel che disse, non teneva conto degli esecrabili procedimenti di fra Cornelio, onde fra Pietro non avea creduto di dover rispondere nell'esame al quale costui l'avea chiamato. I Sommarii de' processi offrivano capitoli speciali contro il Lauriana, contro il Soldaniero, contro fra Cornelio e lo stesso Visitatore, ma questi capitoli pel Vescovo di Caserta rimanevano inavvertiti. Eseguita poi la votazione, il Vescovo aggiungeva che le lettere di fra Pietro ultimamente scoverte (le lettere alle Sig.re Prestinaci etc.) aumentavano i sospetti contro di lui (quasi che quelle lettere alludessero ad eresie)! Poteva e doveva fra Pietro ritenersi colpevole, ma molti degli argomenti addotti dal Vescovo potevano e dovevano tralasciarsi.

Contro il Petrolo allegavasi l'amicizia, conversazione intrinseca e confidenza col Campanella, di cui era discepolo; la fuga insieme presa in abito secolare; la comunicazione fattagli dal Campanella di più e diverse eresie oltrechè del segreto della ribellione, come esso Petrolo avea confessato, senza mai allontanarsene e senza denunziarlo, avendo appena deposto tali cose sotto le minacce e i terrori da parte del Visitatore. Inoltre la confessione ultima di Cesare Pisano ratificata in tortura, che rivelava molte eresie dette da fra Dionisio essere state confermate dal Petrolo; la testimonianza del Lauriana che egli fosse complice nella ribellione; la sua stessa condotta variabile tenuta nell'affermare, nel ritrattarsi, nel dichiarare falsa la sua ritrattazione. Laonde il Vescovo di Caserta opinava che gli si dovesse amministrare due volte la tortura, e non risultando altro, si dovesse farlo abiurare come veementemente sospetto di eresia e bandirlo dalla Calabria rilasciandolo sotto fideiussione; il Nunzio si uniformò a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola bensì gagliarda, accettando tutto il resto. - Come si vede, erano sempre messe in fascio la ribellione e l'eresia; e quantunque ciò accadesse ora in un campo più generale e più comportabile, non si può non riconoscere che il tribunale sconfinava, ed ammetteva un fatto, il quale non gli constava direttamente, e non era nemmeno passato ancora in cosa giudicata nelle persone de' frati. D'altronde pel Petrolo bastavano le proprie confessioni, rivedute e corrette con quelle del Pisano, ma il Vescovo di Caserta si credeva in obbligo di raccogliere tutto il peggio possibile, senza curarsi troppo di farne la scelta.

Contro il Lauriana ponderavasi la sua qualità di discepolo e confidente del Pizzoni «indiziato e quasi convinto delle eresie e degli altri delitti del Campanella»; la testimonianza del Soldaniero, che fosse uno degli eletti a predicare; l'avere udite eresie dal Campanella e dallo stesso Pizzoni senza averle rivelate; l'aver suonato la campana all'armi quando si andò a carcerarlo, con che mostrava «aver avuto coscienza e partecipazione de' delitti del Campanella». Inoltre il non aver deposto in giudizio se non dopo di essergli state comminate pene più gravi; e poi l'aver variato nelle deposizioni, l'aver cercato per lettere intorno ad esse consigli al Pizzoni e scuse a Ferrante Ponzio, negando in sèguito questi fatti e rimanendo convinto di mendacio; l'aver menato vita criminosa con costumi riprensibili etc. E però il Vescovo di Caserta espresse anche per lui il voto che gli si dovesse dare due volte la tortura, e non risultando nulla, dovesse abiurare come veementemente sospetto di eresia ed essere rilasciato con fideiussione: il Nunzio acconsentì a questo voto, ma il Vicario Palumbo votò per una tortura sola e per l'abiura come lievemente sospetto. - Senza dubbio contro questo abietto frate si sarebbe stato assai più nel vero procedendo per falsa testimonianza; ma non si usava, senza evidentissime ragioni, passar sopra alla quistione dell'eresia.

Con la votazione sul Lauriana chiudevasi la discussione sui frati i quali aveano rinunziato alle difese, e per tutti costoro i Giudici concordemente emisero pure il voto, che dovessero essere esiliati da entrambe le provincie di Calabria, e tenuti in monasteri ne' quali i loro Superiori potessero osservarne la vita e i procedimenti. Notiamo qui che non ci è pervenuta alcuna notizia di votazione fatta intorno al Campanella, e che verosimilmente non ce ne fu, a motivo della sua pazzia legalmente accertata, la quale facea sospendere ogni Atto ulteriore contro di lui. Ma non deve sfuggire che ne' Riassunti degl'indizii sopra riferiti, e basta guardare quello del Lauriana, trovasi espresso in termini non equivoci il giudizio di colpabilità sul Campanella, e così pure sul Pizzoni defunto. Notiamo ancora che in tutte le votazioni fatte il Nunzio non mostrò mai un'opinione propria, mentre pure egli che sedeva al tempo stesso nel tribunale della congiura, e conosceva intimamente molte e molte cose estragiudiziali, avrebbe potuto e dovuto tenerla; ma indubitatamente egli non avea studiato nè seguito con premura lo svolgimento del processo, fu quindi obbligato a rimettersene a' colleghi, e pur troppo preferì quasi sempre uniformarsi al voto del collega peggiore. Invece il Vicario Palumbo mostrò sovente un'opinione propria: i motivi da lui addotti per sostenerla non furono registrati, ma possono intendersi agevolmente da quanto sappiamo intorno al processo, e bisogna dire che questa opinione riuscì molto più giusta; vedremo che la Sacra Congregazione di Roma la preferì costantemente.

Non rimaneva che procedere alla discussione e votazione su fra Dionisio. Il 20 settembre i Giudici emisero l'ordine di citarne l'Avvocato D. Attilio Cracco, perchè l'indomani comparisse nelle case loro a dire ed allegare quanto volesse, a voce ed in iscritto, avvertendolo che avrebbero spedita la causa anche senza la sua comparsa. E subito dopo doverono imprendere la discussione de' meriti della causa, poichè nel Riassunto degl'indizii troviamo affermato essersi i Giudici più volte riuniti a tale oggetto, e nel processo troviamo registrata la loro decisione in data del 24 settembre.

Ben lungo e circostanziato fu il Riassunto degl'indizii, scritto interamente dal Vescovo di Caserta, contro fra Dionisio: e poichè esso da tanti lati riguarda anche la persona del Campanella, contro cui non abbiamo un'analoga scrittura, lo riporteremo per quanto è possibile minutamente, accompagnandolo pure con qualche appunto; del resto raccomandiamo di consultare il documento originale. Rammentavasi contro fra Dionisio la 1a deposizione del Pizzoni in Calabria ed anche la ripetizione del medesimo in Napoli; la deposizione del Lauriana, e quelle del Soldaniero, del Pisano, del Conia; la sua fuga dal convento di Pizzoni mentre procedevasi all'arresto del Pizzoni, e la sua cattura avvenuta in Monopoli mentre cercava mettersi in salvo con Maurizio; la sua amicizia strettissima e piena confidenza col Campanella, durata anche dopo che lo zio P.e Pietro Ponzio glie l'aveva inibita sotto pena di maledizione; la sua lettera al P.e Vincenzo Rodino, in cui parlava di molti segreti che non conveniva affidare alla penna, la sua qualità e i suoi costumi di poco buono odore, le vanterie di brutti peccati commessi, l'irrequietezza e il continuo vagare per la provincia anche «in compagnia de' giovanetti Cesare Pisano e Alfonso Grillo» (evidentemente il Vescovo aveva una speciale tendenza a vedere certi vizii da per tutto); infine l'ultima rivelazione di Maurizio, che non avendo mai confessato nulla con 70 ore di tortura, volle poi sgravare la sua coscienza, e «comportandosi abbastanza sobriamente, disse soltanto ciò che avea saputo dal suo cognato Gio. Battista Vitale» (era proprio certo che dovesse saperne di più). Allegavasi poi e combattevasi ciò che fra Dionisio si era sforzato di dimostrare nelle sue difese contro le persone e i detti de' testimoni a suo carico. E circa il Pizzoni, notavasi che gli era stato nemico e gli avea rubati alcuni scritti, ma osservavasi che già si erano riconciliati tra loro onde conversavano sempre insieme e si trovarono riuniti anche nel momento dell'arresto del Pizzoni; notavasi che il Pizzoni avea pessimi costumi, ma con una classica frase osservavasi che in ciò «nulla avea da dire Catilina a Cetego»; notavasi che era stato vario in certi fatti ed avea osservato molte cose essere state inserte falsamente negli esami da fra Cornelio, ma osservavasi che si erano avute «correzioni piuttosto che varianti», e si dovea credere a quel testimone tanto più, perchè in fondo avea sempre persistito nella prima deposizione malgrado i tanti esami fatti e rifatti dal Vescovo di Termoli (e qui un calcio d'asino al suo predecessore); nè doveasi prestar fede all'ultima assertiva di ritrattazione scritta dal Pizzoni in punto di morte e consegnata al suo confessore, poichè questa non s'era trovata e il confessore P.e Pietro Peres (forse Gonzales) non era di buoni costumi ed avea confessato di nascosto, senza il permesso de' Commissarii e del Curato, e poi per comune sentenza de' dottori non si dovea tener conto delle dichiarazioni de' morenti, estorte da confessori e confortatori, non essendo neanche ogni morente un S. Giovanni Battista (ma in tutti i modi, lasciando in pace S. Giovanni Battista, bisognava cercarla quella confessione e non essere verso i costumi del confessore più severo che verso quelli del Pizzoni, del Lauriana e del Soldaniero). Circa il Lauriana notavasi esserne stata messa in mostra l'intima amicizia col Pizzoni, la mala vita, l'opinione acquistata di testimone falso; ma osservavasi che queste ragioni erano frivole, e bisognava tener conto della diffamazione procuratagli da' Ponzii medesimi e dagli altri frati; che anzi le sue deposizioni erano assai verosimili, mentre già da un pezzo prima, quando non vi era sospetto d'inquisizione, per iscrupolo egli aveva attestato qualche cosa contro fra Dionisio, e poi non risparmiò neanche il suo maestro Pizzoni, e catturato con lui all'improvviso, senza precedente concerto, si trovò d'accordo con lui, nè cedè alle minacce de' Ponzii, «i più furbi ed astuti tra' calabresi» (e le suggestioni di fra Cornelio provate per tante vie? e le incertezze posteriori e i mendaci provati dallo stesso Pizzoni?). Circa il Soldaniero notavasi essere stata allegata la seduzione per parte de' Polistina, sotto promessa dell'indulto che poi gli fu concesso dallo Spinelli, le sue molte varianti con sè medesimo e con Valerio Bruno suo domestico, il mendacio provato con le deposizioni del priore e lettore di Soriano sulla circostanza dell'aver fatto cacciare fra Dionisio e il Pizzoni dal convento: ma osservavasi che nulla constava della pretesa seduzione (pertanto il nome di fra Cornelio figurava nell'indulto), e il Soldaniero era stato dichiarato dal Pizzoni già anteriormente consapevole di tutto, per comunicazione fattagli dal Campanella mediante fra Dionisio, ciò che era del pari provato dal priore e lettore di Soriano, e poi il Campanella medesimo gli avea mandato per fra Pietro di Stilo una lettera, come era confessato da fra Pietro ed attestato dal priore e dal lettore che la videro (ma la lettera non parlava di eresia, e si trovano qui sempre studiatamente confuse l'eresia e la congiura); nè le differenze tra lui e Valerio Bruno erano sostanziali, e Valerio, scorso un anno, avea potuto dimenticare qualche cosa ed anche mentirla, sussistendo non di meno una conformità tra il Soldaniero ed altri testimoni non sospetti. Circa il Pisano, si era allegata un'antica inimicizia per la parte da lui presa nella causa di fra Dionisio contro i Polistina, e la deposizione del Bitonto e del Petrolo, come pure di Giuseppe Grillo, attestanti non essersi fatti discorsi di eresia nella casa del Grillo: ma l'inimicizia era senza dubbio estinta, mentre fra Dionisio era andato col Pisano fino a Messina, e più tardi, insieme col Campanella, era andato a visitarlo nelle carceri di Castelvetere, per procurarne la liberazione, come aveva anche scritto al P.e Rodino; nè poteva tenersi conto delle deposizioni negative del Bitonto e del Petrolo, essendo costoro complici e socii nel delitto, nè di quella del Grillo, essendo inverosimile che i frati avrebbero parlato di cose tanto gravi in presenza di persone non sicure, e d'altronde la deposizione del Pisano era stata convalidata pure in punto di morte e ratificata in tortura. Circa il Caccìa, si era allegata una fede del Cappellano della galera su cui fu confortato a ben morire, attestante aver dichiarato false le cose da lui deposte contro monaci, in materia di ribellione e di eresia, essendogli state estorte con le torture dategli dallo Sciarava: ma questa fede non aveva alcun valore, perchè non rappresentava una deposizione giurata, perchè citava come contesti i P.i Ministri degl'infermi ed uno di essi nella sua fede parlò del Vitale e non del Caccìa, perchè riguardava le deposizioni fatte innanzi allo Sciarava e non quelle fatte spontaneamente innanzi al Vescovo di Gerace etc. Aggiungevasi che erano state pure prodotte fedi di alcune università che attestavano avervi fra Dionisio predicato con edificazione dottrine cattoliche, ma, naturalmente, ciò non bastava. E ricordata una quistione trattata dal Pegna nelle sue aggiunte all'Eimerico, che cioè essendo i testimoni legittimi e degni di fede, ma diversi per luogo e per tempo, non si aveva una convinzione piena e tale da fare assegnare la pena ordinaria per l'eretico negativo ed impenitente (vale a dire la degradazione e la morte), ricordata d'altro lato la gravità degl'indizii, presunzioni e congetture, segnatamente la circostanza del trovarsi «pienamente convinto nella connessa causa della ribellione», si veniva a' voti. Ed uniformemente tutti e tre i Giudici votarono la doppia tortura, seguita dall'abiura per veemente sospetto di eresia, aggiungendovi la relegazione, dopo scontata la pena per la causa della ribellione che doveva ancora essere spedita, in un convento fuori la provincia, a scelta de' Sig.ri Cardinali supremi inquisitori, con l'obbligo di alcune penitenze salutari vita durante.

Gli appunti sparsamente fatti nell'esporre questo Riassunto ci dispensano da ogni ulteriore commento sopra di esso. Principalmente fra Dionisio era più che colpevole in eresia, ma il Vescovo di Caserta spiegava contro di lui insinuazioni su tutto e su tutti, equivoci volontarii, interpetrazioni doppie, giudizii benignissimi sui testimoni a carico e severissimi su' testimoni a discarico, premura nel trovare la colpa più che la verità, indifferenza per gli odii ferocissimi delle fazioni fratesche e per la nequizia de' primi inquisitori, che avevano tanto influito nella formazione del processo: insomma, l'abbiamo detto altra volta, i frati erano colpevoli, ma meritavano migliori Giudici; un solo ne ebbero veramente buono, il Vescovo di Termoli, e fu tolto loro dalla morte, e il Vescovo di Caserta non risparmiò le insinuazioni nemmeno verso di lui. Giova conoscere testualmente ciò che egli ne disse: «ognuno che si faccia a guardare rettamente il modo tenuto dal predetto Vescovo nel ripetere tante volte i testimoni del processo offensivo, benchè debba piamente credere che il Vescovo l'abbia usato per investigare e ricercare la verità, pure vi trova non saprebbe dirsi quale umano desiderio di voler cogliere in falso i testimoni del fisco e distruggere il processo di Calabria». Non era umano ma divino desiderio quello di legger chiaro in un processo nato sotto tanti maligni influssi e brutto per tante irregolarità; il Vescovo di Caserta, scrivendo a quel modo, mostrava bene che il senso della giustizia non era in lui molto sviluppato. Il Campanella, nella sua Narrazione, come deplorò la morte del Vescovo di Termoli così giudicò il Vescovo di Caserta, e disse che costui «con dar tormenti et esser troppo fiscale non provò altro»: la qualità di «troppo fiscale» era il meno che potesse dire, e bisogna tener presente che nelle sue condizioni il Campanella dovea mostrare i più grandi riguardi alle persone e alle cose di S.ta Chiesa.

Esaurite le discussioni e le votazioni, doverono mandarsi a Roma i Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici, ed una copia, con le relative bozze, ne rimase presso il Vescovo, ed è quella a noi pervenuta: ma dobbiamo notare che il Riassunto contro fra Dionisio vi si trova solamente in bozza, non ricopiato, donde si desumerebbe che tutto questo lavoro durò fin oltre il 16 ottobre, e che il Riassunto contro fra Dionisio forse non fu mandato, come non dovè essere mandato nemmeno quello contro il Bitonto, poichè costoro a quella data riuscirono a mettersi in salvo. - Intanto deve notarsi che nel processo fu registrata la decisione presa su fra Dionisio con la data de' 24 settembre: questo fatto riesce singolare, poichè i voti de' Giudici servivano solamente per proposte da sottomettersi alla Sacra Congregazione Romana de' Cardinali Inquisitori, dalla quale poi veniva presa la risoluzione che doveva essere seguìta da' Giudici nella spedizione della causa. Noi crediamo assai verosimile che la decisione su fra Dionisio sia stata inserta nel processo molto più tardi, quando tutto fu esaurito, per far trovare un ricordo e non lasciare addirittura senza conclusione la causa di un soggetto principalissimo, su cui si aggirava la più gran parte del voluminoso processo.

Come dicevamo, fra Dionisio ed il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo il 16 ottobre; essi fuggirono dal Castello insieme col carceriere, e senza dubbio tale fuga dovè essere preceduta da lunghi concerti, pe' quali probabilmente occorsero tutte quelle tergiversazioni, tutti quegl'incidenti fatti nascere da fra Dionisio negli ultimi tempi, non esclusa forse la rissa medesima con tutte le sue conseguenze prevedute e calcolate. Il Nunzio, il Vescovo di Caserta, e parimente il Card.l Gesualdo Arcivescovo di Napoli, tutti mandarono a Roma la notizia della fuga, che appunto dal Carteggio del Nunzio si rileva nella sua data e qualità precisa. In Roma se n'ebbe dispiacere, come si rileva da una lettera del Card.l Borghese in risposta a quella del Nunzio, al quale fu raccomandato caldamente di adoperarsi per riavere nelle mani i frati fuggiaschi. In Napoli se n'ebbe «universale meraviglia», come si rileva da una lettera del Residente Veneto Anton Maria Vincenti; e sicuramente il Vicerè dovè ordinare un'apposita inchiesta, ma di tale ordine non c'è riuscito trovare alcuna traccia. Abbiamo bensì trovato ordini vigorosi in questo senso, venuti da Madrid non appena vi giunse la notizia della fuga, e con essi menzionata una carta di avvertenze da doversi tener presenti, la quale carta per altro non fu trasmessa all'Archivio di Stato: con ogni probabilità le avvertenze principali riflettevano la convenienza e la maniera di conoscere se Roma avesse tenuto mano in tale faccenda. Abbiamo trovato inoltre che lo Xarava, recatosi a Madrid per sollecitare la sua nomina a Consigliere, profittò dell'avvenimento per offrirsi ad «impinguare», come allora si diceva, l'inchiesta, e finquì la cosa riesce naturale: ma ciò che riesce strano si è l'essersi offerto pure nientemeno che a procedere nella causa di eresia tanto di fra Dionisio quanto del Campanella, siccome bene informato di tutti i loro disegni, e l'essersi da Madrid ordinato al Vicerè di vedere cosa convenisse fare circa l'intervento dello Xarava; decisamente la fuga di fra Dionisio avea fatto volgere la più viva attenzione verso Roma. Questo si può argomentare da due Lettere Regie esistenti nell'Archivio di Stato; ma anche senza di esse, si comprende che, dopo le lungaggini verificatesi nello svolgimento della causa, il Governo Vicereale dovè rimanerne tanto più diffidente e sospettoso. Nulla poi conosciamo intorno a' particolari della fuga, la quale del resto non era un fatto assolutamente straordinario; basta ricordare che ne abbiamo già citato un altro esempio in persona del cav.re gerosolomitano fra Antonio Capece. Non potremmo nemmeno dire con certezza chi fosse stato il carceriere che se ne andò co' fuggiaschi. Senza dubbio non fu il Martines, che avea già da un pezzo perduto l'ufficio; ma tutto induce a credere che sia stato Antonio de Torres detto «sotto-carceriero» nella denunzia e ricorso di Camillo Adimari contro fra Pietro Ponzio, e successo interinalmente al Martines, perchè ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, dopo di aver figurato più volte a motivo di paternità dal 7 8bre 1587 al 4 7bre 1601, egli scomparisce affatto senza lasciare alcuna traccia di sè, e d'altra parte Onofrio Martorel, che dovrebb'essere l'Onofrio sotto-carceriere citato nel processo e nella Narrazione del Campanella, dopo di avervi figurato del pari assai sovente fin dal 1583, è registrato nell'elenco de' morti in data del 14 gennaio 1605; aggiungiamo poi che nel processo, fin da' primi giorni del 1603, poco dopo la data di cui qui si tratta, incontrasi il nome di un nuovo carceriere, Martino Sances. Conosciamo per altro che fra Dionisio se ne andò a Costantinopoli e quivi abbracciò la fede Maomettana: ma le ricerche da noi istituite nell'Archivio Veneto, rovistando il grandioso Carteggio de' Baili, ci han fatto sapere che egli giunse a Costantinopoli nel maggio dell'anno seguente, essendosi trattenuto segretamente sulle galere di Malta, ed avendole lasciate nel trambusto di una fazione vittoriosa di quelle galere contro il castello di Lepanto. Avremo campo di parlarne più in là: per ora notiamo che questo incidente faceva peggiorare moltissimo la causa del Campanella.

Apparve allora un ordine di cattura «a' cursori, aguzzini ed inservienti di qualsivoglia Curia, tanto ecclesiastica quanto secolare, in qualsivoglia luogo, ecclesiastico, secolare, regolare ed anche di Monache comunque dotato di esenzione, non ostante qualunque privilegio», venendo dal tribunale accordate le veci e le voci proprie, ed inculcato a tutti e singoli, ecclesiastici e secolari, di dare aiuto, consiglio e favore necessario ed opportuno all'effetto predetto. Quest'ordine si trova in processo senza data, ma non è dubbio che dovè essere emanato propriamente il 17 ottobre; poichè vi si rileva questa circostanza, che al momento in cui fu scritto, vi si parlò solamente della cattura di fra Dionisio fuggito, e poi, con una postilla in margine, vi si aggiunse anche il Bitonto; e non ci manca nemmeno un documento fuori il processo, che attesta essere dapprima venuta al Vescovo di Caserta la notizia della fuga del solo fra Dionisio. Un'altra circostanza dobbiamo notare nell'ordine suddetto. Esso fu emanato a nome del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario Alessandro Graziano: era costui il nuovo Vicario generale successo al Vaccari, e da questo momento in poi trovasi in quasi tutti gli Atti co' quali ebbe termine il processo principale.

Ma finalmente con lettera del 29 novembre il Card.l Borghese partecipava la risoluzione della Sacra Congregazione de' Cardinali, ed ecco quanto alla presenza di S. S. si era risoluto. Pel Campanella, «che sia condannato alle carceri di questo santo Uffitio (int. di Roma) ove perpetuamente sia ritenuto senza speranza alcuna di esserne liberato»; pel Lauriana e fra Pietro di Stilo, «che si dia loro la corda moderatamente... et non sopravenendo cosa che gli aggravi, si facciano abiurare come leggiermente sospetti di heresia, con impor loro alcune penitenze salutari»; pel Petrolo, «che se gli dia la corda più acremente... et non risultando altro, si faccia abiurare come sospetto vehementemente di heresia con imporgli alcune penitenze salutari»; e si aggiungeva per questi ultimi tre frati «l'essilio da tutto cotesto Regno» e l'assegnazione «da' loro superiori» in conventi ne' quali si vivesse con maggiore osservanza, notando essere «mente di N. S.re che per le dette pene... non si pregiudichi nè si ritardi la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.». Quanto a fra Paolo, si era risoluto: «che sia rilasciato con imporgli alcune penitenze salutari»; e quanto a fra Pietro Ponzio, «che sia rilasciato liberamente dalle carceri per quello che spetta al santo Uffitio».

Ben si vede che in Roma furono accolti i voti de' Giudici nel senso più mite; solo per fra Paolo furono aggiunte le penitenze salutari, e per gli altri fu accolto propriamente il voto del Vicario Arcivescovile, che si era mostrato mite più di tutti. Ma pel Campanella, pel quale non vi furono o non giunsero fino a noi i voti de' Giudici, si prese una risoluzione abbastanza difficile a spiegarsi. Secondo la giurisprudenza del S.to Officio che abbiamo già altra volta avuta occasione di ricordare, come pazzo, quale era legalmente riuscito a dimostrarsi col tormento della veglia, il Campanella non avrebbe dovuto essere condannato, ma ritenuto in carcere, fino a che o rinsavisse o morisse, potendo solo in uno di questi due casi avere una condanna (è noto che in materia di eresia anche i morti non venivano risparmiati); invece come sano di mente, per la sua qualità di relapso, avrebbe dovuto essere condannato alla degradazione e consegna alla Curia secolare, dalla quale sarebbe stato giustiziato. Il carcere perpetuo ed irremissibile, ovvero la così detta «immurazione» che avea lo stesso significato, era la pena dell'eretico pentito, e più propriamente, secondo una prescrizione del Concilio Tolosano, la pena dell'eretico, che pel timore della morte o per qualunque altro motivo, ma non di spontanea sua volontà, era tornato in grembo alla Chiesa: posto che pel timore della morte il Campanella si fosse finto pazzo, egli non avea però dato alcun segno di ritorno in grembo alla Chiesa. D'altronde la condanna al carcere perpetuo avrebbe dovuto sempre essere preceduta dall'abiura pubblica ed anche dalla degradazione, almeno verbale se non attuale, come ordinava un rescritto di Urbano IV; e di ciò, a proposito del Campanella, non si fece alcuna parola, nè realmente si vide poi alcun Atto in sèguito. Bisogna del resto ricordare ancora che nè il carcere perpetuo, nè l'irremissibile, importavano assolutamente la ritenzione vita durante, come dalla loro denominazione si potrebbe inferire; il S.to Officio non isconosceva del tutto la massima del foro laico, che cioè il carcere doveva servire a custodia e non a pena, e quindi soleva condonare il carcere perpetuo dopo tre anni, ed il carcere irremissibile dopo otto anni. - Queste considerazioni non poterono certamente sfuggire al Governo Vicereale, che a simili argomenti attendeva con molta premura in que' tempi, ma non ci pare che siano state fatte da coloro i quali si sono occupati del Campanella; e però si sono avuti giudizii veramente un po' strani sullo spirito della condanna che il Campanella ebbe da Roma, sull'atroce condotta del Governo Vicereale verso di lui, sulla stessa determinazione presa in Roma, quando, dopo tanti anni di ritenzione in Napoli, il Campanella giunto nelle carceri Romane finì per acquistare la libertà. Certamente il Campanella fu da Roma giudicato colpevole in eresia, e non sapremmo punto ammettere che il S.to Officio gli avesse dato una condanna al carcere irremissibile senza motivo, o per semplice finzione con lo scopo di trarlo a Roma: se i compagni del Campanella furono sottoposti a tortura ed obbligati ad abiurare come sospetti leggermente o veementemente di eresia, come mai si può concepire che egli non sia stato giudicato eretico? Forse potè non essere ritenuto plenariamente convinto, come si era riconosciuto dai Giudici per fra Dionisio; ma anche ammesso ciò pel Campanella, il cui caso era veramente più grave di quello di fra Dionisio, rimane sempre a spiegarsi come mai potè avere la condanna che ebbe. Se ci è lecito esprimere una nostra opinione, essa è, che da Roma si volle dare a questa faccenda un termine ad ogni costo, poichè con la semplice ritenzione nel carcere, per aspettare il rinsavimento o la morte del Campanella e poi venire alla condanna, la faccenda sarebbe durata indefinitamente, e questo era divenuto impossibile: si mutò quindi la ritenzione continua in carcere perpetuo sine spe, senza prescrivere l'abiura e la degradazione, che nello stato in cui il Campanella si trovava, o più veramente fingeva di trovarsi, non si sarebbe nemmeno riusciti ad effettuare, e con tale ripiego si apriva la via di dare un termine anche alla causa della congiura, essendo esaurita quella dell'eresia. La condizione poi del doversi la pena scontare nel carcere di Roma non fu nemmeno speciale, perocchè trattandosi del giudizio di un tribunale non diocesano, l'andata a Roma era di regola, e se si credè conveniente di esprimerla nella risoluzione, ciò si fece per evitare ulteriori controversie col Governo Vicereale, oltrechè per affermare quella «superiorità ecclesiastica» sempre ambita da Roma più di ogni altra cosa e non del tutto riconosciuta dal Governo in tale faccenda: d'altronde l'andata a Roma si sarebbe effettuata dopo la spedizione della causa della congiura, che non doveva essere «nè pregiudicata nè ritardata», e se per questa causa il Campanella avesse riportata la condanna della degradazione e consegna alla Curia secolare, come D. Giovanni Sances avea già chiesto, egli non sarebbe andato a Roma certamente. Adunque la risoluzione della Congregazione Romana non avea punto lo scopo di trarre il Campanella da Napoli a Roma: essa facilitava solamente, e di molto, ciò che il Governo Vicereale bramava, la spedizione della causa della congiura; essa dava modo di far proferire una condanna in quella causa, come una condanna era stata proferita nella causa dell'eresia, senza tener conto della pazzia legalmente accertata! Con ciò non diremo che il Governo Vicereale avesse dovuto rimanerne contento e soddisfatto. Si comprende che esso avrebbe preferita una condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare, essendo il Campanella relapso in eresia, come D. Giovanni Sances non avea mancato di ricordare nella sua Allegazione: d'altronde non poteva fargli un'ottima impressione quella condanna di ripiego ad un carcere irremissibile che tale non era di fatto, quel ricordo di doversi codesta pena scontare in Roma, dopo «la speditione della causa della pretensa ribellione da farsi da' giudici sopra ciò deputati da S. S.», quasi che tale causa potesse terminare con una condanna a pena insignificante o con un semplice rilascio. Quando vi erano già state tante ragioni od occasioni di sospetti e diffidenze, riesce ben naturale ammettere che tutto ciò venisse ad aggiungere qualche cosa a' sospetti e alle diffidenze. Eppure non abbiamo alcuno indizio che il Governo Vicereale fosse rimasto irritato dalla risoluzione di Roma: se ne rinverrebbe qualche traccia nel Carteggio del Nunzio, come la si rinviene ogni qual volta vi era stato un positivo scontento da parte del Governo. Invece se dovessimo credere a ciò che ne disse poi il Campanella nella sua Narrazione, tutto fu fatto per compiacere il Governo; e per verità, quanto a sè, egli aveva ragione di dirlo, poichè Roma avea mostrato di non ritenerlo pazzo, mentre egli avea comprovata col più solenne de' tormenti la sua pazzia. Non sarà inutile ricordare qui le parole del Campanella. «Dopo questo (dopo il suo tormento) fuggio F. Dionisio dalli carceri, e li altri fur liberati; ma solo li frati furo esiliati dal regno per soddisfar alli regi Fiscali, el Campanella in perpetuo carcere del S. Officio in Roma sine spe. Ma perchè li frati condannati a compiacenza d'officiali regi subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella Religione, e si vide che questa condanna era ad ostentationem fatta dalli ecclesiastici; e sapendo ch'il Campanella senza esser esaminato fu condannato, e la sentenza è nulla per questo e per le appellationi secrete che prima e poi mandò a Roma, non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma; nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli» etc. Ma i frati, nella più gran parte, furono liberati dopo tortura e solenne abiura, e se furono di poi graziati dell'esilio, ciò accadeva sempre nelle condanne del S.to Officio, e sarebbe del pari accaduto per lo stesso carcere perpetuo del Campanella: e dopo tutto quello che abbiamo visto, potrebbe mai ritenersi che le condanne con le torture fossero state date a compiacenza degli officiali Regii e ad ostentationem? A noi basta assodare che non vi fu, come non vi poteva essere, una grave dispiacenza del Governo Vicereale per quella specie di condanne, e che esso non ne rimase irritato più di quanto lo era già per molti altri fatti, ed in ultimo luogo pel lunghissimo tempo impiegato nello svolgimento della causa e per la fuga di fra Dionisio; vedremo in sèguito che la sua irritazione crebbe veramente più tardi per qualche altro fatto, il quale esacerbò la diffidenza e il sospetto, aggiungendovi il risentimento e il puntiglio della peggiore specie.

Pervenuta in Napoli la risoluzione di Roma, non rimaneva che spedire la causa secondo il dettato di essa. Si sarebbe potuto farlo in pochissimi giorni, ed invece, non sapremmo dire per quale motivo, scorse oltre un mese, e le sentenze e gli atti ultimi non si compirono che al principio dell'anno seguente: lo stesso fra Pietro Ponzio, per lo quale era stato ordinato il rilascio semplice, e già il Nunzio avea più volte dato a Roma promesse formali di sollecita spedizione, non si vide libero e dovè attendere ancora. Il Nunzio si limitò a partecipare al Card.l Borghese di aver ricevuta la risoluzione presa intorno alla causa del S.to Officio, e di aver fatto sapere al Vescovo di Caserta, che era sempre pronto ad intervenire nella spedizione di detta causa.

L'8 gennaio 1603 si venne finalmente alla spedizione della causa. Secondo lo stile del S.to Officio, le sentenze furono prima scritte, e quindi promulgate e lette dal Notaro della causa agl'interessati, non essendo lecito fare altrimenti sotto pena di nullità. Si cominciò dal Campanella. La sentenza, sottoscritta da' tre Giudici, diceva che, viste le informazioni e gli Atti, visto il tenore della lettera del Card.l Borghese scritta il 29 novembre 1602 d'ordine de' Cardinali sommi Inquisitori, in esecuzione di detta lettera essi Giudici provvedevano e decretavano, che per le cause di eresia per le quali trovavasi carcerato e detenuto il Campanella doveva essere condannato, come con quel decreto era condannato, sua vita durante alle carceri formali della S.ta Inquisizione in Roma etc. etc., ripetendo la condanna e la pena ne' termini precisi da Roma trasmessi. Nel medesimo giorno suddetto il Prezioso, chiamato il Campanella con l'intervento di due testimoni, i Rev.di D. Antonio Peri e D. Vincenzo Pagano, gl'intimò e lesse la sentenza audiente et intelligente, e ne rogò un Atto appunto in questi termini. Dunque il Campanella udiva e comprendeva, e non tenevasi più conto della sua pazzia, circostanza di cui non avea da dolersi certamente il Governo Vicereale: intanto, in una ricevuta di piccolo sussidio tratto dalla somma venuta di Calabria, alla data del 30 marzo 1603, trovasi che la parte spettante al Campanella era ancora esatta da fra Pietro di Stilo, il quale dichiarava di aver «pensiero» della persona del Campanella, naturalmente perchè pazzo. Si venne poi a fra Paolo della Grotteria, per lo quale la sentenza, scritta con lo stesso formulario, decretava il rilascio dalle carceri con l'indicazione delle penitenze impostegli (recitare in giorni determinati l'ufficio de' morti, il Credo, i Salmi penitenziali e le Litanie, recitare ogni giorno il Rosario, digiunare il sabato) «riservatane la moderazione, la mitigazione e la commutazione a' Cardinali sommi Inquisitori». Ed egualmente il Prezioso, con le cautele medesime, gli lesse la sentenza audiente et bene intelligente, et omnia acceptante; più tardi poi, scorse oltre due settimane, gli consegnò la copia delle dette penitenze salutari, rogandone un altro Atto innanzi a due altri testimoni, uno de' quali era Martino Sances carceriere. Ma bisogna notare che il rilascio di fra Paolo rifletteva le cause di S.to Officio, e poichè egli era inquisito anche della ribellione, continuò a rimanere in carcere. - Si passò quindi a fra Pietro Ponzio, cui fu decretato il rilascio per le cause spettanti al S.to Officio, sempre in esecuzione della lettera di Roma; e il Prezioso gli lesse la sentenza audiente et intelligente. Fra Pietro fu veramente posto in libertà: non abbiamo notizia della data precisa in cui uscì dalle carceri, ma verosimilmente ciò accadde senza molto ritardo, non essendovi empara per lui; possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di pagamento del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22 marzo, egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e non figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare di lui.

Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di Caserta e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a fra Pietro di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana, tortura moderata, di poco più di mezz'ora, dimandando loro se fossero vere le cose che aveano deposte contro gli altri, e se avessero aderito all'eresie che avevano udite (precisamente come in Roma era stato risoluto). Possiamo dire che l'uno e l'altro si mostrarono quali li abbiamo visti finora in tutto il processo. Fra Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua deposizione fatta in Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto avere udite dal Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito, disse che egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella diceva, anche perchè come Vicario del convento non gli riusciva star sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle domande, se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a' miracoli, che era manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano avea l'obbligo di farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse che non vi aveva mai creduto, che non aveva nemmeno immaginato essere quella un'eresia, che aveva appreso l'obbligo della denunzia solamente dopo di essere stato carcerato (sempre la parte dell'ignorante). Posto allora alla corda, fra le solite grida di dolore confermò ad una ad una le risposte date, ed avendogli i Giudici domandato se volesse scendere per poter dire più comodamente la verità, disse «io non voglio scendere et non sò altro che dire, è la verità è detta». Poi oppresso dall'atrocità del dolore si fece a dire, «scenditimi, scenditimi che dirrò la verità»; ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, «non mi scenditi, non mi scenditi, perchè la verità l'hò ditta» (il povero fra Pietro diffidava di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi di non lasciarsi andare a dire cose compromettenti). Infine non potè più resistere e volle scendere, ma disse «per Dio che non hò da dire niente, nè posso dire altro per Dio»; e più volte mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo sempre che la verità l'avea detta, con segni di grandi sofferenze, essendo scorsa oltre mezz'ora, fu lasciato definitivamente. - Quanto al Lauriana, lettogli il testo della deposizione fatta in Monteleone alla presenza di fra Cornelio, e dimandatogli se le cose quivi deposte erano vere, disse, «io sono stato essaminato un'altra volta in Napoli dinanzi al Vescovo di Termoli» (sempre un appello a deposizioni anteriori); circa poi l'avere aderito all'eresie, lo negò con gravissimi giuramenti; dimandatogli se sapesse che c'era l'obbligo della denunzia, disse di sì, ed osservatogli che non avea subito fatta la denunzia a' superiori disse «mi riferisco all'essamine». Posto alla corda, emettendo le solite grida, deplorando di aver conosciuto quelle persone che aveano proferito eresie, rispondendo sempre di aver detto la verità, fra le angosce del suo dolore esclamò, «Monsignore aiutatemi, Frà Campanella è luterano marcio, abrusciatelo»! Ed allora gli venne domandato in che fosse luterano fra Tommaso Campanella, ed egli «me rimetto alle mie essamine» (sempre ignorante e brutale). Infine, essendo anche per lui trascorsa mezz'ora e più, fu fatto scendere.

Gli 11 gennaio, del pari innanzi a tutti e tre i Giudici, si amministrò la tortura a fra Domenico Petrolo, secondo le prescrizioni di Roma, più acremente e rivolgendogli le solite dimande. Con molti particolari, come era suo costume, egli disse avere udito le cose deposte non tutte in Stilo, dalla bocca del Campanella, ma averne udite anche in Castelvetere, quando fra Tommaso gli persuase di imitare il Pizzoni, di farsi leggere la deposizione di costui e deporre alcune delle cose che costui avea deposte ad oggetto di scampare dalle mani de' secolari: ond'egli così fece, e fra Cornelio scrisse aggravando la deposizione, ed egli non si curò di questo aggravamento perchè fra Tommaso gli avea detto che così gli piaceva; ma poi, innanzi al Vescovo di Termoli, avea corretto il primo esame, spogliandolo di tutto ciò che fra Cornelio aveva aggiunto. E lettegli le deposizioni fatte innanzi al Vescovo di Termoli, egli dichiarò che le cose in esse contenute erano vere, ed aggiunse che non aveva mai aderito alle proposizioni eretiche, ed aspettava che il Campanella le avesse proferite alla presenza di altri, per poterlo denunziare e far constare le cose da testimoni. Fu allora posto alla corda, sempre in esecuzione di quanto era stato ordinato con la lettera di Roma, che venne costantemente ricordata in tutti questi Atti. Le sue sofferenze furono vivissime, le sue esclamazioni strazianti continue: rivolgevasi al Nunzio, rivolgevasi al Vicario, diceva loro che si sentiva aprire il petto e si protestava che moriva; al Nunzio ricordò pure che compivano appunto allora tre anni, ed era egualmente giorno di sabato, quando aveva altra volta avuta la corda (per la congiura). Del rimanente confermò sempre che le cose deposte erano vere, e che non aveva aderito all'eresie udite: ed essendo scorsa un'ora intera, fu ordinato, come per tutti gli altri, che lo scendessero, lo slegassero, gli accomodassero le braccia, lo rivestissero e lo riponessero nel suo carcere.

Immantinente si passò a dar fuori le sentenze già scritte, e a promulgarle e leggerle, procedendo anche alla consegna delle copie delle penitenze, agli Atti dell'abiura e a quelli dell'assoluzione dalla scomunica, tanto pel Petrolo quanto per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana successivamente; sicchè tutto venne esaurito nello stesso giorno 11 gennaio 1603. Le sentenze furono questa volta, secondo il rituale, scritte con maggiore solennità ed in lingua volgare. I Giudici, dichiarandosi speciali delegati de' Cardinali sommi Inquisitori, e rivolgendo la loro parola all'inquisito, gli ricordavano la sua causa: trovarsi lui nel tribunale del S.to Officio per avere udito «da alcuni religiosi» proferire eresie formali e non averle denunziate, avere avuto un termine per le difese senza averle fatte, essersi proposta e discussa la causa e fattane relazione a' Cardinali sommi Inquisitori, e dietro loro risoluzione essersi proceduto all'esame rigoroso (la tortura) con le debite proteste del Procuratore fiscale, e visti e considerati i meriti della causa, essersi deliberato di venire alla spedizione e alla sentenza anche d'ordine particolare di detti Cardinali. Invocato quindi il nome di Gesù Cristo e di Maria Vergine, nella causa vertente tra il Procuratore fiscale e lui «reo, inquisito et processato», sedendo pro tribunali, dicevano, pronunziavano, sentenziavano e dichiaravano essere stato lui giudicato sospetto di eresia (veementemente o lievemente) e perciò incorso nelle censure: ed affinchè togliesse dalle menti loro e di altri fedeli questo sospetto contro di lui concepito, ordinavano che avanti di loro, nella Chiesa del Castello, pubblicamente e in giorno festivo abiurasse, maledicesse, detestasse ed anatemizzasse questa ed ogni altra eresia nella forma che da loro sarebbe stata data, contentandosi, dopo ciò, di assolverlo dalla scomunica incorsa. E per non far rimanere que' gravi errori totalmente impuniti e dare esempio agli altri, lo condannavano all'esilio fuori Regno vita durante o pel tempo che parrebbe a' detti Cardinali, e alla permanenza in un convento assegnato dal suo superiore regolare, dando cauzione di 25 once d'oro per l'osservanza dell'esilio, e in difetto obbligandosi a servire «per un remigante alle galere della S.ta Sede» per un tempo ad arbitrio di detti Cardinali. Gl'imponevano poi per penitenze salutari la confessione una volta la settimana, la frequente celebrazione della Messa e il Rosario ogni giorno, dichiarando che questa condanna non dovea ritardare nè impedire la spedizione della causa della ribellione, e riservando la moderazione, commutazione e mitigazione delle dette pene e penitenze a' Cardinali sommi Inquisitori. Conchiudevano: «Et così dicemo, pronontiamo, sententiamo, condanniamo, penitentiamo, et riserviamo in questo et in ogn'altro miglior modo et forma che di raggione potemo et dovemo», sottoscrivendosi ognuno col suo titolo e con la qualità di Commissario Apostolico. - Una simile sentenza di veemente sospetto fu dal Notaro della causa promulgata e letta dapprima al Petrolo, audiente et intelligente, alla presenza di 7 testimoni, e subito dopo, avuta anche la copia delle penitenze salutari impostegli, tutto addolorato com'era, il Petrolo fu tradotto nella Chiesa del Castello, ed ivi inginocchiato innanzi ai Giudici pronunziò la solenne abiura, secondo la scritta già preparata, e vi appose la sua firma. L'abiura conteneva la notizia della causa e della condanna, calcata sul formulario della sentenza. L'inquisito dichiarava che, inginocchiato innanzi a' Giudici e toccando i Santi Evangeli, confessava e si doleva di avere gravemente errato contro la Chiesa, perchè avendo da alcuni religiosi udito proferire eresie formali non li aveva denunziati; ed essendo stato giudicato veementemente sospetto di eresia, per rimuovere dalla mente di tutti i fedeli questo veemente sospetto abiurava etc. etc., promettendo e giurando di non mai più ascoltare eretici, di denunziarli subito qualora gli accadesse di conoscerli e udirli per l'avvenire, di adempiere a tutte le pene e penitenze impostegli, ed infine ricercando il Notaro là presente di scrivere quella cedola di abiura recitata parola a parola, non sapendo lui bene scrivere (!) e di fare d'ogni cosa pubblico istrumento (ciò che per altro era stato già preparato). Da ultimo il Curato D. Gaspare di Accetto, con le solite cerimonie, procedeva alle assoluzioni dalla scomunica, censura e pene incorse; ed anche di questo fu rogato un Atto. - Allo stesso modo si fece di poi per fra Pietro di Stilo e pel Lauriana colpiti di lieve sospetto: l'uno dopo l'altro adempirono agli Atti e formalità di cui si è finora discorso.

Rimaneva intanto a compiersi ancora la parte più difficile pei poveri frati, la fideiussione di 25 once d'oro per ciascuno. Naturalmente, nella loro condizione, era quasi impossibile trovare anche uno degli strozzini i quali solevano fare questa specie di affari, e i Giudici l'aveano preveduto nella loro sentenza. Mandarono dunque un memoriale con cui diceano volersi obbligare alla pena della galera invece di dare la fideiussione, giacchè «per essere forastieri» non aveano fideiussori. E il 16 marzo il Notaro Prezioso, andato in Castel nuovo, rogò un Atto coll'intervento di cinque testimoni, e tra essi Felice Gagliardo, pel quale i tre frati, «sciolti da' ceppi e dalle catene e costituiti in libera libertà» secondo la formola solita in questi casi, spontaneamente dichiararono che non avendo trovato fideiussori si obbligavano a servire da remiganti sulle galere della S.ta Sede, per un tempo ad arbitrio de' Cardinali sommi Inquisitori, nel caso di contravvenzione all'esilio fuori Regno vita durante, e alla permanenza in un convento assegnato dal loro superiore giusta la sentenza. Il 21 marzo la copia delle sentenze, decreti, abiure, ed obbligo della galera fu mandata a Roma.

Così nel marzo 1603 ebbe veramente termine il processo di eresia del Campanella e socii, durato, soltanto in Napoli, poco meno di tre anni, dal 10 maggio 1600 al marzo 1603, e finito con sole quattro condanne di frati propriamente per l'eresia: ve ne sarebbero state sei, qualora fra Dionisio e il Bitonto non fossero riusciti a fuggire, e computandovi anche il Pizzoni morto nel carcere, si sarebbero in tutto avuti, dopo tanto scalpore, sette frati solamente più o meno eretici. Ecco a quali proporzioni si riducevano le cose circa l'eresia, ed essendoci note le condizioni di taluni di questi frati, sopratutto del Lauriana ed anche del Petrolo, di fra Pietro di Stilo e del Bitonto, dobbiamo assolutamente ridurre le cose sempre più, accordando a' soli tre nominati nel processo in modo più spiccato, Campanella, fra Dionisio e Pizzoni, la possibilità di una opera efficace nel senso di una riforma religiosa, e riconoscendo unicamente nel Campanella la capacità di concepirla ed insinuarla. - Pertanto i frati rimasti in carcere, cioè il Campanella, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Lauriana ed anche fra Paolo della Grotteria, erano in grado oramai di saldare il loro conto col tribunale per la congiura: ma vedremo che vi furono altri incidenti e si andò incontro a lungaggini egualmente da questo lato, nè si potè cominciare a prendere una risoluzione a loro riguardo che nel luglio dell'anno seguente!

Dobbiamo aggiungere che il tribunale per l'eresia ebbe ancora a compiere qualche altro Atto circa il Soldaniero e Valerio Bruno, mentre per Orazio S.ta Croce e Felice Gagliardo avea provvisto con quello speciale processo secondario affidato al tribunale diocesano, le cui vicende abbiamo anche già narrato. Circa Valerio Bruno, rammentiamo che dietro due suoi memoriali, favorevolmente accolti dal Vicario Palumbo e dal Vescovo di Caserta, egli fu abilitato con fideiussione e coll'obbligo di non partire da Napoli, legalmente domiciliato presso Carlo Spinelli, avendo il Vicario Palumbo opinato che dovesse essere interrogato di nuovo e poi spedito. Fu quindi, il 19 luglio 1603, decretato un nuovo esame pel Bruno, ad oggetto di sapere se veramente il Soldaniero avesse chiesta al priore e al lettore di Soriano l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni da quel convento, per l'eresie che aveano manifestate. Costretto a ripresentarsi in tribunale, il 19 agosto fu esaminato dal Vicario Palumbo «sostituto e deputato», e nell'esame si ricordò solamente di aver conosciuto fra Dionisio e il Pizzoni in Soriano, ma pel resto mostrò non ricordarsi più di nulla, dicendo, «dopò che hebbi la corda (int. per qualche incidente od anche per la sola ratificazione delle cose deposte nella causa della congiura) hò persa la memoria, è da quà ad un Credo non mi ricordarò di quello che V. S. me hà dimandato». Così il 19 novembre fu emanato per lui un decreto di rilascio ma pur sempre con fideiussione; e questa volta, il 28 gennaio 1604, si trovarono due disgraziati, un tessitore ed un calzolaio, che si obbligarono a presentarlo ad ogni richiesta nelle carceri Arcivescovili sotto pena di 50 once d'oro, obbligandosi il Bruno medesimo alla pena della galera, e tutti e tre indicarono per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli, onde si vede che costoro erano tutti dipendenti dallo Spinelli. - Circa il Soldaniero, rammentiamo che essendo nel marzo 1602 partito per la Calabria in contravvenzione all'obbligo assunto di rimanere in Napoli, accertato il fatto con una informazione, venne confiscata la cauzione data e prescritta la citazione a comparire fra tre giorni sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, onde finì poi per essere carcerato di nuovo in Calabria. L'informazione eseguita dal Prezioso nel domicilio del Soldaniero in Napoli, esaminando la sua albergatrice Lucrezia Marmana bottegaia alla Carità, Beatrice d'Avanno maritata ad un genovese e divenuta amante del Soldaniero, inoltre anche Agostino S.ta Croce clerico, fratello di Orazio ed albergato del pari in casa della Marmana, avea fatto conoscere che il Soldaniero se n'era andato in Calabria per arrolare soldati, avendo avuto l'ufficio di alfiere dal capitano Gio. Paolo de Corduba; poichè i banditi davano un contingente notevole all'esercito, come del resto dovunque, e nelle occorrenze il Governo concedeva anche indulti agli assassini coll'obbligo di servire alla guerra per un numero di anni determinato, facendo desolare segnatamente le provincie di Fiandra e facendo maledire il nome napoletano con altrettali soggetti. Il Soldaniero si schermì per non breve tempo, ma cadde finalmente in potere delle forze Regie, e venne chiuso nelle carceri dell'Audienza di Calabria a disposizione del Vescovo di Caserta. Carlo Spinelli s'interessò allora anche per lui, lo raccomandò a voce e scrisse di poi una lettera al Vescovo, che fu perfino inserta nel processo e ne mostra la firma autografa, presentando i nomi di varii individui capaci di fornire la cauzione pel Soldaniero, tra' quali nientemeno che il nome di Valerio Bruno. La lettera fu scritta il 23 gennaio 1604, e il 26 il Vescovo di Caserta emanò un decreto di rilascio pel Soldaniero dalle carceri della R.a Audienza di Calabria, con la cauzione di 50 once d'oro e l'obbligo di presentarsi fra quindici giorni nelle carceri Arcivescovili di Napoli. Una significatoria di tale decreto fu subito spedita al Governatore e alla R.a Audienza di Calabria, ma senza aspettarne l'esecuzione, il 28 gennaio 1604, nella stessa data in cui rogavasi la fideiussione per Valerio Bruno, fu rogata anche quella pel Soldaniero, rimanendo accettato per fideiussore, insieme con due altri individui, appunto Valerio Bruno, e sempre indicata per domicilio la casa di Carlo Spinelli presso la Chiesa di S. Lucia a mare. Evidentemente lo Spinelli e il Vescovo di Caserta erano due anime fatte per intendersi senza la menoma difficoltà: abbiamo motivo di ritenere che il Soldaniero sia stato lasciato in pace, non trovandosi alcun altro esame di lui, e conviene dire che con tanta benignità verso due furfanti quali il Soldaniero e il Bruno, dopo tanto rigore verso i poveri frati, il Vescovo di Caserta nella fine della causa abbia emulato la condotta tenuta nel principio da fra Cornelio. Ma conviene anche dire che non dal tribunale, bensì dal solo Vescovo di Caserta, furono compiuti questi ultimi Atti, co' quali rimase definitivamente chiuso il lungo processo dell'eresia.

II. Passiamo all'esito del processo della congiura; e qui esporremo dapprima le poche altre notizie che ci è riuscito raccogliere intorno agli Atti ulteriori del tribunale pe' laici, il quale non cessò mai di funzionare durante il lungo tempo in cui funzionò il tribunale dell'eresia, ed anzi si tenne ancora aperto per qualche anno dopo. Abbiamo già detto altrove, che secondo il costume del tempo si sentenziava separatamente e successivamente per ciascuno inquisito e per gruppi speciali d'inquisiti; vi furono quindi, di tratto in tratto, sentenze non solo pe' catturati, ma anche pe' contumaci che con pubblico bando erano stati dichiarati «forgiudicati». Possiamo dire con certezza che non si ebbero altri supplizii, poichè conoscendo i nomi de' principali inquisiti, li avremmo senza dubbio ravvisati ne' Registri dell'Archivio de' Bianchi di giustizia: si ebbero invece gravi condanne a parecchi anni di carcere, come per taluno degl'inquisiti ci risulta da documenti che abbiamo trovati nel Grande Archivio; e si ebbero ancora più numerose assoluzioni e rilasci, come ci risulta dalle notizie autentiche, registrate nel processo dell'eresia, circa coloro i quali figurarono egualmente in tale processo o vi furono semplicemente nominati.

Cominciando da quest'ultima categoria, non abbiamo che a riassumere le notizie sparsamente apprese dal processo di eresia. Ricordiamo dunque, che verso la fine di settembre 1600 erano stati abilitati e si trovavano pronti a partire per la Calabria tutti o quasi tutti gl'inquisiti di Catanzaro, segnatamente Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, e con costoro probabilmente anche il Franza, il Flaccavento, gli Striveri etc., onde a tale data nel processo dell'eresia fra Dionisio chiedeva che fossero interrogati di urgenza, prima che partissero. Ricordiamo che Felice Gagliardo, già torturato una prima volta in Calabria, ebbe un'altra tortura per la ribellione, un po' prima del 19 marzo 1602, quando fra Pietro Ponzio ne fece menzione come di un fatto non remoto; e la tortura fu acre, verosimilmente tamquam in cadaver come allora si soleva prescrivere ne' delitti gravi, onde il Gagliardo medesimo disse di aver avuto «a morire», ma non confessò nulla e dovè essere assoluto, poichè non trovò alcuno ostacolo all'uscita dal carcere quando finì di saldare i suoi conti col S.to Officio. Ricordiamo inoltre che tra il febbraio e l'aprile 1602 erano già stati assoluti il Conia, il Marrapodi, l'Adimari, probabilmente anche il S.ta Croce, tutto il gruppo degl'inquisiti che insieme col Gagliardo e col Pisano si trovarono rinchiusi nelle carceri di Castelvetere; e i primi tre aveano pure fatto ritorno in Calabria subito dopo l'assoluzione, mentre il S.ta Croce rimase in carcere essendo implicato nelle materie di S.to Officio. Ricordiamo infine che nel tempo medesimo era stato egualmente assoluto Geronimo Campanella e forse anche Gio. Pietro Campanella (ved. pag. 241): l'ultima notizia avuta intorno a Geronimo si fu l'assistenza che egli faceva insieme con Gio. Pietro, il 2 agosto 1601, al povero fra Tommaso ancora ammalato pel grave tormento sofferto; più tardi, tra il febbraio e l'aprile 1602, egli era già tornato a Stignano.

Relativamente a' contumaci forgiudicati, dallo stesso processo di eresia abbiamo appreso che Gio. Gregorio Prestinace nell'agosto 1601 voleva presentarsi, e fra Pietro di Stilo vivamente raccomandava che se ne astenesse: nè altro sappiamo intorno alla fine di questo amico intimo del Campanella, come pure dell'altro egualmente fuggiasco, Fulvio Vua, mentre intorno a Tiberio e Scipione Marullo possiamo ritenere che non patirono gravi molestie, poichè troviamo Scipione registrato tra coloro i quali si dottorarono nell'aprile o maggio 1604, e però bisogna ammettere che egli abbia potuto fare i suoi studii negli anni precedenti. Abbiamo appreso poi da documenti, che ci è riuscito del pari trovare nel Grande Archivio, talune altre notizie sul Baldaia, sul Dolce, sull'Alessandria, sul Tranfo, inscritti, come si è veduto a suo tempo, in una lunga lista di forgiudicati.

Geronimo Baldaia di Squillace verso la fine del 1603 scorreva la campagna con comitiva di fuorusciti, ed aveva pur allora commesso un omicidio, d'accordo, a quanto pare, col capitano di Petrizzi (tanta era la confusione e corruzione amministrativa a que' tempi): la Corte del Principe di Squillace lo catturò, e pretese di farne essa la causa, ma l'Audienza di Calabria ultra si diede a raccogliere contro di lui informazioni «de più delitti»; nel luglio poi 1604 il Vicerè ordinò che queste informazioni gli fossero trasmesse, come pure che il Baldaia fosse dalle carceri di Squillace tradotto a Napoli, senza per altro fare alcun cenno della sua condizione di forgiudicato per la causa della congiura, sicchè dovrebbe dirsi essere stata quella condizione affatto dimenticata. Quanto a Tolibio Dolce di Satriano, nel giugno 1604 il Capitano di Stilo aveva già catturato un Gio. Antonio Lucano, che gli avea dato ricetto mentre trovavasi «forgiudicato per la causa di ribellione», e poi finì per essere catturato egli medesimo, nell'ottobre di quell'anno, per opera di D. Carlo di Cardines Marchese di Laino, Governatore di Calabria ultra in quel tempo: il documento che lo riguarda non fa menzione di altri delitti da lui commessi, ma lo dichiara solamente «forgiudicato nella causa della pretensa ribellione», ed inviato a Napoli perchè quivi «in detta causa... si procede per delegatione», onde il Vicerè loda molto nel Marchese «la diligentia de un cossì accertato et signalato servitio». Da ciò rilevasi che al cadere del 1604 il tribunale speciale della congiura pe' laici era sempre aperto; ed aggiungiamo che un altro documento ci mostra il Dolce tuttora nelle carceri del Castel nuovo nel 1610. Passando a Gio. Francesco d'Alessandria, dobbiamo dire che egli continuava nella sua mala vita di fuoruscito in compagnia pure di Antonio suo padre, e nel 1605 venne finalmente catturato: un reclamo contro di lui lo dichiara «carcerato inquisito per la causa della Rebellione», sottoposto ad informazione per un omicidio in persona di un Antonio Lapronia e per «altri homicidii et enormi delitti»; un reclamo poi contro l'Auditore Ferrante Barbuto, successo all'Auditore Hoquenda come delegato a tale informazione, rivela che il Barbuto ebbe per mezzo di Carlo di Paola, nostra vecchia conoscenza, D.ti 200 «acciò guastasse l'informatione presa». Entrambi questi documenti meritano di essere consultati per acquistare una nozione de' tempi sempre più esatta, ma principalmente il secondo, scritto dal figlio di Gio. Geronimo Morano, altra nostra conoscenza, merita di essere consultato in tutta la sua estensione: poichè esso, oltre l'Alessandria, menziona diversi inquisiti, tra' quali Paolo e Scipione Grasso figli di Jacovo, presi con bando che concedeva indulto a chi li consegnasse vivi o morti; ed anche Gio. Domenico Martino famoso fuoruscito, probabilmente «il figlio di Nino Martino», che insieme co' «figli di Jacovo Grasso» il Campanella nominò nella sua Dichiarazione scritta come individui sui quali i Contestabili facevano assegnamento per la ribellione. Nessuno di costoro trovasi qualificato «inquisito per la causa della ribellione» come s'incontra in persona del D'Alessandria; e notiamo qui che la cosa medesima accade pure per altri fuorusciti egualmente nominati dal Campanella come amici di Maurizio disposti alla ribellione, cioè per Carlo Bravo e pe' Baroni di Reggio, secondochè ci mostrano altri documenti dello stesso tempo, onde si può dire che essi nemmeno vennero perseguitati per questa causa. Infine quanto ad Alessandro Tranfo, un documento del Grande Archivio ce lo mostra nel 1606 nella sua Baronia di Precacore, ma non perseguitato, sibbene in conflitto con un altro individuo di nostra conoscenza, quel furfantello di Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo (ved. pag. 129). Verosimilmente egli si presentò e riescì ad opporre qualcuna delle eccezioni consentite dalla giurisprudenza del tempo anche a' forgiudicati, e dovè difendersi in modo da rimanere assoluto: così, trovandosi nel luglio 1606 in compagnia del Capitano] di Precacore, ed essendogli passato arrogantemente dinanzi Aquilio Marrapodi già divenuto contumace per cause criminali, diede ordine che fosse preso, ma ne ebbe immediatamente minaccia di morte e dovè lasciarlo andare; nè manca qualche documento che accenna alle violenze ed omicidii commessi così da Aquilio come dal medesimo Gio. Angelo Marrapodi suo padre. Di Marcantonio Contestabile, del Famareda, dell'Joy etc. non c'è riuscito trovare altra traccia; non ci farebbe meraviglia che, dopo un'ecclisse durante qualche tempo, abbia ognuno ripigliata la sua solita maniera di vivere, rimanendo nella mala vita coloro i quali vi erano abituati; senza dubbio questo s'incontra per parecchi già imprigionati e tormentati per la congiura, con essersi in loro verificato un peggioramento di vita dietro i travagli sofferti. Ma in somma, per quanto finora sappiamo, col 1605 cessano le notizie intorno al processo della congiura pe' laici, e non abbiamo motivo di ritenere che siasi ulteriormente proceduto per essa. Ci resta solo la notizia di una relegazione del D'Alessandria all'isola di Capri nel 1615, senza alcun cenno della causa; ma verosimilmente fu questa una mitigazione della pena negli ultimi anni che dovevano ancora scontarsi, secondo il costume del tempo.

Veniamo ora all'esito del processo della congiura per gli ecclesiastici. Anche da questo lato dobbiamo dire innanzi tutto, che il tribunale Apostolico non solo rimase aperto, ma tenne pure altre sedute, dopo che ebbe liberati i 12 inquisiti presi per sospetti senza fondamento, e trattate le cause di tutti gli altri ecclesiastici incriminati, riservando la spedizione di esse fino a che ciascuno, o come principale o come testimone, avesse esaurito il suo còmpito nel processo dell'eresia. Così per Giulio Contestabile, visto nel corso di quest'ultimo processo che egli risultava non più incriminabile come principale ed era stato già più volte interrogato qual testimone, dopo il suo ultimo esame del 15 novembre 1600 il tribunale dovè immediatamente riunirsi per spedirne la causa della congiura, e sappiamo che emanò una sentenza di condanna a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria. Tale esito della sua causa trovasi notato in coda del Riassunto degl'indizii compilato contro di lui; e che la sentenza abbia dovuto essere pronunziata appunto nel novembre 1600, si desume da' documenti relativi all'espiazione della pena assegnatagli. Infatti una lettera del Card.l S. Giorgio al Nunzio, in data del 15 novembre 1602, fa conoscere che il Contestabile avea supplicato S. S. di rimettergli per grazia tre anni di esilio che gli rimanevano da scontare, avendone già scontati due, e S. S. volea sapere qual fosse l'opinione del Nunzio intorno a ciò. Fermandoci un momento a questo punto, dobbiamo indispensabilmente notare che circa tale condanna il tribunale non chiese a Roma la risoluzione da doversi prendere, ed anzi non ne diede nemmeno partecipazione alla Curia, come si può desumere dal non vederne fatto alcun cenno in questo senso nel Carteggio del Nunzio: eppure il Breve avea prescritto di procedere «usque ad sententiam exclusive»; sicchè bisogna dire esservi stato un tacito abuso da parte del tribunale e una tacita acquiescenza da parte di Roma. Ciò forse diè poi motivo o pretesto al Campanella di credere che il Breve avesse prescritto di procedere «usque ad sententiam inclusive», come egli scrisse in una Lettera del 1624 a Cassiano del Pozzo pubblicata dal Baldacchini, dolendosi perchè nella persona sua non aveano neanche osservato il Breve che così prescriveva: ma invece è certo che il Breve avea la parola exclusive (noi l'abbiamo riscontrata tanto nella copia che se ne conserva in Firenze quanto nella copia che se ne conserva in Simancas), e bisogna pur dire che coll'abbandono di tale riserva divenne tacitamente compiuto in fatto, mentre non stava in dritto, l'abbandono degli ecclesiastici all'influenza del Governo Vicereale, essendo questa predominante per l'apatia del Nunzio verso di loro. Tornando ora alla grazia chiesta dal Contestabile a S. S., dobbiamo dire che il Nunzio, in data del 22 novembre 1602, rispondeva che non stimava conveniente alcuna grazia prima che il negozio fosse finito, «perchè, diceva, come viene rimproverato da questi Ministri Regii la tardanza in tale speditione, non ne venisse rimproverato anche questo»: e per verità in Roma non si teneva abbastanza conto dell'irritazione non del tutto ingiusta del Governo Vicereale, e deve anzi notarsi che nella stessa Lettera suddetta del Card.l S. Giorgio il Contestabile era indicato al Nunzio quale «bandito da V. S. di Calabria et di Napoli», come se D. Pietro De Vera non fosse esistito. Nè l'opinione del Nunzio valse a nulla. Non appena deliberata da Roma la sentenza da doversi pronunziare nella causa dell'eresia, il Card.l S. Giorgio nella data medesima scrisse al Nunzio essere cessato il rispetto che si opponeva alla grazia chiesta dal Contestabile, poichè nella Congregazione del S.to Officio era stata «spedita la causa del Campanella»; il Nunzio naturalmente rispose, che quando non si era mostrato favorevole alla grazia perchè il negozio non era finito, aveva inteso dire che dovesse aspettarsi la fine del processo della congiura, nel quale il Contestabile era stato condannato, ma che poi se ne rimetteva a quanto in Roma si stimasse meglio. E si può ritenere per fermo essersi in Roma stimato meglio accordare la grazia, poichè troppo vive furono le insistenze del Card.l S. Giorgio, troppo potenti le raccomandazioni delle quali godeva il Contestabile; nè occorre dire come il Governo Vicereale dovesse rimanere disgustato ed anche sospettoso relativamente agli altri giudicabili, massime relativamente al Campanella, vedendo che da un momento all'altro poteva esser concessa da Roma una grazia la quale rendeva frustranea ogni condanna, mentre esso avea tanto penato perchè alla determinazione di questa condanna avesse preso parte un Giudice di sua fiducia.

Dopo il Contestabile venne la volta di D. Marco Antonio Pittella, che scappato già in Calabria fu poi ripigliato e tradotto a Napoli verso il marzo del 1601: in tale data il tribunale dovè riunirsi di nuovo e procedere allo svolgimento di questa nuova causa, la quale compì nell'aprile seguente, come rilevasi da una lettera del Nunzio che abbiamo pure avuta altrove occasione di menzionare. Potremmo dire in breve che questa causa procedè e finì come quella del Contestabile, cioè con una tortura e con una condanna a 5 anni di esilio; ma appunto perchè si tratta di una causa finita con una condanna, gioverà sapere come e perchè essa si ebbe. Oltre il Riassunto degl'indizii contro il Pittella, ci è pervenuta pure la Difesa scritta per lui dallo stesso Regio Avvocato de' poveri Gio. Battista de Leonardis che difese il Campanella: questa Difesa del Pittella non solo ci fa intendere le accuse del fisco, ma anche rischiara tutto lo svolgimento della causa. Si ricorderà che il Pittella a Davoli accoglieva in casa sua Maurizio e poi il Campanella ed altri incriminati di congiura. Esaminato affermò che Maurizio veniva in una casa la quale egli avea data in fitto ad un Astolfo Vitale parente di lui, e quanto al Campanella egli non lo conosceva: fu sottoposto ad oltre un'ora di corda e non confessò nulla; infine ebbe il decreto per le difese. Il fisco pretese che dovea dirsi colpevole di conversazione con Maurizio e col Campanella e di ricetto di Maurizio, sciente la ribellione e preparato a prendervi parte dietro la testimonianza del Vitale, convinto sciente e non rivelante dietro le testimonianze del Vitale e di Maurizio; e questa volta il Leonardis, avendo una buona causa per le mani, fu piuttosto audace nel farne la difesa. Dopo di aver ricordato che la conversazione e il ricetto si effettuarono in agosto e che il Bando proibitivo fu emanato il 17 e 18 settembre, il Leonardis fece anche notare che quel Bando, emanato da un Giudice laico, non poteva colpire il Pittella clerico; che la deposizione del Vitale, testimone unico e socio nel delitto, non provava nulla e non avrebbe dovuto neanche bastare a far dare la tortura, tanto più che era stata fatta innanzi ad un Giudice laico, tanto più che era controbilanciata da un'altra testimonianza in contrario fatta da Maurizio capo di quella fazione; che per altro il Pittella con la tortura sofferta si era scolpato di tutto; che il Vitale e Maurizio, socii nel delitto ed infami, non potevano convincere nemmeno nel delitto di lesa Maestà, tanto più che erano stati esaminati in un foro laico ed incompetente, non ripetuti nel foro ecclesiastico, nè poi il Pittella, clerico, era obbligato a rivelare la ribellione contro il Principe di cui non era suddito. Malgrado tutte queste ragioni, il tribunale lo condannò a cinque anni di esilio da Napoli e da entrambe le provincie di Calabria, come avea fatto pel Contestabile, verosimilmente ritenendolo del pari sospetto di complicità nella progettata ribellione. Ognuno troverà senza dubbio un po' grave questo giudizio e la relativa condanna, poichè il Pittella avea per sè la testimonianza decisiva di Maurizio in punto di morte, attestante che egli non era nella congiura come gli altri, nè mostrava di goderne come gli altri; si vede bene quindi che il tribunale Apostolico non avea punto smesso il suo rigore, comunque il tempo trascorso avesse dovuto calmare i furori primitivi. Nè occorre dire che esso riteneva sempre la tentata ribellione qual fatto vero ed indiscutibile, mentre condannava il Contestabile e il Pittella a quel modo, donde è facile desumere abbastanza chiaramente come avrebbe trattato il Campanella e gli altri frati più compromessi. E possiamo oramai occuparci appunto di costoro.

Il Campanella e gli altri frati, avuta la condanna per l'eresia ed esauriti tutti gli Atti relativi a questa condanna, nel febbraio o tutt'al più nel marzo 1603 avrebbero potuto vedere spedita la loro causa della congiura. Ma da una parte avvenne allora un mutamento di Vicerè, succedendo il 3 aprile a D. Francesco de Castro D. Alonso Pimentel d'Herrera Conte di Benavente, e sempre, fin dalle prime notizie di prossima mutazione, gli affari d'ogni genere solevano rimanere più o meno incagliati; d'altra parte sopraggiunse direttamente, nello stesso tribunale per la congiura, una difficoltà inaspettata. D. Pietro de Vera, già divenuto sin dall'aprile 1601 pro-Presidente del Sacro Regio Consiglio per morte di Vincenzo de Franchis, poi dal 16 10bre 1602 passato a Presidente per la promozione di Fulvio Costanzo a Reggente di Cancelleria, comunque in età più che matura, era preoccupato del non aver discendenza e trattava un matrimonio. Non era questa veramente la prima volta che a D. Pietro fosse venuto tale pensiero; il Residente Veneto, che non si lasciava sfuggir nulla ed anche di siffatte cose teneva informato il suo Governo, nel 1598 (25 7bre) scriveva che D. Pietro era sul punto di sposare la figlia di D. Hernando Mayorca già Segretario di più Vicerè, il quale, egli diceva, «prima non avea che la penna» ed allora, morendo, lasciava alla figlia 50 mila duc.ti di dote, ad un figlio 15 mila duc.ti di entrata. Ma poi non se ne fece nulla, ed al tempo al quale siamo pervenuti, come accade col progresso dell'età, D. Pietro non andava più in cerca di ricca dote ma di bellezza e gioventù, ed aveva intavolate trattative con la figliastra appunto del Reggente Fulvio Costanzo, D.a Livia Sanseverino, sorella di D. Scipione che abbiamo visto Marchese e poco dopo Duca di S. Donato (confr. pag. 115): era questa, come dice un manoscritto di Ferrante Bucca che l'aveva probabilmente conosciuta, «la più bella e bizzarra dama dell'età sua», e quasi non occorre dirlo, D. Pietro fu tutto occupato a vagheggiare la sua Diva andando allegramente incontro alle solite conseguenze. Un altro motivo tenne pure distratto D. Pietro in questo tempo, la morte di suo zio Francesco de Vera, Ambasciatore di Spagna a Venezia, ond'egli dovè partire per quella città: un documento rinvenuto nel Grande Archivio ci fa conoscere che D. Pietro sottoscrisse il contratto di nozze il 29 aprile, ed una lettera rinvenuta nel Carteggio del Residente Veneto ci fa conoscere che partì per Venezia il 30 aprile. Con queste circostanze e queste date si può intendere una lettera del Nunzio, nientemeno del 18 luglio 1603, nella quale faceva sapere a Roma (dove non apparisce punto che si pensasse tuttora al Campanella) che subito dopo la spedizione della causa di S.to Officio egli non aveva mancato di sollecitare il suo collega D. Pietro per la spedizione della causa della congiura, ma senza riuscirvi mai; che avendo avuta notizia della partenza di lui per Venezia, l'aveva sollecitato di nuovo ed aveva pure sollecitato il Vicerè, tanto più che i frati ne facevano istanze continue, ma gli si era risposto non essere possibile far nulla prima dell'andata, bensì tutto si sarebbe fatto al ritorno; che infine essendo D. Pietro tornato, e trovandosi prossimo a sposare, fra 10 o 12 giorni, la figliastra del Reggente Costanzo, egli non avea mancato di muovergli il dubbio che siffatta mutazione di stato poteva recare impedimento alla funzione di Giudice de' frati, e gli si era risposto che non dicendo il Breve dover essere clerico non coniugato, non appariva impedimento alcuno. Ora su tale quistione il Nunzio chiedeva gli ordini di S. S.ta .

Gli ordini, al solito, tardavano a venire da Roma, e per sollecitarli il Nunzio scrisse ancora il 1°, il 15, il 29 agosto, inoltre il 12 settembre, e a quest'ultima data aggiunse esser venuta nuova che fra Dionisio trovavasi coll'armata turca; ma poi ebbe a sapere che in Roma già aveano avuta da altro fonte una tale nuova, ed anzi l'avevano partecipata al Duca di Sessa Ambasciatore di Spagna ed Agente di Napoli. Il fatto merita bene di essere considerato, ed importa fermarci alquanto sopra di esso: un dispaccio del Bailo Contarini, da noi trovato nell'Archivio di Venezia, ci mostra che n'era rimasto anch'egli colpito, e torna impossibile immaginare che non ne dovesse rimanere colpito il Governo Vicereale. Il Contarini scriveva, che col Cicala si erano imbarcati due uomini del Regno, concertatisi con lui per guidarlo a «svaligiare» un posto di quel paese; inoltre era venuto un frate già carcerato col Campanella per complicità nella congiura e poi fuggito di prigione. Costui, trattenutosi segretamente sulle galere di Malta, nella fazione di Lepanto avea trovato modo di venirsene a Costantinopoli, avea preso l'abito di turco «come haveva anco il cuore», avea «havuto ricapito in casa del Cicala», diceva di conoscere in Calabria oltre 300 affiliati alla setta maomettana e tra essi alcuni di conto, predicava in italiano a' giovani rinnegati «facendo assai danno con la sua lingua», affermava «che presto uscirà anco di prigione il predetto Frate Campanella et ch'ancor lui venirà qui; il che se riuscirà, per esser anch'esso molto litterato, risulterà à grandissimo prejudicio della religione christiana»; aggiungeva poi il Contarini, che «oltre di questi» si erano imbarcati pure due soldati di Malta fuggiti in Lepanto, i quali fattisi turchi offerivano al Cicala l'isola di Gozo etc.. È agevole comprendere quanto siffatte notizie dovessero aumentare nel Governo Vicereale il sospetto e l'avversione pel povero Campanella. Possiamo affermare con sicurezza, che il Governo Veneto trasmise a Napoli, come era solito, le notizie della prossima venuta dell'armata turca con due uomini del Regno accordatisi col Cicala, e non disse una sola parola del frate già carcerato col Campanella, del quale d'altronde il Bailo non avea distintamente detto che si era imbarcato del pari: questo abbiamo rilevato dagli ordini de' Savii del Consiglio, registrati ne' così detti Codici-Brera che si conservano nell'Archivio Veneto. Ma il Governo Vicereale avea pure informazioni proprie direttamente da Costantinopoli e in brevissimo tempo, onde non si può affatto dubitare che gli fossero egualmente pervenute le notizie relative a fra Dionisio, tanto più che era già preoccupato dell'amicizia intima di lui col Cicala, siccome ci mostra una Lettera Regia da noi rinvenuta nel Grande Archivio di Napoli; nè occorre dire come per siffatte cose dovesse sentirsi rimescolato. Esso era stato sempre persuaso che questi frati aveano già iniziati i loro disegni di ribellione e di eresia col mettersi d'accordo co' turchi, segnatamente col Cicala, ed è facilissimo intendere l'impressione che dovea fargli il contegno di fra Dionisio dopo la fuga, la sua andata tra' turchi, l'apostasia, l'intimità col Cicala, la venuta con l'armata nell'ordinaria escursione di essa verso il Regno, l'annunzio misterioso della prossima libertà del Campanella che sarebbe andato del pari a Costantinopoli. Come fin da principio, così anche adesso il Campanella era danneggiato dall'imprudenza, dalla loquacità, dalle vanterie di fra Dionisio, il quale non si smentì mai in tutta la sua vita; e bisogna sommare anche queste circostanze con tutte le altre, per intendere il contegno del Governo Vicereale verso il povero frate, ritenuto sempre pericoloso per la sicurezza e la fede del Regno. Vedremo più in là che fin dal momento in cui giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, il Campanella fu rinchiuso in un carcere molto più duro. - Poniamo intanto qui che il Cicala in quest'anno, come ne' tre precedenti, non potè compiere alcuna impresa contro la Calabria, ed anzi fu notevolmente disgraziato: gioverà conoscere quanto avvenne tra napoletani e turchi in detto periodo di tempo. Dopo l'inutile venuta in Calabria nel 1599, egli uscì di nuovo da Costantinopoli in luglio 1600 con 30 galere, portando scale, zappe e badili, con l'intenzione, per quanto fu riferito, di scendere a Cotrone, sicchè venne spedito a quella volta il Priore di Capua D. Vincenzo Carafa: e il Cicala mandò, come allora si diceva, «due lingue» cioè due galere a prender lingua, a ricevere e dare notizie in Puglia e in Calabria, e scrisse anche al Vicerè, il 14 settembre, che passerebbe nella fossa di S. Giovanni, «quando non per altro, per sbarcare il Sig.r Carlo suo fratello escluso dal possesso del Ducato di Nixia»; ma un grosso temporale lo colse alla Vallona, e lo costrinse a ritirarsi in Costantinopoli, dove rientrò a' primi di dicembre. Anche Arnaut Memi, in settembre, apparve con tre galere in vista di Brindisi, ma forse per la ragione medesima non si mostrò più: invece Amurat Rais, uscito da Biserta più presto, ebbe a soffrire la perdita di una galera presagli da D. Garzia di Toledo, e tornò per vendicarsene e se ne vendicò pur troppo in Calabria. D. Garzia, a' primi di agosto, scorrendo con sei galere le coste del capo Bianco vi aveva incontrate tre galere di Biserta, ne aveva presa una facendo 110 schiavi e liberandone altrettanti, e secondo lui avrebbe preso anche la capitana se i suoi artiglieri avessero fatto fuoco a tempo: Amurat, tornato con sei galere e con una scorta di rinnegati calabresi, a' 23 settembre sbarcò a Cetraro presso Scalèa, vi uccise il Principe di Scalèa nostra vecchia conoscenza con altre 27 persone, e rimbarcò a suo comodo portando con sè 30 prigioni e il corpo del Principe. Nel 1601 poi, al 1° di luglio, il Cicala uscì da Costantinopoli con 35 galere che giunsero per via fino a 60, e con queste potè prendere qualche nave; ma avendo, il 22 ottobre, spedito da Navarino verso la Calabria tre galere per lingua, ed essendo stato informato che la costa era molto ben munita, alla fine di dicembre rientrò in Costantinopoli senza aver nulla tentato. Nel 1602, parimente in luglio, uscì con 37 galere che sempre si accrescevano per via, col proponimento di danneggiare la Calabria o la Puglia, e però senza ritardo, fin da' primi di luglio fu mandato per Governatore di Calabria ultra D. Garzia di Toledo: alla fine di agosto apparve al capo di Otranto l'armata divisa in due squadre e diretta verso la Calabria, ed a' primi di settembre, giunta nella fossa di S. Giovanni, ne sbarcarono circa tre mila uomini, ma furono respinti con la perdita di 5 de' loro; poi l'armata si diresse a Reggio e vi perdè circa 100 uomini, si rivolse indietro e tentò di sbarcare al Bianco, luogo del Principe della Roccella, e vi soffrì la perdita di circa 100 morti e 30 prigioni, infine spiccò 10 galere da quest'altra parte della Calabria e vi furono incontrate dalle galere di Genova, sicchè doverono anch'esse desistere da ogni impresa. Se ne tornò quindi il Cicala anche prima del solito a Costantinopoli, in novembre, e vi fu universalmente biasimato, tanto più che al tempo stesso giunse la nuova che i napoletani aveano fatta una diversione in Algieri e presa Bugia nell'ottobre. Da ultimo nell'anno presente 1603 egli uscì di nuovo in luglio con 37 galere che poi si accrebbero sino a 60, ma dovè in agosto liberarsi di parecchie di esse andate a male per vetustà, ed impazientito le fece vendere in Negroponte, rinunziando a tutti i suoi progetti e contentandosi di rimanere nell'Arcipelago a dar la caccia alle navi che andavano in cerca di grani: così fra Dionisio non giunse nemmeno a vedere le coste della Calabria, e il Cicala, compiuti i servizii annuali in Salonicco, in Scio, in Alessandria, rientrò a' primi giorni dell'anno seguente in Costantinopoli. Aggiungiamo che quivi era pur allora morto il Gran Signore «senza precedente male», come scrisse il Bailo Contarini, e succeduto Achmet giovanetto a 13 anni; e con suo dispiacere il Cicala dovè abbandonare il capitanato marittimo, inviare la moglie e la suocera al Serraglio e recarsi come generalissimo in Persia.

Giungeva frattanto, il 19 settembre, la risoluzione di S. S. circa il dubbio sorto pel matrimonio di D. Pietro de Vera. S. S. non credeva conveniente che un coniugato giudicasse cause di persone ecclesiastiche; ordinava quindi al Nunzio che «per sè solo» conoscesse, spedisse e terminasse per giustizia le dette cause, ma contentavasi che D. Pietro lo assistesse nel conoscerle e spedirle, rimanendo «la totale giuridittione» presso il Nunzio. Pur troppo Roma mostrava di non avere il sentimento esatto della situazione, o piuttosto dava un'altra fra le tante prove di voler mantenere senz'altro riguardo «la superiorità ecclesiastica», con quella insistenza che sovente è stata detta fermezza, ma che evidentemente si sarebbe dovuta dire incorreggibilità. Vi era prima di tutto una notevole contradizione con la teorica ogni giorno professata dai Vescovi e sostenuta sempre da Roma, che i clerici coniugati dovessero ritenersi quali veri e pretti clerici, con tutte le immunità e prerogative ecclesiastiche; il Governo non aveva mai voluto riconoscerlo, ed avrebbe avuto torto a pretenderlo in tale circostanza; ma poteva Roma sconoscerlo? In fin de' conti poi, dopo sforzi non lievi, bene o male, da Roma si era ottenuto che una persona di fiducia del Governo sedesse e giudicasse nel tribunale Apostolico per la congiura; ed ora, nel momento decisivo, profittando di una circostanza che non poteva punto menare a tale conseguenza, si ordinava che quella persona sedesse ma non giudicasse, mentre uno de' principali imputati, fuggito dalle carceri senza sapersi come, si era unito a' turchi e veniva con essi ad offesa del Regno, strombazzando che l'altro imputato sarebbe uscito dalle carceri egualmente e presto! Ma qualora al Nunzio fosse parso bene assegnare al Campanella una pena relativamente mite, si dovea perfino sottostare al ludibrio che l'uomo di fiducia del Governo si trovasse presente a tale decisione? Ci affrettiamo a dirlo: se il Governo si fosse seriamente preoccupato di questa ipotesi, avrebbe avuto torto. Il Nunzio, come si rileva da tutto il suo Carteggio, era pronto a dare mille volte il Campanella al braccio secolare. Egli era convinto che il Campanella fosse colpevole e non aveva per costui, al pari di Roma, il menomo sentimento di pietà: gli fosse pure apparso innocente, per un Nunzio il bisogno supremo era quello di mantenere le buone relazioni tra i due Stati, attendere al ricupero delle grosse entrate della Camera Apostolica e al riconoscimento della «superiorità ecclesiastica» senza guardare troppo pel sottile in tutto il resto. Ma gli uomini di Stato professavano allora strettamente la massima che abbiamo vista enunciare dal Conte di Lemos, «per non errare, fa mestieri ritener sempre il peggio». Il Campanella era pure una forza potente, come avea ben dimostrato col riuscire ad eccitare in tanto poco tempo gli animi di molta gente in Calabria; a Roma poteva essersi formato il pensiero di tenere viva ed in mano sua questa forza per ogni evenienza futura, e poteva esser questo il significato del volere che la pena inflitta al Campanella per l'eresia fosse da lui scontata nell'alma città. Varie altre ipotesi avrebbero potuto ancora affacciarsi alla mente del Governo Vicereale, ammesso che faceva mestieri ritener sempre il peggio. Ma poi, in ultima analisi, perchè doveva esso rinunziare alla sua influenza con tanti sforzi conquistata in tale causa? Come potea riconoscere in modo assoluto la superiorità ecclesiastica anche pe' delitti di lesa Maestà, ciò che si era sempre negato a riconoscere? Senza alcun dubbio, agl'incessanti motivi di sospetto e di diffidenza venivano ad aggiungersi il risentimento e il puntiglio giurisdizionale, e bisognerebbe dimenticare tutta la storia napoletana per credere che questo risentimento e puntiglio avrebbero potuto rimanere senza conseguenze; evidentemente c'era più che non bisognasse per far ricorrere il Governo a' propositi più atroci, a fine di non lasciarsi sfuggire di mano il Campanella.

Il Nunzio non tardò a comunicare al Vicerè la risoluzione di S. S., ed il 26 settembre potè ragguagliare il Card.l Borghese su quanto avea fatto. Egli avea mostrato a S. E., che la risoluzione presa «non alterava quello che era stato fermato co' suoi antecessori in tal negotio»; D. Pietro de Vera «doveva intervenire a tutto quello che si trattava in detta causa; solo si voleva che non apparisse più come giudice». Arrestandoci un momento su queste parole del Nunzio, osserviamo che egli non interpretava fedelmente la risoluzione Papale, e la rendeva nel fatto assai meno amara; poichè ammetteva che D. Pietro sarebbe intervenuto a tutto e bastava che non apparisse giudice, mentre S. S. avea ritenuto non conveniente che giudicasse, ed ordinato al Nunzio che conoscesse spedisse e terminasse la causa per sè solo. Il Vicerè, che sicuramente avea avuto notizia della risoluzione originale di S. S., mediante gli ufficii non mai interrotti della fazione Cardinalizia attaccata a Spagna, potè mostrarsi sereno, ma nel tempo medesimo dovè sentirsi preso sempre più da diffidenza; d'altronde era per lui molto facile vedere che a nulla avrebbe giovato il rinfocolare una quistione già pregiudicata da un solenne pronunciato del Papa, e conveniva meglio farlo cadere senza strepito, opponendovi la forza d'inerzia: ciò spiega il suo contegno nel momento, quale lo espresse il Nunzio nello scrivere a Roma, ed anche il suo contegno ulteriore, quale lo vedremo nello svolgimento successivo della faccenda. Secondochè scrisse il Nunzio, egli «mostrò di restare in pace», ma per non essere informato del fatto richiese che glie ne fosse lasciata memoria; rappresentava dunque la parte dell'ingenuo, e voleva intanto poste in iscritto le parole del Nunzio che già costituivano un guadagno. Da parte sua il Nunzio potè ancora scrivere a Roma, «non vedendo in questo quello che si possa opporre, spero che il negotio andrà per i suoi piedi»: con ciò egli mostravasi ingenuo davvero, mentre pure ricordava quale fiera lotta giurisdizionale vi era stata per costituire il tribunale, e sapeva che il Governo Vicereale non era punto avvezzo a cedere facilmente in queste lotte; ma forse rappresentava egualmente la parte dell'ingenuo con Roma, dando larghe speranze per non avere richiami sul modo in cui aveva interpetrata la risoluzione di S. S.. E quasi sentisse il bisogno di far bene intendere la sua interpetrazione, conchiudeva, che con D. Pietro aveva fin allora trattato unitamente e così procurerebbe di trattare per l'avvenire, acciò il negozio si tirasse avanti. Dalle quali parole può rilevarsi che egli intendeva un po' meglio le circostanze, e può rilevarsi ancora che avrebbe fatto terminare la causa condannando senz'altro il Campanella, giacchè D. Pietro non si sarebbe certamente pronunziato per un'assoluzione.

L'indomani, 27 settembre, il Nunzio scrisse la memoria chiestagli dal Vicerè: nel suo Carteggio n'è rimasta la minuta che noi pubblichiamo. Dopo di aver fatta la storia particolareggiata di tutti i precedenti, egli terminava con lo specificare sempre meglio che S. S. si contentava che D. Pietro intervenisse ad ogni cosa «eccetto che al sententiare» aggiungendo, «il che alla sustanza del negotio non vuol dir nulla, perche saremo d'accordo come siemo stati sin'adesso, et quello che concordemente si fermarà si esseguirà, sì che l'effetto sarà il medesimo come le dissi à bocca; desidero dunque che ella commetta al medesimo che intervenga quanto prima». Da tutto ciò il Vicerè potea desumere anch'egli ben chiaramente, che per parte del Nunzio il Campanella sarebbe stato senza alcun dubbio condannato; ma o si serbò diffidente o non volle passar sopra alla quistione giurisdizionale, e veramente si ha motivo di ritenere l'uno e l'altro concetto, per intendere l'ultimo periodo del processo. Così tanto nel Vicerè quanto in D. Pietro de Vera si vide una mollezza, una fiaccona, da doversi dire che già si era deciso di opporsi a Roma col non far nulla: e non è dubbio che D. Pietro trovavasi nello stadio più acuto dell'«attender solo a star allegramente innamorato della propria moglie» come ci lasciò scritto il Bucca; ma se il Vicerè avesse voluto, D. Pietro avrebbe adempito all'ufficio suo.

Il 3 ottobre, e poi il 9, e poi ancora il 17, il Nunzio faceva sapere a Roma, che il Vicerè avea commesso a D. Pietro di andare a vederlo, che D. Pietro non era venuto ed il Vicerè avea detto che vi sarebbe andato ad ogni modo, che poi D. Pietro avea mandato a fare le sue scuse con l'assicurazione che sarebbe venuto nella prossima settimana. - Ma in che modo fu appresa in Roma l'interpetrazione data dal Nunzio alla risoluzione di S. S.? Il 24 ottobre il Card.l Borghese, partecipando al Nunzio che la lettera del 26 settembre era stata letta in Congregazione innanzi a S. S., diceva laconicamente, «in risposta non mi occorre altro, se non ch'ella si regoli conforme a quel che sopra di ciò per ordine della S. sua le fù scritto». Riesce impossibile vedere in queste parole un consentimento; tutt'al più vi si potrebbe vedere un'acquiescenza, ma vi si trova ad ogni modo ripetuto l'ordine di adempiere alla risoluzione quale era stata trasmessa.

Finalmente in data del 7 novembre il Nunzio fece sapere a Roma essersi dato ordine che i frati, i quali avevano avuto il termine alle difese avessero l'Avvocato e il Procuratore, per poter poi finire il negozio coll'intervento del Sig.r D. Pietro de Vera. Non apparisce qui chiaramente che D. Pietro abbia preso parte nella decisione di dare quell'ordine, ma parrebbe piuttosto di no. È superfluo intanto ripetere che l'Avvocato e il Procuratore occorrevano solamente per intimar loro la citazione ad dicendum, necessaria nel momento in cui il tribunale dovea riunirsi per sentenziare; ma le difese erano state già fatte pel Campanella, rinunziate dagli altri rimanenti frati. Si potrebbe credere che allora veramente l'Avvocato avesse dovuto cominciare l'adempimento dell'ufficio suo, e perfino che la Difesa scritta del De Leonardis abbia a ritenersi composta nel periodo al quale siamo pervenuti: ma oltrechè la procedura del tempo non giustificherebbe tale credenza, il titolo di advocatus pauperum aggiunto al nome del De Leonardis basta ad eliminarla; poichè abbiamo già visto l'Avvocato De Leonardis promosso a Fiscale, e successivamente anche a Consigliere il 3 aprile 1602, sicchè egli era già Consigliere in tal tempo, e qui possiamo aggiungere che l'ufficio di Avvocato de' poveri si teneva da Gio. Geronimo di Natale, con esecutoria di Privilegio notata il 21 giugno 1602. Adunque, come è stato detto altrove, le difese doveano dirsi compiute, e l'intervento dell'Avvocato rappresentava una quistione di forma più che di sostanza.

Dopo il 7 novembre 1603 si verificò una lunga interruzione perfino nelle notizie riguardanti la causa: e questo non può spiegarsi in altro modo, che ammettendo un'assoluta noncuranza di D. Pietro de Vera nell'adempimento del suo ufficio, naturalmente col consenso segreto del Vicerè. Le lettere del Nunzio non offrono più alcun cenno del Campanella fino al 23 luglio 1604; manca veramente un registro ossia un fascicolo di queste lettere, ma la mancanza si estende appena dal 4 maggio al 5 luglio 1604, e la lettera del 23 luglio, nella quale si ricomincia a parlare del Campanella, è concepita in modo da fare intendere che non se n'era mai più parlato da lungo tempo. Anche le lettere di Roma non offrono nulla per tutto il suddetto periodo; nè può supporsi che nella raccolta di esse vi sia qualche lacuna concernente il Campanella, poichè se da Roma fosse venuta la menoma richiesta di notizie intorno a lui od intorno alla causa de' frati in generale, il Nunzio non avrebbe potuto mancare di rispondere, e nel modo in cui sono registrate le lettere o meglio le minute delle lettere del Nunzio, la risposta si sarebbe dovuta trovare. Ciò mostra bene quanto pensiero si davano del Campanella in Roma, e quanto siano andati lungi dal vero i biografi, i quali hanno ritenuto che in Roma volevano assolutamente trarre il Campanella da Napoli, e che il S.to Officio con la sua condanna, concepita nel senso che conosciamo, aveva avuto principalmente quello scopo. Frattanto è certo che un nuovo aggravamento si era verificato nelle condizioni del Campanella. Il silenzio serbato per tanto tempo dal Nunzio, e poi la solita necessità d'ingarbugliare taluni fatti da parte del filosofo, hanno contribuito del pari a rendere oscuro questo periodo della sua prigionia: ma le deposizioni di Felice Gagliardo in punto di morte, e un altro documento da noi trovato in altre scritture d'Inquisizione, ci mostrano indubitatamente che il filosofo venne separato da' frati suoi compagni e rinchiuso con maggiore durezza nel torrione del Castel nuovo; altri documenti poi, allegati al processo di eresia, ed anche alcune notizie date in sèguito dal filosofo medesimo, ci fanno argomentare che tale trattamento più duro dovè essergli inflitto nel luglio o agosto 1603, sebbene egli, per procurarsi la commiserazione di Roma e dissimulare varie circostanze sfavorevoli, abbia esposte le cose in modo da far intendere che l'avessero tradotto nel Castello di S. Elmo in una fossa, la qual cosa accadde veramente più tardi, con ogni probabilità appunto nel luglio dell'anno successivo.

Ecco distintamente quanto era avvenuto al Campanella da che l'abbiamo lasciato, cioè dagli 8 gennaio 1603, giorno in cui gli fu letta la sentenza avuta nel processo di eresia. Egli continuò a rimanere per circa sei mesi nelle carceri comuni del Castel nuovo, in relazione co' frati, e segnatamente con fra Pietro di Stilo, unico suo confidente oramai dopo la liberazione di fra Pietro Ponzio, in relazione del pari con Felice Gagliardo, che da molto tempo bazzicava anche troppo co' frati: ed abbiamo avuta occasione di dire che ebbe una visita del Marchese di Lavello cui consegnò la sua opera della Metafisica, ma dobbiamo aggiungere che dal 25 febbraio al 15 aprile di quest'anno ebbe anche occasione di far la conoscenza di alcuni Signori tedeschi venuti nelle carceri del Castello, uno de' quali divenne da tale data suo amicissimo e caldo protettore. Il Conte Giovanni di Nassau avea fatta in incognito un'escursione a Napoli per curiosare la città, seguito da due gentiluomini, Cristoforo Pflugh e Geronimo Tucher, e dal domestico Giovanni Winckes, inoltre accompagnato da Gio. Ottavio Gonzaga che aveva al suo sèguito Uberto Caroni di Bozzolo. Visitata la città i viaggiatori si trovavano oramai in partenza, quando un dispaccio da Roma del Duca di Sessa avvertì erroneamente che un figlio, o nipote, o fratello del Conte Maurizio di Fiandra ribelle al Re di Spagna, con un sèguito di Cavalieri francesi era venuto in Napoli; il Vicerè diede immantinente ordine di catturarli. Il Conte col suo domestico era già partito in precedenza e fu raggiunto a Sessa, gli altri furono rinvenuti ancora in Napoli, tutti furono tradotti nel Castel nuovo. Al Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che dimostrò essersi accidentalmente trovato in compagnia de' tedeschi fu concesso di tenere per carcere, insieme col Caroni, la casa del Principe di Conca; al Nassau col suo domestico fu assegnata nel Castello una carcere separata, agli altri furono assegnate le carceri comuni, ma certificato l'equivoco mediante un'informazione presa da D. Pietro de Vera, furono poi rilasciati con molte cortesie equivalenti a scuse. Durante la prigionia il Campanella si strinse in grande amicizia sopratutto con Cristoforo Pflugh, latinamente Flugio, il quale parrebbe che appartenesse alla celebrata ed opulenta famiglia de' Fuggers negozianti di Augusta e divenuti Baroni di Kirchberg e Veissenhorn, più conosciuti in Italia col nome di Fuggheri e Foccari; ma avrebbe dovuto rabberciare il suo cognome e dichiararsi Sassone per rimanere incognito, e riesce allora notevole che perfino dopo molti e molti anni, a tempo della redazione del Syntagma il Campanella abbia continuato a chiamarlo «Flugio», come riesce notevole che a tempo della prigionia in Castel nuovo sia stato di religione protestante. Da alcune parole che leggonsi nel Carteggio del Turaminis, Agente Toscano, parrebbe che al pari degli altri suoi compagni di carcere egli dimorasse allora in Siena, forse ad oggetto di studio, e questo nemmeno si accorderebbe troppo coll'età del Cristoforo Fugger che conosciamo dall'opera del Custos. Ad ogni modo non sembra dubbio che egli appunto abbia fatto conoscere il Campanella a' Fuggers, come certamente lo fece conoscere a Gaspare Scioppio, onde queste poche notizie su' Fuggers non saranno state inutili, avendo ancora ad incontrarli nel corso della nostra narrazione. Una lunga lettera posteriore del Campanella diretta allo Pflugh e da noi pubblicata, riferibile all'anno 1607, ci fa conoscere che tanto lo Pflugh quanto il Conte Giovanni s'interessarono molto della sua sorte, e promisero di aiutarlo presso i Principi di Germania, che lo Pflugh specialmente si affezionò a lui, ascoltò le sue meditazioni filosofiche e religiose chiamandolo Mastro, gli giurò che avrebbe avuto pensiero della sua libertà, ne ebbe l'opera della filosofia (senza dubbio l'Epilogo, e probabilmente anche altre opere tra le quali la Monarchia di Spagna); mostrò poi una volta al Campanella un libro di spiriti che il Campanella derise, e videro anche insieme certe donzelle, che dalle finestre invitavano il Campanella a scherzi più che egli non avrebbe voluto (certamente le donzelle abitanti ne' piani superiori del Castello, a taluna delle quali il Campanella avea diretto e forse dirigeva ancora poesie più o meno vivaci); infine liberato dalla carcere ed andato a Roma si convertì al Cattolicismo, onde al Campanella balenò la speranza che glie ne sarebbe derivato un gran bene presso la Curia, avendo lui influito su tale conversione, e poi, col procurargli l'aiuto di altri suoi potenti amici e più tardi anche quello dello Scioppio, diè motivo di fargli concepire speranze sempre maggiori. Le deposizioni di Felice Gagliardo, fatte al S.to Officio in punto di morte, compiono la conoscenza di questo incidente. Lo Pflugh ed il Tucher andarono a stare nella camerata del Gagliardo, il quale insegnò loro le orazioni cattoliche poichè dubitavano di essere stati presi come eretici; ma fecero anche, tutti insieme, certe pratiche di negromanzia per rendersi invisibili ed uscire così dal Castello, secondo i precetti di Gio. Wierio, avendone procurato il libro De Menomachia daemonum (sic) e trattane anche una copia. Fu questo certamente il «libro di spiriti», che lo Pflugh mostrò al Campanella, e, come si vede, il Gagliardo trovavasi già molto avanti negli sperimenti di negromanzia e nella evocazione de' demonii.

Ma dopo circa sei mesi il Campanella dovè essere separato dagli altri frati e posto nel torrione del Castello, come risulta da più documenti. In primo luogo le medesime deposizioni anzidette del Gagliardo ce ne danno notizia precisa, rivelandoci in pari tempo fatti della maggiore importanza, capaci d'illustrare non solo tale periodo della prigionia ma anche il tema difficilissimo delle credenze riposte del Campanella con qualche tratto della sua vita intima: e sebbene al Gagliardo non si possa menomamente accordare una cieca fede, massime poi nelle condizioni in cui si trovava al momento di deporre questi fatti, vedrà ognuno se essi non concordino con le notizie che abbiamo da altri fonti indubitabili. Il Gagliardo disse, che essendosi già dato alla negromanzia, esercitata pure con taluni de' frati prigioni ed egualmente con altri, avea conosciuto il Campanella nel Castello, e nella carcere dove il Campanella stava, «al torrione», aveva appresa da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle Effemeridi del Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con altri ancora, e con gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante sotto le carceri, con la quale il filosofo «faceva all'amore», conservava e poi porgeva mediante una cordicina dietro segnali convenuti, allorchè il filosofo li voleva: aggiunse, riportandosi evidentemente ad un periodo anteriore, che il Campanella non era affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la vita, che quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con lui e con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento vecchio e del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto «che ne credesse solo quello che havea potuto essere naturalmente, et che l'altre cose che non potevano essere naturalmente non bisognava crederle, ancor che fussero scritte alla biblia» etc.; che poi gli aveva pure insegnato in Castello come dovesse adorare Dio, facendoglielo scrivere ed anche scrivendoglielo di sua mano, cioè a dire in piedi, col capo scoperto o coperto a volontà, guardando al cielo e recitando alcuni determinati salmi (ved. nel d.to Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc., non credendo alla 2a e 3a persona della Trinità, ed invece dicendo: «Deo optimo maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è supplico per lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et amore et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle erranti è fisse...». E gli aveva insegnato egualmente come dovesse adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto, fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, «O sacro santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle cose à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea» etc. per poi dimandare ciò che desiderava; ed alla luna, «Matre di tenebre» etc. etc. facendo lo stesso anche verso ciascun pianeta, le quattro parti del mondo e gli angeli che ad esse presedevano. Conchiuse poi il Gagliardo affermando, che con tali preghiere non aveva mai ottenuto nulla, che le eresie apprese dal Pisano e dal Campanella erano «capricci di huomini bestiali, dissoluti, senza fondamento di ragione alcuna», che il Campanella talora gli diceva certe cose e talora il contrario, e quando egli dimandava il motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non essere stato inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella, con la solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi di vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte dal Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato il riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal Campanella, co' suoi principii metafisici, con le cose esposte nella Città del Sole ed anche cantate nelle Poesie . Si ha quindi un gravissimo argomento per non dubitare del racconto del Gagliardo, della relazione del filosofo con D.a Oriana, la quale evidentemente sarebbe la Dianora che abbiamo visto celebrata da lui con un Sonetto, non che dell'essere stati insieme contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo «al torrione»; gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare nel torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino al 2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col S.to Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.

Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre scritture d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il filosofo, nel periodo anzidetto, trovato nel torrione del Castel nuovo separato dagli altri frati: è la deposizione di un carcerato della Vicaria in una Informazione presa contro fra Pietro di Stilo quando era già uscito dal carcere. Un Ciommo ossia Girolamo dell'Erario, dimandato se fosse mai stato in altre carceri oltre quelle della Vicaria, rispose di essere stato, precisamente verso il marzo 1604, nel Castel nuovo; e «prima (egli disse) fui posto in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi fui levato da la fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che si diceva fusse Campanella, et portava la chierica come portano li frati, non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à quello torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati, è poi ne erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un mese, fui messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai uno monaco che andava vestito da monaco con le veste bianche, che si chiamava frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino... etc., et alla carcere di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui tormentato in castello per la causa mia, è fui messo al civile del castello, dove stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano tre frati vestiti di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli altri non mi ricordo lo nome» etc.. Questa separazione anche di fra Pietro di Stilo, questa differenza di trattamento, più duro per fra Pietro e meno duro per gli altri frati, meritano del pari di essere avvertite. Sorge naturalmente il pensiero che fra Pietro, l'amico intimo del Campanella, avesse dato motivo di richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo: rimanga intanto assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel torrione, e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si trovava tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso e per la sua «corona»; qualunque fatto anche minimo della persona sua ci apparisce sempre memorabile.

Nè questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.ti 200 inviati da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi del Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna duc.ti due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5, mancandovi il Campanella: questo stesso si verifica in due altri ordini posteriori (27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe impossibile che specialmente nel 1° ordine del 2 settembre 1603 fosse corsa una pura e semplice dimenticanza del Campanella da parte di quel Vescovo, che se ne curava così poco e così male: egli vi dimenticò certamente fra Paolo della Grotteria, ma ve l'aggiunse subito come il documento mostra, e così avrebbe potuto aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde bisogna dire che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo per il povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o agosto che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di pagamento poi, l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due memoriali de' frati, e segnatamente uno di essi reca che «li poveri quattro frati di S.to Domenico carcerati nel Regio Castello novo» si trovano ignudi ed affamati, senza il denaro della Corte da più mesi e senza alcuno indizio di prossima spedizione, onde supplicano che si dia loro quel poco danaro rimasto e si parli a S. E. per la spedizione della loro causa; adunque nemmeno da questo lato figura più il Campanella, e parrebbe veramente che soli quattro frati fossero rimasti in Castel nuovo e che il Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile passar oltre alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e quindi persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel torrione, toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed anche co' frati suoi compagni; questi non ne parlarono ne' memoriali presentati, essendo loro vietato di comunicare con lui, e forse pure avendo dovuto persuadersi, che a voler fare causa comune con lui non sarebbero mai più venuti a capo di nulla.

Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più lettere ed anche nell'opera dell'Atheismus triumphatus, che scrisse dopo questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli siasi ingegnato di fondere insieme il passaggio al torrione e quello alla fossa di Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa, in data del 13 agosto 1606, egli scrisse così: «Hor sono tre anni (e quindi verso il luglio o l'agosto 1603) havendo interrogato il demonio che si faceva angelo, e compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi pareva disposto per la sua natività che mirai, rispose di tutti i regni che dimandai... (seguono molte rivelazioni singolari specialmente intorno a Venezia e a Roma). Io accorto che era diavolo in molti segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa fossa pur dal diavolo predettami». Ecco qui un disegno di evasione trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal Nunzio e che, naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora lo mettiamo da parte. Al Card.l Farnese, pochi giorni dopo, il Campanella scrisse pure: «M'occorse ver la natività d'una persona, li dissi ch'era inclinata alla profezia, li donai il modo di disponersi all'influsso divino, e perchè egli era scelerato, li comparse il diavolo e dicea esser angelo, e ci donò avviso di molte cose future in molti regni del mondo e del Papato e di Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai segni come Gedeone; s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perchè non insegnassi a colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere in questa fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere». Egualmente al Card.l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca differenza di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo «fè capitar male quel pover'huomo», senza dirne altro. Non occorre poi riportare testualmente i brani dell'Atheismus triumphatus allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un pezzo occasione di riportarli (ved. vol. 1.° pag. 21 in nota). Il Campanella in essi parla di «un astrologo moderato» spinto dalla superstizione di Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina de' Santi, che istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli Angeli de' pianeti, lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e il giovane cominciò a vedere cose mirabili, apparendogli uno spirito che si fingeva Angelo o luna, o sole, o Dio: l'astrologo per mezzo di costui ebbe risposte su cose gravissime, ma essendosi accorto che si trattava del demonio, si vide il falso angelo con inganni incredibili separare il giovane dall'astrologo e condurlo a morte violenta, oltrechè si vide un altr'uomo, che aspettava certe promesse fatte prima del caso del giovane, condotto a malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a commentare tutto questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si tratta qui delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con le preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre cose insegnategli mentre componeva appunto la sua opera di Astronomia, essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena nell'Atheismus, una persona sola, il Campanella. Le lettere chiariscono i racconti dell'Atheismus, ed esse, come abbiamo veduto, ci menano al luglio o agosto 1603 quanto alle pratiche astrologiche fatte dal Gagliardo con l'assistenza del Campanella; d'altro lato il processo del Gagliardo ci mena al 2 marzo 1604 quanto alla separazione di lui dal Campanella, giacchè appunto in tale data egli fu liberato dal carcere, per poi tornarvi di nuovo ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni dopo. Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella del passaggio «nel torrione del Castello» dove il Campanella di certo si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo difficilmente avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne fosse stato tolto prima: risulta perciò ben giustificata anche l'affermazione di Ciommo dell'Erario, d'averlo visto nel torrione in marzo 1604 separato dagli altri frati, e come il non trovare il Campanella contemplato negli ordini di pagamento della sovvenzione ai frati in data del 2 settembre 1603, e 27 febbraio 1604, non implica che egli fosse stato già tradotto a S. Elmo, così non l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in quello del 9 giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti per farci dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione nella fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo indagare perchè sia stato posto nel torrione in luglio o agosto 1603, ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in tal tempo giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, con le sue ciarle già narrate della prossima liberazione del Campanella. Il fatto della conversione di fra Dionisio alla fede maomettana, che recava un aggravio manifesto a' giudizii già gravi intorno alle imprese disegnate in Calabria, fu sentito dal Campanella al punto, da vederlo schermirsene con tutti gli argomenti, possibili ed impossibili, in ciascuna delle lettere che scrisse nel 1606-1607, non appena vide la necessità di far udire la sua voce direttamente ai personaggi altolocati. Il fatto poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata turca, veleggiando verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella costantemente, e col proposito suo di volerlo dissimulare si spiega benissimo l'aver confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo, il disegno di evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre avvenimenti affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.

Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e del passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione egli pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di silenzio, ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23 luglio 1604 egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per la spedizione della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di D. Pietro de Vera, ricordava la risoluzione presa da S. S. per tale circostanza, esponeva le sue sollecitazioni continue per venire a qualche conclusione». E soggiungeva: «Ma l'essersi scoperto quà un certo Greco che praticava di fare scappare di Castello Fra Tommaso Campanella, come scappò Fra Dionisio Pontio et un'altro suo compagno, hà tenuto il negotio sospeso in modo, che non si è potuto trattar della sua speditione. Finalmente sabato passato fummo insieme, et quanto al detto Campanella S. E. l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo, et non vuole che per ancora si tratti della sua speditione, crederò io, per quanto scuopro, per non haver interamente chiarito questa pratica che si teneva per la sua liberatione. Trattammo degli altri quattro che restavano» etc.. Se non c'inganniamo, dal contesto della lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e che difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a chiarire le pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il Campanella a S. Elmo; dovè quindi esservi un altro motivo che il Nunzio volle dissimulare, e la cosa riuscirà confermata da quanto saremo per dire. Innanzi tutto cerchiamo d'indagare chi mai abbia potuto avere tanta pietà pel povero prigioniero da intavolare trattative di evasione, chi mai abbia potuto essere quel Greco che praticava di farlo fuggire, come pure in che data potè questo accadere.

Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella stanza del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma evidentemente bisogna guardare un po' in alto per la faccenda in quistione. Senza dubbio ebbe a visitarlo più o meno spesso il Marchese di Lavello Gio. Geronimo del Tufo, ed abbiamo visto che «nel 1603» ci fu una sua visita ricordata nel Syntagma. Pertanto il Residente Veneto, in data del 3 febbraio 1604, riferiva al suo Governo, che pareva si andassero «risvegliando novi pensieri del Campanella che si trova in Castello per li trattati da lui maneggiati in Calabria», che era stato ultimamente di ordine del S.r Vicerè «carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo, sospetta alla Ecc.za sua che tenesse le mani in simili negotii», e che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.. Ecco un nome ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul progetto di evasione stato scoperto: il Residente potè non essere informato della cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che davvero non lo fu mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze che si facevano, e di una carcerazione, che riesce del tutto naturale credere motivata da qualche indizio o sospetto di maneggio in tale faccenda. Anche il Gagliardo nelle sue ultime deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a' motivi, ciò che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto di evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese «per un tempo stette carcerato in detto Castello». Considerando che il Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna conchiudere che il Marchese ne fosse già uscito a questa data, e però vi fosse rimasto un mese o poco più: naturalmente tale circostanza mena a ritenere essersi avuto per lui un semplice sospetto ben presto chiarito senza solida base, oppure aver lui avuta una parte del tutto secondaria ed anche inconsapevole ne' maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi? La mente ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel Panegirico ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la liberazione del Campanella, citò i «tot evanidos Fuggerorum ausus», ci aveano indotto a ritenere che con ogni probabilità i potenti mezzi di questa famiglia avessero potuto preparare l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario del Fabre ora pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che in particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella, convalidano sempre più tale opinione. Aggiungiamo inoltre che non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco che praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma dal Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo trovavasi nel Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al quale facevano capo i parecchi Greci che venivano in Napoli con progetti di imprese da corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo delle spie del Levante per conto del Governo Vicereale, si era dilettato di simili imprese perfino nell'Adriatico, che la Serenissima considerava come suo Golfo: dietro richiami del Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel nuovo (6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina, e costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona «nelle viscere de i stati da mare di quella Serenissima repubblica», come diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo 1600 fu liberato per tentare l'impresa, essendo stato il suo ufficio già dato a un Jeronimo Combi: fatti i preparativi, il Lanza si unì con un Michele Protetri, egualmente bandito di Corfù e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo, e con lui si partì di notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono insieme d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, ma non riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti contro i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a prevalere su Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di spedizioni segrete: nè gli mancarono mai collaboratori levantini, specialmente Greci, che venivano in Napoli e si dirigevano appunto a lui nel Castel nuovo, con disegni di sorprendere senza pericolo, sicuramente, il tale o tal altro Castello turco e farvi ottima preda. Riesce quindi del tutto verosimile che qualcuno di costoro siasi preso l'incarico di procurare la fuga del Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale poi finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò scritto il Campanella medesimo.

Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e sarebbe pure, naturalmente, di poco anteriore la data della comparsa del diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento incusso a quel Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe sembrare una grossa obiezione la difficoltà di una riunione di più individui, perfino con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma bisognerebbe non aver mai conosciuto la curiosità de' carcerieri, prigioni e visitatori di ogni genere, in fatto di cose soprannaturali, sempre supposte feconde di grandi guadagni, in grazia de' quali non c'è nè compromissione nè rischio che valga a trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna dire che la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta influenza sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo per ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto prossimo alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva conoscere la avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo facilmente il motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto dal Governo che il tribunale si riunisse per la spedizione della causa degli altri frati senza potersi occupare del Campanella, tanto più dopochè il Nunzio aveva insistito nel voler sentenziare egli solo; con ciò ci spieghiamo pure che il Nunzio abbia voluto dissimulare questo avvenimento rincrescevole, compiuto in dispregio di lui e della Curia. È chiaro infatti che dovendo il tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse anch'egli rimasto nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare, senza recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè fin da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi, nel progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che riescono a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di notarle a misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far avvertire che la scoperta del progetto di evasione non diede propriamente motivo di far finire il processo del Campanella nella barbara guisa in cui finì, ma diede soltanto occasione di giustificare in qualche modo il sistema dell'inerzia che era stato deciso ed attuato già da molto tempo; quando vi fu pericolo di vedere questo sistema compromesso, si venne nella determinazione di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a S. Elmo.

Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa, e tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i Giudici a riunirsi e ad occuparsene nella 2a metà di luglio 1604. D. Pietro de Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato, si decise allora a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole testuali del Nunzio in qual modo: «Trattammo degli altri quattro che restavano, et l'uno, Fra Domenico da Stignano, come più colpevole, fummo d'accordo che si condennasse per tre anni in Galera, gli altri che restavano, attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti, si licentiassero, con questo però che non potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di S. S. Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo che in esse il Sig.r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come prima, contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che non voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à N. S.re il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi chiese copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi necessario metterla anche nel processo». Così veramente D. Pietro discusse e fu d'accordo col Nunzio, il quale si attenne all'interpetrazione che avea data alla risoluzione Papale; e fra Domenico Petrolo fu condannato a tre anni di galera «come più colpevole», sicchè fino all'ultimo momento venne ammessa la colpa; gli altri poi furono rilasciati solamente coll'obbligo dell'esilio dalla Calabria, ad arbitrio di S. S. «attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti». Si vede qui ancora una volta con quanto poca attenzione il Nunzio si era occupato e si occupava di questa causa: per la congiura il solo Petrolo aveva avuto il tormento, gli altri non ne avevano avuto punto, siccome mostrano anche due loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242); l'avevano bensì avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto esente fra Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra causa. Ma riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel voler figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della risoluzione contraria di S. S., come del pari l'atteggiamento del Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario Apostolico, per tanto tempo non si era curato di leggere la risoluzione Papale che lo riguardava, ed in ultima analisi volle prender consiglio dal Vicerè intorno ad essa: in tal modo egli mostravasi quello che realmente era, e che un Breve Papale non valeva a far cessare di essere, il rappresentante del Governo. Ed il Nunzio continuava a dar prova di una sorprendente ingenuità, obiettandogli che il parlarne al Vicerè «non serviva a niente, toccando a N. S.re il risolver sopra ciò». Fin allora dunque il Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli effettivi di D. Pietro col Governo erano ben superiori a quelli fittizii col Papa creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le tergiversazioni di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state spontanee ma prescritte dal Vicerè.

Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli avrebbe parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa «conforme a quello che comanda S. S.»; ma intorno al Campanella disse di nuovo, «bisogna lasciarlo star così per buon rispetto, per il tempo che sarà necessario». - Queste notizie trasmesse a Roma non vi fecero punto cattiva impressione; bastava che il comandamento di S. S. fosse per trionfare, il resto non importava nulla. Il 30 luglio il Card.l Borghese partecipava al Nunzio, che a S. S. era piaciuta la risoluzione sua di non ammettere a congiudice il de Vera e farne capace il Vicerè, che ordinava si regolasse tuttavia conforme alle lettere scritte ne' mesi passati, nè gli occorreva altro. E pel Campanella? Nè S. S., nè alcuno de' Cardinali componenti la Sacra Congregazione, innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata letta, si diedero il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto si è finoggi creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice rimanesse a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione della sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche ragione per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perchè mai non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?

Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio, il Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione sull'incidente. A questa data il Nunzio faceva sapere a Roma, che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato «diverso» da quello di prima, perchè gli avea detto che non potendo D. Pietro de Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e nominato un altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che invano egli avea replicato al Vicerè non esser questo necessario, «perchè il fine principale di N. S.re era stato che intervenisse qualch'uno de' Ministri di S. M. acciò vedesse come passava la causa, la qual cosa era fatta» (!); dimandava quindi nuovo ordine, poichè aveva saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute e le sentenze erano in mano del medesimo D. Pietro, nè egli poteva andare oltre «senza qualche turbatione», che non gli era parso di dover eccitare mentre la faccenda poteva avere altro rimedio. - Ma il rimedio non poteva essere altro oramai che quello di cedere, poichè si aveva manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il Vicerè fosse stato mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente aveva adottato un modo di procedere del tutto opposto a quello del suo antecessore Conte di Lemos. Per quanto costui si era mostrato attivo, insistente, premuroso, personalmente impegnato, altrettanto egli aveva preferito mostrarsi freddo, inerte, distratto, poco informato; e lusingando a tempo la vanità della Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i richiami sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella, e fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati, rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della persona di sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo provvedere alla forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed anche non aver fretta, mentre al Nunzio non rimaneva che zittire. Costui avrebbe potuto e dovuto gridare quando il Campanella venne tradotto al Castel S. Elmo a sua insaputa, ed avrebbe potuto e dovuto ricordarglielo la Curia vedendo che egli non se n'era dato pensiero: ma per appellarsi alle convenzioni stabilite col Governo Vicereale, bisognava non pretendere di trasgredirle.

I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro causa, ed il 20 agosto il Nunzio ne dava conto a Roma, partecipando essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue sollecitazioni, che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che desiderava in luogo di D. Pietro de Vera.

E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento intorno alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è che bisogna ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle Lettere di Roma, e notare una lacuna evidente di tre registri delle Lettere di Napoli, da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio 1605. I soli documenti di questo periodo, che ci rimangono, son quelli pervenutici con gli Atti processuali inserti nel noto Codice Strozziano: 1° il Breve Papale del 27 ottobre 1604, calcato sull'altro precedente, col quale si ricorda la concessione fatta già al Conte di Lemos, si menziona la lettera ricevuta dal Conte di Benavente circa il matrimonio di D. Pietro de Vera, che «lo stesso Nunzio pretende» aver fatto spirare la facoltà accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto in luogo del De Vera, accordandogli identica facoltà; 2° le note marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de' quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti le sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in galera, per gli altri il rilascio. - Si può dunque ritenere che il Vicerè presentò direttamente a Roma il nome di colui che volea sostituito al De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad occuparsene nel suo Carteggio, e che venuto il Breve potè il tribunale tener seduta tutt'al più a' primi di novembre, e senza discussione emettere le sentenze secondo le minute già fatte e ne' termini stabiliti fin dal luglio precedente. Aggiungiamo qui che D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come si trova talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de Vera e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca data, nel 1602. È superfluo poi far avvertire che doveva esser clerico; ed avendo di certo funzionato coll'apporre solo il suo nome alle sentenze, possiamo dispensarci dal discorrere ulteriormente di lui. Intanto la causa del Campanella rimase tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad occasione delle sentenze emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia tenuto obbligato di spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui: la lacuna sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette di affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò il suo ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella, sicchè bisogna dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e dalla Curia Romana affatto dimenticato.

Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali egli stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un memoriale che cominciava con le parole «Ill.mo e Rev.mo Signore, Noi amici, e parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella Sacerdote della Religione di S. Domenico carcerato in S. Ermo». Questo documento citato dal Nicodemo, e così pure dal Cipriano, dietro una nota rimessa loro dal Magliabechi intorno alle opere manoscritte del Campanella a quel tempo esistenti nella Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente perduto; e la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime perchè le sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere i nomi de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di quella scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran parte la cultura napoletana del secolo 17°, secolo più calunniato che conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe nemmeno dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio 1604, allo scopo di reclamare contro i pessimi trattamenti che il Campanella soffriva senza ragione, ovvero sia stato presentato nella fine di ottobre 1604 ed anche più tardi, quando il tribunale era prossimo a riunirsi o si era già riunito per la definitiva spedizione della causa de' quattro frati, allo scopo di ottenere che la causa del Campanella fosse egualmente spedita. Ma quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed anzi veramente da rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in là che a questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi aderenti non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il memoriale rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente con esse andò poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.

Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del Petrolo che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per servire sulle galere di S. S., il Campanella rimaneva in Castel S. Elmo, indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse, che i frati «subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori et officiali nella religione...» mentre in quanto a lui «non volsero mai permettere che andasse alli carceri di Roma, nè che si facesse la causa sua di ribellione a Napoli, perchè non poteano condannarlo in altro, e perchè non andasse a Roma dove sapean c'havea d'esser liberato. Però con crudeltà et astutia grande lo posero in Castel Santelmo dentro a una fossa oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla puzza oscuro et acqua, et quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci entrava luce, stava inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena mezzo reale di vitto malamente». Che il Petrolo abbia dovuto essere graziato della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli, bisogna ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in quel tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del Gagliardo, in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra Pietro di Stilo nella 1a metà di quell'anno era già nel suo convento in Stilo, non sappiamo se in carica o no; ed un'Informazione presa contro fra Pietro Ponzio in Nicastro in data di dicembre 1604, ci dà notizia che fra Pietro trovavasi allora nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed era divenuto abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del Vicario capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino che sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione. Che poi il Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo menomamente dubitare: abbiamo veduto qual era la giurisprudenza del S.to Officio intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il Governo Vicereale non poteva non preoccuparsi di questa circostanza, e tanto più ricorrere ad ogni mezzo per non lasciarsi sfuggire di mano l'infelice filosofo. Ma che non sia stato permesso di far la causa della congiura, «perchè non poteano condannarlo in altro», deve ritenersi un assurdo, e nel tempo stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della sua vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover formulare la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per l'eresia, con la quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo la condanna per la congiura avuta dagli imputati di second'ordine, dal Contestabile, dal Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il Nunzio non avrebbe potuto non condannarlo, nè occorre dire che l'altro Giudice, compagno del Nunzio, non avrebbe esitato un momento ad emettere un voto conforme. Infine quanto all'essere stato così duramente trattato in Castel S. Elmo, ed anche all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia grande, bisogna accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una grande astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo i dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche il disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. Nè si può dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a trovarsi, poichè qualche notizia contemporanea intorno alle carceri gravi di Castel S. Elmo ce le mostra appunto a quel modo. In sostanza quindi, menzionando i suoi patimenti, egli non esagerò di molto, così nelle poesie e nei libri, che sappiamo aver sempre continuato a comporre coll'assistenza di fra Serafino di Nocera malgrado i rigori che soffriva, come pure nelle parecchie lettere, che conosciamo avere scritte al Papa, a' Cardinali ec. dopochè si era già da qualche tempo deciso a smettere apertamente la sua pazzia: non esagerò menzionando «il Caucaso» in cui si trovava qual Prometeo novello, la fossa nella quale era sepolto, l'acqua che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio fradicio, il puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi con 17 tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua «con tre hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire l'officio» sicchè invidiava «alle mosche et a' serpi la mirabile gratia della luce». Egli mostrò allora di attribuire questi crudeli trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi nemici, cioè Carlo Spinelli, Principe della Rocella, Barone di Gagliato, Barone di Bagnara e D. Loise Sciarava, amico de' «Satrapi» che avevano tanto guadagnato coll'ammettere la congiura. Sappiamo che Castellano di S. Elmo era D. Garzia di Toledo, già tornato in quel tempo dalla missione di Governatore di Calabria ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto Longone qual Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta il Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del Castello. D. Garzia dunque, co' suoi «50 leopardi» (i soldati spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il Campanella, impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli avrebbe voluto, e ciò per suggestione de' Satrapi, i quali consigliavano il Vicerè «di non darlo al Papa e non lasciare che si difendesse secondo i canoni e la ragion naturale»: ma è chiaro che D. Garzia obbediva agli ordini ricevuti, e verosimilmente li eseguiva con un eccesso di zelo, facendo egli pure, secondo la curiosa espressione del Campanella, «come quelli che son pagati a piangere i morti, che gridano più che li figli e mogli che si doglion davero»; nè c'era da fare col Vicerè nuove difese secondo i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.

III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta il periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo rivolgersi dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera, mandando ad esporgli taluni suoi concetti che costituivano promesse mirabili pel bene del Regno e quindi in favore del Re; poi col rivolgersi al Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi una visita di costoro ed esponendo in essa gli studii fatti e certi suoi concetti intorno alla fine del mondo, gl'inganni avuti dal diavolo e poi le grazie avute da Dio con le rivelazioni vere, onde potea far cose mirabili ad utile del Cristianesimo, delle quali cose presentava l'elenco in un memoriale. A queste prime mosse tenne poi dietro più tardi il suo rivolgersi al Papa, ad alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato Cardinalizio, quindi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose sue, giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse delle cose mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato, presentavano l'elenco delle opere fin allora scritte, conchiudevano col supplicare che fosse udito e posto alla prova. Indubitatamente ciascuna delle dette mosse del Campanella fu coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava esprimendo in varie e successive opere di occasione, alle quali attese col maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo scopo manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua sorte, presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e spirituale della Curia Romana, infine anche direttamente presso la Curia e tutti i potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far acquistare di sè un miglior concetto nel campo politico e nel religioso, di mostrare quali e quanti servigi egli avrebbe potuto rendere laddove fosse posto in libertà. Riuscirà quindi utilissimo vedere in precedenza le opere che compose, con tutti gli accidenti della composizione di esse, in questo periodo che comprende gli esiti de' processi e che dalla fine del 1602 può protrarsi al 1605-1606, data almeno del termine della pazzia, giacchè il termine del processo della congiura non si vide per lui mai più.

Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato dal Campanella per una piccola parte nella composizione della Città del Sole, e per la massima parte nella composizione della Metafisica, la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del 1603 (ved. pag. 305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano a' 4 libri di Astronomia contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e Telesio, indicati anche col titolo De motibus astrorum juxta physica nostra e forse indirizzati alla memoria di Giulio Cortese, come abbiamo detto altrove potersi desumere da un brano dell'opera «Del Senso delle cose» che ha richiamata la nostra attenzione. Sulla data di composizione dell'Astronomia non cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra le altre opere negli elenchi inviati il 1606 a' Card.li Farnese e S. Giorgio; la troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di Spagna coll'altro titolo De nova astronomia libri 4 etc., aggiuntovi che erano rimasti «imperfetti», la quale ultima circostanza, motivata con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè impedirgli di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra parte la cosa ci è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime del Gagliardo, per le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il filosofo si occupava di Astrologia e certamente ancor più di Astronomia, avendo per le mani, con quel singolare ripostiglio, il Magino, l'Almanach, il Cardano, senza il quale aiuto non avrebbe in verità potuto trattare una materia simile; e secondo lo stesso Gagliardo ne avrebbe trattato così nel carcere ordinario come nel torrione, vale a dire dal febbraio o marzo al luglio o agosto 1603 ed anche da questa data in poi, fin verso il tempo dell'uscita del Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il marzo 1604. È verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione, almeno quando vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il Marchese di Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa della congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate, egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e posto mano al trattato De Symptomatis mundi per ignem interituri; infatti questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a' libri di Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu inviato esso solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di Astronomia, col titolo di Prognosticum astrologicum de his quae mundo imminent. Il Campanella poteva servirsene per difesa, essendo ricominciato ad apparire il bisogno di ulteriori difese, e così come già si è visto aver fatto altre volte, egli passava immediatamente a comporre opere adatte a' suoi bisogni: aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi in qualche Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per l'autore andò certamente perduto insieme co' libri di Astronomia, che gli furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio il 1611, come apparisce dal Syntagma, nel quale per altro la data di composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate solamente in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È molto verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo trascorso nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in ultimo luogo nella scelta data alle stampe, dicendosi nel Syntagma che ve ne furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne' tormenti; esse sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603, quando tre de' frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna dire che veramente poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo. Negli elenchi delle opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova anche citata tra le Rime la «Salmodia della legge naturale e divina in tutte cose», ma essendo stati quegli elenchi compilati il 1606-1607, parecchie altre Salmodie poterono essere indicate sotto quella dicitura così generale; tuttavia le tre sopradette appariscono Inni suggeriti dalla speranza di un termine de' travagli, che a quella data poteva sembrare davvero imminente.

Al tempo trascorso nella fossa di Castel S. Elmo appartengono di certo molte opere e la massima parte delle poesie che furono pubblicate; nè si può dubitare che fin dal primo momento il Campanella abbia dovuto porre mano alla composizione delle opere, giacchè il numero di esse riferibile a' primi anni della dimora in S. Elmo è davvero sorprendente; e però crediamo che egli abbia dovuto ben presto trovar modo di ottenere da' «leopardi» un maggior numero di ore di luce, alla qual cosa provvidero verosimilmente gli aiuti di fra Serafino di Nocera ed anche le risorse sue proprie, essendo stato sempre stimato tale da comandare al diavolo. Una delle poesie, che apparisce la prima di questo periodo, ce lo mostra rassegnato, come d'altronde era naturale, dovendosi stare a vedere dove la cosa andrebbe a riuscire: alludiamo al «Sonetto nel Caucaso», in cui il Campanella professa inutile il credere la morte un rimedio a' guai, giacchè «per tutto è senso», e conchiude:

«Filippo in peggior carcere mi serra

or che l'altr'ieri: e senza Dio no 'l face,

stiamci come Dio vuol, poichè non erra».

Non abbiamo bisogno di dire che il carcere dell'«altr'ieri» sarebbe il torrione del Castel nuovo. Ma la fossa non consentiva una calma rassegnazione: ben presto egli dovè comporre ancora la «Lamentevole orazione profetale» e un po' più tardi le «Quattro Canzoni in dispregio della morte», così indicate nell'edizione Adami. Infatti la Lamentevole orazione tra gli altri dolori esprime quello per la separazione dagli amici tuttora in carcere, ciò che può riferirsi solamente a' frati lasciati nel Castel nuovo, ed ancora esprime l'apparizione di mostri e di draghi, ciò che fino ad un certo punto accenna all'apparizione de' diavoli, da' quali in più luoghi il Campanella affermò di aver ricevuto travagli nella fossa:

«Qui un mar di guai confuso

pien di mostri e di draghi

sopra di me si aduna,

e 'l tuo furor spirando aspra fortuna».

. . . . . . . . . . . . . .

«Da gli amici disgiunto

sono, e obbrobrio al mio sangue».

. . . . . . . . . . . . . .

«La gente del mio seme

m'allontanasti, e preme

duro carcer gli amici,

altri raminghi vanno ed infelici».

Nelle Canzoni poi in dispregio della morte c'è l'affermazione esplicita di aver visto il diavolo, di gustare già la dottrina di Cristo, di essersi fatto certo dell'immortalità dell'anima, de' futuri premii e pene etc., e nelle note si dice che allora l'autore compose questa Canzone (la 4a) e «scrisse l'Antimachiavellismo», la qual cosa vedremo avvenuta in una data non molto lontana da quella dell'entrata nella fossa:

«Or ch'han visto i miei sensi

non più opinante son ma testimonio,

nè sciocche pruove ho di secreti immensi,

già gusto quel che sia di Cristo il pane.

Deh sien da noi lontane

quelle dottrine che 'l celeste conio

non ha segnato; ch'io vidi il Demonio.

Credendosi i Demon malvagi e fieri

indiavolarmi con l'inganni loro,

benchè con mio martoro,

m'han fatto certo ch'io sono immortale,

che sia invisibil più d'un concistoro,

che l'alme uscendo van co' bianchi e neri» etc..

Ben si rileva che il Campanella s'infervorava assai nelle dottrine della Chiesa, e come nelle poesie così vedremo pure nelle prose; ma il lato singolare del fatto è che questo venne determinato propriamente dal diavolo, e potrebbero anche dirsi abbastanza singolari i modi usati da lui nell'esprimere i concetti nuovamente acquistati; vale la pena di farvi attenzione. Non apparisce intanto che egli abbia scritte altre Salmodie nel periodo in esame. La Salmodia metafisicale è assai posteriore, giacchè vi si parla di «sei e sei anni» di pena, di «dodici anni d'ingiurie e di stenti»; e per verità le prose l'occupavano anche troppo.

Nel tenersi rassegnato ed in aspettativa, egli non rimase certamente in ozio, e ben presto dovè attendere alla ricomposizione dell'opera Del Senso delle cose, che questa volta scrisse in italiano, come ci mostrano i Codici della Nazionale di Napoli e della Casanatense, la lettera del 1607 allo Scioppio da noi pubblicata, nella quale disse voler tradurre in latino il Senso delle cose e la Metafisica , da ultimo anche un brano dell'opera medesima, riprodotto del pari nella traduzione fattane, che venne poi stampata il 1620. È verosimile che il Campanella siasi deciso a questo lavoro, perchè era di semplice reminiscenza, avendolo già una prima volta fatto in Napoli il 1590, nè esigeva essenzialmente l'aiuto di altri libri. Ad ogni modo non dubitiamo di assegnargli la data dell'ultimo quadrimestre 1604, poichè vedremo or ora il Campanella nel gennaio 1605 occupato in un lavoro di altro genere, poi lo vedremo ancora occupato in altri lavori, ed intanto troviamo il Senso delle cose già inserto negli elenchi delle opere compilati il 1606, quindi lo troviamo pure inviato allo Scioppio il 1607; d'altro lato, percorrendo l'opera, vi troviamo citata principalmente la Metafisica e ilibri Astrologici, le ultime opere composte dall'autore, ma non l'Antimachiavellismo e del pari i Machiavellisti, citati in due brani dell'opera che fu poi stampata, d'onde si rileva che l'Antimachiavellismo fu composto veramente più tardi. Così un confronto tra i manoscritti e l'opera stampata, mentre ci conduce a determinare la data di questa ricomposizione in un modo abbastanza esatto, ci mostra pure che i manoscritti debbono dirsi realmente la ricomposizione originaria dell'opera, non una traduzione dal latino fatta per conto di qualcuno poco versato nelle lingue antiche. Abbiamo detto che ci son due manoscritti di quest'opera, in Napoli e in Roma; aggiungiamo che del 4° libro di essa, costituito dalla «Magia naturale», vi sono inoltre più copie, una in Firenze nella Magliabechiana, due ancora in Parigi, nella Bibl. dell'Arsenale n.° 14 e in quella di S.ta Genoveffa n.° 15. La dicitura italiana vi si mostra oltremodo rozza; alcune parole esprimenti gli organi sessuali e gli atti generativi non si potrebbero ripetere, e si direbbe aver l'autore sentita l'influenza del linguaggio dell'ergastolo nel torrione e in S. Elmo. Il Berti, ispiratosi senza dubbio alla lettura della Monarchia di Spagna, degli Aforismi etc., ha giudicato che «queste versioni italiane... fatte per lo più con correzioni e purgatezza si potrebbero raccogliere e pubblicare»; ma si tratta in realtà di composizioni originarie, ed alcune tra esse, in particolare quella Del Senso delle cose, sono tutt'altro che purgate. Notiamo poi nell'opera, sotto il punto di luce del nostro argomento, il ricordo di fra Pietro di Stilo più volte e quasi sempre in termini affettuosi; il ricordo analogo di D. Lelio Orsini due volte; fino ad un certo punto il ricordo anche de' Ponzii, là dove, recando un esempio, dice, «et così nel senso che quando vedo Pietro mi pare vedere Dionisio perchè simigliano». Notiamo ancora il ricordo indiretto del trovarsi carcerato, là dove, parlando della calamita, dice, «non sò se miri al polo antartico, che non mi lice parlare a' naviganti» (nella trad. lat. «non licet misero navigantes interrogare»); dippiù il ricordo dell'essere a lui pure riuscito, come all'Orsini, di atterrire con lo sguardo e con la voce coloro i quali lo teneano preso, alludendo con ogni probabilità ai momenti più acuti della sua pazzia; e da ultimo il ricordo che «li profeti hoggi si chiamano brabanti (leg. birbanti) et sciagurati dall'empio volgo», alludendo in modo chiarissimo alle condizioni proprie. Ma sopratutto crediamo notevoli varie affermazioni che si direbbero ostentati ripudii delle accuse mossegli nel processo di eresia, e in ispecie le ripetute affermazioni dell'esservi angeli e diavoli indubitatamente, dell'essere «empia» l'opinione che non esistano demonii ma solo esorbitanze d'umore melanconico, dell'essere «una sfacciataggine» negare che l'uomo comunichi con gli angeli e demonii e con Dio; alle quali affermazioni si trovano associate le altre, che «per esperienza propria» avea conosciuto solamente diavoli, i quali gli erano apparsi e si erano sforzati di fargli credere la trasmigrazione delle anime e la mancanza di libero arbitrio, oltrechè gli avevano predette cose vere e false, ed egli avea pregato Dio che gli facesse vedere angeli buoni e non l'avea «mai impetrato», ma era diventato per la malignità del diavolo «più huomo da bene». Taluna di queste proposizioni, così spinte, fu poi alquanto smussata nella traduzione, e così «la sfacciataggine» fu detta «imprudentia»: ma l'essere «divenuto più huomo da bene» si elevò a «sanctior evasus»; e in tutti i conti il Campanella aggiunse con asseveranza, «nè questa è esperienza de sciocco nè di bugiardo, che dell'uno et dell'altro sempre mi guardai più che del diavolo stesso», ciò che fu tradotto «nec experientiam narro imperiti, timidi, vel mendacis hominis, utrumque enim vitavi semper sicut pestem diram». Intanto nell'ultimo libro dell'opera si trova notata un'altra circostanza, ma in modo assai oscuro: «Porfirio e Plotino aggiungono che vi siano gli Angeli buoni et perversi, come ogni dì si vede esperienza et io ne ho visto manifesta prova, non quando la cercai, ma quando pensava ad altro (lat. non quando investigatione avida id tentavi sed quando aliud intendebam); però non è meraviglia se al curioso Nerone non sono comparsi»: ignoriamo a quale momento il Campanella alluda, ma parlandosi della curiosità di Nerone non soddisfatta, e sapendosi che Nerone volle vedere i diavoli senza potervi riuscire, è certo che finqui il Campanella, ripetendo quanto cantava nelle Poesie, non aveva ancora progredito al punto da essergli comparsi angeli, come poi gli comparvero più tardi, essendosi sempre più ingolfato nelle dottrine de' Santi. Da ciò rimane anche chiarita la data di questa ricomposizione in italiano dell'opera Del Senso delle cose .

In gennaio 1605 abbiamo ragione di credere che il Campanella siasi occupato de' due opuscoli intitolati Del Governo del Regno e Consultazione per aumentare le entrate del Regno. Lo argomentiamo dal fatto che in questo tempo appunto, dopo di avere aspettato invano qualche provvedimento intorno alla sua persona, dovè uscire dal raccoglimento, non far più un mistero delle sue buone facoltà intellettuali, e sotto gli auspicii di fra Serafino di Nocera trasmettere proposte e promesse mirabili al Vicerè, naturalmente per conquistarne la grazia ed essere chiamato innanzi a lui. Certamente le proposte doverono essere analoghe a quelle espresse negli opuscoli, e naturalmente questi non si potevano ancora presentare, senza svelare e compromettere la comodità di scrivere di cui il prigioniero godeva; mentre poi era pure necessario che fra Serafino, il quale dovea presentare tali proposte, ne avesse avuto un cenno scritto, vale a dire avesse avuto gli opuscoli, i quali ne trattavano. D'altronde sappiamo che almeno la Consultazione fu poi data allo Scioppio separatamente dalle altre opere, ma nello stesso periodo di tempo, un poco prima o un poco dopo della data in cui le opere furono inviate, come apparisce da una delle lettere del Campanella pubblicate da noi; sicchè laddove sia corso un qualche intervallo tra l'aver ventilate le proposte e l'averle scritte, esso sicuramente non fu molto lungo. L'opuscolo Del Governo del Regno non è pervenuto sino a noi; la Consultazione col titolo di Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento dell'entrate del Regno di Napoli, fu scoperta dal Dragonetti nella Casanatense e poi con accurato lavoro pubblicata dal D'Ancona. Quantunque relativa ad un tema niente affatto biblico, il Campanella, pur facendo proposte non indegne di considerazione, vi fa campeggiare la Bibbia largamente e vi si mostra un fervido religioso: e dev'essere notato che malamente nel Syntagma fu scritto essere stata diretta «al Conte di Lemos», ciò che rimanderebbe la cosa al 1610. Fin dalle prime parole dell'opuscolo si vede che l'autore si dirige ad un Vicerè tenerissimo dell'annona, e sappiamo che il Conte di Benavente se ne occupò davvero con un'attività e severità straordinarie: nell'ultima pagina poi, evidentemente aggiunta con alcune altre dopo che si riuscì a far accogliere l'opuscolo dal Vicerè, è detto che il Torres Segretario di S. E. lesse l'opuscolo; e sappiamo dal Capaccio, come dal Parrino, che D. Baldassare Torres fu Segretario del Conte di Benavente con autorità eccessiva, tanto che le popolazioni assai se ne dolsero, ma assai più si dolsero poi di averlo perduto. - Lo stesso dobbiamo dire di due altri Discorsi, qualificati secondo e terzo, che abbiamo trovato nella Casanatense al sèguito del precedente e che diamo oggi alla luce, essendo parte integrante della Consultazione, siccome mostra anche il cenno fattone dallo Scioppio in una delle sue lettere pubblicate non ha guari dal Berti. Mentre il primo tratta propriamente dell'annona, il secondo tratta della moneta scadente o falsa, e il terzo della pena di morte. Da ognuno di questi articoli il Campanella intende trarre un utile di 100 mila ducati pel Governo, 300 mila in tutto, mercè provvedimenti benefici in pari tempo alle popolazioni; ma l'aumento dell'entrate è il suo scopo principale, sicchè le sue proposte riescono vere proposte di occasione, fatte per rendersi propizii i potenti, come già abbiamo annunziato fin da principio verificarsi ampiamente nelle opere del periodo attuale. Il Dragonetti non pose mente a questo fatto nel giudicare il Discorso primo relativo all'annona, e però tanto più crediamo necessario farlo rilevare.

In sèguito, dal febbraio al luglio 1605, rivolgendo i suoi sguardi al Papa, dopo di averli inutilmente rivolti al Vicerè, il Campanella dovè porre mano alla Monarchia del Messia coll'annesso capitolo De' dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, ed ancora alla Ricognizione della Religione secondo tutte le scienze contra l'anticristianesimo machiavellistico, cui lo Scioppio volle poi dare invece il titolo di Atheismus triumphatus. Lo argomentiamo dal fatto che appunto nel luglio 1605 o qualche mese più tardi secondo i nostri còmputi che più sotto esporremo, il Campanella si procurò la visita del Nunzio e del Vescovo di Caserta dicendo di volersi accusare, e manifestò in essa i principii che andava svolgendo nelle dette opere, essere sicuramente venuto il tempo di «far una greggia et un Pastore», avere «esaminato la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sette antiche e moderne» etc. etc., ed avere «con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato se stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo a cui solo li Sacramenti son aggiunti» etc.; con singolari affermazioni di aver ottenuto da Dio rivelazioni e potestà di difendere il Cristianesimo dopo di essere stato con altri ingannato dal diavolo, potestà perfino di far miracoli etc. La Monarchia del Messia fu scritta in italiano, messa da parte una volta e ripigliata tra mano più tardi; molto più tardi poi fu tradotta in latino. Ne esistono ancora in italiano una copia in Lucca, nel codice 2618 più volte citato, due in Parigi, nella Bibl. nazionale n.° 985, e nella Bibl. di S.ta Genoveffa n.° 3, inoltre una in Londra, nel Brith. Mus. n.° 2255. Il non trovarsene alcuna nelle Bibl.e di Napoli ci ha tolto di poter vedere se e quali differenze vi siano tra il manoscritto in italiano e il libro che fu poi stampato in latino a Jesi nel 1633; ma crediamo bene che non vi siano differenze contemplabili, sapendo per prova che il Campanella nelle traduzioni è stato sempre fedele alle composizioni originarie (salvo il caso in cui qualche brano fosse riuscito troppo spinto in un senso o in un altro), forse perchè le composizioni originarie si trovavano sempre già diffuse nel pubblico ed egli non volea mostrare di aversi a correggere. Naturalmente nella Monarchia del Messia la Bibbia campeggia in modo quasi esclusivo. Allorchè la diede alle stampe, disse in una prefazione che il libro si connetteva agli altri anteriori della Monarchia del Messia; e così dicendo ci pare che abbia alluso alla «Monarchia de' Cristiani» e al «Governo della Chiesa», mentre quando cita la prima di queste due opere nell'elenco mandato il 1606 al Card.l S. Giorgio, dice che essa offre i soli primi fondamenti, poichè egli «anchora non haveva proceduto nelle leggi e profezie, ma solo per historia politica e natura», e quando la cita nella lettera latina al Papa, la chiama addirittura «Monarchia del Messia». Ma la Monarchia del Messia di cui qui parliamo non si trova registrata negli elenchi mandati il 1606-1607 a' Cardinali e al Re di Spagna, e si trova poi nell'elenco mandato in giugno o luglio 1606 allo Scioppio: ciò vuol dire che essa fu condotta a termine solamente verso quest'ultima data, nè deve sorprendere che non si trovi nell'elenco mandato al Re, che è quasi contemporaneo, poichè conveniva poco nominarla al Re, al quale si vede anche la «Monarchia universale de' Cristiani» annunziata col titolo di «Monarchia universale alli Principi Christiani». - Quanto all'Ateismo debellato (lo chiamiamo fin d'ora così pel vantaggio della brevità), esso dovè essere scritto fin dall'origine in latino, ovvero, se fu cominciato in italiano, dovè essere presto tradotto e poi compiuto in latino acciò potesse meglio servire allo Scioppio, per cui fu compiuto ed a cui fu dedicato; e può dirsi che precisamente al tempo nel quale fu menato a termine, il Campanella abbia abbandonato il costume di comporre dapprima in italiano per poi tradurre in latino. Sicuramente fu menato a termine del pari verso la metà del 1607, essendo rimasto interrotto per qualche tempo: difatti esso si trova già chiaramente indicato nelle lettere del 1606 a' Cardinali, ma quasi in un poscritto, non figurando negli elenchi delle opere ad essi mandati, ed invece figura nell'elenco del 1607 mandato al Re, col titolo «La esamina di tutte le sette del mondo a paragon del Vangelio con la ragion comune e di tutte scole» etc.; la qual cosa contribuisce a dimostrare quanto abbiamo sostenuto nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella circa la data della lettera al Re, assegnandole probabilmente quella del giugno 1607, mentre appunto verso tale data l'Ateismo fu certamente compiuto e mandato allo Scioppio con tutte le altre opere disponibili. Dovrebbe anzi dirsi che il Campanella vi abbia lavorato fino all'ultima ora, se si trovasse realmente esatto quanto affermò lo Struvio, che cioè nella copia mandata allo Scioppio tutta la materia dal cap. 7° all'11° fu scritta di mano dell'autore. Senza pretendere menomamente di dare un cenno qualunque di tale opera, meravigliosa per essere stata scritta in una fossa e lungi dal corredo opportuno di libri che ad ogni altro sarebbero stati indispensabili, ci limiteremo a far avvertire che essa era destinata a mostrare come l'autore oramai, perfino co' soli lumi della filosofia e della critica, fosse giunto a convincersi profondamente della verità della fede di Cristo, e si sentisse tutto fuoco e fiamme contro gli Atei, contro gli Anticristiani, contro i Machiavellisti e il Machiavelli; che al tempo medesimo essa era destinata a rappresentare la confutazione e la condanna delle tante accuse mosse all'autore col processo di eresia, la sua professione di fede ardente, in modo da farlo stimare capacissimo d'imprendere e conseguire cose grandi, qualora, s'intende, fosse stato posto in libertà. Dedicata poi allo Scioppio, che appariva l'unico aiuto possibile e che era noto per la rabbia fanatica ed insolente contro i suoi antichi correligionarii, l'opera riuscì forse anche per questo assai piccante, e però venne a procurare giudizii molto ostili all'autore da parte degli Acattolici, senza nemmeno conciliargli la benevolenza del Capo del Cattolicismo. Per noi riescono notevoli sopratutto alcune parti di essa, che offrono la confutazione di cose particolarmente addotte nel processo di eresia e contemplate con molta puntualità: così accade p. es. a proposito dell'Eucaristia, ove si parla della «contumelia vermium, muscarum et murium», e si muove la quistione «cur irrisa Eucharistia miracula non facit semper»; egualmente a proposito della «religio colendi imagines», del «colere Crucem in qua repraesentatur crucifixus», del «peccatum Adae», del «transitus maris rubri», etc. etc. Notevoli riescono inoltre le narrazioni circostanziate, ma pur sempre oscure, di quel tale astrologo che istruì un giovane incolto ad invocare gli angeli de' pianeti, d'onde si ebbe la comparsa di diavoli e una quantità di rivelazioni, con la conclusione che essi separarono poi il giovane dall'astrologo e lo trassero a morte violenta: non può qui non colpire che il Campanella parli di un astrologo, e taccia delle posteriori comparse di angeli con le rivelazioni e facoltà ottenute, mentre, al tempo in cui il libro fu compiuto, già con le sue lettere del 1606 al Papa e a' due Cardinali aveva affermato essere stato quel giovane istrutto da lui medesimo, ed avere poi lui medesimo visto altri diavoli e da ultimo angeli; si direbbe che nell'opera egli avesse avuto ritegno di esprimere apertamente quanto si era permesso di esprimere nelle lettere confidenziali. E si sa che lo Scioppio non tradusse in tedesco l'opera nè la pubblicò, come l'autore desiderava, e dovè l'autore medesimo pensare a pubblicarla quando divenne affatto libero, nel 1630, ma fu obbligato ad aggiungervi in alcuni punti le autorità de' S.ti Padri, mutando lo stile filosofico in teologico; che più tardi, perfino dopochè l'opera era stata ampiamente approvata e pubblicata, vi si trovarono altri appicchi nè si consentì che fosse ripubblicata, e in somma Roma finì per non rimanerne contenta. Si sa d'altro lato che presso gli Acattolici l'avere spiattellato tutti gli argomenti degl'increduli, come pure l'averla tirata troppo contro il Machiavelli, diè motivo di far dubitare della sincerità dell'autore. Ma basta aver chiarita l'occasione nella quale l'opera fu scritta, meritando senza dubbio tale occasione di essere molto bene considerata.

Diremo ora in breve delle altre opere appartenenti a questo stesso periodo, scritte fra le interruzioni delle precedenti, secondochè le circostanze le facevano apparire all'autore più o meno atte a procurargli la libertà. Dopo l'agosto 1605 egli ebbe verosimilmente ad occuparsi de' due trattati, de' quali si trova fatta menzione negli elenchi delle opere mandati a' Cardinali Farnese e S. Giorgio, col titolo Cur sapientes et prophetae Nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes rebellionis et heresis tamquam proprio simul crimine notentur ac morti violentae subjaceant, et postmodum cultu et religione reviviscant»: l'esito del suo colloquio col Nunzio e col Vescovo di Caserta spiega ad un tempo l'interruzione dell'Ateismo e la convenienza de' detti trattati; pertanto è notevole che essi non si trovino registrati nell'elenco mandato in sèguito al Re. Forse l'autore stimò più conveniente metterli da parte dirigendosi all'Autorità civile, mentre vi si parlava della «morte violenta de' filosofi» come di un affare ordinario e consueto; forse anche egli li fece presentare appunto al Nunzio e al Vescovo di Caserta non appena li compose, e così potrebbe pure spiegarsi che siano andati perduti; infatti non li troviamo nemmeno nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio. - Il titolo medesimo de' detti trattati ci mena a ritenere che subito dopo egli abbia posto mano alla ricomposizione degli Articoli profetali con una maggiore ampiezza, quali son pervenuti, tuttora manoscritti, fino a noi: essi figurano negli elenchi mandati così a' Cardinali come al Re con la nuova intestazione, De eventibus praesentis saeculi Articuli prophetales 18. La nuova intestazione e il numero degli Articoli mostrano bene che non si tratta qui degli Articoli primitivi; il numero medesimo mostra che al tempo in cui l'autore redigeva i detti elenchi, gli Articoli non erano compiuti ancora, poichè egli credeva che dovessero raggiungere il n.° di 18, ed invece non oltrepassarono il n.° di 16, come si trovano in più Biblioteche. D'altronde sappiamo che nel giugno o luglio 1607 il Campanella non potè o non volle ancora mandarli allo Scioppio, il quale vivamente li desiderava trovandosi impegnato in una quistione circa l'Anticristo, provocata da una sua opera su tale argomento; e una lettera posteriore del Campanella, da noi pubblicata, mostra che in novembre 1608 erano già pronti, sicchè per essi bisogna contare un anno iniziale 1605-1606 e un anno finale 1608. - Ma ecco ancora un'altra opera, per la cui composizione dovè rimanere interrotta egualmente quella degli Articoli, vogliamo dire i tre libri intitolati Antiveneti, a' quali è del tutto naturale assegnare la data della fine di agosto e mesi seguenti 1606, non appena l'autore ebbe notizia dell'interdetto lanciato dal Papa Paolo V contro Venezia, come si desume dalla 1a e 2a lettera al detto Papa pubblicate dal Centofanti: a questa data il Campanella diè fuori febbrilmente le rivelazioni del diavolo e quelle dell'angelo, alle quali i fatti di Venezia si prestavano in un modo magnifico; gli Antiveneti doverono essere composti con ottima vena in un tempo relativamente breve, e si trovano registrati nell'elenco delle opere mandate allo Scioppio. - Inoltre, un po' più tardi, egli dovè senza dubbio ricomporre ed ampliare i Discorsi a' Principi d'Italia, che dapprima verosimilmente erano in una forma più ristretta; lo si può argomentare anche vedendo che gli elenchi inviati a' Cardinali recano «Un discorso a' Principi» etc., mentre le copie manoscritte che tuttora ci rimangono in gran numero sono abbastanza voluminose recando 11 o 12 discorsi, e, ciò che più monta, citano tutte assai spesso non solo la Monarchia di Spagna, ma anche la Monarchia del Messia, il Discorso de' dritti del Re Cattolico sul nuovo mondo, gli Articoli profetali; nè vi manca (alla fine del disc. 7° od 8° secondo le diverse copie) una menzione dell'«empio Machiavello» che ricorda troppo l'Ateismo debellato appena compiuto e forse non ancora compiuto. La data di siffatto lavoro può dirsi quella de' primi mesi del 1607, quando Cristoforo Pflugh fece acquistare al Campanella la conoscenza dello Scioppio, che appunto allora fu nominato Consigliere Austriaco e designato dal Papa ad andare invece del Nunzio al Congresso di Ratisbona. Tutte queste circostanze di tempo di luogo e di persone, che si vedranno giustificate più in là, fanno intendere le opinioni manifestate dal Campanella ne' Discorsi, i quali doveano servire a rendergli propizii il Re di Spagna, l'Imperatore e gli Arciduchi di Austria. Aggiungiamo che specialmente dopo di avere acquistata la conoscenza di Gaspare Scioppio, ed anche del medico Gio. Fabre di Bamberga residente in Roma, nel corso del 1607 e in parte nel 1608, il Campanella ebbe a scrivere diversi opuscoli epistolari, come quello Sul modo di evitare il freddo, quello Sulla sordità e l'ernia, e gli altri tutti da noi pubblicati, cioè Sulla peste di Colonia, Sul modo di evitare il calore estivo, Sul Peripateticismo, Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, Sul Pieno e sul Vacuo; avremo occasione di parlarne nel corso della nostra narrazione.

Possiamo oramai venire al racconto de' particolari di ciò che il Campanella imprese per uscire dalla fossa di Castel S. Elmo e riacquistare la libertà: egli medesimo ne parlò segnatamente nelle lettere che scrisse più tardi, in agosto 1606, al Papa Paolo V e al Card.l Farnese; e da questi fonti possiamo attingere le principali notizie ed anche argomentare le date approssimative degli avvenimenti, alle quali siamo sempre usi di annettere molta importanza. «Dopo 5 mesi di stento» (così egli si espresse) propose al Vicerè di fare in servizio del Re cose mirabili, che importavano più che tre regni con aver parole del cielo, ma il Principe non volle ascoltarlo nè cavarlo da quella fossa orrenda, nè dargli agio di scrivere quelle cose nè di difendersi; «dopo 6 mesi» ottenne con arte di parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta, dicendo che si voleva accusare (vedremo tra poco in qual maniera si accusò e quali risposte ne ebbe), ed erano scorsi già «10 mesi» senza che potesse trovar credito (tale è il significato della espressione volgare da lui adoperata, «aver udienza»). Fermandoci dapprima alle date, ammesso il trasporto del Campanella a S. Elmo nel luglio 1604, abbiamo che egli si sarebbe rivolto al Vicerè nel gennaio 1605, e poi avrebbe ottenuto di poter parlare al Nunzio e al Vescovo di Caserta nel luglio dello stesso anno; così il 13 agosto 1606 erano scorsi all'incirca dieci mesi, e diciamo «all'incirca» perchè vi sarebbe una differenza di poco oltre due mesi, i quali del resto avrebbero potuto essere scorsi dalla data dell'assentimento ad una visita alla data della visita fatta; tenuto conto della stagione la cosa riuscirebbe naturalissima, ed allora il colloquio dovrebbe dirsi avvenuto in settembre od ottobre 1605. D'altronde non deve sfuggire che se si ammettesse il trasporto a S. Elmo avanti il luglio 1604, il conto non potrebbe tornare in alcun modo, e però le date anzidette sono le approssimative unicamente possibili. In qual modo il Campanella abbia fatte le sue proposte al Vicerè, emerge precipuamente da ciò che sappiamo intorno a' suoi opuscoli Del Governo del Regno, e Consultazione sopra l'aumento delle entrate. Dovè presentarsi fra Serafino di Nocera, esporre principalmente i rimedii escogitati intorno all'annona, che tanto teneva occupato il Conte di Benavente, poi anche quelli intorno alla moneta scadente e alla pena di morte nel senso di far guadagnare altri 200 mila ducati, ed indicare la provenienza di ciò che aveva esposto mettendo fuori il nome del Campanella, capace di queste e di molte altre cose mirabili; ma non dovè trovare buona accoglienza, e così il Campanella potè poi dire che il Principe non volle ascoltarlo. Parrebbe che fra Serafino avesse anche sollecitato pel Campanella, ed inutilmente, il permesso di porre in iscritto le sue idee; ma se così passarono realmente le cose, non potrebbe trarsene la conseguenza che il Campanella non avesse già scritti questi rimedii intorno alle entrate, ed anche altri libri, poichè conveniva tenere tale fatto nascosto. Le sue «cose mirabili» furono ricordate egualmente nelle lettere del 1606 ai Cardinali, nella lettera del 1607 al Re, e tanto più tardi ancora nel Memoriale del 1611 al Papa che pubblicò il Baldacchini, non senza un qualche miglioramento ed accrescimento ulteriore: a capo di esse nel 1606-1607 troviamo sempre, e sotto pena della mutilazione di una mano nel caso di menzogna, il far aumentare le rendite nel Regno di 100 mila scudi oltre l'ordinario, appunto ciò che si legge ne' primi versi della Consultazione; poi vengono altre promesse, far guadagnare per una volta 500 mila scudi per una impresa importantissima a tutti i negozii d'Europa, fare un libro ove si mostri venuto il tempo di riunire tutte le genti sotto una sola legge ed un principato felicissimo etc., fare un altro libro segreto al Re ove si mostri il modo di arrivare a questa monarchia, e così tante altre cose atte ad eccitare l'estro del soprannaturale e l'ingordigia terrena. Molte di queste cose erano evidentemente «parole di cielo», e del resto la Consultazione medesima si vede saper tanto di cielo che è un piacere. Malgrado ciò, non fu possibile piegare l'animo del Vicerè, come non fu possibile nemmeno di piegar l'animo del Papa in sèguito. Intanto il Campanella mostrava che la sua pazzia era finita; e siamo in grado di esporre l'esito finale delle dette pratiche, poichè dagli ultimi brani di ciascun Discorso della Consultazione, aggiunti come poscritti più tardi, se ne può rilevare qualche notizia. Solamente dopo alcuni anni l'opuscolo venne accolto in Palazzo, ove fu portato dal P.e Pegna (un P.e Gaspare Pegna forse Domenicano, del quale non ci è riuscito finora saper altro), e il Segretario Torres, che lo lesse, approvò taluni mezzi in esso suggeriti, contro altri fece varie obiezioni alle quali il Campanella rispose. In particolare circa l'annona il Torres comandò che l'autore scrivesse sopra un altro punto: ma il Campanella fece sapere che ne avea scritto nella Monarchia già mandata al Re, appellandosi al Vescovo di Monopoli il quale l'avea letta, e si rifiutò di scriverne ancora volendo essere «inteso a bocca» da S. E., costante desiderio che non fu mai esaudito. L'appello al Vescovo di Monopoli ci mostra che tutto ciò dovè accadere non prima del 1608, quando già al Campanella erano state procurate molte commendatizie presso il Vicerè, come sappiamo da altri fonti, e il Vescovo di Monopoli P.e Gio. Lopez Domenicano, rinunziata la sua Chiesa per grave età, e giunto in Napoli, vi era trattenuto dal Vicerè qual suo Consigliere intimo, sino a che gli fu concesso di ritirarsi a Valladolid sua patria.

Fermandoci alle mosse del Campanella nel 1605, riuscita inutile quella fatta in gennaio presso il Vicerè, dicevamo che in luglio ne fece un'altra presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta: e qui innanzi tutto dobbiamo avvertire che Nunzio era ancora l'Aldobrandini, ma Vescovo di Caserta era fra Diodato Gentile, successo già al Tragagliolo nel Commissariato generale del S.to Officio in Roma, e poi successo al Mandina defunto nel Vescovato di Caserta, con exequatur del 24 luglio 1604, occupando del pari la carica di Ministro della S.ta Inquisizione nel Regno. Senza dubbio per far uscire il Nunzio dalla sua apatia verso di lui, il Campanella disse di volersi accusare, onde il Vescovo di Caserta fu chiamato ad intervenire egli pure; e così il Campanella potè anche dire di averli chiamati «con arte». Naturalmente, più o meno presto, essi doverono recarsi a S. Elmo, ed ivi in qualche sala ascoltare il Campanella, ma non videro la sua prigione: questo leggesi in un altro brano della lettera a Paolo V, ove il Campanella racconta che Mons.r Nunzio vide il carcere di fuori, e per non avere a contradire al Vicerè non entrò nè mandò a vederlo, e disse che era buono, «nel modo ch'ogni sepoltura par buona di fuori». Ecco ora il discorso del Campanella e le osservazioni de' due Vescovi; sarà meglio far parlare il Campanella medesimo: «M'accusai come, per mancanza dello spirito, che trovai tra' Cristiani molto difformi dell'antichità e profession nostra, mi risolsi ad esaminar la fede con la filosofia Pitagorica, Stoica, Epicurea, Peripatetica, Platonica, Telesiana e di tutte sètte antiche e moderne, et con la legge delle genti antiche e d'Ebrei, Turchi, Persiani, Mori, Chinesi, Cataini, Giaponesi, Bracmani, Peruani, Messicani, Abissini, Tartari, et com'ho con tutte le scienze finalmente humane e divine assicurato me stesso et gli altri che la pura legge della natura è quella di Christo, a cui solo li Sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare con la gratia di chi l'ha dati; et che son pur simboli naturali et credibili: et vidi come Dio lasciò tante sètte caminare, e la mancanza dello spirito in noi, e lo scompiglio della natura e suo fine. Onde son fatto possente a difensar con tutto il mondo il Christianesmo; che fui sentinella fin mò dell'opere di Dio. E come la divina Maestà disegna in questo tempo far una greggia et un Pastore, e 'l giudicio dell'errore di tante nationi, e quel che soprastà al Christianesmo: e li sintomi celesti et terrestri del mondo morituro per fuoco, contra li filosofi con S. Pietro et Heraclito. La difficoltà del mondo nuovo, e dell'incarnatione et altri articuli difficultosi, l'esamina delle profetie e miracoli veri e falsi d'ogni setta. Et com'io et altri fummo ingannati dal diavolo aspettando scienza e libertà da lui, credendoci che fosse Angelo, e poi Dio, secondo si fingeva; e come, dopo lunga dieta, Dio benigno condescese al mio desiderio, che mai non fu maligno, se fu erroneo: e presentai memoriale di questa, e molti capi di cose faciende ad utile del Christianesmo. Nondimeno Monsignore Nuntio rispose ch'io era poco humile. Non so se l'ha fatto per provarmi: perchè ben so ch'è scritto nella Sapienza: Qui intuetur illam permanebit confidens: et che l'humiltà è magnanima et non vile, et io certo so che mai non ho bramato dignità nè honori, et a tutti vilissimi servitii ho posto mani. Sed neque me ipsum judico. Monsignor di Caserta fece conseguenza, ch'havendo io vagato per tante sètte, e cercato li miracoli veri e falsi, e le profetie e la novità del secolo, com'egli lesse nel mio processo in Roma, non havevo cattivato me ad ossequium Christi: e che mò voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben fanno a non creder subbito; ma negarmi l'esperienza, o scriver a V. B. che «non la voglia vedere, è un negar lo spirito di Dio, che ubi vult spirat, et seguir lo spirito degli huomini: Venite cogitemus adversus Jeremiam» etc. Così il Campanella mostrava anche da questo lato che la sua pazzia era finita e già da qualche tempo, tanto che avea visto anche con altri il diavolo, e poi, dopo lungo aspettare in penitenza, Dio l'aveva esaudito ed oramai si sentiva in grado di far cose mirabili ad utile del Cristianesimo. Quali abbiano dovuto essere queste cose, delle quali diè «molti capi», si può comprenderlo dagli elenchi più volte indicati, estraendo da essi i capi relativi appunto all'utile del Cristianesimo: dovè quindi promettere di far il libro in dimostrazione della prossima fine del mondo coll'unione di tutte le genti costituendo una gregge ed un solo pastore, far il libro contro i politici e Machiavellisti, un libro per convertire i Gentili delle Indie orientali, un libro contro i Luterani, ed andare in Germania ottenendovi la conversione di due Principi protestanti e il discredito completo di Calvino, fare al ritorno 50 discepoli contro gli eretici etc. etc. Di certo egli dovè promettere anche di far miracoli, come non cessò poi di prometterli più o meno esplicitamente fino al 1611; ed anche nella sua prima lettera al Papa e in una lettera posteriore allo Scioppio, pubblicate entrambe dal Centofanti, si dolse che il Nunzio e il Vescovo di Caserta avessero chiamato finzioni, delirii od astuzie, per uscire dal carcere, i suoi presagi, i suoi segni nel sole, luna e stelle, e i miracoli che avrebbe fatto per costringere ogni anima a riconoscere il Vangelo. Questo d'altronde emerge dalle osservazioni medesime fatte da costoro, quali il Campanella le narrò al Papa, da doversi dire in verità rispondenti a quanto sappiamo del carattere dell'Aldobrandini, che ci è abbastanza noto, e del Gentile, che parecchi documenti ci mostrano spietato ed esorbitante non meno del Mandina. Secondo il nuovo Vescovo di Caserta, il Campanella voleva «far miracoli falsi per scampare od allungar la vita»; sicchè, nel concetto di questo Vescovo, pel disgraziato filosofo si trattava sempre di avere a perdere la vita più o meno presto. Dobbiamo intanto dire che il Vescovo di Caserta, per parte sua, ebbe a scrivere qualche cosa a Roma intorno a tale colloquio, ma il Nunzio non scrisse certamente nulla, come ci mostra il suo Carteggio del 1605, ultimo anno di ufficio per lui: che anzi in una sua lettera del 24 agosto 1605 al Card.l Valenti, tenuto allora provvisoriamente da Papa Paolo «nel luogo che si sogliono adoperare i proprii nipoti», passando a rassegna, per sua giustificazione, i casi di torto giurisdizionale da lui trattati, egli non citò punto il caso del Campanella, e quindi dalla parte del Nunzio, non meno che dalla parte di Roma, rimaneva non curato il torto ricevuto in persona del povero filosofo, contentandosi che la sua causa non fosse spedita. Dalla parte del Campanella poi ognuno avrà notato come, tanto presso il Vicerè, quanto presso il Nunzio, egli non fece la menoma richiesta che la sua causa fosse spedita; nè veramente espresse mai più un desiderio simile per lungo tempo, se non sotto certe condizioni.

Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto 1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa, moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più sensi e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto ritardo non provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i gridi di dolore che sovente erompono nelle dette lettere; ma bisogna dire che egli non nutriva alcuna speranza di essere ascoltato, e però non si mosse di nuovo se non quando avvenne un fatto tale da tenere in agitazione vivissima l'animo del Papa; fu questo l'interdetto scagliato a Venezia, seguito dalla superba resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono del Papa in una pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli aveano offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e certamente del principale tra essi che era stato la pazzia, come risulta dal veder citata l'autorità di S. Geronimo), si appella mostrando la necessità di venir tradotto a Roma e l'impossibilità di consentire che il giudizio della congiura ed anche dell'eresia termini in Napoli, fa un racconto delle cose di Calabria e degli avvenimenti posteriori come può farlo un giudicabile, riconosce commessa da lui la colpevole imprudenza di aver servito alla «revelation presente» ed esservi stato un «voluto, non fatto, eccesso», chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non in Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da dire al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui dichiara avere avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una guerra spirituale e la chiamata di tutte le persone sante a Roma, per parte sua obbligarsi a mostrare con miracoli stupendi la verità del Vangelo ed allungare le profezie laddove sia necessario. Questo poscritto apparisce l'occasione vera della lettera, la quale è seguita poi da un'altra, o, se piace meglio, da un allegato, in cui pel fatto di Venezia insiste sempre più sulla necessità di venir tradotto a Roma, narra le rivelazioni avute dal diavolo fintosi angelo tre anni prima, e per esse la caduta di Venezia nel 1607 con la perdita di gran parte dell'autorità del Papa, la caduta della dignità Pontificale e del Senato Cardinalizio dietro uno scisma dopo il 1625; narra poi la comparsa successiva di altri diavoli che l'afflissero, e in sèguito, dietro preghiere a Dio, le rivelazioni vere che ebbe con gli avvertimenti da dover dare a S. S., e suggerisce consigli, e cita profezie, e dichiara di voler parlare a S. S. e poi morire etc. etc.

Importa commentare quest'altra mossa del Campanella, sempre più degna di attenzione comunque rimasta senza il menomo effetto. Non a torto dovè sembrargli molto opportuna l'occasione per rivolgersi al Papa. Fin da' primordii del suo Pontificato Paolo V si era mostrato assolutamente deciso a far rispettare ad ogni costo l'immunità ecclesiastica, e dopo di aver fatta e facilmente vinta una quistione con Lucca e poi con Genova in condizioni davvero esorbitanti, avea voluto farne un'altra anche con Venezia, che non si era mai adattata a riconoscere l'immunità ecclesiastica negli Stati suoi. Annunziato dapprima con un Breve fin dal dicembre dell'anno precedente, emanato dappoi nel solenne Concistoro del 17 aprile 1606 il gran Monitorio, che dichiarava incorsi nelle scomuniche il Doge e il Senato Veneto per essersi rifiutati a consegnare al Nunzio due scellerati malfattori, il Canonico Saracino e il Conte Brandolino Abate di Narvese, Venezia si era mostrata inflessibile, si che il Papa avea stimato opportuno radunare un grosso esercito, e Venezia avea dovuto fare altrettanto. Napoli, così vicina, non poteva rimanersi indifferente, e dal Carteggio del Residente Veneto Agostin Dolce si rilevano, con le rispettive date, i fatti avvenuti allora nella città. I Gesuiti, irritati anche per essere stati espulsi da Venezia i frati del loro ordine insieme co' Teatini e Cappuccini ossequenti al Papa, gridavano nelle scuole contro Venezia e diffondevano per la città alcuni presagi tratti specialmente dal libro di M.° Antonio Arquato medico (in ciò i Gesuiti s'incontravano col Campanella). Il Nunzio Mons.r Guglielmo Bastoni Vescovo di Pavia, successo all'Aldobrandini fin dal dicembre passato, benediceva pubblicamente la capitana delle galere che partivano sotto il comando del Marchese di S.ta Croce per fare una dimostrazione ostile a Venezia, mentre un inviato, Ugo de Moncada, andava a Roma per dichiarare il Vicerè pronto a vendicare con la persona e col Regno le offese che fossero fatte a S.ta Chiesa, emulando le offerte del Conte di Fuentes Governatore di Milano e de' Duchi di Modena e di Urbino. Ma appunto a' primi di agosto si venne a sapere che il Marchese di S.ta Croce si era limitato a veleggiare nelle acque di Brindisi, ciò che in realtà non era tollerato da' Veneziani, ma avea finito poi col rivolgersi contro i pirati di Durazzo ed espugnare questa città; che per armare le galere si era preso il danaro de' privati dal Banco di S. Eligio; che bisognava pensare a provvedersi di grano poichè quello promesso, da doversi estrarre dalla Marca d'Ancona, non sarebbe più venuto; che mancando il danaro, ed essendo le gabelle divenute insopportabili, già si pensava di sospendere il pagamento degli interessi agli assegnatarii (creditori dello Stato) come poi si verificò; che per tutte queste ragioni non si sarebbe passato alle armi, e in ultima analisi da Spagna erano venuti anche ordini di non passare alle armi. Naturalmente il Campanella dovè giudicare che oramai poteva provarsi presso un Papa tanto attaccato all'immunità da pretenderla anche là dove non c'era mai stata, e tanto poco avveduto da compromettere a quel modo l'autorità Pontificia, riducendosi poi a supplicare almeno l'invio da Napoli di un'Ambasciata a Venezia per trattare la pace, ciò che fu commesso a D. Francesco de Castro accompagnato dal Duca di Vietri, due nostre vecchie conoscenze.

Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle precedenti, dare alla sua lettera l'impronta di un «appello», che secondo lui dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse tanti anni dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario rifare la storia delle cose di Calabria, spingendosi ad affermazioni che crediamo inutile dimostrare insussistenti dopo tutto ciò che abbiamo visto nel corso della narrazione nostra. Basterà citar quelle, che l'eresia fu trovata da' frati, che il negozio de' turchi fu inventato da lui per non morire, che furono appiccati sul molo uomini per altra causa, che fecero confessare a Maurizio sub verbo regio mille bugie, che tutti morendo si ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno che sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio divenuto maomettano, «di cane fatto lupo pe' gridi di mali pastori»; l'altra il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere spedita la sua causa in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si espresse recisamente: non consentirebbe in Napoli a giudizio alcuno, perchè era odiatissimo, perchè non vi erano aequa jura, perchè avrebbero detto al Nunzio che era finita la causa e lo condannasse senza ascoltarlo (così difatti avrebbe dovuto accadere). Nè si trattenne dallo scrivere: «questi giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che innocente, perchè... non si fidano nè ponno difensarmi la innocenza, se in me la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori», mentre «non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perchè son ligati al farmi bene». In somma la sua causa era straordinaria e dovea trattarsi in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era fatto sin allora, ed egli volea che si dimandasse la persona sua, anche con l'obbligo di restituirla a Napoli qualora fosse trovata in falso. Più tardi poi disse che non aveano potuto conchiudere la causa della congiura in Napoli, perchè non aveano in che condannarlo: questa contradizione non ha bisogno di commento.

Ma un po' di commento occorre al fatto della comparsa del diavolo tre anni prima, invocato da una persona che egli aveva istrutta a pigliar l'influsso divino (sicuramente il Gagliardo), delle rivelazioni avutene anche circa Venezia e il Papato, e poi della comparsa di altri diavoli nella fossa, col sèguito delle grazie ottenute per via di flagelli e di studii, dell'avere avute altre rivelazioni, dell'esser divenuto capace di far miracoli, o, secondochè disse poco dopo, dell'aver visto angeli ed avuto autorità come quella di S. Giovanni a' farisei e potestà di far miracoli più stupendi che quelli di Mosè. La frequenza ed asseveranza, con le quali il Campanella parlò in prosa ed in versi della comparsa del diavolo, delle rivelazioni avute e delle conseguenze di esse, non possono non fare un certo peso; e la cosa riesce di tanto maggiore interesse, in quanto che segna il punto di partenza del suo passaggio definitivo, reale o simulato, nel campo delle credenze cattoliche pure, e quindi riflette il vero problema difficilissimo della vita del Campanella, cioè l'essenza delle sue intime convinzioni religiose. Potrebbe ammettersi un'allucinazione, ma non mai la «lunga aberrazione mentale», che il Centofanti ha invocata e che si vede ricordata ancora da altri, mentre il Campanella medesimo non fece poi un mistero che la sua pazzia era stata simulata, e lo ripetè egualmente in prosa ed in versi troppe volte, sebbene in qualche determinata circostanza siasi contraddetto. Ci sembra pertanto che invece dell'allucinazione riesca più verosimile trattarsi di un fatto molto semplice, dell'evocazione de' diavoli esercitata dal Gagliardo, amplificata e messa innanzi dal Campanella così per premunirsi contro qualche nuova denunzia al S.to Officio specialmente da parte del Gagliardo, come per procacciarsi qualche via di uscita nelle sue tristissime condizioni, giustificando il suo ritorno nel retto sentiero con un evento straordinario, ed eccitando la curiosità e l'interesse del Papa, mentre poi, alla peggio, avrebbe potuto tutt'al più acquistarsi una riputazione di stravagante, che sarebbe sempre riuscita giovevole alla conclusione della sua causa. Benchè si possa dire aver lui veramente professata l'esistenza di spiriti buoni e rei, o «più o meno buoni», custodi de' pianeti e delle stelle ed anche vaganti pel mondo, dal processo di eresia conosciamo che con gli amici suoi avea sempre riso del diavolo nelle condizioni e forme comunemente ammesse; e conosciamo che il Gagliardo si era occupato realmente di diavolerie, con ogni probabilità sotto gli occhi del Campanella, ma nemmeno possiamo dire che l'avesse fatto con quella larghezza e serietà che dalle affermazioni del Campanella emergerebbero, poichè egli non si sarebbe trattenuto dal farne parola nelle sue ultime deposizioni in S.to Officio, almeno per tentare di allungar la vita; forse egli attese alle scene di comparsa del diavolo, secondo il suo solito, per profitto, non che per acquistarsi la considerazione e l'ossequio de' carcerieri, e fu in questo agevolato dal Campanella che ne avea bisogno egualmente, laonde non dovè poi dare a quelle scene tanta importanza, e riesce un po' duro ad accettare che invece abbia dovuto darcela sul serio il Campanella. Conosciamo poi che non appena pose mano a comporre poesie ed opere nella fossa di S. Elmo, il Campanella attestò dapprima il fatto puro e semplice dell'apparizione evidente di diavoli a lui occorsa, ma con la circostanza un po' singolare nel fondo e nella forma, che per quel fatto era divenuto più uomo da bene (come abbiamo visto in qualche poesia e nell'opera Del Senso delle cose); più tardi, nell'Ateismo, tornò sul fatto corredandolo di molti particolari misteriosi già più volte menzionati, nè si trattenne dall'affermare nelle lettere che gli era stata con inganno promessa dal diavolo scienza e libertà, e dall'affermare nelle poesie che gli era stato pure promesso che «sarebbe esaudito», che «si canterebbe Viva Campanella nel fine del suo carcere»; d'altronde in un brano dello stesso Ateismo debellato, lasciando chiaramente intendere essere stato lui medesimo in relazione co' diavoli per mezzo del Gagliardo, reca un'altra delle risposte avute là dove dice, «Astrologo per juvenem interroganti de multis dixerunt, quod ipse scripsisset de libero arbitrio, sed rectius Calvinum». Dopo tutto ciò si ammetta pure che tra le bizzarrie del Gagliardo, durante l'evocazione de' diavoli, vi sia stata quella di far pronostici su Roma e su Venezia; ma nessuno vorrà credere che il Campanella abbia prese sul serio altrettali visioni, e non le abbia rivedute e corrette, aggiungendovi del suo tante singolari particolarità oltrechè una coda non indifferente, in vista de' suoi gravi bisogni. Nè ci sembra punto temerario il ritenere che le visioni consecutive degli angeli, e le facoltà ottenute da Dio, siano del medesimo stampo; e tutto il garbuglio ci apparisce consentaneo all'indole del Campanella, perpetuamente motteggiatrice anche nelle circostanze più terribili, rimanendo vero soltanto che Dio gli avea concesse facoltà intellettive ed operative straordinarie, atte a costituirlo, secondo il suo concetto, condottiero della umanità con un migliore indirizzo.

Ma dunque il Campanella potè mentire a tal segno? Eh sì, non c'è da farne le meraviglie, e c'è da farle invece perchè si sia mancato di riconoscerlo, mentre egli non mancò di dichiararlo, segnatamente nelle sue Poesie; nè adoperò alcuna circumlocuzione nel dichiararlo, e se i posteri non hanno voluto capirlo, la colpa senza dubbio non fu sua. Egli disse nettamente che era «bello il mentire» in determinate circostanze, appellandosi agli esempî della storia sacra e profana, e non meno nettamente pure disse che i savii, per schifar la morte, «furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro avviso». Nè fu propriamente lui che inventò la trista massima «intus ut libet, foris ut moris est», bensì egli fu costretto a seguirla; nè ci sorprenderebbe che si gridasse allo scandalo, comunque pur oggi si tolleri con la più grande indifferenza che quella massima sia seguita gloriosamente da tanti e tanti, senza pur l'ombra delle condizioni del Campanella; basta considerare il numero grandissimo degli spiriti forti in religione, e de' partigiani de' così detti grandi principii in politica, che quasi sempre «nel lor segreto hanno altro avviso» per onta e malanno dell'umanità. Ma bisogna anche guardarsi dal comparare le cose grandi alle meschine, e però aggiungiamo di non credere che possa rimanerne vulnerata la fama del Campanella presso le persone non volgari. A niuno è venuto in mente mai che la fama di Galileo Galilei sia rimasta vulnerata dall'avere, con la sua abiura, affermato il contrario di ciò che pensava: l'infamia è ricaduta su coloro che ve lo costrinsero, e pel Campanella, travolto in un abisso di miserie che non ha riscontro nella storia de' nostri uomini di lettere, non è possibile avere un concetto diverso senza manifesta ingiustizia. Aggiungasi che egli si credeva nato per una missione altissima, per «debellare i tre mali estremi, tirannide, sofisma, ipocrisia», nè semplicemente con lo scriver libri, come potrebbe supporsi dietro monche notizie della sua vita; ed ebbe poi a provare, nel modo più efferato, «il senno senza forza de' savii esser soggetto alla forza dei pazzi» non solamente dall'alto, ma anche dal basso, non solamente da parte de' grandi, ma anche da parte del popolo le cui sorti egli si era sforzato di rialzare, ciò che gli diede amarezza infinita, come si rileva da più punti delle sue poesie. Eppure non disperò nè si arrestò mai, ciò che prova la ricchezza e la nobiltà della sua natura; ma necessariamente tutte le maniere di astuzia doverono sembrargli accettevoli, anche quelle che agli animi nostri, tanto distanti dal suo, recano molto dolore. Così coloro i quali ebbero l'opportunità o la sagacia di saperne o penetrarne i pensieri intimi, lo apprezzarono maggiormente o lo vituperarono secondo i proprii umori diversi; e son note certe qualificazioni denigranti assegnate specialmente a talune delle sue opere più caratteristiche, certi epiteti ingiuriosi affibbiati alla sua persona, quando non si volle o non si seppe intendere che egli aveva idee riposte, nemmeno tenute addirittura sepolte ed erompenti sempre, perfino mentre era obbligato ad esternare idee di tutt'altro colore per uscire dalla sua tristissima condizione. Egli non tacque le sue idee riposte in politica e in religione, che trovò modo di esporre con un vero stratagemma, secondo una maniera non nuova ma più che ardita nello stato suo, facendo la descrizione della immaginaria Città del Sole; e poichè nella sua estrema vecchiezza ne curò la ristampa e vi aggiunse ancora le Quistioni sull'ottima repubblica, composte veramente da un pezzo e poi messe da parte, si ha motivo di ritenere che a queste idee, con poche varianti, egli sia stato attaccato fino alla morte. Intanto è costretto a salvarsi dall'ira universale, è costretto a mostrarsi diverso da quel che è; non giunge per questo a nascondere le sue interne credenze, e più volte anzi s'ingegna di farle rilevare almeno a' savii, ma pur troppo i savii riescono vigilanti solo tra' suoi avversarii o sonnecchiano affatto. Perfino nella lettera che egli scrive in appello al Papa, lo si vede deplorare «l'ecclisse di spirito» e che «bisogna credere o andar prigione», lo si vede annunziare che il Cristianesimo è «la pura legge della natura, a cui solo li sacramenti son aggiunti per aiutare la natura a ben operare», non lodando così certamente lo spirito della Curia, ed attribuendo a Dio creatore una parte affatto preponderante su Dio salvatore. Nelle opere poi, nello stesso Ateismo debellato, destinato a rappresentare la sua rumorosa professione di fede atta a salvarlo, sia quando impiega la maniera di esposizione ad utramque partem, sia quando adotta la maniera di esposizione ordinaria ed obiectionibus occurrit, lo si vede produrre con tanta larghezza gli argomenti degli avversarii, da aggiungerne perfino molte volte taluni non prodotti mai e suggeriti propriamente da lui. Il fatto trovasi notato da un pezzo quasi come una scoperta, mentre, se fossero state sempre lette con attenzione le cose del Campanella, si sarebbe visto che da lui medesimo non era stato taciuto: pertanto esso ti rimane molte volte incerto se l'autore abbia veramente voluto convincerti appieno sull'opinione che sostiene, o invece illuminarti meglio su quella che combatte; sempre poi ti obbliga a riflettere su quello che espone e su quello che non può esporre, su quello che spesso accenna doversi fare e che s'intende non poter fare. Ma il nostro assunto ci trattiene dall'affisare lo sguardo in questo orizzonte elevato, e ci richiama al penoso viaggio pedestre che abbiamo intrapreso: solo dimandiamo di poter dichiarare ancora una volta, che a nostro modo di vedere è indispensabile farlo questo viaggio prima di librarsi a volo, in caso contrario si correrà il rischio di una falsa strada.

IV. Noi potremmo fermarci qui, bastandoci di aver mostrato non senza una certa larghezza le tre principali occasioni e maniere, nelle quali il Campanella, dando un termine manifesto alla sua pazzia, tentò successivamente ed infruttuosamente, presso lo Stato e presso la Chiesa, di essere ascoltato per non rimanere sepolto nella fossa di S. Elmo. Ci parrebbe tuttavia di non avere esaurito il nostro còmpito, se non narrassimo anche il sèguito de' tentativi da lui fatti ulteriormente ed a breve intervallo, non solo presso la Curia Romana, ma anche presso la Corte di Madrid e presso le Corti Cattoliche di Germania, con tutte quelle lettere e mediante tutte quelle persone che abbiamo avuto bisogno di citare più volte.

Nello stesso anno 1606, quasi immediatamente dopo di essersi rivolto al Papa, egli invocò l'aiuto del Card.le d'Ascoli (fra Girolamo Bernerio Domenicano, protettore dell'Ordine), e poi anche quello de' Card.li Farnese e S. Giorgio. Non è pervenuta fino a noi la lettera diretta al Card.le d'Ascoli, ma n'è rimasta soltanto la notizia nelle altre dirette agli altri Cardinali. Queste furono scritte in data del 30 agosto 1606, cioè 17 giorni dopo che era stata scritta la lettera al Papa, ed offrono gli argomenti medesimi addotti al Papa, con poche varianti ed un cenno fugace delle rivelazioni intorno a Venezia. Sempre rifacendo la storia delle cose di Calabria in una maniera adattata alla sua difesa, dichiarando di essersi salvato con la stoltezza dove era odiosa la virtù e di aver finto contro la violenza dietro l'esempio di David, annunziando grandi rivelazioni avute e le grazie de' miracoli per beneficio della Chiesa, supplicò che fosse ascoltato de jure e che l'aiutassero a farlo chiamare a Roma anche condizionatamente; aggiunse l'elenco delle promesse fatte ad utile del Re e della Chiesa, come pure l'elenco dei libri fin allora composti per dimostrare che egli era in grado di mantenere le sue promesse. È superfluo dire che non ottenne nulla; probabilmente non ebbe nemmeno una risposta da qualcuno de' Porporati suddetti.

Ma ne' primi mesi del 1607 nuove e più forti speranze si destarono nel Campanella, avendo già potuto acquistare la conoscenza di Gaspare Scioppio oltre quella di Giovanni Fabre, spinti da' Fuggers in aiuto suo. Qui alle notizie dell'Epistolario che diremo napoletano, pubblicato in parte dal Centofanti e in più gran parte da noi, son venute or ora ad unirsi le notizie dell'Epistolario romano del Fabre dateci dal Berti, ma è a deplorarsi che la massa dei documenti di quest'ultimo Epistolario giaccia pur sempre inedita, sicchè nemmeno si è in grado di parlare del periodo in quistione con tutta l'esattezza che si richiede. Cristoforo Pflugh, che aveva eccitato in favore del Campanella i Fuggers e tra essi principalmente Giorgio, eccitò pure lo Scioppio, avendo con ogni probabilità già prima impegnato il Fabre. La lettera autografa del Campanella allo Pflugh, da noi pubblicata, ci mostra fuori contestazione che lo Scioppio venne eccitato da Cristoforo: e possiamo ben dire che le relazioni tra il Campanella e lo Scioppio cominciarono non prima del 1607. Per certo il brano di lettera del Campanella allo Scioppio, posto dal Centofanti innanzi tutte le lettere Campanelliane da lui pubblicate, perfino innanzi a quella del 13 agosto 1606, fu così posto arbitrariamente, e non può servire a dimostrare una relazione tra' due personaggi anteriore al 1607: parlandosi, in quel brano, dell'impresa di convertire due Principi non che di allettare i savii di Germania mercè le nuove dottrine, risulta abbastanza chiaro che debba riferirsi al 1607, al tempo in cui lo Scioppio era destinato a partire per la Germania in missione presso la Dieta di Ratisbona. Gaspare Scioppio di Neumark, giovane grammatico eruditissimo, se ne stava da 8 o 9 anni in Roma, dove aveva abiurato il Protestantismo, e spiegando un fervore rabbioso contro gli antichi correligionarii, scrivendo successivamente panegirici al Papa e al Re di Spagna, Commentarii sulla verità Cattolica, sull'Anticristo, sul primato del Papa ed anche su' Priapei, era venuto in fama e al tempo stesso in molto favore presso la Curia Romana, tanto che dovendosi mandare qualcuno invece di un Nunzio alla Dieta di Ratisbona, Paolo V decise mandarvi lui con la veste di Consigliere di casa d'Austria; e possiamo affermare che già nel febbraio 1607 era Consigliere Austriaco, poichè con questo titolo lo troviamo nominato appunto nella Disputa del Fabre «De Nardo et Epithimo adversus Scaligerum, Rom. 1607» a lui diretta in data del 1° febbraio di tale anno. Quanto a Giovanni Fabre di Bamberga, domiciliato in Roma dal 1600, egli era medico dell'Ospedale di S. Spirito, lettore di Anatomia alla Sapienza, inoltre Prefetto dell'Orto Vaticano onde s'intitolava Semplicista di N. S.re; è noto poi che venne più tardi ascritto alla famosa Accademia dei Lincei insieme col Persio (1611), e divenutone Cancelliere (1614) ebbe a scrivere le «Praescriptiones Lynceae» etc. etc. Lo scopo di Giorgio Fugger nel proteggere tanto vivamente il Campanella, era sopratutto quello di adoperarlo a' servigi del Cattolicismo in Germania, giudicandolo per la sua dottrina, eloquenza ed attività, il più capace di combattere con successo i Protestanti. Si sa che nelle feroci dissensioni religiose di Germania i Fuggers erano tra' Cattolici più caldi, e che un Ottone Enrico Fugger, giovinetto al tempo del quale trattiamo, distintosi poi in molte fazioni militari sotto le bandiere di Spagna, fu quello che in ultima analisi prese Augusta, vi depose il Senato Luterano e ve ne istituì uno Cattolico. Non fa quindi meraviglia l'ardore di Giorgio per liberare il Campanella, non conosciuto da lui come colpevole di eresia ed invece stimato vittima di malevoli, onde lungamente tentò tutti i mezzi per averlo in Augusta, lo soccorse in danaro e in commendatizie, lo protesse e lo fece proteggere, lo fece visitare e lo visitò egli medesimo, destinò una forte somma per farlo fuggire o liberare: le promesse di miracoli, le affermazioni di possedere segreti meravigliosi, le esagerazioni di ogni maniera, che il Campanella avea poste innanzi per acquistarsi la grazia e l'interesse de' potenti, non destavano allora le diffidenze di oggidì se non presso i ben pochi spregiudicati; si può dire che esse giovarono più che nocquero, e forse contribuirono sopra ogni altra cosa ad infervorare i Fuggers nella protezione del Campanella. Lo Scioppio riusciva pel filosofo un uomo provvidenziale, essendo confidente della Curia Romana e destinato ad avvicinare l'Imperatore Rodolfo, l'Arciduca Massimiliano di Baviera, l'Arciduca Ferdinando di Austria e tutti que' Principi di Germania che erano impegnati con Spagna a sostenere gl'interessi del Cattolicismo; il Fabre poi riusciva sempre un buono assistente ed un utile intermediario per la corrispondenza, la quale era già avviata da un pezzo tra i Fuggers residenti in Augusta e il Campanella, venendo le lettere dirette a un Marco Velsero gentiluomo di molta levatura ed influenza e non a' Fuggers, e d'allora in poi doveva allargarsi comprendendo anche le lettere dello Scioppio. Motori di tutte queste pratiche erano, come ben si vede, i Fuggers, e di essi specialmente Giorgio, mentre in Napoli si prestava con tenera sollecitudine fra Serafino di Nocera, che il Campanella chiamava suo «tutore»; per altro Giorgio mandò talvolta anche qualche suo agente particolare, dapprima forse un Sigismondo, che trovasi nominato nell'Epistolario napoletano ma che potrebb'essere veramente un incaricato dello Scioppio, più tardi poi un Daniele Stefano di Augusta, che trovasi nominato nell'Epistolario romano e che deve dirsi con sicurezza un agente di Giorgio.

Parrebbe che lo Scioppio avesse già letto qualche opera del Campanella, con ogni probabilità avuta da Cristoforo Pflugh, e che ne fosse rimasto altamente sodisfatto: così, dietro le sollecitazioni de' Fuggers, che doveano equivalere a comandi atteso l'enorme credito ed influenza di quella famiglia, dirigendosi al Campanella gli manifestava ammirazione per la prestanza sua apparsagli ne' libri suoi, gli prometteva di adoperarsi per la sua liberazione presso i Principi del Cristianesimo, gli esprimeva il desiderio di averlo a socio contro gli eretici; questo si può argomentare da un brano della lettera pubblicata poi dallo Struvio, con la quale più tardi il Campanella accompagnò l'invio di una copia delle sue opere dimandate dallo Scioppio. Naturalmente costui apparve al Campanella un Angelo, un Liberatore, un Redentore, e così trovasi chiamato sempre nelle lettere del filosofo. I nuovi documenti rinvenuti dal Berti mostrano che il 26 aprile 1607 egli era in Napoli, e scriveva al Fabre, «De Campanella in bona spe sum fore ut ei loquar, et quae velim ab eo auferam: interque coetera disputationem adversus Venetos, quam Pontifici gratissimam fore confido». Questa è la sola notizia datane finoggi, e da essa non risulta che lo Scioppio abbia visto il Campanella, ma risulta che sperava di vederlo e di carpirne tutto ciò che volesse, accennando agli Antiveneti che diceva dover riuscire assai graditi al Papa, e mirando senza dubbio agli Articoli profetali che sarebbero riusciti graditissimi a lui medesimo; troveremo infatti che egli li desiderò e li chiese per lungo tempo e per tutte le vie, mentre il Campanella, tutt'altro che facile ad essere superato in avvedutezza, l'aveva ben capito e se ne schermì fin da principio. Lo Scioppio si era impegnato nell'astrusa quistione dell'Anticristo e de' futuri eventi della fine del mondo, e ciò forse, più di ogni altra cosa, gli fece apparire il Campanella tanto interessante; poichè, quanto agli scritti contro Venezia, il Papa trovavasi già in via di accomodamento per mezzo del Card.l di Gioiosa, che mandato da Errico IV era stato in Venezia ed era poi giunto a Roma fin dal 22 marzo, la qual cosa lo Scioppio non poteva ignorare. È posto intanto fuori controversia che lo Scioppio sia venuto in Napoli nell'aprile 1607, non già nel 1608; ma è posto in pari tempo fuori controversia che egli sia venuto per parlare al Campanella e carpirne le opere, d'accordo col Fabre, e che non abbia menomamente avuta una missione del Papa per trattare la libertà del prigioniero, come finora si era creduto dietro una delle tante erronee notizie registrate nel Syntagma, che noi abbiamo recisamente oppugnata; ci riserbiamo per altro di tornare più in là su tale quistione, di cui ognuno intende la grande importanza.

Come dicevamo, rimane tuttora ignoto se in Napoli lo Scioppio abbia visto il Campanella; ma non sarebbe meraviglia che non avesse potuto vederlo, mentre era tanto rigorosamente guardato, e le premure di un noto faccendiere della Curia Romana doveano piuttosto riuscire a farlo guardare maggiormente. Forse in tale occasione, se pure la cosa non sia accaduta un po' prima per via epistolare, lo Scioppio ebbe le copie delle lettere già dirette dal Campanella al Papa ed a' due Cardinali nell'agosto 1606, acciò rimanesse informato de' passi fatti, ed ebbe poi quella lettera al Papa da noi pubblicata; la quale mostra bene di essere del 1607, dicendovisi il Campanella carcerato da otto anni, ed oltrechè attesta l'invio delle lettere antecedenti con le parole «scrivo tremando et altre lettere mandai», accenna pure in modo manifesto allo Scioppio che si era offerto a favorirlo con le parole abbastanza notevoli, et mò io stava piangendo com'Helia sotto il Junipero, dimandando la morte, et ecco venir quest'Angelo Samaritano, dopò che mi sprezzaro li Leviti e li Sacerdoti, e me tradiderunt in manus tribulantium et in animam inimicorum meorum, questo dico mosso da spirito di Sapienza... et vult alligare vulnera mea». Tutta la lettera rappresenta un 2° appello al Papa, come è attestato fin dalle prime parole, «Io di novo appello la causa mia al Tribunal proprio di V. B.» etc.; e del resto vi si trovano ripetute le solite cose, essersi in procinto di veder le meraviglie, avendo parlato di segni e profezie essere stato ritenuto ribelle, aver sofferto tormenti e malanni gravissimi, voler essere ascoltato nel tribunale romano, poter mostrare cose mirabili, aver visto e toccato ne' suoi guai i misteri della fede e le cose celesti. Ma ancora in data del 7 aprile 1607, non sapremmo dirne il motivo, scrisse quella lettera latina solenne al Papa ed a tutto il Senato de' Cardinali che fu pubblicata dal Centofanti, e in essa, tra umili supplicazioni e audaci rampogne, si dolse che non aveano voluto ascoltarlo, mentre «spesso li avea avvertiti di voler mostrare innanzi a' Principi del suo popolo ed alle tribù d'Israele secondo le sacre decretali, mercè le autorità della Scrittura come Giovanni Battista, e con miracoli da non potere essere imitati dal diavolo, come quelli di Mosè alla presenza di Faraone, che per volontà di Dio egli era chiamato alla salute de' popoli»; e dicendo che «se era pazzo lo liberassero» (proposizione degna di esser notata), ricordando le imputazioni ingiustamente sofferte per l'addietro e poi quelle degli ultimi tempi, accennando alle opere che avea composte, esponendo i segni della prossima fine del mondo e le relative profezie, difendendosi dalle accuse, mostrò la necessità di esser tradotto a Roma, citò i casi analoghi ne' quali si era fatto lo stesso, si dolse di non vedere esaltata la giustizia. Lo Scioppio avrebbe dovuto presentare questa lettera, ma da' documenti che finora possediamo emerge essersi rifiutato a presentarla, consigliando che non si parlasse di miracoli e si facessero semplici supplicazioni, al quale consiglio il Campanella non si piegò; e forse apparve per questo uno stravagante, come del resto apparve anche a parecchi in sèguito, mentre i tanti garbugli prodotti in sua difesa, le scene non brevi di simulazione di pazzia, gli sforzi continui per farsi credere ispirato, e le vicende tutte di una così lunga prigionia doverono fargli acquistare un portamento tale da rendere plausibile un giudizio di quella fatta. Ma si converrà che specialmente presso Paolo V, il quale negli ultimi tempi del suo Cardinalato avea tenuto il suggello dell'Inquisizione, e presso il Card.l S. Giorgio, il quale avea tenuto il suggello dello Stato, e però buoni conoscitori entrambi degli avvenimenti di Calabria e relativi processi, il Campanella nel 1606 non avrebbe potuto sperar nulla senza prendere un atteggiamento straordinario; e naturalmente presolo una volta, egli non si poteva più smentire senza suo danno, e doveva ad ogni costo mantenersi nella condizione d'ispirato. Lo Scioppio non poteva capacitarsene, perchè in realtà non conosceva ancora, o meglio conosceva solamente in parte lo stato vero delle cose del Campanella: per altro continuò a mostrargli stima grandissima, si attendeva di poter apprendere molto da lui in poco tempo, oltrechè di ottenere la spiegazione delle cose più recondite intorno all'Anticristo, nè cessò mai di dirigergli di tratto in tratto quesiti, perfino dopo che avvenne qualche cosa per la quale lo vedremo essersi ritenuto offeso: e il Campanella prometteva che gli avrebbe insegnate tutte le scienze durante un solo anno, si offriva a fargli la natività, ne secondava ed ampliava i disegni di voler convertire i Protestanti e i Gentili, dava sollecite risposte a' quesiti di lui non appena gli pervenivano, affaticandosi anche a menare a termine l'Ateismo e que' Profetali che erano sommamente desiderati da lui. L'Epistolario napoletano ci mostra tutte queste cose, e ci mostra pure che lo Scioppio inviava al Campanella qualche sussidio, o del suo o del danaro de' Fuggers, per gli alimenti e per la trascrizione delle opere, la quale, come abbiamo dimostrato con l'esame delle copie pervenute fino a noi, venne fatta da un amanuense non napoletano.

Secondo una notizia tratta dall'Epistolario romano, il Fabre avrebbe accompagnato lo Scioppio o meglio sarebbe venuto poco dopo lo Scioppio in Napoli, e, nientemeno, avrebbe ottenuta l'uscita del Campanella dalla fossa di S. Elmo! Egli lo fece sapere a Marco Velsero, e costui, in data del 9 maggio 1607 gli scriveva, «grand'obbligo debbe tener il Campanella a V. S. di essere stato trasferito et accomodato come lei dice». Siamo tentati di credere che per lo meno debba esservi qui un errore di data, parendoci molto strano che il Fabre abbia potuto far credere una cosa simile, mentre non solo sappiamo che il Campanella il 26 giugno e l'8 luglio 1607 (nella sua lettera sulla peste di Colonia e nell'altra a Mons.r Querengo) disse trovarsi ancora nella fossa in ceppi, ma sappiamo pure dal medesimo Epistolario romano che vi fu bisogno di far scrivere al Vicerè dall'Arciduca Ferdinando, nel gennaio 1608, che volesse far trasferire il Campanella «dalla fossa di S. Elmo, dove giaceva, nel Castel Nuovo» (così si esprime il Berti). Vi fu poi un'altra venuta del Fabre abbastanza più tardi, dopo che avea pubblicata la disputa «De Nardo et Epithimo» e coll'occasione di dover raccogliere piante per l'Orto Vaticano: queste due circostanze si trovano ricordate da Giulio Cesare Capaccio che vide il Fabre in Napoli, e ci fanno comprendere lo scopo della venuta ed anche la data di essa; poichè basta guardare la disputa anzidetta, per vedere che questa fu diretta allo Scioppio in data del 1° febbraio, ma fu dedicata all'Archiatro Pontificio Vittorio Merolli in data del 1° agosto 1607. Vedremo che la venuta di cui parliamo si deve riportare propriamente all'anno 1608. Notiamo pertanto non essere dimostrato davvero che il Fabre e lo stesso Scioppio, venendo a Napoli, si siano adoperati in favore del Campanella nel senso di avere direttamente procurato dal Vicerè mitigazione di custodia, miglioramento di vitto, e tanto meno avviamento alla libertà: in obbedienza alle premure di Giorgio Fugger essi doverono recar sussidii e procurare facilitazioni per questa via; ma finoggi possiamo affermare che realmente il solo fra Serafino, il meno nominato, si presentò una volta al Vicerè per parlargli del Campanella.

Assai più del Fabre, per quanto sappiamo, lo Scioppio diresse quesiti al Campanella. Ve ne furono Sul modo di evitare il freddo, come pure Sulla sordità e l'ernia, a' quali il Campanella rispose prima che agli altri, secondochè rilevasi dal Syntagma e in parte anche da qualcuna delle risposte a' quesiti successivi; ma le risposte a' detti quesiti non sono pervenute fino a noi. Ve ne fu un altro Sul modo di far cessare la peste in Colonia, trasmesso mediante fra Serafino, e il Campanella vi rispose il 24 giugno 1607: un esemplare della risposta si trova anche nella Magliabechiana, ma scorrettissimo e senza data; quello che fu da noi pubblicato è sodisfacente, e dobbiamo notarvi la premura del Campanella anche presso i Coloniesi per essere chiamato colà a curarvi la peste, offrendosi perfino ad essere lapidato nel caso d'insuccesso! Ancora ve ne fu un altro Sul modo di evitare il calore estivo, e la risposta, da noi pubblicata, fu fatta l'8 luglio 1607: in essa si notano anche varie precauzioni da doversi adottare durante il viaggio, accennandosi abbastanza al viaggio che lo Scioppio dovea intraprendere, ed oltracciò si parla di lettere commendatizie avute e di altre aspettate, a cura dello Scioppio; ci riserbiamo di dirne i particolari più sotto, limitandoci qui a stabilirne la data. Altri quesiti, come quello Sul Peripateticismo che il Campanella condannava, l'altro Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che si riteneva dover essere di soli 45 giorni, così pure un altro Sul Pieno e sul Vacuo nell'interesse del Fabre, parrebbe che veramente fossero stati diretti al Campanella nell'anno 1608: noi abbiamo pubblicate le risposte, che recano la data del 13 giugno e del 7 novembre senza indicazione di anno, e vediamo ora tra i nuovi documenti del Berti una lettera dello Scioppio, senza indicazione nè di luogo nè di tempo, che rappresenta indubitatamente la proposta de' quesiti suddetti; ma alludendosi in essa ad una lettera che il Campanella avrebbe dovuto scrivere particolarmente all'Arciduca Ferdinando, bisogna riferirla al 1608 e con ogni probabilità alla fine di maggio di tale anno. - Dobbiamo intanto dire, che terminata oramai la trascrizione delle opere, potè farsene l'invio allo Scioppio con quella lettera notevolissima anche pel ricordo delle persecuzioni sofferte, posta qual Proemio all'Ateismo e pubblicata dallo Struvio con la data del 1° giugno; se non che trovandosi nella lettera citate come già mandate le risposte circa il freddo, il calore e la peste di Colonia, è evidente che la data di essa, quale fu letta dallo Struvio, riesce errata, e invece del 1° giugno si dovrebbe forse leggere p. es. 10 luglio 1607. Ecco l'elenco delle opere trasmesse allo Scioppio in tale data, essendogli stata la Consultazione per aumentare i tribuni consegnata separatamente: la Monarchia di Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia, il Dialogo contro i Luterani, l'opera Del Senso delle cose, l'Epilogo magno di Fisiologia seguito dagli Aforismi politici e dalla Città del Sole, la Monarchia del Messia col discorso De' dritti del Re di Spagna etc., il libro De Regimine Ecclesiae, gli Antiveneti, e la Recognitio verae Religionis detta poi Atheismus triumphatus: possiamo aggiungere ancora che talune copie furono dal Campanella corrette ed altre no, come si rileva da quelle pervenuteci, l'una degli Aforismi politici fornita di correzioni autografe, l'altra della Città del Sole rimasta senza correzioni. All'Ateismo il Campanella diede la massima importanza, evidentemente per le sue condizioni infelicissime: lo dichiarò «suo monumento», lo dedicò allo Scioppio, mostrò desiderio che egli lo traducesse in tedesco insieme col Dialogo contro i Luterani. Si dolse pure di non poter mandare la Metafisica, perchè «un certo Marchese discepolo ingrato la riteneva ad istigazione di Satana», alludendo senza dubbio a Francesco del Tufo successo al padre Gio. Geronimo, che le scritture dell'Archivio di Stato, da noi ricercate appositamente, ci mostrano defunto il 17 luglio 1606. E dobbiamo dire che a torto egli credè effetto d'ingratitudine il non aver avuta la Metafisica, poichè essa, morto il Marchese Gio. Geronimo, era stata rubata da un domestico cognominato Gallo e venduta a Gio. Battista Eredio Pisano di Puglia, come il Campanella medesimo dovè sapere più tardi onde se ne trova il ricordo nel Syntagma; dobbiamo dire inoltre che verosimilmente reclamò l'opera sua quando seppe l'accaduto, alcuni anni dopo, e così essa potè capitare nelle mani del Reggente della Vicaria e del Vicerè, secondochè risulta da un documento che abbiamo rinvenuto del pari nell'Archivio di Stato. Ma non mandò gli Articoli Profetali e disse che li avrebbe mandati in sèguito: forse non aveva potuto compierli, o invece volle tenerli in serbo (e difatti non li mandò neanche quando poi disse di averli già pronti), acciò lo Scioppio, rimanendo nell'aspettativa, non cessasse dal favorirlo. Egli se ne attendeva l'adempimento delle promesse, cioè «essere suo liberatore presso i Principi del Cristianesimo, e dargli modo di essere suo commilitone contro le eresie de' figli di Abaddon». Questo gli ricordò nella sua lettera, e fatta la rassegna delle opere che gl'inviava soggiunse: «vedi, ho consegnato tutto nelle tue mani; poichè mi prevenisti co' tuoi beneficii, non volli apparire ingrato». Ma inoltre lo avvertì che molti, ricevute le opere, trascrivevano da esse le proprie, e gli raccomandò di badare a non cadere con gli altri, «poichè questo furto è peggiore di quello della fortuna e dell'onore e di ogni altro delitto, venendo sottratti i figli non del corpo ma dell'anima, e figli perenni....», ed allora potrebbe «volerlo estinto, e il diavolo subito gli direbbe nel cuore bastare quanto avea fatto intorno a ciò che avea promesso con giuramento, bastare averlo tentato, essendo impossibile procurare la salvezza del Campanella... di cui ogni male gli parrebbe provenire dalla giustizia di Dio». E finiva dicendo: «Tibique commendo libros, sicut me Deus tibi, si forte non simulas, ut coeteri»! Pare impossibile che un uomo come lo Scioppio non sia rimasto offeso da simili parole; ma sappiamo con certezza che se ne mostrò irritato in sèguito allorchè il Campanella, non vedendopubblicare le sue opere, gli fece intendere di nuovo la sua preoccupazione che egli volesse servirsene, e non gli mandò i Profetali che egli desiderava sempre più. Per altro c'è motivo di ritenere che lo Scioppio siasi mostrato tollerante verso il Campanella molto al di là del solito suo, per deferenza a' potenti Fuggers, che non cessavano di proteggerlo accanitamente.

Abbiamo visto che il Campanella, nell'inviare le opere, diceva di farlo per non sembrare ingrato. Egli ritenevasi obbligato allo Scioppio, perchè era condisceso a favorirlo e si era impegnato a patrocinare la sua causa: d'altronde sappiamo avergli lo Scioppio procurato alcune lettere commendatizie dirette al figlio del Vicerè, altre averne sollecitate mediante Mons.r Querengo dal Card.l Borghese dirette egualmente al figlio del Vicerè, che le cronache ci dicono essersi recato a Roma insieme coll'altro suo fratello non appena eletto Paolo V, e però doveva essere stato conosciuto da molti della Curia; forse lo Scioppio medesimo sollecitò le lettere dell'Ambasciatore Cattolico e dell'Ambasciatore Cesareo, che il Campanella nella lettera dell'8 luglio 1607 diceva di attendere. Ma nessuna sollecitudine egli mostrò presso il Papa; e non deve nemmeno sfuggire che egualmente Mons.r Querengo non si adoperò presso il Papa, mentre non solo era suo Prelato domestico assai ben veduto, ma anche, secondo l'Eritreo, precettore ed aio del nipote di lui Gio. Battista Vittorio. Sicuramente al Papa non dovea piacere di udire a parlare del Campanella, e niuno osò affrontarne il disgusto; ma è chiaro che vennero grandemente ridotte le promesse di aiuto fatte dallo Scioppio, per le quali il Campanella era condisceso a dargli nelle mani tutte le opere sue. Poniamo qui che ad occasione delle commendatizie promesse dal Querengo dietro le istanze dello Scioppio, il Campanella scrisse al Querengo una lettera di ringraziamento notevolissima, con molti cenni della sua vita passata, de' suoi studii e del suo modo di filosofare: verso il tempo medesimo scrisse una lettera non meno notevole a Cristoforo Pflugh, per rimoverlo da una tresca lasciva alla quale si era abbandonato in Siena, ed eccitarlo ad andarsene con lo Scioppio che preparavasi a partire per la Germania. - Ma importantissime riescono per la nostra narrazione le lettere che in questo periodo il Campanella scrisse al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi d'Austria, e che lo Scioppio dovea far ricapitare o presentare personalmente. Esse vennero scritte senza dubbio nel 1607, come risulta dal vedere che il Campanella vi si dichiara sempre carcerato «da 8 anni»; e può dirsi anche essere state scritte tra il giugno e il luglio, poichè quella diretta al Re, scritta prima delle altre, reca nell'elenco delle opere «La esamina di tutte le sètte» etc. ossia l'Ateismo debellato allora appunto condotto a termine. La lettera al Re fu scritta prima, giacchè trovasi menzionata nelle altre. Prendendo sempre le mosse da' futuri eventi, lusingando con la Monarchia universale che dovea verificarsi, rifacendo come altre volte la storia delle cose di Calabria, non negando ed anzi giustificando la simulazione della pazzia, dichiarando di trovarsi aggravato dai vassalli di S. M. che non volevano nè udirlo nè consegnarlo al Papa, perchè «temevano che lo liberasse subito», si appellava a S. M., e per la solenne occasione della nascita del felicissimo Principe (intend. della futura nascita del Principe che accadde in ottobre, venendo alla luce l'Infante Ferdinando che fu poi il Card.le Infante) chiedeva la grazia di essere ascoltato secondo la legge. Ricordava di avere scritto la Monarchia di Spagna, i Discorsi ai Principi d'Italia, la Tragedia della Regina di Scozia, annunziava di avere autorità come S. Giovanni e miracoli più grandi di quelli di Mosè; pregava quindi che lo facesse venire innanzi a lui e al suo Consiglio, terminando con l'elenco delle promesse anche accresciute, come pure con l'elenco delle opere che avea composte, ed aggiungendo che lo lasciasse dar prove celesti degli avvisi celesti almeno in Roma. Poi dovè scrivere ancora le due lettere latine all'Imperatore e agli Arciduchi di Austria, che lo Scioppio avrebbe presentate mostrando in pari tempo le opere da lui avute, non che le copie della lettera scritta al Re e di quella scritta al Papa e a tutti i Cardinali, «da doversi consegnare, se il timore non trattenga pure l'Angelo suo» (non aveva mai cessato di sperare che lo Scioppio l'avrebbe consegnata, smettendo il «timore» che lo tratteneva). In entrambe queste lettere egli press'a poco ripeteva le cose stesse tante volte dette, i segni da lui studiati, le opere composte per tale circostanza, le imputazioni avute di «volere usurpare il Regno» e di essere eretico, l'aver trovato salvezza con la pazzia, l'essere stato posto in una fossa, l'avere scritto cose mirabili e il doverne dire a voce molte di più. In ultima analisi poi, all'Imperatore chiedeva che lo facesse venire in ceppi innanzi a lui, dannandosi al fuoco se si fosse trovato mendace, ovvero procurasse di farlo andare presso il Papa o almeno presso il Re Cattolico; agli Arciduchi chiedeva di adoperarsi presso il Re, perchè volesse udirlo o farlo udire dal Papa o dall'Imperatore, sempre dannandosi al fuoco se fosse trovato mendace, ed additando lo Scioppio che avrebbe mostrato le opere e le lettere da lui scritte, e molte altre cose avrebbe esposte a voce. Ognuno avrà notato, che dalla prima all'ultima sua mossa la dimanda continua del Campanella fu sempre quella di essere ascoltato: anche dopo di avere scritto tante opere che potevano farlo ben conoscere nel senso in cui voleva essere conosciuto, egli non rifinì dal voler essere ascoltato; e perfino in una delle sue lettere allo Scioppio, dopo di avergli detto che i proprii libri di Metafisica gli sarebbero parsi scritti da un Angelo e non da un uomo, essendo superiori a tutti gli altri «che aveva già ricevuti», soggiungeva, «ma quando mi udrai faccia a faccia, terrai a vile anche gli stessi miei libri di Metafisica» (ciò che prova pure non aver mai avuto lo Scioppio tale occasione). Per intenderlo, bisogna ricordarsi della prepotente efficacia del suo discorso, attestata in ogni tempo e dalle persone più diverse, a cominciare dal povero Maurizio, che lo provò in Calabria e disse, «quando parla, ritira ognuno dove vuole», a finire a Vincenzo Baronio, che lo conobbe negli ultimi anni in Parigi e scrisse, «maior fuit impetu ingenii, quod in conversationibus eminebat, et in libris obscurum est et pene extinctum».

Nell'agosto o forse nel settembre 1607 lo Scioppio partiva per la Germania fermandosi un poco in Venezia: l'Epistolario romano ha una sua lettera da Venezia in data del 22 settembre d.to anno, e poi ne ha anche un'altra posteriore da Ratisbona, in cui egli dice aver portato dall'Italia una malattia dell'intestino retto cagionatagli dall'aver mangiato troppo melloni ed altre frutta in Roma; da ciò si desume chiaramente che partì da Roma al cadere dell'està. In Venezia egli affermò aver patito fastidii dal Magistrato de' Dieci avendo portato nella sua valigia le opere del Campanella, e più volte poi ripetè di averle tutte date al libraio Gio. Battista Ciotti per farle stampare, senza che costui avesse voluto più nè stamparle nè restituirle, sicchè dovè poi reclamarle per mezzo dell'Ambasciatore Cesareo, nè potè ricuperarle che dopo molto tempo; ed inutilmente anche reclamò gli Antiveneti, e dovè esserne inviata da Napoli un'altra copia, e il Governo Veneto fece proposte volendo acquistar l'opera acciò non si stampasse. Ma su questi fatti, asserti dallo Scioppio e rilevati dal Berti ne' documenti dell'Epistolario romano, accade di dover fare qualche osservazione. È notissimo che in Venezia lo Scioppio fu imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, sia perchè tentò di sedurre o spaventare fra Paolo Sarpi, sia perchè venne accusato di essere l'autore di un libello a favore del Papa contro Venezia intitolato «Nicodemi Macri Romani cum Nicolao Crasso Veneto disputatio», siccome leggesi in una Vita di lui pubblicata da lui medesimo col nome di Oporino Grabinio: ponendo in rapporto tale avvenimento co' fastidii avuti per le opere del Campanella, c'è da sostenere che lo Scioppio abbia compromesse queste opere, assai più che queste opere abbiano compromesso lui. Nè riesce facile intendere il suo desiderio di dare alle stampe le opere del Campanella appunto in Venezia e la sua determinazione di lasciarle lì, mentre si era impegnato di mostrarle all'Imperatore e agli Arciduchi, e il Campanella ne avea fatta menzione nelle sue lettere a questi personaggi. Finchè altri documenti non chiariranno tutte queste cose, avremo sempre il dritto di dire che il Campanella aveva ben capito lo Scioppio, e non a torto si doleva di lui, avendolo in sospetto circa le opere consegnategli. - Intanto nell'ottobre il Fugger avea mandato in Italia Daniele Stefano di Augusta, perchè cercasse di far liberare o far evadere da S. Elmo il Campanella a qualunque spesa. Il Fugger dovea professare l'opinione dell'onnipotenza del danaro, e in ciò questa volta s'ingannava. Lo Scioppio, meglio avveduto, stimava che siffatti tentativi avrebbero potuto nuocere, e in realtà il Governo Vicereale non era composto di dormienti; esso aveva le sue informazioni a tempo e luogo, nè sarebbe arrischiato lo spiegare il tanto protratto rigore di custodia del Campanella per qualche sentore di maneggi di altrettali Papalini accaniti. Ma giova conoscere ciò che lo Scioppio avrebbe preferito: come ci narra il Berti, egli «proponeva che venissero espugnati i segretari col denaro, facendo forza sul loro animo affinchè lo assolvessero, od anche, se non volessero venire fino all'assoluzione, lo proscrivessero dal Regno, purchè finita la causa non fosse poi consegnato all'Inquisizione». Da ciò si vede che lo Scioppio avea già saputo essere stato il Campanella condannato nel tribunale dell'Inquisizione, ma non avea punto capito da chi dovesse venir sentenziato nel tribunale di Stato; poichè non i Segretarii Vicereali avrebbero dovuto sentenziarlo, ma il Nunzio e il Consigliere Baldovieto, nè il Nunzio avrebbe poi lasciato andare il Campanella altrove che nelle carceri dell'Inquisizione di Roma.

In Germania lo Scioppio potè presentare all'Imperatore le lettere del Campanella ma non le opere, per la semplice ragione che non le aveva; poi disse che pure avendole non gli sarebbe stato possibile presentarle, per le proposizioni che contenevano; ma veramente le proposizioni, che a lui parevano compromettenti, si trovavano nelle lettere più che nelle opere. Ad ogni modo dovè persuadersi che l'Imperatore era informato di cose gravi intorno al Campanella, e però egli scrisse da Ratisbona il 19 10bre 1607, e ripetè il 27 febbraio 1608, che poco o nulla doveva attendersi da quel lato. Forse l'Imperatore avea avuto notizia dell'esservi stato certamente un disegno di ribellione coll'aiuto del Turco; e secondo lo Scioppio, gl'italiani medesimi residenti in Praga gli aveano dato cattive informazioni sul Campanella (miseria, come si vede, non nuova). Andò poi ad Oetingen e presentò la lettera del Campanella all'Arciduca Massimiliano, il quale scrisse una commendatizia al Vicerè; e non potendo ancora recarsi a Grätz, mandò là la lettera del Campanella all'Arciduca Ferdinando, il quale dapprima si negò, ma otto giorni dopo scrisse anche lui una commendatizia al Vicerè. Questo affermò lo Scioppio, ed affermò pure di aver mandata la lettera al Re, facendola presentare alla Regina insieme coll'opera della Monarchia di Spagna. Ma si dolse che le promesse fatte in quelle lettere toglievano credito al Campanella, parendo favolose, e se non bugiarde, almeno dettate dalla tetraggine del carcere; nè mancò di rammentare che egli le avea sconsigliate. Maggior fiducia mostrò di avere nelle commendatizie dell'Arciduca Ferdinando, che diceva «suo patrono»; ma conchiuse che non dovesse concepire speranze, che non dovesse confidare, come soleva, più nell'aiuto umano che nel divino; se Dio non voleva esaudirlo, si uniformasse e gli dimandasse la morte! Queste cose lo Scioppio scrisse al Campanella in data del 27 febbraio 1608, e ci sembra veramente che a siffatta lettera abbia dovuto seguire quella del Campanella al Fabre da noi pubblicata, che comincia con le parole, «Mi scrisse il mio Angelo Scioppio ch'io attendessi all'oratione, che più devo sperar in Dio che negli huomini...; ho fatto a Dio questa oratione, che le mie peccata non sieno impedimento all'attioni Scioppiane» etc.; ci sembra pure che ad una lettera del Fabre allo Scioppio, esprimente il dolore e il timore del Campanella per le dette parole, abbia dovuto seguire quella dello Scioppio al Fabre pubblicata or ora dal Berti, che evidentemente è del marzo 1608 e non 1607, leggendovisi tra le altre cose, «Quod meum officium, quo ut ad mortem aequo animo subeundam se compararet monui, sic interpetratur quasi qui charitatem et opem ei praecidere ac negare voluerim, suo more facit». Lo Scioppio, nella lettera di cui parliamo si mostra ristucco del Campanella e de' suoi sospetti, perocchè il Campanella tornava a dolersi del non essere state le sue opere nè date alle stampe nè presentate all'Imperatore (la qual cosa pur troppo era vera); e ripete ciò che egli ha fatto, e manifesta che il suo patrono Ferdinando ha scritto più efficacemente di quanto era lecito sperare, avendo chiesto al Vicerè non il trasferimento ma la libertà del Campanella. Aggiunge per altro che l'invio della lettera è stato ritardato; che tutti dubitano se sia bene farlo mettere in libertà, essendo lui andato tanto innanzi con la sua pazzia, da credersi un nuovo legislatore del mondo e perfino da anteporsi a Cristo, «perocchè Cristo ebbe soli 5 pianeti ascendenti ed egli ne ha 6; queste cose son ventilate dagli amici suoi nelle aule medesime de' Principi, e non può dirsi quanto abbiano alienato da lui gli animi loro». Infine non dispera, e vuole che sieno trascritte compiutamente le opere della Metafisica e de' Profetali, acciò possano mandarsi quanto prima al suo patrono, in cui ecciterà il desiderio di vederle, proponendosi intanto di presentargli la Consultazione per aumentare i tributi del Regno, che egli, lo Scioppio, ha gustato molto. - Ognuno avrà qui notata la proposizione de' pianeti ascendenti favorevoli, e si sarà rammentato di fra Pietro di Stilo, che deponeva averlo il Campanella saputo da un astrologo delle parti di Germania, conosciuto nel S.to Officio di Roma: la cosa riesce quindi confermata, ma risulta anche chiarito che il Campanella l'aveva invece detto lui a quel tale astrologo (Gio. Battista Clario), forse dopo di essere stato messo sulla via di farne la scoperta dall'astrologo Abramo in Cosenza ed Altomonte. Gio. Battista Clario era tuttavia il Protomedico della Stiria, residente in Grätz presso Ferdinando come si rileva dal libro de' suoi Dialoghi, stampato nel 1606; riesce quindi naturalissimo ammettere che costui principalmente tra gli amici del Campanella abbia manifestate le dette cose nell'aula del Principe, e che molto abbia agito egli pure nel determinare Ferdinando a scrivere in favore del Campanella, mentre conosciamo che alle prime istanze dello Scioppio Ferdinando si era già negato. Sarebbe puerile il credere che costui, il quale attendeva egualmente la sua stella per ascendere al soglio Imperiale, abbia davvero provato disgusto pel Campanella tanto protetto da' pianeti, e non invece curiosità di fargli indagare anche i pianeti Arciducali: vedremo tra poco lo Scioppio raccomandare al Campanella di volergli manifestare qualcuno dei segreti suoi utili a Ferdinando, perchè questo avrebbe giovato non poco alla sua liberazione, e vedremo anche Ferdinando stesso scrivere al Vicerè di farsi dire dal Campanella questi segreti; era dunque stato tutt'altro che balordo il Campanella a far tante promesse, come lo Scioppio diceva. D'altronde gli Arciduchi solevano annettere molta importanza ai frati predicanti nelle guerre contro i Maomettani, ed anche in questi ultimi mesi, a proposito della canonizzazione del P.e Lorenzo da Brindisi, ci venne rammentato che costui, fondatore de' conventi cappuccini in Praga, Vienna e Grätz, predicò nell'esercito guidato dall'Arciduca Massimiliano contro i turchi, e nella sua lettera agli Arciduchi il Campanella non mancò di dire, «jam paro libellum ad Pannoniae filios contra Macomethum». Aggiungasi che in Grätz gli eretici aveano pure dato molto da fare a Ferdinando, sicchè egualmente da questo lato il Campanella poteva essergli utile come e quanto il Fugger stimava che sarebbe riuscito utile a tutta la Germania; e da un brano di una delle lettere dello Scioppio al Campanella, per verità non molto chiaro, si avrebbe motivo di ritenere che Giorgio Fugger temesse di non poter avere con sè il Campanella qualora fosse stato liberato da Ferdinando. In somma un'idea di tornaconto non mancava in tutti questi protettori, e il Campanella l'avea calcolato con la sua solita avvedutezza, come avea pure previsto che durando a lungo il gioco sarebbe sfumato; ciò forse aumentava la sua impazienza anche più del giusto.

La 1a lettera dell'Arciduca Ferdinando al Vicerè, almeno finoggi, non ci è nota testualmente: sappiamo solo che l'Arciduca scrisse nel principio dell'anno 1608 da Ratisbona, avendolo ricordato egli stesso nella 2a lettera, e che dimandò la liberazione del Campanella, ma l'invio della lettera fu ritardato da un tale che non conosciamo. Tutto induce a credere che in conseguenza di essa, o forse meglio in attesa di essa per prevenire le sollecitazioni, il Campanella sia uscito dalla fossa, rimanendo per altro sempre in S. Elmo. Una lettera dello Scioppio al Campanella senza indicazione di luogo nè di tempo, ma evidentemente riferibile all'aprile o maggio 1608 come vedremo, comincia col dire, «Godo che le tue cose vadano un pochino meglio», ciò che indica essere avvenuto un cambiamento nelle condizioni del prigioniero in febbraio o marzo. Continua poi col suggerire che scriva particolarmente all'Arciduca Ferdinando, rendendo grazie dell'aver cominciato a gustare il frutto delle sue commendatizie, pregando di richiederlo in ceppi al Re di Spagna, con la promessa di restituirlo quando e dove al Re piacerebbe, e dichiarando che in tre mesi avrebbe fatto molte e così grandi cose a vantaggio dell'Arciduca e di casa d'Austria, da dover confessare che a niun altro egli era tanto debitore quanto allo Scioppio che glie l'avea raccomandato. Aggiunge inoltre voler essere spiegate due opinioni sue che venivano censurate: come mai il Peripateticismo, che avea messo tanta radice nella Chiesa, poteva dirsi empio al punto da ritenere Aristotile precursore dell'Anticristo; perchè mai bisognava affaticarsi a propagare la Monarchia Austriaca, se l'Anticristo era prossimo, e per opinione di molti, poggiata sopra alcune parole di Daniele, appena 45 giorni doveano passare tra la morte dell'Anticristo e il giudizio universale. Aggiunge da ultimo che assai avrebbe giovato comunicargli qualcuno de' segreti che egli possiede in beneficio dell'Arciduca. Come ben si scorge, lo Scioppio riconosceva finalmente che le grandi promesse non alienavano niente affatto gli animi de' Principi, ed anzi, furbo com'era, si disponeva a gustarne lui pure i frutti, espilando sempre; coglieva al tempo stesso destramente l'occasione per essere illuminato sulle maggiori quistioni relative all'Anticristo, suo tentativo continuo di espilazione. In fondo poi, il consiglio che dava al Campanella, circa il modo di scrivere all'Arciduca Ferdinando, era identico a quello che il Campanella aveva posto in atto presso l'Imperatore; non avea potuto riuscire presso l'Imperatore, ma conveniva tentarlo presso Ferdinando. - A questa lettera dello Scioppio dovè certamente seguire quella che reca la data del 13 giugno senza l'anno, e poi ancora l'altra in data del 7 novembre egualmente senza l'anno, entrambe da noi pubblicate; giacchè vi si trovano riprodotte intere frasi dello Scioppio, vi si parla del doversi ricorrere del tutto all'aiuto del patrono Ferdinando, vi si risponde a' quesiti proposti. Nella 1a lettera il Campanella dà la spiegazione de' tempi dell'Anticristo e del Peripateticismo che considera come uno de' capi dell'Anticristo medesimo, distinguendo in questo 7 capi, 7 corna, ed anche una coda rappresentata da Gog e Magog, con molte altre particolarità atte a solleticare maggiormente la curiosità dello Scioppio: ma non si occupa della quistione de' 45 giorni, che interessava personalmente il suo interrogante come si vide in sèguito e come egli avea capito fin da principio; si duole del resto di non aver potuto mandare i Profetali, facendone nascere sempre più vivo il desiderio, e cerca infine qualche sussidio per gli alimenti e la trascrizione de' libri. Ma l'importante per noi è che riconosce doversi riporre ogni speranza in Ferdinando, per opera del quale solamente vede farsi sempre più sereno, mentre da niun altro c'è da sperare; e ripete che deve ottenersi da Ferdinando il suo trasferimento in ceppi presso di lui per tre mesi, manifestando che il Papa non aveva potuto ottenere nè il trasferimento suo a Roma nè la terminazione della causa de jure in Napoli (la quale notizia non saprebbe dirsi donde gli fosse venuta). Nell'altra lettura poi si rileva qualche cosa di più. Lo Scioppio, irritato, non rispondeva già a molte lettere del Campanella, principalmente perchè il filosofo sospettava sempre che egli volesse farsi bello con le opere sue; ma gli premeva di sapere come dovesse interpetrarsi la faccenda de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, poichè il Re d'Inghilterra lo aveva confutato e deriso circa tale fatto; si era quindi rivolto a fra Serafino di Nocera perchè procurasse una risposta dal Campanella, dicendo con furberia che la confutazione cadeva meno sopra di sè che sopra lo Squilla, il quale ammetteva doversi verificare dopo l'Anticristo la Monarchia de' Santi, e però, laddove non producesse argomenti capaci di sodisfare, egli ne avrebbe deriso i Profetali (è manifesto che i Profetali gli aveano toccato il cuore). Questa lettera a fra Serafino era stata scritta il 23 ottobre e giunse nelle mani del Campanella il 7 novembre, d'onde si potrebbe desumere che lo Scioppio si trovasse pur sempre in Germania; ma forse qualche circostanza estranea impedì un sollecito arrivo della lettera, essendo ad ogni modo indubitabile, per notizia tratta da una lettera dello stesso Scioppio scritta assai più tardi a Cassiano del Pozzo e da noi pubblicata, che il 1608 egli tornò a Roma in qualità di Ambasciatore Cesareo per menare innanzi la lega Cattolica, e siffatta circostanza non deve sfuggire. Il Campanella, nella sua risposta, si duole della freddezza dell'amico, e soggiunge, «abbastanza in addietro hai fatto per me, se non vuoi far altro, nessuno ti costringerà»; ma avendo lo Scioppio affermato essere facilissimo e spontaneamente offerto dal suo patrono il trasferimento «ad urbem», dice che lo gradirebbe assai, amando meglio morire in grembo alla Chiesa che essere ben nudrito in mano di nemici, e soggiunge, «non dire di non poterlo fare, poichè altrimenti riterrò essere stato uno scherzo quanto hai professato di aver fatto per me» (forse si alludeva al trasferimento da S. Elmo nella città di Napoli, ma piuttosto a quello da Napoli a Roma, essendo oramai certo che lo Scioppio non credeva utile quest'ultima maniera di trasferimento, perchè il Campanella sarebbe stato rinchiuso nelle carceri del S.to Officio, e ne sarebbe rimasto contrariato il Fugger che lo voleva presso di sè). Del resto, quanto alla Curia Romana, il Campanella dice con disdegno ed alterigia, cessino di augurarmi il peggio in Roma; la terra tollera più facilmente un Sole che due» (parrebbe che in Roma avessero conosciuto gli sforzi che si facevano in Germania per averlo colà, ma non li avessero punto approvati, e il Campanella avea dovuto persuadersi non esservi per lui alcuna simpatia nella Curia, ma invece una decisa avversione). Chiarisce poi la quistione de' 45 giorni successivi alla morte dell'Anticristo, ed accenna che per lui questo tempo è di molti secoli, facendo avvertire la necessità di distinguere i capi e la coda dell'Anticristo, la necessità di bene interpetrare i tipi e i postipi, il trigono nel tetragono, i fini latenti negli esordii (un mucchio di particolarità astruse); ed aggiunge, «i Profetali potrebbero ora servire, dì al Papa che comandi si portino a lui, e forse io pure sarò trasferito con essi»; quindi cerca di rabbonirlo e dice, «ti aspetto fra breve ed avrai ciò che desideri da me» (le quali circostanze menerebbero tutte a far ritenere che lo Scioppio già si trovasse in Roma), ed infine chiede che gli mandi il libro del Re d'Inghilterra, perchè risponderebbe egli medesimo, e questo forse gli profitterebbe di più (ma non manda niente affatto i Profetali).

Non conosciamo finoggi altre lettere del Campanella allo Scioppio, comunque apparisca possibile che ve ne siano state ancora. Aggiungiamo poi che nell'intervallo scorso tra gl'invii delle due lettere suddette, nell'autunno 1608, dovè accadere la venuta del Fabre a Napoli, nella quale egli «lasciò» al Campanella un quesito Sul Pieno e sul Vacuo; e il Campanella vi rispose, e in fine della sua risposta, che fu da noi pubblicata, disse che stava «più stretto di prima quanto allo scrivere» e che sperava venisse una lettera da Ferdinando, per la quale potesse andare presso di lui; tale circostanza fa determinare con esattezza la data che nella risposta manca, e giova tener presente che a tale data i rigori verso il Campanella non erano del tutto cessati. Bisogna anche dire, secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano, che tanto lo Scioppio in Germania quanto il Fabre in Roma aveano cominciato ad occuparsi della traduzione delle opere del Campanella: il Fabre faceva tradurre in latino e in tedesco il Dialogo contro i Luterani, e lo Scioppio, che ne sollecitava l'invio al Fugger, faceva tradurre in latino i Discorsi a' Principi d'Italia ed anche il primo libro degli Antiveneti; ma di tutte queste traduzioni non si vide mai la fine. Del pari non si vide mai la conchiusione della mossa del Campanella presso Ferdinando così come era stata concertata con lo Scioppio, vale a dire che Ferdinando scrivesse al Re di Spagna di lasciar venire il Campanella in ceppi presso la persona sua per tre mesi: invece se ne ha una lettera al Vicerè in data di Grätz 3 ottobre 1608, con la quale, accennando all'altra sua precedente inviata nel principio dell'anno, dice che, sebbene non gli sia nota la causa della continuazione della prigionia del Campanella, essendo informato che questo soggetto «per la sua rara dottrina può far gran profitto nella religione Cattolica, si come massime in questi tempi simili persone sono molto necessarie», prega S. E. «di fare gratia al nominato Campanella, liberandolo quanto prima della sua ritentione», ciò che sarà a lui «et a' principali altri, che fanno la medesima instanza, di molto gusto». Come mai Ferdinando desistè dal chiedere il trasferimento del Campanella presso la persona sua? Forse egli seppe che questo non piaceva punto a Roma, dove per lo meno si dovea pretendere che il prigioniero venisse a scontare nel S.to Officio la condanna riportata, onde il Campanella ebbe poi a dire «cessino di augurarmi il peggio in Roma»; forse anche il progetto di far dimandare quel trasferimento fu un semplice artificio dello Scioppio per indurre il Campanella a rivelargli qualcuno de' segreti, de' quali avea dapprima biasimata la promessa. Forse vi fu l'una e l'altra cosa insieme, ma privi della lettura di tutti i documenti noi non siamo in grado di tentarne l'interpetrazione: solo possiamo dire che il Berti assicura essersi dalla lettera ottenuto il semplice trasferimento del Campanella dal Castel S. Elmo al Castel nuovo. Dobbiamo poi aggiungere che vi fu ancora un'altra lettera di Ferdinando al Vicerè, scritta ad istigazione di Giorgio Fugger in data di Grätz 10 maggio 1609, e in questa non si parlò più di liberazione del Campanella, ma invece di due altre cose ben diverse, che meritano di fermare l'attenzione. Ferdinando pregò S. E. in questi termini: «di dar ordine et procurare affine che detto Campanella finisca senza impedimento e dimora i suoi libri della Matematica, d'Articoli profetali et anco della Metafisica. E tanto maggiore sarebbe l'appiacere se mi fossero mandati essi libri, come spero non l' sarà contrario. E poichè molti degni di fede rendono testimonianza et affermano che l'istesso Campanella habbi per il rarissimo suo ingegno et sottil intelletto molte cose di palesare che ridondano in utile et beneficio della M. Cat.ca mio sig. cognato, e della nostra casa d'Austria, sarebbe ben fatto che V. Ecc.za lo facesse venir avanti di sè, et intendesse quelli suoi secreti; si come la prego a farlo per amor mio, et comunicarmi poi quel tanto che l' parerà necessario». A questa lettera il Vicerè avrebbe risposto «che non era in sua facoltà di far uscire il Campanella»: come ognuno vede, tale risposta non ha alcuna relazione con la proposta, e potrebbe intendersi meglio in relazione con la lettera antecedente. Ma ad ogni modo, con l'ultima lettera, a che riducevasi infine la protezione accordata da tutti questi Signori al Campanella? Ad una pura e semplice espilazione e su tutta la linea, col riconoscimento di qualità superiori nell'uomo di cui s'intendeva carpire le opere e i consigli; e ciò forma il più grande elogio del Campanella, e dovrebbero riflettervi coloro i quali trovano in lui tanti difetti, e cercano sparger dubbî perfino sulla sua capacità e sulla sua dottrina. Con tanti difetti, con tanto poca capacità e dottrina, per sì lungo tempo e con sì grande ardore egli fu stimato in Germania quasi indispensabile per tener fronte agli eretici di quell'età: non è a nostra notizia che parecchi individui siano stati stimati altrettanto.

È inutile oramai per la nostra narrazione vedere come anche il Fugger dopo altri tentativi presso la Corte di Madrid, venuto egli medesimo in Napoli nel 1610, si fosse raffreddato definitivamente, e il Fabre e lo Scioppio si fossero persuasi che il Campanella «stava bene dove stava», con accompagnamento anche di dileggi villani e spudorati da parte dello Scioppio: la nozione chiara del disegno di congiura d'accordo col Turco, e il convincimento che varie cose, e tra le altre le apparizioni dì diavoli, fossero state simulate per uscire dalla prigione, tolsero al Campanella ogni appoggio; ed è indubitabile che cessato questo appoggio, i rigori del carcere furono per lui sempre più mitigati dal Governo Vicereale. A noi importa qui principalmente mettere in luce, che in tutti i maneggi per la liberazione del Campanella non vi fu la menoma partecipazione della Curia Romana. Nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella avevamo combattuta la pretesa «missione Papale avuta dallo Scioppio per trattare la liberazione del prigioniero», ed anche negata la venuta dello Scioppio in Napoli che dicevasi effettuata nel 1608, essendoci costui apparso senza dubbio un protettore del Campanella ma col fine recondito di espilarne le opere: i nuovi documenti datici dal Berti hanno provato che vi fu una venuta dello Scioppio, ma nel 1607, ed hanno confermato appieno che la Curia Romana non contribuì per nulla a' tentativi di liberazione ma forse li contrariò, ne hanno affatto smentito che lo Scioppio fu principalmente un espilatore. La missione Papale avuta dallo Scioppio fu già affermata dal Naudeo, il quale nel Syntagma, a proposito de' libri inviati allo Scioppio, fece dire dal Campanella «omnes jam dictos libros Scioppius a me accepit anno 1608, cum venit missus a Paulo V meam tractaturus libertatem, dedi etiam et Atheismum triumphatum»: e rimarrà sempre un esempio di grande distrazione l'aver voluto trovare nella lettera del Campanella con la data del 1607, posta qual Proemio dell'Ateismo e pubblicata dallo Struvio, la conferma di una venuta che dicevasi effettuata nel 1608; così pure l'avervi voluto trovare la conferma della missione favorevole data allo Scioppio da Paolo V, mentre vi si legge, «Levitae et Sacerdotes pertransierunt me absque benedictione..., jacebam prastolans mortem sicut Elias sub junipero, tu autem tanquam Angelus me ad vitam excitasti, sed subcineritium panem non attulisti, in cujus fortitudine me usque ad Oreb faceres ambulare». Il Campanella in una prefazione a nome del tipografo, apposta alla ristampa dell'opera De Sensu rerum fatta in Parigi il 1637, disse che al pari di Tobia Adami e Rodolfo di Bima venuti in Napoli il 1613, anche lo Scioppio si aveva procurate dagli amici tutte le opere che egli avea composte «in anno 1608»; ma in una data più vicina a questa di cui trattiamo, nel 1631, quando potè pubblicare per la prima volta in Roma l'Ateismo debellato, nella prefazione disse, «misi hunc libellum amico ut proficeret in Germania, anno Domini 1607, multosque libros meos»; nè in alcuno di questi due brani parlò mai della missione data allo Scioppio da Papa Paolo. Il Naudeo, che fu il vero redattore del Syntagma, venne forse tratto a scrivere ciò che scrisse, rilevando l'anno dal primo de' due brani suddetti, ed aggiungendo la circostanza della protezione del Papa pel gusto inopportuno di recar gloria al Papato e vantaggio alla riputazione del Campanella: egli avea già fatto lo stesso scrivendo il celebrato Panegirico ad Urbano VIII, in cui non solo esaltò questo Papa qual protettore del Campanella, ma anche Gregorio XV, Paolo V, e perfino Clemente VIII, che aveva certamente inaugurato l'abbandono del filosofo nelle mani degli spagnuoli. Ma, al solito, lo stesso Naudeo parlò nuovamente della venuta dello Scioppio a Napoli in una lettera privata diretta appunto a lui, che fu pubblicata dopo la sua morte e che noi non mancammo di ricordare; e in questa lettera parlò ben diversamente dello scopo della venuta a Napoli, riducendolo alla semplice voglia di vedere il Campanella, senza alcuna missione Papale. «Neapolitanum iter, quod ejus tantum invisendi gratia susceptum a te fuit»; e del resto per non mancare all'abitudine dell'elogio continuo, vero o falso, il Naudeo aggiunse essere stato dallo Scioppio procurato al prigioniero l'assegno di una non mediocre quantità di danaro per vitto e la concessione di una somma libertà, i quali beneficii sappiamo veramente essere stati goduti dal prigioniero alcuni anni dopo. - Non paia eccessivo questo trattenerci a lungo sul fatto della missione Papale: se ci fossero elementi capaci di accreditarlo, il fatto riuscirebbe sufficientemente grave; e per esso appunto siamo entrati ne' tanti e tanti particolari di ciò che avvenne dal 1607 in poi, giacchè altrimenti ci sarebbe bastato dire che il Campanella non trovò ascolto favorevole alle sue dimande nè in Roma nè in Spagna, in nessuna delle due parti che avrebbero potuto realmente dare un termine a' suoi guai. Qualora avesse dovuto accogliersi il fatto di una missione di Paolo V «per trattare la libertà del Campanella» od anche una partecipazione di Paolo V a' maneggi altrui per farlo uscire in libertà, sarebbe apparso molto naturale essere state mandate buone al Campanella le ragioni da lui addotte in difesa presso la Curia, circa la congiura e l'eresia, essersi riconosciuta ne' guai del Campanella una pura e semplice soperchieria di Spagna: per verità questo non avrebbe scosso dalle fondamenta ciò che abbiamo esposto massime intorno alla congiura, mentre la Curia mille volte pretese essere stati calunniati i delinquenti sol perchè clerici; ma avendo spesso abbandonato gl'imputati ecclesiastici anche appena sospetti, ogni qual volta trattavasi d'imputati politici, sarebbe sempre rimasto un motivo di dubbî e di perplessità. Invece è chiaro che Paolo V, già guarito della mania dell'immunità ad ogni costo dopo la faccenda di Venezia, avrebbe potuto solamente reclamare dal Governo Vicereale che si pronunziasse una volta la sentenza nella causa della congiura in persona del Campanella, la qual cosa nemmeno il filosofo desiderava, ma non mai trattare perchè egli fosse posto in libertà. Essendo stato dal suo antecessore, con un Breve in piena regola, istituito un tribunale ecclesiastico speciale in Napoli, non avrebbe potuto seriamente esigere che il Campanella fosse stato giudicato dal tribunale Romano com'egli dimandava: è superfluo poi dire quanto grave sarebbe riuscito l'accogliere l'altra dimanda del Campanella, l'annullamento di un giudizio di eresia, menato innanzi con tutta la solennità possibile, sotto l'ingerenza continua della rispettiva Congregazione Cardinalizia preseduta dal medesimo Papa antecessore. Ed appunto perchè vi era stata una condanna in siffatto giudizio, riesce chiaro che il Papa avrebbe sempre dovuto esigere che il Campanella, non appena uscito dal carcere di Napoli, l'espiasse, e non andasse già a predicare contro gli eretici, mentre con quella condanna egli medesimo era stato implicitamente dichiarato un eretico: sotto tale rispetto è pure da notarsi che lo Scioppio, consapevole della condanna e tanto svisceratamente attaccato al Papa e alle istituzioni Cattoliche, vi si sia mostrato davvero tanto poco ossequente; ma vediamo anche oggi dove vada per solito a parare lo sviscerato attaccamento al Papa e alle istituzioni Cattoliche.

Inutili dunque riuscirono gli appelli, le suppliche, le lettere del Campanella, e gli sforzi de' suoi protettori, compresi quelli attuati per mezzo dello Scioppio, non approdarono a nulla: egli rimase nel carcere, dove i rigori furono ulteriormente mitigati sempre, ma non si venne mai più alla sentenza, essendosi poi col tempo perfino disperso o bruciato il processo, sicchè, anche volendo, non si sarebbe potuto sentenziare. E vogliamo dire che egli non cessò mai di serbare viva gratitudine verso coloro i quali si adoperarono per lui, verso lo stesso Scioppio, sebbene avesse avuto ragione di convincersi che si era servito delle opere trasmessegli per comporre le proprie. Appunto nella prefazione dell'Ateismo debellato stampato nel 1631, ricordando di aver mandato «ad un amico» quel libro con molti altri, il Campanella aggiunse, «quibus ad suorum compositionem profecit», ed augurò all'Ateismo «meliores fructus apud veritatis et non propriae gloriae cultores»: nella prefazione poi della ristampa parigina dell'opera De Sensu rerum, nel 1637, lodando Tobia Adami che gli si era mostrato fedele nell'aver procurata la pubblicazione delle opere avute, e menzionando lo Scioppio ed altri tedeschi e francesi, che avute le opere «nulla fecero per la gloria dell'autore», aggiunse «nisi Scioppius pro vita in principio». Così fino agli ultimi anni suoi il Campanella, ricordando il male, non dimenticò il bene, e ciò prova la bontà della sua natura, la quale del rimanente è attestata anche da varii altri fatti memorabili: basta considerare la difesa di Galileo Galilei, che scrisse mentre si trovava tuttora nel carcere di Napoli, e la difesa di Girolamo Vecchietti, che sostenne con pieno successo quando se lo trovò a lato nel carcere del S.to Officio in Roma. Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere da doversi trasmettere allo Scioppio, scrisse soltanto gli opuscoli epistolari che abbiamo menzionati: gli ultimi tra questi, riferibili al 1608, furono gli opuscoli Sul Peripateticismo e Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo, che forse rappresentano le risposte al Re d'Inghilterra delle quali si trova fatta menzione nel Syntagma, ed inoltre quello Sul Pieno e sul Vacuo diretto al Fabre. Al sèguito di essi si può mettere quello Per l'Abate Persio sull'uso della bevanda calda, che dovè essere di maggior mole e vedesi già preconizzato nell'opuscolo antecedente Sul calore estivo: esso apparisce riferibile a questo periodo, nel quale certamente il Campanella trovavasi in assidua corrispondenza col Persio, come mostra l'ultima sua lettera al Fabre tra quelle da noi pubblicate; ma bisogna anche dire che vi furono molti opuscoli e lettere all'indirizzo de' Fuggers, secondochè risulta dalla menzione fattane nel Syntagma. Compose inoltre senza dubbio molte poesie di dolore o di sdegno pubblicate poi dall'Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la data precisa e più sovente la data approssimativa, sia dietro qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data conosciuta. P. es. non si può dubitare che l'«Elegia al Sole», composta quando stava ancora nella fossa, debba dirsi della fine di marzo 1607, poichè vi si parla del sole in ariete e del tempo in cui Gesù risorse, ciò che ci mena alla Pasqua di risurrezione del 1607, sapendosi che in quest'anno veramente la Pasqua si celebrò col sole in ariete il 26 marzo, mentre nell'anno anteriore e nel posteriore si celebrò in aprile; dippiù vi si trova quel pensiero che fu poi riprodotto nella lettera a Mons.r Querengo del luglio 1607:

«Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive,

invidio misero tutta la schiera loro».

Ancora il pensiero che trovasi nella stessa lettera, l'esser cioè il povero prigioniero «un meschino condannato dall'opinione popolare e di Principi, come il più empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo», ci apparisce quello che ispirò i Sonetti «Della plebe» ed «A certi amici, ufficiali e Baroni» etc.; ma perfino le lettere al Papa, oltrechè l'Ateismo debellato, recano pensieri posti del pari in versi quasi letteralmente, nè possiamo far altro qui che indicare tale criterio per la ricerca delle date. E poichè abbiamo citati que' due Sonetti, vogliamo pur dire che nell'uno «Della plebe» il sentimento di un legittimo disgusto ci apparisce fin dal titolo predominante su quello della compassione, e nell'altro «A certi amici» il contesto di tutta la proposizione, là dove si dice che «un piccol vero gran favola cinge», non rende queste parole applicabili propriamente alle imprese tentate in Calabria, come è parso ad un egregio storico; nè sappiamo poi resistere alla tentazione di ricordare qui l'aurea sentenza che vi si legge, e che non è riferibile propriamente alla plebe, da cui il Campanella professava non potersi trar nulla, bensì riferibile a coloro che vanno per la maggiore:

«Nè il saper troppo come alcun dir suole,

ma il poco senno degli assai ignoranti

fa noi meschini e tutto il mondo tristo».

Ma ciò che qui principalmente c'interessa di ricordare si è, che tutte queste poesie insieme con le altre scritte posteriormente fino al 1613, come pure le note delle quali vennero corredate dallo stesso Autore, sebbene fossero state soggette ad una scelta e non col solo criterio del merito filosofico e letterario, bensì con quello pure della convenienza politica e giudiziaria, costituiscono pur sempre un fonte prezioso di ricerche sugli atti e sugl'intendimenti veri del Campanella, le notizie de' quali doverono sottostare a tanti garbugli. Come da un lato la Città del Sole mostra le idee riposte del Campanella, così questa Scelta delle Poesie filosofiche con l'esposizione, studiata con amore ed accorgimento, rivela notizie importanti e testimonianze autentiche ben capaci di stare a fronte alle testimonianze del pari autentiche ma in senso affatto diverso: nella nostra precedente pubblicazione sul Campanella, a proposito della edizione Adami da noi trovata e studiata nella Biblioteca de' PP.i Gerolamini, ci si è offerta l'occasione di fare alcune considerazioni su tale proposito, e ad esse rimandiamo i nostri lettori.

Abbiamo detto che secondo le notizie tratte dall'Epistolario romano il Campanella sarebbe uscito dalla fossa di S. Elmo, rimanendo sempre in quel Castello, verso il febbraio o marzo 1608, dopo che era stata scritta la 1a lettera dall'Arciduca Ferdinando nel gennaio: noi eravamo pervenuti allo stesso risultamento con calcoli fatti sopra una notizia, per altro poco chiara, che trovasi nella nota posta in coda alla Canzone «Della Prima Possanza». Quivi si legge che egli uscì dalla fossa, in cui stava quasi disfatto, otto mesi dopo di avere scritta quella Canzone, «sebbene ci stette tre anni ed otto mesi»: il «sebbene» rende poco chiara la notizia, ma ritenendo l'entrata nella fossa avvenuta in luglio 1604 secondo i còmputi altrove esposti, e aggiungendovi tre anni ed otto mesi, abbiamo che, mentre la Canzone fu scritta in luglio 1607, l'uscita dalla fossa dovè accadere verso il marzo 1608; ed è superfluo fare avvertire come rimanga provato sempre meglio che la data dell'entrata nella fossa deve dirsi quella da noi stabilita. Importerebbe poi conoscere con precisione la data del trasferimento dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, e finora si ha in modo vago che il trasferimento sarebbe accaduto dopo la 2a lettera di Ferdinando, vale a dire dopo l'ottobre 1608: dal Syntagma si ha dippiù che nel 1611 era già accaduto un altro trasferimento dal Castel nuovo al Castello dell'uovo. La conoscenza della data precisa del 1° trasferimento, dal Castel S. Elmo al Castel nuovo, importerebbe anche per fermare una circostanza fondamentale, capace di contribuire al chiarimento di un fatto della vita intima del Campanella, che è affermato dalla tradizione ma che potrebb'essere piuttosto leggendario. Alludiamo alla nascita di quel grande che fu Gio. Alfonso Borrelli, alla cui memoria si vedrebbe già elevato in Napoli un monumento, se vi fosse, come vi dovrebb'essere, il culto della dottrina e della virtù; è noto che verso questo tempo egli nacque nel Castel nuovo, e che una tradizione vorrebbe fosse nato dal Campanella. Aggiungiamo poi che tanto nel Castel S. Elmo, quanto nel Castel nuovo e del pari nel Castello dell'uovo, il Campanella, assomigliandosi a Prometeo, continuò sempre a dire di trovarsi «nel Caucaso»; altre volte disse di trovarsi «nella Ciclopèa caverna»; questo rilevasi dalle Lettere e dalle Poesie. Perchè mai il Campanella si assomigliava a Prometeo? In molte sue lettere egli si riconobbe colpevole di aver voluto servire alla rivelazione de' tempi, e così essendo le cose dovrebbe intendersi avere avuta la sorte di Prometeo per aver voluto scrutare ed annunziare agli uomini i pensieri di Dio, gli eventi ordinati da Dio. Ma nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo Struvio parlò esplicitamente della sua condizione di Prometeo, consegnando l'opera dell'Ateismo debellato con queste parole: «Eia mi Scioppi, cape facellam hanc, in pectoribus hominum interclude, si forte ex ruderibus fiant animalia, ex animalibus homines; tibi debetur hoc munus, qui hujus saeculi es aurora; ego tanquam Prometheus in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functus sum munere, abusus sum donis ejus, ebibi indignationem ejus». Intanto nella lettera medesima lo Scioppio era sospettato tutt'altro che l'aurora del secolo, e quindi ognuno, tenendo presente l'alto concetto che il Campanella aveva di sè e della sua missione nel mondo (principale ragione di fargli desiderare la vita), ammetterà piuttosto che siasi rassomigliato a Prometeo nel senso della trilogia di Eschilo: aver concepito disegni divini, riflessi del Primo Senno, ed essersi sforzato d'infonderli ne' petti umani; venir punito «per avere troppo amato gli uomini»; aspettarsi un giorno la liberazione e il trionfo. Su questo ultimo fatto non cade dubbio, sapendosi dalle sue Poesie che egli sperava doversi al termine del suo carcere gridare «Viva, Viva Campanella»; sicchè da tutti i lati emerge abbastanza chiara anche la vera condizione sua per la quale ritenevasi punito, conforme a quella dichiarata dal Prometeo d'Eschilo:

Τὸν Διὸς ε̉χθρὸν, τὸν πα̃σι θεοι̃ς

δι’ α̉πεχθείας ε̉λθόνθ’ οπόσι

τὴν Διὸς αυ̉λὴν ει̉σοιχνευ̃σιν

διὰ τὴν λίαν φιλότητα βροιω̃ν

Certamente poi bisogna del pari intendere con le nozioni dateci da Omero (quell'arguta versione tra le tante, che lo stesso Campanella fornì circa il termine della sua condizione di Prometeo o l'uscita dalla Ciclopèa caverna: tale versione si legge nella sua lettera a Pietro Seguier, posta innanzi all'opera intitolata Disputationum Philos. realis lib. quatuor Paris. 1637, ed essa, a parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori, «gl'ingrati padroni», l'aveano tenuto «gratis», il filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, «nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset». Si comprende che il titolo d'«ingrati» dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un «astutum facinus longe mirificentius» di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):

α̉ρνειὸς γὰρ ε̉́ην, μήλων ο̉́χ’ α̉́ριστος άπάντων,

του̃ κατὰ νω̃τα λαβὼν, λασίν ύπὸ γαστέρ’ ε̉λυστθεις

κειμην·αυ̉τὰρ κερσὶν α̉ώτου θεσπεσίοιο

νωλεμέως στρεφθεὶς ε̉χόμην τετληότι θυμω̃.

Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.

Il nostro compito è esaurito; dobbiamo solamente fermarci ancora un poco su due quistioni, che senza dubbio saranno sorte nell'animo de' lettori, i quali per avventura abbiano seguito con interesse il corso di questa narrazione. Perchè mai il Governo Vicereale volle comportarsi così brutalmente col Campanella, costituendosi anche dal lato del torto, mentre avrebbe potuto ottenerne dal tribunale Apostolico la condanna all'ultimo supplizio? Perchè mai il Governo Vicereale volle far soffrire al Campanella il martirio di oltre un quarto di secolo, e la Curia Romana, tanto lesta ed ardita nell'esigere il rispetto delle prerogative degli ecclesiastici, non ebbe alcun sentimento o per lo meno alcun sentimento efficace della tutela di queste prerogative in persona del Campanella?

Circa la prima quistione, a noi sembra evidente che sulla determinazione del Governo abbiano avuto ad influire dapprima il sospetto e la diffidenza, poi anche il puntiglio giurisdizionale, in sèguito la sconvenienza assoluta di un supplizio tanto ritardato. Coi criterii d'oggidì sarebbe quasi impossibile intenderlo, ma è necessario riportarsi a' criterii del tempo. Il sospetto e la diffidenza, che aveano sempre campeggiato in questa causa per una lunga serie d'incidenti, doverono al termine di essa destarsi con maggiore intensità. C'era il gusto della soverchieria anche tra' Governi, e l'abilità si faceva consistere nel soverchiare. Poteva darsi il caso, veramente improbabile ma non impossibile, che all'ultima ora da Roma fosse stato insinuato al Nunzio il risparmio della vita del Campanella, con la condanna p. es. alla galera in vita; l'altro Giudice, compagno del Nunzio, si sarebbe invece pronunziato per la pena di morte; chi avrebbe allora dovuto risolvere la discrepanza? E risoluta la discrepanza nel senso della galera in vita, come si sarebbe scansata la richiesta dell'invio del condannato a Roma, per remigare sulle galere di S. S.? Quanto al puntiglio giurisdizionale, bisogna considerare le tendenze del tempo veramente incredibili in tale materia, la lotta vivissima e continua, benchè non sempre appariscente, tra Napoli e Roma. In questa lotta, anche più degli spagnuoli, si distinguevano i napoletani, e il Vicerè medesimo, trattandosi di quistioni giurisdizionali, difficilmente riusciva a sottrarsi all'influenza loro nel Consiglio Collaterale; se si avesse, come sarebbe a desiderarsi grandemente, una storia di questo Consiglio, riuscirebbe manifesto che i Consiglieri napoletani, serbando tutte le possibili forme di devozione e di ossequio, in sostanza erano i più diffidenti e puntigliosi verso Roma; tra le scene di servilismo più abietto, le quistioni con Roma avevano il potere di far lampeggiare in essi il patriottismo più rovente. Così a ragion veduta, anche a proposito degl'indegni trattamenti a' quali il filosofo venne sottoposto, noi abbiamo parlato di Governo Vicereale più che di spagnuoli e Corte di Spagna, contro cui sono stati sempre esclusivamente diretti i biasimi e i vituperii, sapendo che il Vicerè dovè udire l'avviso del Consiglio Collaterale negl'incidenti della causa del Campanella. E pur troppo Roma avea data occasione a' puntigli: durante la causa, i superbi «comandamenti di S. S.» erano venuti in campo abbastanza sovente, ma l'ultimo di essi, quello di far sentenziare dal solo Nunzio in una causa di Stato mentre si era pure convenuto altrimenti, sorpassava davvero ogni limite. Bisognava dare una risposta a Roma, e la risposta fu atroce, quantunque in forma più che modesta e affatto calma. Roma la comprese perfettamente e non parlò più, ma bisogna pure ammettere che essa venne ad accomodarvisi di buon grado: riuscirebbe altrimenti inesplicabile l'aver potuto tollerare in pace, nè per breve tempo bensì per anni, la violazione perfino di quanto si era convenuto fin da principio, di doversi cioè tenere il Campanella in carcere, egualmente che tutti gli altri ecclesiastici, a nome ed istanza del Nunzio, come prigione di lui; e ciò mentre quotidianamente per ogni menomo clerico, ancorchè malfattore de' più feroci, fioccavano i suoi reclami laddove si fosse verificata la più lieve infrazione dell'immunità ecclesiastica. Non occorre poi spendere molte parole per dimostrare, che essendo scorsi già varii anni dal momento del reato e della cattura del reo, al Governo doveva ripugnare l'esecuzione di una pena capitale, massime in persona di un ecclesiastico. Trattandosi di reati gravi, non appena il voluto reo era caduto nelle mani della giustizia, per canone indeclinabile si abbreviavano i termini in modo spietato, e si preferiva di andare incontro ad una condanna meno giusta, anzichè ad una condanna tardiva: la prontezza ed esemplarità della pena era ritenuta una condizione tanto necessaria, che quasi non occorreva più pensare alla pena allorchè quella condizione mancava. Un cumulo di circostanze, non provocate ma deplorate dal Governo Vicereale, aveano prodotto un ritardo notevole, ed oramai alla pena capitale non si poteva più pensare: si devenne a ciò che dapprima il Campanella medesimo avea proposto come il migliore espediente, il carcere per un tempo indefinito, il quale fu poi anche mitigato, sia pure dietro le potenti commendatizie, e mitigato di certo ulteriormente in modo niente affatto ordinario, ma senza dubbio facendo rimanere negata la giustizia, calpestata ogni maniera di dritto. Tuttavia non deve sfuggire che se in dritto il non essersi proceduto alla sentenza fu una solenne ingiustizia, nel fatto solamente in tal guisa il Campanella riuscì ad aver salva la vita, non potendo dubitarsi che la sentenza del tribunale Apostolico, anche col nuovo Nunzio e col nuovo Consigliere, sarebbe stata sempre la degradazione e la consegna alla Curia secolare e quindi l'ultimo supplizio. Così bisogna pure guardarsi dal maledire l'interruzione della causa, e bisogna piuttosto esser grati alla lotta giurisdizionale, alle superbie, alle pretensioni, alle diffidenze, a' puntigli, all'abbandono; perfino all'abbandono, poichè se Roma avesse insistito su ciò che era veramente un suo dritto, la cosa non sarebbe andata affatto meglio pel povero Campanella, e si è visto che egli medesimo si protestava energicamente che la sua causa non doveva terminare in Napoli.

Circa la seconda quistione, non ci pare dubbio che i due fatti egualmente notevoli, cioè la pervicacia e crudeltà del Governo Vicereale nel non desistere da un'ingiustizia, e l'indolenza e mollezza della Curia Romana nel non reclamare seriamente un suo dritto per anni ed anni, si spieghino solamente con l'opinione divenuta comune ad entrambe le parti, che il Campanella fosse un uomo pericoloso per lo Stato e per la Chiesa. Possiamo aggiungere senza esitazione, che più si mostrava la rigogliosa vitalità del prigioniero, più si veniva a manifestare la sua dottrina, la sua energia, la sua versatilità, la sua vena inesauribile, più doveva egli essere giudicato pericoloso. La cosa merita di essere ben valutata, e gioverà trattenervisi qualche momento.

Lo Stato, che avea veduto sorgere in breve tempo un disegno non lieve di ribellione per la sola parola efficace del Campanella, non potè mai rimanere tranquillo sul conto di lui; e per quanto egli si stemperasse in proteste di devozione, e spiegasse nelle sue opere un grande attaccamento a Spagna, non gli accordò mai fede. Vedendolo poi rivolto a Roma assiduamente, con la teorica del dovervi essere una sola greggia ed un solo pastore Sacerdote e Re al tempo medesimo, sospettò sempre che una volta liberato avrebbe potuto riuscire nelle mani del Papa una forza notevole. Così dopo una diecina di anni al più, sebbene il Campanella avesse continuato a dire che si trovava nel Caucaso, in realtà sappiamo che il Governo Vicereale lo tenne in carcere da potersi veramente chiamare cortese, come il Baldacchini chiamò il carcere di S. Officio sofferto più tardi in Roma, e con ragione incomparabilmente maggiore, vista la qualità del Governo che a tanto si piegava e il tempo in cui vi si piegava; ma di mandarlo via non volle mai udire a parlare, presago che avrebbe avuto a pentirsene. Gli concesse perfino di tenere insegnamento privato nelle carceri, oltrechè scrivere a sua volontà, porsi in corrispondenza con chi gli piacesse, ricever visite anche da illustri viaggiatori di passaggio per Napoli, e quanto alle opere che componeva, si vide il Nunzio nel 1611 fargli fare una perquisizione ed impossessarsi di quello che gli si trovarono, mentre nulla di simile si vide da parte del Governo. I Vicerè che si successero, il Conte di Lemos figlio, il Duca d'Ossuna, infine anche il Duca d'Alba, ebbero per lui stima e riguardi, più che non ne ebbero i Vicerè ecclesiastici, il Card.l Borgia e il Card.l Zapatta, e fin dal 3 novembre 1616, certamente pe' favori dell'Ossuna, il Campanella potè scrivere al Galilei «sto quasi in libertà»; ma l'uscita dal Castello non gli venne accordata, se non dopo che scorse oltre un quarto di secolo, dopo che il processo si era già perduto da un pezzo, ed un'ulteriore custodia del prigioniero non sentenziato nè sentenziabile si potea dire, più che inumana, vergognosa. La preoccupazione del Governo fu sempre che il Campanella avrebbe potuto riuscire una forza notevole nelle mani del Papa: ce lo ha dimostrato tutto l'atteggiamento da esso preso durante i processi, e ce lo conferma un prezioso documento da noi rinvenuto in Madrid. Perfino poco tempo prima che il Campanella fosse liberato, il Card.l Trexo spagnuolo, ammiratore suo e giudice competentissimo della posizione, gli ricordava le condizioni del Regno a fronte di Roma, gli faceva riflettere che troppo sovente egli aveva ne' suoi scritti lodato l'insolito governo di un Principe che fosse Re e Sacerdote ad un tempo, e soggiungeva: «poni mente a cancellare quest'articolo, o almeno a spiegarlo in un senso tale, che l'animo del Re, il quale non è nè può essere Sacerdote, e le orecchie de' suoi ministri non se ne offendano e ti abbiano ancora in sospetto». Nessuno intanto, speriamo, vorrà supporre in noi l'intenzione di scusare il Governo Vicereale, adducendo le concessioni fatte al Campanella e la preoccupazione che gli vietava di accordargli la libertà: noi, forse più di chiunque altro, siamo convinti che il procedimento del Governo fu non solo iniquo ma anche letale segnatamente pel Napoletano; poichè il colpo gravissimo, inflitto alla cultura e al carattere di un uomo portentoso, ricadde sulla cultura e sul carattere del paese. Colui che aveva iniziato la sua carriera con la «Filosofia dimostrata co' sensi», ed aveva osato concepire un più che audace progetto di riscossa nei campi dello Stato e della Chiesa, non potè appunto profittare dei suoi sensi, dovè abbondare in fantasie, abbondare anche pur troppo in simulazioni; e parecchi i quali emersero di poi sulla folla degl'ignoranti, essendo accorsi al suo privato insegnamento non appena mitigati i rigori del carcere, ne riportarono naturalmente i molti pregi ma anche i gravi difetti. A noi però incombe il debito di spiegare la condotta del Governo e di mostrare che essa non fu capricciosa. Il Campanella era giuridicamente colpevole verso lo Stato, e venne ritenuto inesorabilmente un pericolo continuo per la Spagna: fu questa la maggiore delle sue glorie, e il Governo vi provvide con quella ferocia che era la sua forza.

Ma al martirio del Campanella non contribuì solamente lo Stato. La Chiesa aveva avuto occasione di conoscerlo già da un pezzo, nè poteva non tener conto degli antecedenti; dapprima un grave sospetto di eresia finito con una solenne abiura, poi varie altre imputazioni dello stesso genere ma riuscite a vuoto, da ultimo un disegno di ribellione d'accordo col nemico del nome Cristiano e un mucchio di eresie, accertati con un processo Apostolico ed un processo Inquisitoriale; c'era più di quanto occorresse, per rimaner sorda alle proteste di devozione, e guardare con diffidenza le opere del prigioniero ancorchè riboccanti di fervore religioso. Come abbiamo dimostrato, la condanna pronunziata dalla Chiesa nel processo di eresia non fu benevola pel Campanella, ma al contrario, e le ripetute istanze fatte perchè si sentenziasse nel suo processo di congiura, dopo di aver dato termine a quello di eresia, non erano dirette a salvarlo. Ignoriamo quali pratiche Roma abbia veramente fatte dopo un lungo, lunghissimo silenzio, a fine di ottenere il passaggio del Campanella almeno sotto l'autorità del Nunzio, come essa esigeva per ogni ordinario delinquente ecclesiastico, e come erasi convenuto fin da principio. Conosciamo soltanto con sicurezza, che pur quando si seppe indubitatamente che il processo della congiura non si trovava più essendo stato disperso o bruciato, come accadde nel 1620 a tempo del Vicerè Card.l Borgia il quale volea vederlo e non lo potè avere, nessun reclamo efficace fu sporto da Roma per uscire da una posizione tanto scandalosa. Conosciamo inoltre che perfino dopo 25 anni di carcere, durante il Pontificato di Urbano VIII, il Campanella chiedeva istantemente che il P.e Generale dell'Ordine facesse una dimanda al Re perchè lo concedesse a' Superiori, come da Spagna si desiderava per uscire dall'imbarazzo: e non avendo potuto ottenerlo, ed essendosi fatto raccomandare al potentissimo Card.l Barberini per questo, ebbe a provare che il Cardinale si acquetò facilmente alla negativa del P.e Generale, e ripetendo una proposizione emessa già dal Fabre e dallo Scioppio disse che il Campanella «stava meglio dove stava». Conosciamo infine che dietro le insistenze di Mons.r Massimi Nunzio in Ispagna, fautore particolare del Campanella e carissimo al Re, venne una lettera Regia per lui, e sopra un memoriale da lui presentato si decretò in Consiglio Collaterale non la consegna al Nunzio ma la libertà provvisoria con l'obbligo di risedere nel convento di S. Domenico in Napoli; che di poi, in barba del Governo Vicereale, se ne fuggì travestito a Roma, e quivi scontò tre anni di pena nel carcere del S.to Officio, come era solito farsi pe' condannati al carcere perpetuo, senza che fossero veramente computati i 26 anni di carcere sofferti in Napoli; nè per quanto mite sia stato il carcere di Roma, si può dirlo più mite di quello di Napoli negli ultimi quindici anni, mentre in quest'ultimo era stato permesso fin l'insegnamento, che non fu mai permesso in Roma, non solo dentro, come era naturale, ma neanche fuori del carcere, consecutivamente. Tutto ciò mena a far ritenere che durante la prigionia di Napoli l'abbandono del Campanella fosse dipeso anche dalla sua condizione di delinquente politico, giacchè di simili abbandoni si ebbe pure un altro esempio più spaventoso sotto lo stesso Pontificato di Papa Urbano: è noto come finì l'allievo del Campanella fra Tommaso Pignatelli, reo di Stato in un ordine incomparabilmente inferiore a quello del suo maestro, abbandonato al giudizio di un ecclesiastico gradito al Vicerè nominato dal Nunzio per delegazione avutane dal Papa; egli fu atrocemente strangolato, dopochè quell'ecclesiastico, con la semplice assistenza di un Consigliere Regio, lo sentenziò reo di lesa Maestà, e bisogna tenerlo presente quando si discute de' casi del Campanella. Del resto la sola condizione di condannato per eresia bastava a far sì che Roma si curasse poco o niente del Campanella prigione, e sarebbe strano il pretendere che avesse dovuto mostrare tenerezze per lui. Qui dunque, speriamo, nessuno vorrà attendersi da noi vederci ingrossar la voce contro Roma: noi invece siamo dolenti di ciò che accadde più tardi e che è da tutti glorificato, della benevolenza mostrata al Campanella da Papa Urbano, la quale per verità non fu punto disinteressata, e in ultima analisi finì con la compromissione, con l'esilio, con l'abbandono spietato del filosofo nella più affliggente miseria. Ma pel nostro assunto ci preme ora solamente rilevare e spiegare la condotta di Roma verso il Campanella durante la prigionia. Il Campanella era non solo giuridicamente colpevole ma anche condannato dalla Chiesa, nè giunse ad ispirare fiducia per l'avvenire, e Roma si comportò con lui non diversamente da quanto doveva attendersi da essa. Così lo Stato e la Chiesa vennero a trovarsi tacitamente d'accordo nel far soffrire al disgraziato filosofo un martirio efferato.

In conclusione ci si permetta ancora di dire, che non solamente due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano verificata e punita la congiura e l'eresia ne' pochi ecclesiastici più indiziati e non isfuggiti al Fisco, onde rimaneva del pari giustificata l'opera del tribunale pe' laici, ma tutti veramente in quel tempo ammisero esservi state pratiche dirette dal Campanella per fondare, aiutandolo anche il Turco, un nuovo ordine di cose in Calabria, con nuove istituzioni politiche e religiose. Nè solo pel tempo degli avvenimenti, ma anche per più anni consecutivi questa fu l'opinione generale, partecipandovi del pari senza riserva Agenti di altri Stati perfino in momenti di forte irritazione verso Spagna, come si può rilevare da' Carteggi de' Residenti Veneti che si successero nel Regno: se qualche volta si disse, come il Campanella medesimo affermò, che la Calabria era stata macchiata di falsa ribellione e straziata per questo, si volle intendere che tutta quella regione era stata tenuta responsabile di un fatto concepito e preparato da un gruppo d'individui, e con tale falso giudizio se n'era abusato scelleratamente. Ma, oltrechè negli avversi a Spagna, negli indifferenti medesimi non del tutto inetti, venne mano mano a destarsi la più profonda pietà verso un uomo tanto straordinario, che si vedeva indefinitamente prigione di Stato senza alcuna condanna, mentre, dopo i primi supplizii e le estese carcerazioni, già tutti i complici e in ispecie i frati si trovavano in libertà. Vennero quindi le voci de' pietosi e degli ammiratori ad unirsi alle franche denegazioni ed agli amari lamenti del prigioniero, massime dopo che, mediante l'insegnamento, gli fu permesso un più largo contatto co' migliori, e le corrispondenze, le visite, e sopratutto le opere che si diffondevano manoscritte o si citavano con meraviglia, diedero motivo a far parlare di lui diversamente dalla maniera in cui se n'era parlato prima. Talora in buona fede, più sovente con lo scopo di giovare al prigioniero, lo si disse candido ed ingenuo, vittima del suo spirito d'innovazione scientifica, avversato dagl'invidiosi; si accreditarono le sue discolpe, e fu agevole dimostrarle giuste nominando certe opere da lui scritte; si diffuse che Spagna gli negava la libertà per errore e per tirannia, che Roma l'avrebbe voluto e l'avea voluto, che il Papa era tutto per lui. Cominciò quindi a ritenersi, press'a poco come fino ad oggi i più gravi biografi del Campanella hanno mostrato di ritenere, che egli avea solamente fatto presagi e raccolto profezie per dimostrare la imminente fine del mondo e il secolo d'oro da doversi godere prima di essa, che della congiura era affatto innocente, che il Papa con la sua condanna in materia di S.to Officio aveva inteso trarlo a Roma per toglierlo dalle mani di Spagna, che Spagna lo teneva violentemente prigione in Napoli non avendo potuto trovare tanto che bastasse a farlo condannare, che era infine stato disperso, celato o bruciato il processo, per impedire che l'innocenza fosse riconosciuta e l'analoga sentenza fosse pronunziata. Le denegazioni del Campanella sempre più spinte nel conoscere che il processo non si trovava più, l'interesse spiegato per lui dal Massimi Nunzio del Papa a Madrid, quindi la sua fuga a Roma non appena uscito dalle mani del Governo Vicereale, la sua prigionia nel carcere del S.{to} Officio in Roma per soli tre anni e non perpetuamente giusta le consuetudini non a tutti note, di poi la benevolenza mostratagli da Urbano VIII senza essersene capiti i veri motivi, tutti questi fatti suggellarono l'opinione che egli era stato davvero innocente, oppresso da Spagna, protetto da Roma; e vi furono allora, come vi sono stati di poi e vi sono ancor oggi, ammiratori del filosofo credutisi in obbligo di purgarlo dalle calunnie sofferte e di cantare le glorie del Papato che spiegò tanto favore verso di lui. Sappiamo che perfino un cronista calabrese contemporaneo, Gio. Angelo Spagnolio la cui conoscenza si deve al Capialbi, mentre avea dapprima, nel 1599, affermata la congiura di Calabria e la parte presavi dal Campanella, si fece poi a revocare almeno quanto concerneva il filosofo nel 1642. Già in Napoli Antonino Marzio fin dal 1626 aveva scritta un'Elegia e un Discorso a proposito della liberazione del Campanella facendone la dedica a Urbano VIII e forse in buona fede, ma alcuni anni più tardi in Roma Gabriele Naudeo scrisse uno sfolgorante Panegirico ad Urbano VIII a proposito de' favori accordati al Campanella, e senza dubbio artificiosamente; poichè in un'altra opera posteriore, destinata a rimaner segreta, egli ingenuamente narrò che a breve intervallo il Postel in Francia e il Campanella in Calabria aveano tentato di fondare un nuovo stato di cose, ma non erano riusciti per non avere avuto forze, «condizione necessaria a tutti coloro i quali vogliono stabilire qualche nuova religione»; ed aggiunse, che «quando il Campanella ebbe il disegno di farsi Re dell'alta Calabria, scelse molto a proposito per compagno della sua impresa un fra Dionisio Ponzio che si era acquistata riputazione del più eloquente e del più persuasivo uomo del suo tempo». Questa testimonianza di un disegno del Campanella di voler fondare una nuova religione e farsi Re in Calabria, con l'indicazione del modo prescelto e del motivo per lo quale non riuscì, da parte del Naudeo stato in intime relazioni col Campanella nell'anno 1631 e seguenti, poi anche le lettere del Campanella pubblicate in piccola parte dal Baldacchini e in più gran parte dal Berti, avrebbero dovuto richiamare le menti a più esatti giudizii, far ricercare con diligenza i documenti dell'accusa e non soltanto quelli della difesa, far guardare un po' più addentro sulla condotta vera del Papato in genere e di Urbano VIII in ispecie verso il Campanella.

Su quest'ultimo punto, ed anzi su tutte le tribolazioni patite dal Campanella dopochè uscì dalle mani degli spagnuoli, nemmeno ci pare che siasi profittato davvero de' documenti del tempo, studiandoli da tutti i lati e con la necessaria equanimità. Si è riconosciuto oramai che il Campanella non finì col godere un tranquillo ed agiato riposo, come del tutto erroneamente era stato ammesso; ma si è posta anche troppo in mostra la sua irrequietezza, la sua imprudenza, la sua testardaggine, senza porre in altrettanta mostra la condotta di coloro che dapprima lo trattarono con benevolenza pel gusto de' dispetti politici e pel desiderio di trarne vantaggiosi consigli, e poi lo abbandonarono, lo sprezzarono, lo lasciarono perseguitare fino alla morte da due ribaldi invidiosi, il P.e Generale dell'Ordine e il Maestro del Sacro Palazzo, d'accordo con un altro ribaldo, il Card.l Nipote, i quali tutti avrebbero voluto vederlo assolutamente annullato. È certo che Papa Urbano, quando gli parve giunto il momento di scovrirsi partigiano di Francia, mostrò benevolenza ed accordò uno stipendio al Campanella, per far dispetto a Spagna ed anche per averne conforti nelle vive apprensioni circa la propria salute, essendo rimasto scosso dalle varie predizioni astrologiche venute fuori contro di lui, e poi dalle sciocche malie che Giacinto Centini con l'assistenza di un frate e di un eremita eseguì per affrettarne la morte: allora egli sentì il bisogno delle conversazioni del Campanella ed anche delle sue contro-predizioni astrologiche, benchè avesse solennemente condannata l'astrologia, onde molto si mormorò in Roma per questo, e il Card.l Nipote vide necessario allontanare un poco il Campanella dal Palazzo Apostolico. È certo inoltre che quando i Card.li di casa Barberini crederono conveniente di non tirarla troppo con la Spagna, la quale anche venne a rilevarsi di molto con la vittoria di Nordlinga, e d'altro lato Papa Urbano giunse a rinfrancarsi intorno alla sua salute mediante gli esorcismi del rinomato frate della Trinità de' monti, e le predizioni astrologiche di un ebreo Abramo che gli assicuravano 24 anni di regno avendo il Sole nella 9.a casa, il Campanella fu abbandonato all'avarizia e alla perfidia del Card.l Nipote, che desiderava risparmiare lo stipendio accordatogli ed era collegato col Generale de' Domenicani, il cui fratello Ludovico già trattava segretamente col Vicerè di Napoli per conto de' Barberini: così, alla richiesta del Vicerè che voleva riavere il Campanella nelle mani, si facilitò l'andata di lui in Francia donde non sarebbe più tornato, invece dell'andata a Venezia dove egli avrebbe voluto recarsi, e mentre il povero esule era ancora in viaggio, il Card.l Nipote commetteva al Mazarini, Nunzio straordinario in Francia, di «screditarlo». È certo ancora che il Re di Francia lo accolse con benevolenza e gli accordò una pensione per far dispetto a Spagna, ed anche per averne consigli politici, come lo affermò un testimone irrecusabile, il Foerstner, che vide più volte il filosofo in colloquio col Re e col Card.l di Richelieu su materie di Stato; ma poi la pensione non fu più pagata, e rimasero i dileggi del Richelieu ed anche del Mazarini, atti solo a provare una volta di più che in essi non c'era alcun senso di onestà e di giustizia. È certo infine che ben presto gli fu intimato da Roma di non stampare alcuna opera senza il permesso romano, il quale non veniva mai, altrimenti lo stipendio gli sarebbe stato tolto, esigendo pure che si fosse «quietato» a vedersi sospeso il publicetur per le opere già approvate e stampate, come l'Ateismo, la Monarchia del Messia, i Discorsi della libertà e felice soggezione etc., e a vedersi sospeso l'imprimatur per altre opere da doversi stampare, come il Reminiscentur, il Cento thomisticus de Praedestinatione etc., con la circostanza aggravante del non vedersi restituiti i manoscritti nè significate le proposizioni censurabili in essi rinvenute. Insomma egli avrebbe dovuto annullarsi, veder soppresse le opere sue benchè non condannate, vedersi trattato peggio del Galilei, il quale assistè all'abbruciamento del suo libro ma dopo che era stato condannato. E il Campanella non vi si piegò, e dategli appena 900 lire-tornesi fino al 15 marzo 1636 lo stipendio gli fu tolto, ed invano il povero vecchio, con una continua serie di lettere, fece conoscere le sue condizioni infelici esclamando, «mi muoio di necessità..; egestate premor..; non mi levate la lemosina che S. B. mi donò perchè la levate a Dio crocifisso..; sono uscito della memoria di V. B. in manera che mi lascia morir di fame e di necessità..; crepo di fame..; sto mendicando». Qual meraviglia se in una persecuzione simile siasi mostrato irrequieto, riottoso, imprudente? Sarebbe tempo oramai di non guardare taluni portamenti del Campanella senza tener conto degli strazii che gli furono inflitti, di non accogliere quasi con compiacenza certi giudizii sul conto di lui emessi perfino da chi non si fece scrupolo di trattarlo in un modo tanto abominevole, di riconoscere che tutta la sua vita fu un martirio continuato, e che ben pochi meritano quanto lui l'ammirazione e la gratitudine dovute a coloro i quali fortemente vollero e grandemente patirono.

FINE.

INDICE DEL VOL. II.

Cap. IV. - Processi di Napoli e pazzia del Campanella.                pag. 1.

A. - Processo della congiura (primi mesi del 1600).                 » ib.

I. Arrivo delle quattro galere co' prigioni in Napoli; per ordine del Vicerè, all'entrare in porto ne sono impiccati quattro alle antenne, ed anche squartati due in mezzo alle galere, il Caccìa e il Vitale, ma dopo di averli fatti soffocare; ultimi atti di costoro (1). Notizie esagerate che ne dava il medesimo Vicerè; sua istanza che il Vescovo di Mileto si rechi a Napoli, e che nella causa dei frati e clerici intervenga un suo ufficiale; fra Cornelio consegna al Nunzio il processo di Calabria (4). Scelta de' componenti il tribunale pe' laici ed istruzioni relative; Marcantonio de Ponte Giudice commissario, D. Giovanni Sances Avvocato fiscale assistito dallo Xarava, Giuliano Canale Mastrodatti; notizie sul De Ponte e sul Sances (5). Difficoltà incontrate dal Nunzio per riconoscere i carcerati ecclesiastici; fra Cornelio, dopo di averne visitato qualcuno, parte per Roma, dove non riesce a sodisfare il S.to Officio che l'interroga; non per tanto Roma accetta che oltre il Nunzio intervenga nella causa degli ecclesiastici un ufficiale Regio (7). Ricognizione de' carcerati ecclesiastici nel Castel nuovo eseguita dall'Auditore del Nunzio; il Castellano D. Alonso de Mendozza; ricognizione del Campanella e socii; si trovano al n.° di 23 i carcerati ecclesiastici detenuti a nome del Nunzio di S. S.ta (11). Trattative per la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici; Roma accorda che uno de' Delegati Apostolici venga nominato dal Vicerè, purchè non sia coniugato, ed abbia o pigli la prima tonsura; il Vicerè nomina D. Diego De Vera, mantenendo il Sances come fiscale anche per gli ecclesiastici; giudizio su tale determinazione di Roma (15). Vita del Campanella nel carcere; il Castel nuovo, i suoi torrioni, le sue carceri, le sue fosse; il Campanella è posto nel 2° piano del torrione detto del Castellano; nel 1°, sotto di lui, trovasi Maurizio; parole tra' carcerati dalle finestre e cartoline scambiate tra loro (20). Il Campanella sollecita il Petrolo e più ancora il Pizzoni perchè si ritrattino; scambia col Pizzoni cartoline in un breviario; inoltre si occupa a scrivere poesie (23).

II. Comincia il processo della congiura o «tentata ribellione» pe' laici, venendo sostituito al Canale per Mastrodatti Marcello Barrese; nuovi e terribili tormenti a Maurizio de Rinaldis che non confessa nulla; se ne conferma la condanna a morte, condanna che fu poi attribuita dal Campanella ad altre cause (26). Si conferma la condanna anche del Pisano già confesso, e si fanno i preparativi per le due esecuzioni; ma il Nunzio interviene e fa sospendere l'esecuzione del Pisano che era clerico; invece Maurizio è condotto al patibolo dirimpetto al torrione in cui stava il Campanella, ma sotto la forca, dietro l'ingiunzione avutane dal confessore, dichiara di voler rivelare ogni cosa a scarico della sua coscienza e ne rimane quindi sospesa l'esecuzione (30). Motivi inaccettabili addotti poi dal Campanella per la spiegazione di tale fatto; sunto delle rivelazioni di Maurizio; dopo di averle fatte ratificare con una nuova tortura si decide di ritardare ancora la morte di Maurizio per farne la confronta col Campanella e co' complici (32). Tormenti a molte altre persone; provvedimenti contro i contumaci; forgiudicazione di parecchi secondo i documenti raccolti (39). Giunge da Roma l'assoluzione della scomunica pel P.pe di Scilla, pel Poerio e per lo Xarava, richiesta dal Vicerè e dagl'interessati; giunge da Calabria il Vescovo di Mileto ed ha un colloquio col Vicerè: giunge infine anche il Breve del Papa circa la costituzione del tribunale per gli ecclesiastici, ed allora il Vicerè, di sorpresa, fa procedere all'esecuzione di Cesare Pisano (42). Ultimi atti del Pisano; sue dichiarazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio e discolpe innanzi ai Bianchi di giustizia; particolari del supplizio e delusione del Nunzio (43).

III. Si costituisce il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; analisi del Breve Papale, risulta che con esso creavasi un tribunale Apostolico (48). Si esamina il Campanella, che nega anche il contenuto della sua Dichiarazione scritta in Calabria; si procede alla confronta di lui con Maurizio e poi col Franza, Cordova, Tirotta, Gagliardo, Conia, fra Silvestro di Lauriana; il fisco chiede che si venga alla tortura, ma il Nunzio esige che se ne chiegga licenza al Papa (50). Si esamina fra Dionisio, che nega; si esamina quindi il Pizzoni, che forse dapprima si ritratta ed è posto in una fossa, ma finisce col confermare quanto ha deposto in Calabria con poche varianti; si esamina quindi il Petrolo, che certamente comincia col ritrattarsi ed è posto nella fossa, e poi non solo conferma ma anche sviluppa i disegni del Campanella; si procede quindi alla confronta tra loro due (53). Il Campanella è posto nella fossa del miglio per una settimana; intanto si fa la confronta di fra Dionisio con Maurizio, si esaminano il Bitonto ed altri, tra' quali fra Scipione Politi (56). Si conduce Maurizio ad esortare fra Pietro di Stilo che confessi e poi si procede all'esecuzione di esso; sue ultime rivelazioni innanzi a' Delegati del S.to Officio; particolari dell'esecuzione; ottima riputazione che lascia di sè; i suoi beni sono distribuiti in tre parti, a' monasteri, alla vedova e alla figliuola (57). Sono esaminati il Flaccavento e il Sanseverino, e inoltre Lauro e Biblia che sono pure confrontati con fra Dionisio; venuta la licenza da Roma si dà al Campanella il tormento del polledro; particolari di questo tormento (61). Nello svestire il Campanella gli sono trovate cartoline scrittegli dal Pizzoni, e una carta scrittagli dal Lauriana; sono consegnate al Sances; non reggendo alla tortura egli confessa aver voluto fare la repubblica, ma sotto certe condizioni (62). Confessione del Campanella in tormento secondo i brani che ne rimangono; complici da lui nominati; commenti; non senza ragione è dichiarato «confesso» (66). Gli si dà la copia degli atti esistenti contro di lui con un termine per le difese, e gli si assegna difensore Gio. Battista de Leonardis avvocato de' poveri; notizie intorno a costui; il Sances fa anche dettare dal Campanella molti articoli profetali sui quali egli si fondava per sostenere l'avvenimento delle mutazioni (71). Si dà lo stesso tormento del polledro a fra Dionisio, che non confessa nulla; si dà la corda aggravata dalle funicelle per due ore al Pizzoni con lo stesso risultamento, ma rimane leso in una spalla (73). Si esamina il Cortese e il Milano: si dà la corda per due ore al Petrolo che nemmeno confessa; si esamina Giulio Contestabile; si dà la corda al Bitonto e poi anche al Contestabile, i quali risultano parimente negativi (ib.). Sono rilasciati dapprima 8 e poi altri 4 tra frati e clerici imputati di minor conto; Giulio Contestabile presenta subito documenti, testimoni e la Difesa scritta da un avvocato proprio; particolari di questa Difesa (74). Difesa del Campanella scritta dal Leonardis; commenti; Allegazione scritta dal Sances in replica; non è nota la Difesa di fra Dionisio (77). L'attività del tribunale si rallenta per l'andata del Vicerè a Roma e poi per le feste di Pasqua; il Sances dimanda che si spediscano le cause del Campanella e di fra Dionisio, ma il Nunzio prevedendo che la fine delle cause sarebbe stata la loro condanna a morte, mentre non ancora si era fatto nulla circa l'eresia, si oppone per attendere gli ordini del Papa; intanto continuano le difese per gli altri frati (80). Durante le feste di Pasqua si manifesta nel Campanella un subitaneo e violento accesso di pazzia; particolarità e motivi del fatto; il Sances, alcuni giorni dopo, fa spiare il Campanella da due scrivani, i quali sorprendono due volte il Campanella in dialoghi notturni con fra Pietro Ponzio; relazione di questi dialoghi (84). Vita intima del Campanella nel carcere fin da principio della sua venuta in Napoli; poesie da lui composte per dare animo agli amici, le quali oggi si pubblicano per la prima volta; rassegna di queste prime poesie, cercando di ognuna la data e rilevandone l'importanza (89). Difese da lui scritte che non giunge in tempo a presentare, «1.a Delineatio» e «2.a Delineatio, Articuli prophetales»; analisi di esse e commenti; inoltre l'«Epistola ad amicum pro apologia» con ogni probabilità diretta a fra Dionisio per giustificarsi; infine la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna, eseguita mentre rimaneva sospesa la spedizione della causa della congiura ed il filosofo continuava a mostrarsi pazzo (97). Premii dati frattanto a Lauro e Biblia; concessioni fatte e posto di Consigliere del Collaterale dato più tardi al P.pe della Roccella; posto di Capitano della cavalleria pesante dato allo Spinelli, avendo per aggiunto e successore il suo nipote Marchese di S. Donato poco dopo nominato Duca; promozione di D. Carlo Ruffo da semplice Barone a Duca di Bagnara; nomina dello Xarava a Consigliere, e pensione accordata a fra Cornelio; la nomina del Leonardis a Consigliere, avuta dopo il passaggio a Fiscale, non reca alcun cenno del servizio prestato nella causa della congiura (113).

Cap. V. - Sèguito de' processi di Napoli e della pazzia

del Campanella                                                        pag.119.

B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602)                  » ib.

I. Viene risoluto da S. S. che il processo dell'eresia si faccia in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal nuovo Vescovo di Termoli, che è il Tragagliolo già Commissario del S.to Officio in Roma; notizie sul Tragagliolo e sul Vicario (119). La parte principale è deferita al Vescovo di Termoli, e il Nunzio spesso manda in voce sua alle sedute il Rev. Antonio Peri fiorentino suo Auditore; Mastrodatti è Gio. Camillo Prezioso, Notaro della Curia Arcivescovile; comincia il processo offensivo coll'esame del Pizzoni, che dichiara di avere avuto minacce dal Campanella, conferma le cose già deposte in Calabria, con varianti di minor conto, e sostiene avere già prima denunziato il Campanella per lettere al P.e Generale, e di persona a fra Marco e fra Cornelio (121). Sono esaminati fra Marco e fra Cornelio che negano quanto ha asserto il Pizzoni; è interrogato per lettere il P.e Generale Beccaria che risponde negando del pari; è esaminato il Petrolo, che conferma le cose già deposte con poche varianti e dichiara di avere anche avute minacce dal Campanella (122). Si esamina il Campanella che sèguita a mostrarsi pazzo ed è rinviato; si esamina fra Pietro di Stilo che attenua le cose già deposte; si esamina il Lauriana che dice occorrergli soltanto di manifestare che ha continue minacce dal Campanella, ed attenua di molto unicamente le cose già deposte contro il Pizzoni, evidentemente per concerti presi tra loro; si esaminano inoltre fra Paolo della Grotteria e il Bitonto che fanno deposizioni negative (123). È presentata una denunzia contro il Campanella da fra Agostino Cavallo circa le sue passate relazioni con l'ebreo Abramo; sono esaminati per questo il denunziante ed anche fra Giuseppe Dattilo (125). Il Vescovo di Termoli privatamente raccoglie informazioni anche presso fra Cornelio, Xarava, Fabio di Lauro, D. Pietro de Vera, e le comunica al Card.l di S.ta Severina; ritiene che al Campanella debba amministrarsi la tortura, ma sa che non la teme; da Roma gli si mandano i sommarii de' processi di Calabria cioè di Monteleone, di Gerace, di Squillace (126). Sono riesaminati fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo e il Lauriana; fra Pietro Ponzio invia al Vescovo una lettera del Lauriana al Pizzoni sorpresa da fra Dionisio; sono esaminati diversi su tale incidente; il Lauriana nega con giuramenti, ma risulta indubitato che egli ed il Pizzoni agivano d'accordo ed in falso (128). Sono riesaminati il Pizzoni, il Lauriana ed il Petrolo, su varie circostanze; il Nunzio, tornando dalla sua Chiesa di Troia, si convince per via della pessima vita de' frati in relazione co' banditi e ne scrive a Roma (130). Sono ancora riesaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni e poi anche il Bitonto; cominciano a rivelarsi i modi iniqui usati da fra Marco e fra Cornelio in Calabria, ma le cose deposte non sono smentite (133). Quattro esami successivi di fra Dionisio, che nega di avere avuto mai scandalo dal Campanella per cose di eresia, parla di dimanda di perdono direttagli dal Lauriana, fornisce ampie spiegazioni e cerca di ribattere tutte le accuse; esame di Giulio Contestabile, che sostiene essergli il Campanella divenuto nemico per aver lui divulgato che era stato già condannato all'abiura (135). Esame di Giulio Soldaniero, fatto venire da terra d'Otranto ove si era ritirato ed era stato carcerato ad istanza del S.to Officio; egli ha già dimenticate troppe cose e si contradice su varie circostanze (138). Avuto l'assenso da Roma si dà un'ora di corda al Campanella che continua a mostrarsi pazzo; poi sono esaminati suo padre Geronimo e suo fratello Gio. Pietro; poi è ricondotto il Campanella innanzi a' Giudici, e mostrasi sempre pazzo (139). Nuovo esame del Soldaniero, cui si fanno notare le contradizioni nelle quali è caduto; esame di Giuseppe Grillo; nuove dimande a fra Dionisio e al Pizzoni circa la loro andata a Soriano (141). Il tribunale emana i decreti occorrenti per passare al processo ripetitivo; ma sono ancora esaminati il priore e il lettore di Soriano come pure Valerio Bruno, ed inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino fatti venire da Calabria per chiarimenti; al tempo stesso in Squillace si compie un supplimento d'informazione commesso dal Vescovo di Termoli (142).

II. Processo ripetitivo; maniera di farlo; il fiscale della Curia Rev.do Andrea Sebastiano dà gli articoli solamente contro i tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio; il Rev.do Attilio Cracco è assegnato quale avvocato di officio; particolari degli articoli del fiscale e degl'interrogatorii presentati dall'avvocato (149). Si comincia dalle ripetizioni contro il Campanella, e sono esaminati il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo; riescono attenuate le deposizioni del Soldaniero, false quelle del Lauriana, sempre gravi quelle del Pizzoni e del Petrolo, più favorevoli quelle di fra Pietro di Stilo; unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti (153). Seguono gli esami ripetitivi contro il Pizzoni; sono esaminati il Soldaniero, il Lauriana, il Bruno e il Petrolo; le accuse riescono attenuate, e rimane il grave sospetto contro di lui principalmente per le troppe rivelazioni fatte e le sue stesse discolpe trovate false (157). Esami ripetitivi contro fra Dionisio; sono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo: anche per lui le accuse riescono attenuate, e sempre son posti in rilievo i modi iniqui di fra Marco e fra Cornelio (159). Perplessità del Vescovo di Termoli, quali si rilevano da una lista di varianti e di contradizioni da lui compilata; sollecitazioni del Governo perchè si possa terminare la causa della congiura; i Giudici per l'eresia deliberano di venire alla spedizione; maniera di procedervi (163). Assegno del termine di 8 giorni per le difese; avvocati Grimaldi e Montella, il quale ultimo è sostituito poi dallo Stinca: Gio. Battista dello Grugno avvocato pel Campanella; notizie intorno a costoro (166). Processo difensivo; esami difensivi per fra Dionisio; alcuni articoli vengono presentati in fretta, acciò siano esaminati sopra di essi alcuni de' carcerati per la congiura che stanno per uscire in libertà; 18 interrogatorii dati dal fiscale: sono così esaminati Geronimo Marra, Francesco Paterno e Minico Mandarino, ma infruttuosamente (168). Articoli completi per fra Dionisio al n.° di 58, con oltre 60 testimoni e varii documenti in suo favore; notizie su' testimoni Spinola, Castiglia, Capece e Giustiniano (170). Sono esaminati dapprima il Castiglia e il Contestabile, poi il Capece, Cesare Forte, lo Spinola, il Giustiniano e il Grillo; ne risulta che il Lauriana era stimato falso testimone, come pure il Bruno, e che il Soldaniero medesimo avea fatto intendere le cose passate tra lui, il priore di Soriano e fra Cornelio (176). Sono ancora esaminati il carceriere Martines, Nardo Rampano, Marcello Salerno, Cesare Bianco, Geronimo Campanella, Gio. Bat. Ricciuto e Tom. Tirotta; di poi fra Paolo, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Bitonto; infine il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco: ne risultano sempre più messe in rilievo le tristi qualità del Lauriana, del Bruno, del Soldaniero ed anche del Pizzoni, oltrechè la malvagità de' primi Inquisitori (179). Contemporaneamente si menavano innanzi gli esami difensivi pel Pizzoni, che avea presentato 34 articoli con molti testimoni scelti senza alcuna avvedutezza: erano esaminati dapprima fra Paolo, il Petrolo, il Lauriana: poi fra Pietro di Stilo, il Bitonto, lo Spinola, il Contestabile, il Castiglia e il Di Francesco; ne risulta il Pizzoni niente affatto difeso, e circa le qualità sue abbastanza aggravato (187). Pel Campanella, avendo il suo procuratore dichiarato non potersi compilare gli articoli difensivi perchè pazzo, ed avendo anzi dimandato un termine per provare detta pazzia, si procede a una informazione, e 10 testimoni, compreso il carceriere, attestano il Campanella esser pazzo; particolari della pazzia(196). Fra Pietro Ponzio comunica le istanze fattegli già dal Lauriana per essere perdonato delle falsità deposte, e consegna anche una lettera analoga scritta dal medesimo a suo fratello Ferrante: perizia calligrafica circa la lettera (201). Il Vescovo di Termoli non nasconde le sue perplessità circa i meriti della causa, fa note a Roma le tante irregolarità commesse e finisce con dichiarare che dovrebbero gl'inquisiti esser tradotti a Roma per potere scoprire la verità; trasmette anche un memoriale analogo di fra Dionisio, mostrandosi animato dalle più caritatevoli intenzioni (202).

III. Morte del Vescovo di Termoli con grave danno de' frati; insistenze continue del Governo perchè la causa dell'eresia abbia termine; è nominato Giudice il Vescovo di Caserta D. Benedetto Mandina; notizie intorno a costui (206). Istruzioni del Card.l di S.ta Severina a nome di S. S.; si prescrivono visite mediche e il tormento della veglia per chiarire la pazzia del Campanella, inoltre nuove diligenze in Squillace; articoli del fiscale ed interrogatorii dell'avvocato per esse: è esaminato Geronimo di Francesco in tal senso (209). Le sedute del tribunale son sospese; fra Pietro Ponzio dimanda inutilmente di essere giudicato o rilasciato: fra Dionisio fa sapere a Roma che fra Cornelio era partito per Madrid; il Nunzio è costretto a confermarlo, dolendosi di lui ma dolendosi anche de' giudizii molto severi che avea sempre manifestato il Vescovo di Termoli contro di lui e contro fra Marco (212). Il Pizzoni, rimasto leso nel braccio dietro la tortura avuta, muore nel carcere; i preparativi per la veglia da darsi al Campanella mettono in agitazione i frati; fra Pietro di Stilo manda a' Giudici alcune carte già dategli dal Campanella, che sono le proprie Difese con gli Articoli profetali scritte per la causa della congiura; fra Dionisio manda una lettera del Petrolo che chiede di essere riesaminato (215). Senza aspettare le fedi de' medici si dà al Campanella il tormento della veglia; notizie intorno a questo tormento; particolari del tormento sofferto per 36 ore; durante l'amministrazione di esso si prescrive a fra Dionisio che consigli il Campanella a rispondere adeguatamente, ma il Campanella persiste a mostrarsi pazzo (217). Conseguenze del tormento sofferto: il chirurgo Scipione Cammardella curante di fra Tommaso (222). Esami di fra Dionisio e poi di fra Pietro di Stilo circa le comunicazioni fatte a' Giudici; fedi de' medici Vecchione e Jasolino, che sebbene perplessi inclinano a ritenere essere la pazzia simulata; esame di un aguzzino che fa conoscere alcune parole dette dal Campanella dopo il tormento; condizione giuridica del Campanella in sèguito di tutte queste prove (225). Nuova sospensione delle sedute del tribunale; accade una rissa tra i Ponzii, il Bitonto e il Petrolo da una parte, e il Soldaniero, il S.ta Croce, il Gagliardo e l'Adimari da un'altra parte, risultando ferito fra Dionisio; dietro denunzia de' laici si procede dagli ufficiali del Castello ad una ricerca di carte, e si trovano scritture di sortilegi presso fra Dionisio, ma non appartenenti a lui, diverse lettere appartenenti a fra Pietro di Stilo, una raccolta di poesie del Campanella presso fra Pietro Ponzio, uno scritto del Campanella che il fratello di lui buttò dalla finestra al momento della venuta degli officiali (230). Le carte sono portate al Vicerè; fra Dionisio, rinchiuso in un torrione al pari di fra Pietro Ponzio, scrive a' Giudici di voler essere esaminato circa le carte trovate nella sua cassa, e prega che si dia agio a fra Pietro di poter presentare capi di accusa contro i feritori; l'Adimari si querela di uno schiaffo avuto da fra Pietro, ed anche il Lauriana reclama di voler essere riesaminato (233). Il Vicerè si ammala e muore; il suo secondogenito D. Francesco de Castro rimane Luogotenente generale: la causa dell'eresia languisce; languiscono anche i frati in desolante miseria, e il Nunzio chiede nuovi sussidii per loro da' conventi di Calabria (235).

IV. Dietro sollecitazioni del Card.l di S.ta Severina si ripigliano le sedute del tribunale; si riesamina fra Dionisio circa le carte trovate nella sua cassa; si fa richiesta delle carte al Governo; fra Pietro Ponzio denunzia i feritori e qualche altro loro compagno in materia di S.° Officio (237). S'inizia un processo secondario specialmente contro il S.ta Croce e il Gagliardo; dall'elenco dei testimoni presentati per questa causa si rileva che parecchi carcerati, tra gli altri il padre e probabilmente anche il fratello del Campanella, erano stati allora rilasciati; cominciano gli esami pel detto processo, ma poi questo è interrotto per dar termine al processo principale (240). S'intima a fra Dionisio un termine perentorio per le difese; così pure agli altri frati i quali vi rinunziano; si abilita il Soldaniero a starsene in una casa in Napoli loco carceris, e i carcerati, frati e laici, dichiarano appartenere a lui le carte trovate nella cassa di fra Dionisio (242). Il Governo manda le carte richieste; rassegna di queste carte; le lettere di fra Pietro di Stilo mostrano in che maniera i frati giudicassero le cose loro; carte di sortilegi e poesie in dialetto calabrese del Gagliardo; come il Teologo qualificatore abbia giudicate le poesie del Campanella; lo scritto buttato dalla finestra del Campanella risulta essere una copia della Filosofia epilogistica su cui l'autore lavorava (243). Dietro ordine del Card.l di S.ta Severina il tribunale si occupa delle carte avute; esami del sergente Alarcon, di fra Pietro di Stilo, di fra Dionisio, del Bitonto; si viene a conoscere che vi sono altre carte trovate presso il Gagliardo fin da che stava nel Castello dell'uovo (250). È esaminato il Gagliardo, e poi fra Pietro Ponzio e il Bitonto, il quale esibisce una nuova carta di sortilegio scritta dal Gagliardo per un Napolella carcerato; il Napolella ed alcuni testimoni sono interrogati per questo, e poi sono esaminati di nuovo fra Pietro Ponzio, fra Pietro di Stilo, il Bitonto e il Napolella medesimo a sua richiesta (254). Continua l'informazione sulle carte avute, con gli esami del S.ta Croce e poi di fra Pietro Ponzio circa la provenienza delle poesie del Campanella trovate presso di lui, inoltre con l'esame anche di fra Paolo della Grotteria; da ultimo sono esaminati il Figueroa e il Navarro circa le carte trovate nel Castello dell'uovo; rassegna di queste carte; un'altra poesia del Gagliardo in dialetto calabrese, due lettere di un capo di fuorusciti, tre prologhi di commedie, molti versi sciolti sempre del Gagliardo (259). Rimangono in causa solamente il S.ta Croce e il Gagliardo, a' quali si fa un processo separato che è commesso al Vicario Arcivescovile; brevi cenni su questo processo: il S.ta Croce finisce per essere abilitato ad uscire dal carcere e se ne parte per la Calabria senza licenza; il Gagliardo è sottoposto a tortura, e finisce egli pure per essere abilitato e partirsene senza licenza, venendo poi, due anni dopo, ripigliato e giustiziato in Napoli per un omicidio commesso in Calabria (269). Circa il processo principale, si provvede alle miserie de' frati col danaro venuto di Calabria, ma se ne dispone di una parte per pagare il Mastrodatti; nel tempo medesimo, facendo cessare le tergiversazioni, s'intima a fra Dionisio un brevissimo termine per le nuove difese (272). Tre nuovi articoli difensivi di fra Dionisio, attestanti le ritrattazioni fatte dal Pizzoni in punto di morte, i replicati desiderii di ritrattarsi mostrati dal Petrolo, l'aver fatto il Soldaniero porre scritti proibiti nella sua cassa per rovinarlo definitivamente; varii testimoni esaminati sopra di ciò, e notizie sopra di loro; gli esami non riescono vantaggiosi a fra Dionisio; in ispecie il Petrolo dichiara di aver detto volersi ritrattare per sottrarsi alla persecuzione de' frati, ma non aver nulla a ritrattare (275). Nuovi ritardi del tribunale per la stagione estiva, con raddoppiate lagnanze del Governo Vicereale; Valerio Bruno è abilitato a stare fuori carcere per essere poi nuovamente interrogato e quindi spedito; fra Pietro Ponzio fa nuove istanze perchè la sua causa sia spedita, ma inutilmente (281).

V. Opere composte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo: dopo gli Articoli profetali, composizione o meglio ricomposizione della Monarchia di Spagna; fasi e successo di questo libro (283). Al tempo medesimo Poesie; esse rivelano la vita intima del Campanella, e conviene ricercare la data almeno delle principali: sonetti profetali, ed anche al P.pe di Bisignano, all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma; commenti (285). Altri sonetti sul monte di Stilo e su temi religiosi; altre poesie indirizzate a persone dimoranti nel Castello ed anche fuori, come lo Spinola e il Castiglia carcerati, il Sig.r Troiano Magnati, D.a Ippolita Cavaniglia, la Sig.ra Olimpia, D.a Anna; notizie circa queste persone (288). Sonetti al Sig.r Francesco Gentile, alla Sig.ra Maria, alla Sig.ra Giulia, a Flerida, a Dianora; sonetti composti dopo il tormento della veglia, specialmente quelli al Sig.r Petrillo; commenti (293). Ritorno alle opere filosofiche; compimento della Filosofia epilogistica o Epilogo magno, con l'aggiunta degli Aforismi politici e dell'Economica, istaurata anche l'Etica; poco dopo, al cominciare del 1602, composizione della Città del Sole, quindi composizione della Metafisica, con altre poesie di tempo in tempo (297).

Cap. VI. - Esiti de' due processi, fine della pazzia e conchiusione (dal 7bre 1602 al 9bre 1604 e seg.ti).                                        pag. 306.

I. Giusta gli ordini avuti, il tribunale per l'eresia procede finalmente alla discussione de' meriti della causa e alla votazione; Sommarii del Processo e Riassunti degl'indizii co' voti de' Giudici per fra Pietro Ponzio, fra Paolo, il Bitonto, fra Pietro di Stilo, il Petrolo e il Lauriana: lo stesso per fra Dionisio un po' più tardi; commenti (ib.). Fuga di fra Dionisio e del Bitonto dal Castello insieme col carceriere; ordini da Roma e poi da Madrid perchè i fuggiaschi siano ripigliati; inchiesta ordinata dal Governo, e singolare profferta dello Xarava per tale inchiesta; ma il tribunale non avea mancato di decretare provvedimenti (314). Viene da Roma la risoluzione presa dalla Sacra Congregazione al cospetto di S. S. nella causa di eresia del Campanella e socii; il Campanella è condannato al carcere perpetuo ed irremissibile nel S.to Officio di Roma; altri frati sono condannati all'abiura dopo un tormento; per fra Paolo è ordinato il rilascio con penitenze salutari; per fra Pietro Ponzio il rilascio senza condizioni; commenti in particolare sulla condanna riportata dal Campanella (316). Il tribunale spedisce la causa secondo la risoluzione venuta da Roma; la sentenza è partecipata al Campanella; sono tormentati e fatti abiurare fra Pietro di Stilo, il Lauriana e il Petrolo (320). Non potendo dare fideiussione, i frati si obbligano invece a tre anni di galera e così possono andar via rimanendo in carcere il Campanella; poco dopo anche Valerio Bruno, e più tardi il Soldaniero, carcerato di nuovo in Calabria, sono rilasciati con fideiussione eleggendo il loro domicilio in casa di Carlo Spinelli; in tal modo finisce il lungo processo di eresia (325).

II. Il tribunale della congiura pe' laici è tenuto sempre aperto, anche dopo finita la causa di eresia; primo gruppo di carcerati abilitati a tornare in Calabria si conosce essere stato quello de' carcerati di Catanzaro; secondo gruppo quello de' già carcerati in Gerace col Pisano, dietro torture anche atroci; con esso fu abilitato egualmente il padre del Campanella e con ogni probabilità anche il fratello, ma restarono in carcere il S.ta Croce e il Gagliardo per conto del S.to Officio (327). Intorno a' forgiudicati, si hanno notizie del Baldaia, del Dolce, del D'Alessandria, del Tranfo; pel solo Del Dolce, catturato insieme con Desiderio Lucano suo ricettatore, si conosce che fu condannato a parecchi anni di carcere e trovavasi ancora carcerato il 1610; notizie circa gli altri anzidetti e circa diversi già rilasciati che ripigliarono la mala vita (328). Quanto al tribunale della congiura per gli ecclesiastici, dopo la liberazione di molti e lo svolgimento delle cause degli altri lasciandone sospesa la spedizione, finisce per condannare Giulio Contestabile a 5 anni di esilio, e poi tratta la causa del Pittella nuovamente carcerato; particolari di questa causa, difesa del Leonardis, condanna egualmente a 5 anni di esilio (333). La spedizione della causa degli altri frati è impedita definitivamente dal matrimonio di D. Pietro De Vera con la sorella del Duca di S. Donato; opposizioni del Nunzio, tergiversazioni del De Vera; giunge intanto la nuova che fra Dionisio, capitato a Costantinopoli in casa del Cicala e fattosi maomettano, erasi imbarcato sull'armata turca che veniva verso il Regno; ciarle di fra Dionisio in Costantinopoli nocive al Campanella; fatti dell'armata turca dal 1600 in poi, e sua rinunzia ad ogni impresa nell'anno in corso pel cattivo stato delle navi (336). S. S. ordina che il Nunzio dia termine per sè solo alla causa, rimanendo il De Vera qual semplice assistente; impossibilità di tale pretensione; il Nunzio si sforza di farla accettare, il Vicerè finge, il De Vera temporeggia; s'intima a' frati un ultimo termine per le difese, ma il Campanella era stato già da un pezzo separato dagli altri frati e posto nel torrione (341). Fatti del Campanella dopo la sua condanna per l'eresia; visita avuta dal Marchese di Lavello cui consegna la sua Metafisica; relazioni acquistate col Conte Giovanni di Nassau, Cristoforo Pflugh e Geronimo Toucher venuti prigioni nelle carceri del Castello; lo Pflugh, o Flugio, è da lui convertito al Cattolicismo, gli rimane amico, e più tardi poi gli procura il patrocinio de' Fuggers e di Gaspare Scioppio (346). Posto, dopo 6 mesi, nel torrione, il Campanella si occupa a scrivere l'Astronomia, e più tardi De' Sintomi della futura morte del mondo per fuoco; testimonianze che lo provano; suoi importanti colloquii col Gagliardo in questo tempo, credenze che gli svolge ed orazioni che gl'insegna con riscontro delle cose scritte nella Città del Sole; altre testimonianze; scene di evocazione di spiriti (348). Essendosi poi scoperto un disegno di evasione, è trasportato nel Castel S. Elmo; indagini su questo disegno di evasione; il Marchese di Lavello è carcerato probabilmente per esso (354). Il Nunzio e il De Vera vanno in Castello per la spedizione della causa, e si trovano d'accordo nel condannare il Petrolo a tre anni di galera, e rilasciare fra Pietro, fra Paolo e il Lauriana con l'esilio dalla Calabria per un tempo a beneplacito di S. S.; ma il De Vera vuol continuare a figurare come giudice, il Vicerè interpellato s'infinge, Roma insiste, il Campanella rimane dimenticato in S. Elmo; il Vicerè fa poi sapere che nominerà un'altra persona invece del De Vera, ed essa fu il Ruiz de Baldevieto che approvato da un altro Breve ebbe a sottoscrivere la sentenza; ma pel Campanella dice doversene pel momento sospendere la spedizione (358). Gli amici, parenti e discepoli del Campanella presentano un memoriale al Nunzio per lui; indagini su questo documento oggi perduto; affermazioni equivoche del Campanella circa questo periodo importante della sua vita; durissimi trattamenti sofferti in S. Elmo (361).

III. Fine palese della pazzia del Campanella in S. Elmo; dopo 5 mesi egli manda a far proposte al Vicerè, dicendo aver concetti tali da dare vantaggi mirabili al Regno ed al Re, ma non trova ascolto; dopo altri 6 mesi manda a dire al Nunzio e al nuovo Vescovo di Caserta di volersi confessare, ed espone loro studii fatti, visioni avute, concetti capaci di difendere il Cristianesimo in tutto il mondo, facoltà di far miracoli etc.; quanto a' concetti, egli si riferiva ad opere che diceva dover comporre e forse stava già componendo a fine di uscire dalla sua trista posizione (365). Rassegna di queste opere; lasciando imperfetta l'Astronomia, e continuando a comporre di tempo in tempo poesie come il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole orazione profetale e poi le Canzoni in dispregio della morte, egli ricompone l'opera del Senso delle cose; poi compone gli opuscoli Del Governo del Regno e la Consultazione per aumentare le entrate del Regno, in tre discorsi, de' quali si dànno gli ultimi due finora inediti (367). In sèguito, rivolgendosi a Roma, compone la Monarchia del Messia, aggiuntovi un capitolo Dei dritti del Re di Spagna sul nuovo mondo, inoltre la Ricognizione della vera religione, detta più tardi Ateismo debellato; considerazioni su queste opere e specialmente sull'ultima; composizione di un altro opuscolo e poi ricomposizione ampliata degli Articoli profetali; ancora gli Antiveneti, e poi i Discorsi a' Principi d'Italia del pari ampliati, tutte opere di occasione; infine parecchi opuscoli specialmente a richiesta di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre da lui conosciuti in tal tempo (373). Racconto particolareggiato delle mosse del Campanella presso il Vicerè, poi presso il Nunzio e il Vescovo di Caserta, poi ancora presso il Papa; sue promesse mirabili ed esito delle proposte fatte con le Consultazioni; discorso fatto al Nunzio e al Vescovo di Caserta in S. Elmo, promesse sue anche in tale circostanza; non gli si crede e dopo altri 10 mesi scrive lettere al Papa Paolo V, a modo di appello, con affermazioni di comparsa del diavolo e rivelazioni avutene circa Venezia e l'avvenire del Papato (378). Commenti su quest'ultima mossa del Campanella, e principalmente sulla comparsa del diavolo che si rannoda alle evocazioni di spiriti fatte dal Gagliardo; essa è una delle parecchie sue finzioni, e fra le altre quella della pazzia sofferta, a proposito della quale non mancò poi di dichiarare che egli ammetteva il mendacio quando trattavasi di un alto fine; onde malamente la sua riputazione è stata bistrattata da coloro i quali non hanno voluto darsi la pena di studiarlo bene (384).

IV. Sèguito de' tentativi del Campanella per uscire dalla fossa di S. Elmo;, scrive anche a' Card.li D'Ascoli, Farnese e S. Giorgio, e manda l'elenco delle promesse fatte e de' libri composti; poco dopo acquista la protezione de' Fuggers, e con essa quella di Gaspare Scioppio e Gio. Fabre, mediante Cristoforo Pflugh; notizie intorno a costoro (392). Lettere tra lo Scioppio e il Campanella; venuta dello Scioppio a Napoli per favorirlo, certamente non per missione del Papa come si disse di poi; richiesta da lui fatta di tutte le opere del Campanella; costui scrive un'altra lettera al Papa, a guisa di un 2.° appello, poco dopo scrive una lettera latina al Papa ed a' Cardinali da doversi presentare dallo Scioppio, il quale non la presenta perchè vi si dicea di voler fare miracoli (395). Venuta anche del Fabre a Napoli; parecchi quesiti sono diretti da lui e dallo Scioppio al Campanella, e danno occasione a parecchi opuscoli epistolari; finita la trascrizione delle opere, il Campanella ne fa l'invio con una lettera premessa all'Ateismo debellato, ma non manda gli Articoli profetali maggiormente desiderati dallo Scioppio (398). Commendatizie procurate dallo Scioppio al Campanella, ma non presso il Papa; lettera del Campanella a Monsig.r Querengo in tale occasione; lettere a Cristoforo Pflugh e poi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di Austria, da doversi presentare dallo Scioppio facendo anche vedere le sue opere, ad occasione della andata di lui in Germania qual Consigliere di casa d'Austria presso la Dieta di Ratisbona; in queste lettere ai Sovrani il Campanella, narrando i suoi guai a modo suo, chiede di essere ascoltato (401). Partenza dello Scioppio per la Germania con fermata a Venezia, dove consegna le opere del Campanella al Ciotti perchè le stampi e costui non se ne cura; è poi imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare, venendo sequestrata dal Consiglio de' Dieci l'opera degli Antiveneti del Campanella; invio di Daniele Stefano in Napoli da parte di Giorgio Fugger per fare evadere il Campanella a qualunque spesa; nocumento di questi tentativi preveduto dallo Scioppio (403). In Germania lo Scioppio presenta la lettera del Campanella all'Imperatore, che trova mal prevenuto; manda la lettera al Re di Spagna e confida meglio nell'Arciduca Ferdinando, ma si duole de' sospetti continui del Campanella, il quale a sua volta si duole di non vedere le sue opere nè stampate nè presentate (405). Ferdinando scrive più volte a favore del Campanella dimandandone perfino la liberazione; in fondo egli, come il Fugger, riponeva grandi speranze nella dottrina e nel fervore del filosofo per propugnare in Germania la causa Cattolica contro gli eretici, oltrechè ne attendeva ottimi consigli nelle cose di Stato; ma alla fine, abbandonando la persona del filosofo, chiede al Vicerè che gli faccia compiere i libri della Matematica, de' Profetali e della Metafisica, gli faccia dire anche qualche segreto che ha in favore di Spagna ed Austria, e mandi a Grätz libri e segreti (407). Si raffredda il favore di Giorgio Fugger pel Campanella, dopo di aver conosciute le cause vere della prigionia sua, e i garbugli da lui messi innanzi per acquistare la libertà; lo Scioppio e il Fabre finiscono per dileggiarlo, dopo di averne espilate le opere; deve poi dirsi smentito che la Curia Romana abbia partecipato a' tentativi di liberazione, i quali non potevano neanche esser visti da essa di buon occhio (412). Malgrado l'abbandono da parte de' suoi protettori, il Campanella continuò sempre a mostrarsi grato verso di loro; sua inerzia di qualche anno durante gli ultimi tentativi infruttuosi di liberazione; pochi opuscoli scritti in tal tempo e diverse poesie di dolore e di sdegno, di alcune delle quali è possibile determinare la data; importanza delle sue Poesie in complesso e delle note aggiuntevi in sèguito, rivelatrici de' casi del filosofo da lui ingarbugliati per necessità in altre sue opere; ricerca della data in cui uscì dalla fossa rimanendo in S. Elmo, per poi passare al Castel nuovo e quindi al Castello dell'uovo; interpetrazione del suo rassomigliarsi a Prometeo nel Caucaso (415). Si discute perchè il Governo Vicereale abbia voluto comportarsi così brutalmente col Campanella, e la Curia Romana non si sia curata di esigere il rispetto dell'immunità ecclesiastica in persona di lui; ragioni abbastanza chiare che spiegano questi fatti; lo Stato e la Chiesa contribuirono egualmente al martirio del Campanella risparmiandone la vita (420). Due tribunali in regola, entrambi istituiti da Roma, aveano trovato il Campanella colpevole verso lo Stato e verso la Chiesa; le denegazioni posteriori sorsero abbastanza tardi dietro un sentimento di pietà e varii apprezzamenti inesatti; la benevolenza di Urbano VIII cominciò sol quando costui piegò verso Francia e volle far dispetto agli spagnuoli, oltrechè ebbe bisogno de' consigli e conforti del Campanella per la sua salute, ma cessate o modificate tali condizioni il Campanella fu abbandonato alla persecuzione de' suoi rivali e alla più desolante miseria in terra straniera; così ben pochi meritano quanto lui la nostra ammirazione e gratitudine (426).

ERRATA.

pag. 264; vers. 9: fior ridarà eterno - leg. hor ridarà eterno

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