CAP. V. Sèguito de' processi di Napoli e della pazzia del Campanella.

B. - Processo dell'eresia (maggio 1600 a settembre 1602).

I. Rammentiamo innanzi tutto, circa l'eresia, che dapprima il Papa avea manifestato di volere a Roma gl'incriminati o sospetti in tale materia finita la causa della congiura (4 10bre 1599); ma in sèguito, vista senza dubbio l'impossibilità della cosa, giacchè il Governo Vicereale non si sarebbe lasciato trarre di mano i frati che il processo della congiura mostrava colpevoli, avea spedito ordine mediante il Card.l di S.ta Severina che se ne occupasse il Nunzio, con ogni probabilità perchè il Vescovo di Caserta Ministro della S.ta Inquisizione Romana nel Regno trovavasi assente, in compagnia del Vicario Arcivescovile della Curia napoletana, il quale presedeva il tribunale diocesano di S.to Officio (4 febbraio 1600); il Nunzio poi, che molto volentieri ne avrebbe fatto di meno, vista la profonda dottrina del Campanella, il quale sviluppava tante profezie e produceva tante citazioni in suo favore, scrisse subito al Card.l S. Giorgio, ed anche al Card.l di S.ta Severina, che «se pur tal negotio dovea spedirsi qua» in Napoli, reputava necessario l'intervento di qualche persona pratica e buon Teologo (11 febbraio). Così scorse ancora un certo tempo, sino a che non fu disponibile l'uomo capace di stare a fronte del Campanella secondo le preoccupazioni del Nunzio, e solo verso la fine di aprile si potè costituire il tribunale per l'eresia, associando a' due Giudici prima designati il Vescovo di Termoli. Era costui quel fra Alberto Tragagliolo da Firenzuola Domenicano, che abbiamo già visto Commissario generale del S.to Officio sin dall'ottobre 1592 e durante i processi avuti in Roma dal Campanella nel 1594-1595, divenuto molto benevolo verso il filosofo in tale occasione e senza dubbio assai competente ed opportuno nel caso attuale. Malamente designato dal Fontana col nome di «frater Albertus Tragnolus» e poi anche con quello di fra Alberto Drago, così ritenuto dall'Ughelli e dopo di lui anche da Quétif ed Echard, malamente creduto Firenzuola e non Tragagliolo dal Capialbi, egli cognominavasi Tragagliolo ed era nativo di Firenzuola nel Piacentino: avea già funzionato da Commissario del S.to Officio in Faenza, in Genova, in Milano, quando venne chiamato Commissario generale in Roma da Clemente VIII; poi dietro la morte di Mons.r Francesco Scoto fu promosso al Vescovato di Termoli, secondo il Fontana e l'Ughelli il 29 novembre 1599, ma certamente provvisto di exequatur soltanto all'ultimo di febbraio 1600, con esecutoria in data degli 8 marzo, come risulta dalle scritture esistenti nell'Archivio di Napoli. Può dirsi con sicurezza che si pensò a lui per la causa del Campanella più che all'ultima ora, essendogli stata mandata a Napoli la nomina di Commissario della causa dopo la sua partenza da Roma; ond'egli assai probabilmente non giunse nemmeno a vedere la sua Chiesa, obbligato ad un lavoro assiduo pel processo di cui andiamo ad occuparci, fino al tempo della sua morte, che avvenne disgraziatamente otto mesi dopo, succedendogli nel carico di giudice D. Benedetto Mandina Vescovo di Caserta. Quanto al Vicario Arcivescovile, abbiamo già avuta occasione di rilevare che teneva detto officio il Rev.do Ercole Vaccari (ved. pag. 44): qui dobbiamo aggiungere che per le molteplici e gravi faccende della Curia Arcivescovile erano allora i carichi distribuiti a più persone in qualità di Vicarii, e nelle scritture del tempo, oltre il Vaccari, designato «Vicarius generalis capitularis et locumtenens in spiritualibus», troviamo il Rev.do Curzio Palumbo, designato «Vicarius generalis Monialium et locumtenens in civilibus»; e vedremo nel processo figurare da giudice o «congiudice» prima il Vaccari con la qualità di Delegato, poi il Palumbo con la qualità di subdelegato, poi ancora il Rev.do Alessandro Graziano successo al Vaccari dopo la morte dell'Arcivescovo Card.l Gesualdo.

Il 18 aprile 1600, alle istanze del Nunzio, il quale in data del 14 aveva ancora mostrato di non sapere dove S. S. volea che si trattassero le materie appartenenti al S.to Officio, il Card.l di S.ta Severina rispondeva, avere S. S. «per satisfare a cotesti Signori et Ministri Regii» risoluto che la causa spettante al S.to Officio si trattasse in Napoli dal Nunzio, dal Vicario Arcivescovile e dal Vescovo di Termoli, il quale da tre giorni era partito per Napoli, onde egli dirigeva al Nunzio medesimo la lettera scritta per lui; e soggiungeva essere intenzione di S. S., che procurassero di terminar presto la causa, ma ne inviassero a Roma un breve Sommario, coll'avviso su' meriti del processo, e col parer loro intorno alla spedizione, prima di dare la sentenza. Analogamente egli scriveva pure al Vescovo di Termoli ed al Vicario Arcivescovile, aggiungendo al Vescovo, che per essere persona «molto ben pratica, et anco informata delle altre cause conosciute in questa santa Inquisitione contra il Campanella, ove abiurò come sospetto vehementemente di heresia l'anno 1591», non gli diceva altro, bensì offriva di mandargliene le scritture se lo reputasse necessario: dalle quali parole risultano chiariti assai bene gli antecedenti così del Vescovo di Termoli come del Campanella, e chiarita la posizione giuridica in cui il Campanella veniva a trovarsi, cioè la posizione di relapso, qualora le nuove accuse di eresia fossero state provate. Siffatte lettere leggonsi nel processo di Napoli, 2° volume dell'intero processo, costituendone i primi atti. Sappiamo poi dal Carteggio del Nunzio che egli vide il Vescovo di Termoli il 5 maggio, e in tale data gli consegnò ad un tempo la lettera del Card.l di S.ta Severina e il processo di Calabria portato da fra Cornelio fin dal novembre e giacente presso di lui. Così al Vescovo di Termoli veniva in realtà «deferita ogni cosa», come il Nunzio ebbe a dire più tardi, ed egli, presa stanza nel convento di S. Luigi dell'ordine de' Minimi di S. Francesco di Paola, posto presso Palazzo Reale, si diede con molta alacrità a compiere il suo mandato. Gli altri colleghi si occuparono della causa piuttosto con la semplice loro presenza, ed il Nunzio, benchè figurasse come il principale tra' Giudici, nemmeno della presenza sua onorò largamente il tribunale; egli aveva pur allora ottenuto dal Papa di passare la Pasqua rosata nella sua Chiesa di Troia, ove non apparisce che si fosse mai recato fino a quel momento, e nel dichiararsi pronto a trattare la causa, riservavasi di voler andare a Troia per la Pasqua, la quale si celebrava il 22 del mese, come ci mostrano diverse scritture del 1600.

Il 10 maggio, in una camera del Castel nuovo, si diè principio agli esami, continuandoli poscia il 15, il 17, il 19, il 26, il 28; ma fin dalla 3a seduta, in sostituzione del Nunzio assente intervenne l'Auditore di lui, il Rev.do Antonio Peri fiorentino: come Notaro e Mastrodatti, servì sempre, dal principio alla fine della causa, Gio. Camillo Prezioso, uno de' vecchi Notari della Curia Arcivescovile, che figura nella più gran parte de' processi del tribunale diocesano della fine del 1599 e principio del 1600. Fu esaminato dapprima il Pizzoni. Confermando in termini generali quanto avea deposto innanzi al Visitatore in Calabria, egli aggiunse che era stato più volte da parte del Campanella minacciato di farlo trovare in maggiore intrigo se non si ritrattasse specialmente sulle materie di S.to Officio, una 1a volta in Gerace mediante fra Pietro Ponzio che avea ricevuta per questo una cartolina da fra Tommaso, una 2a volta alla presenza di fra Paolo della Grotteria in Bivona, quando erano per imbarcarsi, mediante un soldato del capitano Figueroa, una 3a volta in Napoli mediante lo stesso fra Pietro Ponzio, che avea ricevuto per questo nuove lettere da fra Tommaso. Aggiunse pure che nell'udire la lettura del suo esame in Napoli (certamente a proposito della congiura), si era avveduto trovarvisi detti complici quelli che egli aveva indicati come familiari del Campanella, verosimilmente consapevoli delle opinioni eretiche di lui, e ripetè che costoro erano fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Paolo della Grotteria, il Bitonto, il Jatrinoli. Ripetè l'occasione con la quale nel luglio scorso il Campanella aveagli parlato delle sue eresie, e come fra Dionisio, due giorni prima, gli aveva esternato le medesime eresie dicendogli di tenerle per vere. Aggiunse infine, che aveva rimproverato e cacciato il Campanella da Pizzoni, aveva informato di ogni cosa per lettera del 1° agosto il Generale in Roma, ne aveva anche informato di persona il Visitatore in Soriano il 28 agosto. Tale fu la deposizione del Pizzoni, che egli non potè sottoscrivere e dovè soltanto crocesegnare, trovandosi col braccio offeso dalla tortura avuta nell'altro tribunale. Persistente nelle accuse contro il Campanella, aggravandone la responsabilità col fatto delle minacce, egli cercò di scusare sè medesimo con la cacciata del Campanella da Pizzoni e con gli avvisi datine a' superiori. - Vollero allora i Giudici udire su tale asserzione il Visitatore ed anche fra Cornelio, il quale era già tornato da Roma a Napoli in quel tempo (circostanza probabilmente ignorata dal Pizzoni). Entrambi, l'un dopo l'altro, nella 2a seduta del tribunale, il 15 maggio, ricordando qualche faccenda trattata col Pizzoni in Soriano, negarono di aver avuta quivi da lui alcuna notizia delle cose del Campanella. Aggiungiamo che poco dopo il Vescovo di Termoli dovè pure interrogare per lettera il P.e Generale Beccaria, poichè se ne trova nel processo la risposta in data del 12 giugno dal convento di S. Tommaso, vale a dire da Napoli, dove a que' giorni era venuto pel Capitolo generale che vi si tenne, e dove qualche mese dopo, il 3 agosto, morì col compianto de' cittadini e in voce di santità e di miracoli. Non contento delle reminiscenze proprie, il P.e Generale volle consultare anche quelle del suo P.e compagno, e venne a dichiarare che non si era mai avuta dal Pizzoni lettera alcuna contenente l'avviso asserto. E per verità così il Visitatore come il Generale, al menomo avviso, non avrebbero potuto mancare di provvedere immediatamente contro il Campanella e fra Dionisio; e già riesce manifesta la pessima via in cui il Pizzoni si era posto e si manteneva. - Frattanto, nella stessa seduta, fu esaminato pure il Petrolo. Costui volle che gli si rileggesse la deposizione fatta in Calabria, e trovò solamente a ridire che non avea deposto con quelle precise parole che erano state scritte. Ripetè ad una ad una le eresie udite dal Campanella, quasi tutte quelle deposte in Calabria, dicendo di averle udite nel passeggiare con lui a' Lanzari presso Stilo, nel mese di maggio, e ripetendo i nomi de' frati e secolari co' quali il Campanella dava segni d'indevozione e parlava delle sue opinioni, ma non tanto apertamente, sicchè a lui non constava che fossero veramente complici; ripeteva pertanto di aver saputo da fra Pietro di Stilo che il Lauriana gli aveva dette certe parole pronunziate da fra Dionisio in dispregio dell'eucaristia. Inoltre si dichiarò egualmente minacciato dal Campanella perchè si ritrattasse, una 1a volta per via dal Campanella in persona che gli disse «per Deum oportet te retractare alioquin agam ut mecum moriaris», una 2a volta in Monteleone per mezzo di Cesare Pisano, una 3a volta in Napoli parimente dal Campanella in persona dalla finestra della carcere. Come ben si vede, anche costui non faceva che aggravare la posizione del Campanella cercando di salvare la propria, e quanto alle minacce avute, noi ci siamo già manifestati nel senso che poterono esservi, dovendo il Campanella sentirsi esasperato contro questi suoi scempiati compagni, i quali avevano dapprima udito benevolmente le sue opinioni, si erano anche impegnati a propagarle, e poi le avevano manifestate a' Giudici rigettandone sopra di lui tutta la responsabilità.

Il 17 maggio, 3a seduta del tribunale, in cui cominciò ad intervenire l'Auditore Antonio Peri invece del Nunzio, si procedè all'esame del Campanella; ma egli, già mostratosi pazzo innanzi che si desse principio alla causa, continuò a mostrarsi tale. Gli si deferì il solito giuramento, ed egli non diè segno di capire; gli si disse di lasciare le finzioni, poichè altrimenti, per avere la risposta precisa, si sarebbe ricorso a' rimedi opportuni, vale a dire alla tortura, e gli si offerse il Diurno, sul quale avrebbe dovuto giurare toccandolo, ma egli rispose «voletemelo legere» continuando a mostrare di non capire; allora fu rimandato alla sua carcere. E si passò a fra Pietro di Stilo, il quale, con fina ironia, disse che non avrebbe voluto mancare di dire la verità per uomini quali il Campanella e fra Dionisio, mentre dal volgo erano allora chiamati inimici di Dio e del Re; negò di aver mai parlato con alcuno delle opinioni del Campanella, e solo ammise di averlo lodato come sapiente quale era stimato da tutti, affermando che un gran numero di persone di ogni ceto accorreva a vederlo, e ripetendo i nomi de' più particolari amici di lui, il Vua, Marcantonio Contestabile e il Prestinace (tutti già posti in salvo), il Caccìa «quale fu squartato dalle galere, et Giulio Contestabile quale veneva più presto per il fratello che per il Campanella» (non più dichiarato intimo amico costui, ora che si trovava in pericolo ed erano già sbolliti i primi rancori). E noverò tra loro anche il Soldaniero, cui egli avea portata una lettera del Campanella, continuando a negare di aver mai saputo ciò che quella lettera contenesse, negando anche di aver saputo mai che fra Dionisio fosse stato in relazione col Soldaniero. Egualmente negò di aver mai persuaso o tentato di persuadere alcuno (cioè il Soldaniero) che non rivelasse le opinioni eretiche di fra Dionisio, che volesse credere alle opinioni di costui, e che andasse dal Campanella. Quanto poi alle opinioni eretiche del Campanella, disse di aver solamente saputo da alcuni birri i quali accompagnavano i prigioni, che il Campanella diceva di esser profeta e negava l'inferno e il paradiso, ma direttamente egli avea da lui udito soltanto che vi era poca differenza tra' peccati di lussuria ritenuti assai diversamente gravi (attenuazione notevole). Sempre dietro dimande, ripetè che il Campanella gli avea due volte detto di dover essere monarca, come gli era stato vaticinato pure da un astrologo; e in quanto a sè, ripetè di aver detto per burla voler prendere moglie, e di non aver mai sognato che avesse a predicare contro la fede. Così, evidentemente, fra Pietro continuava a non negare ciò che riusciva impossibile negare, e difendendo sè stesso si sforzava di difendere in pari tempo il Campanella, attenuando perfino le cose altre volte da lui medesimo deposte. - Si venne allora all'esame anche di fra Silvestro di Lauriana, di fra Paolo della Grotteria, di fra Giuseppe Bitonto. Il Lauriana disse non aver altro a dire se non che pativa continue minacce da parte del Campanella ed egualmente di fra Dionisio perchè si ritrattasse, rivelando che costoro continuamente si scrivevano cartoline, e che qualora si facesse ricerca sulle persone di fra Pietro e di Ferrante Ponzio, forse si troverebbe qualche cosa; onde i Giudici fecero fare immediatamente questa ricerca sulla persona di fra Pietro che era in Castel nuovo, mentre Ferrante era in Castello dell'uovo, ma non si trovò nulla. Inoltre, dietro interrogazioni, il Lauriana affermò di essere andato col Pizzoni presso il Visitatore, per denunciare i fatti del Campanella, dopochè il Campanella era stato nel loro convento; e disse di non sapere propriamente che persona fosse il Pizzoni, non avendolo avuto in pratica, ed attenuò di molto ciò che altra volta avea dichiarato a carico di lui, dicendo che mentre leggevano insieme un libro del Campanella, il Pizzoni, da lui interrogato, avea risposto che alcune cose del Campanella gli piacevano ed altre no (scuse sicuramente concertate tra loro). Fra Paolo poi disse non occorrergli dire altro, e negò di aver mai saputo tentativi di qualche carcerato verso altri carcerati perchè revocassero le deposizioni fatte; negò di aver mai trattato cosa alcuna col Campanella; affermò che quel libretto di cose superstiziose, trovato sulla sua persona, era stato in suo potere due giorni soli, e spiegò che avea avuta la condanna alla galera per aver minacciato il P.e Provinciale Pietro Ponzio, il quale fu poi ucciso mentre egli già trovavasi alla catena. Finalmente il Bitonto disse che avea bensì visitato due volte il Campanella, di cui era familiare, ma senza avere avuto nemmeno agio di trattenersi con lui; nominò quelli che aveano in sua compagnia visitato il Campanella, e li dichiarò tutti uomini dabbene, all'infuori del Pisano, che era tristo e volle accompagnarlo senza potersene liberare, ed abitò con lui otto giorni (contraddicendo con ciò la sua prima deposizione); disse pure non aver mai udito eresie da alcuno, ma solo nelle carceri avere udito dal Pizzoni e dal Lauriana che il Campanella e fra Dionisio aveano sparse eresie, e fattagli l'osservazione che sapevasi nel tribunale aver lui applaudito a certi discorsi eretici e segnatamente alla proposizione che la Messa si celebrava per bere ancora una volta, egli rispose di non saperne nulla.

Dobbiamo qui aggiungere che nella stessa data del 17 maggio venne presentata al Vescovo di Termoli una denunzia contro il Campanella da parte di fra Agostino Cavallo di Cosenza. Sappiamo che costui era Provinciale di Calabria in quell'anno, ed avea dovuto venire in qualità di definitore del Capitolo generale che allora celebravasi in Napoli, al pari di fra Giuseppe Dattilo egualmente di Cosenza, stato già Provinciale due altre volte ed appartenente alla fazione del Polistina. Fra Agostino consegnò al Vescovo di Termoli una scritta in cui esponeva che, avendo udito essere stata a lui affidata la causa del Campanella, per disgravio della sua coscienza gli faceva conoscere che il Campanella già da dieci anni in circa, stando in Cosenza, avea stretta amicizia con un ebreo chiamato Abramo, sospetto negromante e possessore di spiriti familiari, amico stretto anche di fra Dionisio; che col detto ebreo erasi il Campanella partito da Calabria, e di tutto ciò poteva aversi notizia anche da fra Giuseppe Dattilo. - L'indomani, d'ordine del Vescovo di Termoli, il Prezioso andò a raccogliere la deposizione di fra Agostino, ed alcuni giorni più tardi raccolse pure quella di fra Giuseppe Dattilo. Fra Agostino confermò la pratica dell'ebreo col Campanella in Cosenza, in Montalto, in Altomonte (sic), di dove poi essi se ne andarono insieme a Napoli, con tutte quelle particolarità da noi già esposte a tempo debito in questa narrazione: confermò pure la pratica dell'ebreo con fra Dionisio in Catanzaro, notando che era corsa voce essere stato poi quell'ebreo giustiziato in Napoli come spia del turco, ed aggiungendo che allora dicevasi aver lui vaticinato al Campanella la Monarchia del mondo e che era stato lui, l'ebreo, la rovina del Campanella. Fra Giuseppe Dattilo fu meno esplicito: attribuì la scoverta di ogni cosa a fra Domenico di Polistina, e disse che a relazione di costui rimproverò in quel tempo il Campanella, perchè volea svestirsi dell'abito religioso, ciò che poi non fece, ma solamente se ne andò con l'ebreo a Napoli; disse che non si ricordava bene se fosse partito con sua licenza o no, e che in Calabria era corsa voce essere stato l'ebreo «brugiato in Roma per ordine del Santo officio». Quanto alla pratica dell'ebreo con fra Dionisio, non ne fece parola (e veramente il fatto era più che dubbio). I lettori troveranno ne' Documenti la denuncia e le deposizioni dei due frati, e leggendole sentiranno forse, come noi lo sentiamo, il sospetto che a quelle rivelazioni tardive potè dare la spinta fra Domenico di Polistina più volte in esso citato, tanto più che dalle parole e da' concetti di que' frati, comunque pezzi grossi dell'ordine, si rileva manifesta la loro melensaggine, della quale i nemici del Campanella, e ancor più di fra Dionisio, aveano tutto l'interesse di profittare. È difficile intendere che fra Agostino, così tenero della sua coscienza, avesse aspettato dieci anni a sgravarsela, e che fra Giuseppe Dattilo, così smemorato, avesse potuto ricordare la voce corsa che l'ebreo era stato bruciato dal S.to Officio, senza che qualcuno si fosse data la premura di eccitarne gli scrupoli e ravvivarne la memoria: del resto c'è anche da sospettare che costoro si mostrassero melensi per progetto, trovandosi ascritti alla fazione del Polistina, e volendo farsi credere ingenui.

Dobbiamo d'altra parte aggiungere che il Vescovo di Termoli si era presto messo in corrispondenza con Roma, dando ragguaglio al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva sapere anche per vie estragiudiziarie; poichè con una premura lodevolissima, oppostamente all'incuria sempre addimostrata dal Nunzio, cercava la luce dovunque, non solo dagl'inquisiti, ma anche da fra Cornelio, dallo Sciarava, perfino da Fabio di Lauro, oltrechè da D. Pietro de Vera, parlando loro privatamente. Abituato a quelle ricerche diligentissime che si adoperavano nel giudicare le materie di S.to Officio, colpito dalla feroce prepotenza de' Giudici Regii e dalla condotta per lo meno deplorabile de' Giudici ecclesiastici nella Calabria, consapevole degli odii feroci e criminosi che campeggiavano segnatamente nell'ordine Domenicano al quale egli stesso apparteneva, forse anche trasportato dall'ammirazione e dalla benevolenza che da un pezzo nutriva pel povero fra Tommaso, non credè mai di aver fatto abbastanza per iscoprire la verità, e vedremo che, fino alla sua morte, egli, tanto pratico nelle cose giudiziarie, rimase perplesso e dubbioso su tutto. Delle sue lettere non conosciamo che i punti più notevoli, i quali vennero inserti negli ultimi Sommarii de' processi, e senza le date che pure favorirebbero tanto più la buona nozione dell'argomento; laonde non possiamo riportarli, come vorremmo, a proprio tempo e luogo, ma ci vediamo obbligati a riunirli tutti in un fascio al sèguito degli atti compiuti da quel Vescovo. Conosciamo per altro le date delle prime lettere, che furono il 12 e il 19 maggio. Il 12 maggio il Card.l di S.ta Severina gli mandava il Sommario del processo, o meglio de' processi ecclesiastici di Calabria (di Monteleone, di Gerace ed anche di Squillace), Sommario compilato nel S.to Officio di Roma dal Rev.do Procuratore fiscale, che era quello stesso Giulio Monterenzio, il cui nome figura anche ne' documenti del processo di Giordano Bruno: infatti oltre la lettera di S.ta Severina ne abbiamo un'altra posteriore di questo Monterenzio, che spiega un dubbio sorto sopra un punto del suo Sommario, ciò che dimostra pure la diligenza grandissima con la quale il Vescovo di Termoli attendeva alla causa. Nella stessa data, due giorni dopo la prima seduta del tribunale, il Vescovo scriveva al Card.l di S.ta Severina partecipandogli senza dubbio che la trattazione della causa era già cominciata: il 19 maggio poi, due giorni dopo che il Campanella chiamato all'esame erasi mostrato pazzo, egli scriveva la sua 2a lettera, con la quale manifestava di credere che la pazzia del Campanella fosse simulata, che il Nunzio da molti giorni l'avea fatto sorvegliare ed avea saputo che parlava assennatamente, che stimava doversi venire alla tortura «pro praecisa responsione» (secondo la giurisprudenza del tempo); ed aggiungeva essere a sua notizia che il Campanella non temeva la tortura, e che la pazzia era nata da che il P.e Gonzales, confessore di alcuni tra' carcerati, prima della sua venuta a Napoli, aveva esortato il Campanella ad aver cura dell'anima perchè il corpo era spedito. Come mai questi ultimi fatti, di ordine assolutamente riposto, erano venuti a notizia del Vescovo di Termoli? Vedremo fra Pietro di Stilo, assai più tardi, esporre ai Giudici la circostanza delle esortazioni e riprensioni del P.e Gonzales; è chiaro quindi che il Vescovo non rifuggiva dall'informarsi dell'andamento delle cose da' frati medesimi, mostrandosi con loro Giudice severo ma tutt'altro che inumano.

Si ripigliavano intanto più e più volte gli esami de' frati, e poi si passava a quello de' testimoni. Nel medesimo giorno, 19 maggio, si esaminavano ancora fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Lauriana. Fra Paolo fu interrogato di nuovo circa quel libretto di cose superstiziose, e richiesto del motivo pel quale vi si leggeva un segreto per non confessare alla corda, onde si poteva dedurre che egli temesse di averla a soffrire; fu interrogato ancora su' detti e fatti del Campanella, su' frati i quali si erano congregati in Pizzoni, sull'impegno preso di dover predicare contro la fede al tempo della ribellione. Ed egli in fondo negò ogni cosa, nominò i congregati in Pizzoni, e all'ultima dimanda rispose «son frate semplice et non intendo Latino, come volea predicare»? - Il Bitonto fu interrogato circa la sua conoscenza con Felice Gagliardo e con Cesare Pisano, l'andata in Messina con Cesare, i discorsi fatti in tale occasione, la consacrazione di diverse ostie e lo scellerato abuso fattone, come pure circa il motivo pel quale avea lasciato l'abito e tolta la corona al tempo della sua cattura. Ed egli, qualificando il Gagliardo, come il Pisano, tristissimo uomo, ricordando le circostanze per le quali avea dovuto trovarsi con loro, negò energicamente tutti i fatti criminosi che se gl'imputavano; e addusse una sua malattia e il trovarsi in una vigna, per ispiegare il fatto dell'abito e della corona, conchiudendo sul fatto dell'ostia consacrata, «mi potete fare mettere nel foco e farmi ingiottire così come datum, et abiron, se mai hò ditto, ne fatto tal cosa». - Il Petrolo fu esortato a dire la verità, se gli fossero piaciute le opinioni del Campanella, mentre l'aveva tanto spesso udito parlare di eresie ed aveva continuato sempre a trattarlo, fino ad associarglisi nella fuga travestito quando era ricercato dal S.to Officio, e poi trovavansi nel processo tante cose contro di lui da doversi ritenere convinto. Ed egli si scusò sopra ciascuno addebito, persistendo pur sempre nel sistema di denunziare senza parsimonia i detti e fatti del Campanella, onde ripetè che fra Tommaso presso la Roccella gli avea detto essere stato da lui mandato Maurizio presso i turchi, come pure esser baie le credenze sul fico mangiato da Adamo, e in Squillace avea detto a un capo di squadra non trovarsi morte ma mutazione di essere, conchiudendo, «in altro son grandissimo peccatore, ma contra la fede non hò peccato». - Fra Pietro di Stilo fu esortato egualmente a dire la verità, se fosse stato consapevole de' fatti e detti del Campanella contro la fede ed impegnato a predicare in questo senso a tempo della ribellione, ciò che rendevasi credibile, essendo lui intimo del Campanella e di fra Dionisio, ed avendo anche esortato qualcuno (intendasi il Soldaniero) a non rivelare ed anzi a credere quelle eresie, come constava nel processo. Ed egli negò di aver mai saputo cosa alcuna del Campanella contro la fede, negò di essere amico di fra Dionisio, mentre era invece amico del Polistina, confermando che fra Dionisio era scelleratamente abituato a parlare senza ritegno della più turpe lussuria, ed egli avea rimproverato il Campanella perchè conversava con lui; inoltre negò di aver mai parlato con alcuno in lode del Campanella se non per cose di filosofia. - Da ultimo il Lauriana fu interrogato sul motivo pel quale avea suonate le campane all'armi quando i ministri del S.to Officio erano venuti a catturare certi imputati, e fu eccitato a dire la verità, mentre era tanto amico del Campanella e di fra Dionisio da doversi ritenere non pure consapevole ma complice delle loro eresie ed impegnato a predicarle, come era noto per deposizioni. Ed egli si scusò, dicendosi suddito del Pizzoni ed obbligato ad eseguirne gli ordini ricevuti dietro erronei apprezzamenti; fece avvertire che non era letterato e quindi non era capace di predicare, ed aggiunse che avea comunicato al Pizzoni quanto gli era accaduto di sapere, che aveva pure scritta una lettera dettata dal Pizzoni per dar notizia al P.e Generale della ribellione e di alcune cose di S.to Officio, che aveva egli medesimo portata questa lettera alla posta di Monteleone. In tal guisa procedevano gli esami, condotti con molta perizia e conoscenza della causa, come risulta da' documenti; questi mostrano inoltre lo studio che il Vescovo di Termoli vi faceva, notando al margine di essi non solo i punti più importanti, ma anche i raffronti con gli esami anteriori, le menome varianti e le cose che gli sembravano inverosimili.

Si produsse allora un primo incidente tra' parecchi che in questa causa si verificarono. Fra Pietro Ponzio, sulla cui persona era stata fatta una ricerca di corrispondenze provocata dal Lauriana, si pose con tanto maggiore accanimento, egli e fra Dionisio, a sorvegliare il Lauriana e il Pizzoni, che tenevano corrispondenza tra loro. Il Lauriana trovavasi nella carcere da basso con più di venti individui, ed il Pizzoni stava in una delle carceri superiori con Gio. Angelo Marrapodi, Geronimo Conia e Marcantonio Stanganella: Aquilio Marrapodi, giovanetto quattordicenne, figlio di Gio. Angelo, serviva questi ultimi ed anche il Lauriana, fra Pietro e fra Dionisio, ed eludendo la vigilanza de' carcerieri portava le corrispondenze; un giorno fra Dionisio lo sorprese, gli tolse una lettera che teneva nascosta in petto, lettera senza firma e senza indirizzo, ma scritta certamente dal Lauriana al Pizzoni. Con essa il Lauriana diceva di avere inviate prima altre lettere, raccomandando di lacerarle, e di aver fatto capitare a fra Francesco da Tiriolo (che ricordiamo aver visto carcerato per la causa della congiura e già liberato) alcuni memoriali da doversi presentare; infine raccontava minutamente l'ultimo esame cui era stato sottoposto. La lettera fu mandata da fra Dionisio, mediante lo stesso Aquilio, a fra Pietro Ponzio, e da costui fu presentata al Vescovo di Termoli, qualificandola «un concetto importante pel progresso della presente causa»; immediatamente, il 26 maggio, il tribunale venne ad occuparsene. Fu interrogato fra Pietro, che disse avere avuta la lettera da quel servitorello, e crederla scritta dal Lauriana al Pizzoni. Fu interrogato in genere il Lauriana, che negò ogni cosa. Fu interrogato Aquilio, che affermò di servire suo padre ed anche que' monaci pei quali comprava cose da mangiare; affermò di aver portato lettere di secolari alla posta ma non di monaci, aggiungendo con grande disinvoltura, «se si trova che habbia portato pur un viglietto di questi monaci, voglio che mi sia tagliata la testa». Gli fu presentata allora la lettera, dimandandogli se sapeva leggere e scrivere; ed egli disse di saper «legere quando la lettera è bona et un poco scrivere», ma affermò di non conoscere quella scrittura. I Giudici, per convincerlo, fecero subito venire fra Pietro, il quale gli ricordò che avea portato biglietti e lettere del Lauriana e del Pizzoni, e n'era stato rimproverato da lui ed anche da un altro carcerato, Cesare Bianco; ed Aquilio dovè confessare ogni cosa, e licenziato fra Pietro, richiesto perchè non avesse detto prima la verità, con non minore disinvoltura rispose che non se n'era ricordato, aggiungendo di aver portato un'altra volta al Pizzoni un biglietto che il Lauriana gli avea detto essere memoriale, che non credeva di essere stato veduto ma che Cesare Bianco l'avea realmente rimproverato; e dietro altre dimande rispose che il Pizzoni non potea scrivere (aveva la spalla offesa), ma che con lui stavano suo padre e il Conia e lo Stanganella, i quali sapevano scrivere. I Giudici vollero ancora interrogare Cesare Bianco, che era di Nicastro e trovavasi carcerato per la congiura, e costui confermò di aver visto il Lauriana dare il biglietto pel Pizzoni e di averne mosso rimprovero ad Aquilio: e fatto venire il Lauriana lo confrontarono con costui, ed egli giunse a dire, «Dio mi mandi alle pene dell'inferno se mai hò fatto tal cosa», e licenziato il Bianco e richiamato Aquilio, confrontarono il Lauriana anche con lui, e il Lauriana continuò sempre a negare, e rimasto solo e presentatagli la lettera, disse che non avea fatta tale scrittura, che essa non era di mano sua ed egli non avea comunicato il suo esame ad alcuno. Ma le notizie dell'esame erano precise, e potevano essere state date solo o dai componenti il tribunale, o da lui, che aveva in tal guisa tradito pure il segreto solito ad imporsi dal tribunale ad ognuno che si esaminava: rimase quindi ben provato che il Pizzoni e il Lauriana si concertavano tra loro, per esimersi dalla responsabilità che più o meno aveano comune con gli altri frati da loro accusati; erano perciò sospetti, ed anzi falsi, se non in quanto agli altri, certamente in quanto alle persone proprie.

Nella stessa seduta fu esaminato di nuovo il Pizzoni; e prima di tutto gli si dimandò se avesse mai ricevuto lettere e memoriali dal Lauriana, ed egli rispose negativamente. Si volle allora che ripetesse le circostanze in cui il Campanella gli avea parlato delle profezie e delle rivoluzioni che dovevano accadere, e dicesse come e perchè fra Dionisio gli avea già parlato prima dell'eresie medesime ripetutegli in seguito dal Campanella, opponendo essere inverosimile che, mentre il Campanella indignato di non poter avere da lui fuorusciti a sua divozione aveva esclamato «ben mi fu detto da M.° Gio. Battista (Polistina) che tu sei un traditore», si era tuttavia lasciato andare a rivelargli tante eresie e tante empietà; inoltre gli si dimandò se conoscesse complici degli errori del Campanella e di fra Dionisio. Evidentemente si voleva cogliere il Pizzoni in qualche contraddizione, ma egli imperturbato ripetè le circostanze di que' discorsi, e l'occasione avutane dall'essere stati ricordati i travagli patiti in Roma dal Campanella, e le opere composte da lui; disse che la qualificazione di traditore, secondo l'avviso di M.° Gio. Battista di Polistina, gli fu data dal Campanella dopo i discorsi della ribellione e dell'eresia e non già prima; infine dichiarò di non conoscere complici.

Il 29 maggio si ritornò ad esaminare il Lauriana ed il Petrolo. Al Lauriana si dimandò dapprima se si fosse risoluto a dire la verità sulla faccenda della lettera mandata al Pizzoni, ed egli rispose di averla detta la verità. Poi gli si dimandò una quantità di circostanze in cui avea dovuto udire le eresie del Campanella e di fra Dionisio, e se le avesse udite anche da altri, e come si fosse accorto che il Pizzoni vi partecipava, e se veramente fosse stato dal Pizzoni esortato a credere le eresie del Campanella, secondochè avea dichiarato nel primo esame sostenuto in Monteleone e ratificato in Gerace. Ed egli ripetè soltanto la scusa già data altra volta su quest'ultimo fatto, ma per tutto il resto disse sempre di non potersene rammentare, e si riportò costantemente al suo primo esame; «vedete llà ala mia esamina che llà lo trovareti». - Quanto al Petrolo, gli si dimandarono diversi chiarimenti sulle cose dette negli esami sostenuti in Calabria, e massime come e dove il Campanella dicesse le sue eresie a frati e secolari, come fosse egli venuto a conoscere la cifra che il Campanella e il Pizzoni adoperavano tra loro, come e dove ed a chi il Campanella esponesse le rivoluzioni che doveano accadere e le profezie che vi si riferivano, e quando ed a chi dicesse di voler predicare la libertà. E il Petrolo ripeteva le cose già deposte, conformando sempre che il Campanella non parlava di eresie agli altri così liberamente come faceva con lui, ma per motti e in diversi luoghi; che alla Roccella avea vista la cifra in una scrittura, la quale il Campanella gli disse essere una lettera del Pizzoni; che le profezie e le rivoluzioni erano state esposte dal Campanella dapprima nella Chiesa di Stilo, predicando all'altare sopra una sedia, ed a lui solamente il Campanella avea detto, «par che queste profezie parlino di me»; infine che non ricordava dove, e quando, e con chi il Campanella avesse detto voler predicare la libertà.

Continuarono gli esami nel giugno seguente, e in essi potè intervenire il Nunzio, essendo tornato in Napoli dalla sua Chiesa di Troia; ma dopo quattro sole sedute egli mandò di nuovo in sua vece l'Auditore Antonio Peri, che lo sostituì per tutto il rimanente dell'anno, sicchè nella più gran parte del processo offensivo, in tutto il ripetitivo, ed anche in quasi tutto il difensivo, il Nunzio non assistè menomamente. Dal suo Carteggio rilevasi che in questo ritorno da Troia egli potè vedere quale fosse la sicurezza delle strade, ed essere informato sopra i luoghi intorno alle criminose relazioni tra banditi ed ecclesiastici: non sarà inutile riportare qui un brano di lettera da lui scritta al Card.l S. Giorgio su tale argomento, poichè interessa conoscere pienamente i tempi e farsi un concetto giusto di quella abominevole miscela di frati, clerici e banditi, la quale non era propria della Calabria a' tempi del Campanella, ma comune a tutto il Regno anzi a tutto il mondo che diceasi civile, venendo dalle autorità ecclesiastiche riguardata in un modo per lo meno singolare. «Le replicarò che quanto alla ricettatione de' banditi et al commercio che tengono con loro molti Clerici, et tutti i religiosi che stanno in certi Conventi, dove per il poco numero non si osserva regola alcuna, è necessario provedervi in qualche modo acciò non segua così spesso che le Chiese et i Conventi sieno violate da questi Ministri Regii (ecco il vero e proprio inconveniente agli occhi del Nunzio), che gridono alle stelle che dette Chiese et Conventi sieno ricetto di tristi et d'assassini come riscontro pur troppo vero, et al ritorno di Troia è bisognato che mi proveda di chi mi assicuri la strada, poichè la sera che arrivai ad Ariano intesi che poco avanti erano stati rubati due mercanti Raugei et menati via da una truppa di Banditi per farne ricatti, onde scrissi al Vicerè della Provincia che è il Conte del Sacco, il quale non solo mi mandò 20 Archibusieri ma venne ancora lui su la strada per aboccarsi con me, et mi fece gran querela di quanto hò detto, con soggiugnere che fra gli altri certi Monaci di M.te Vergine che stanno à S. Guglielmo, luogo in quelle campagne, non solo raccettano, ma partecipano i loro furti, portano ambasciate fra di loro, et sono mezi alli ricatti» etc. etc. - Continuarono dunque gli esami coll'intervento del Nunzio, e il 7 giugno si udì per la 3a volta il Pizzoni, rimanendo dal suo esame occupata l'intera seduta. Diremo in breve che, sempre dietro dimande, egli dichiarò di avere udito una volta sola parlare di eresie e di ribellione tanto il Campanella quanto fra Dionisio; e redarguito, perchè nel primo esame avea detto di avere udito eresie dal Campanella in Stilo ed in Pizzoni, dichiarò che in Gerace non gli era stato letto il primo esame, e che il processo del Visitatore conteneva falsità. Addusse un altro motivo della sua andata a Stilo, un pagamento che dovea fare ad un frate, e ne fu redarguito da' Giudici. Narrò la sua andata a Stilo, seguita dall'altra ad Arena, insieme col Campanella accompagnato da' parenti armati. Disse di aver conosciuto già prima il Soldaniero, capo di banditi, che gli avea mandato una lettera minatoria, e di averlo poi visto passeggiare col Visitatore e fra Cornelio nel convento di Soriano il 28 agosto, ma di non sapere se egli fosse informato delle eresie del Campanella, sapere bensi che avea parlato con fra Dionisio; e redarguito, perchè nel primo esame avea detto che il Soldaniero era informato di tutto, dichiarò che fra Cornelio lo scrisse di sua volontà e poi non glie lo lesse. Negò di avere usato mai cifre col Campanella; confermò di avere scritto al P.e Generale e di aver dettata la lettera al Lauriana; stretto dalle dimande dovè negare che il Campanella e fra Dionisio gli avessero in Pizzoni parlato di eresie alla presenza d'altri, e dichiarare che fra Dionisio non si trovò mai in Pizzoni in compagnia del Campanella (dovè quindi dare una grave smentita al Lauriana). Accettò di avere ordinato al Lauriana che suonasse le campane all'armi nel tempo della loro cattura, ma aggiunse di averglielo subito vietato quando seppe che trattavasi della venuta de' soldati del Battaglione. Confermò di aver prima parlato al Visitatore delle eresie udite, notando che vi era andato egli solo: ma i Giudici gli obiettarono che se avesse davvero parlato prima al Visitatore di quelle eresie estragiudizialmente, non gli sarebbe stato possibile il volerle poi occultare, quando fu tratto in giudizio innanzi al medesimo Visitatore; ed egli si scusò adducendo il terrore avuto perchè ognuno gli annunciava la morte, l'essergli stato quindi necessario che il Visitatore e fra Cornelio gli ricordassero ogni cosa con una nota scritta che tenevano nelle mani, aggiungendo pure che aveva fin d'allora avuto minacce dal Campanella per mezzo di Gio. Tommaso Caccìa. Nè dopo tutto questo i Giudici ritennero esaurito l'esame del Pizzoni.

Il 17 giugno furono esaminati nuovamente il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; il 20 giugno fu esaminato per la 4a volta il Pizzoni. Stretto dalle dimande, il Lauriana confermò che quando il Campanella si fece a parlare di eresie c'era anche fra Dionisio oltre il Pizzoni (ed in ciò per lo meno la memoria non l'assisteva bene). Citò due occasioni per le quali il Campanella avea manifestato eresie: l'una, l'essere stata condotta dal Casale di Vazzano a Pizzoni una donna spiritata, e il Campanella la giudicò pazza, e nel dopo pranzo disse, «mi portano innanzi queste donne spiritate e matte, et io non tengo che ci siano ne spiriti, ne diaboli, «ne inferno, e ne paradiso»; l'altra, l'avere il Campanella letto un capitolo di Plinio in cui parlavasi della natura, onde disse che Dio era la natura con tutte le altre proposizioni altra volta deposte (singolare raffronto con ciò che avea pure già dichiarato il Caccìa, ma attribuendolo al Pizzoni). Disse che fra Dionisio gli avea solamente parlato contro l'eucaristia, ma presente il Campanella e il Pizzoni; e che il Pizzoni non avea mostrato di credere all'eresie, ma di approvare alcune opinioni scritte dal Campanella in un suo libro, aggiungendo che in quel libro trattavasi di opinioni contro S. Tommaso. - Il Petrolo poi dovè rispondere ancora una volta intorno a' complici del Campanella; e continuò a dire che non ne conosceva, e che il Campanella non avea manifestato mai eresie formali in presenza di altri, sibbene si esprimeva per motti, de' quali fornì qualche esempio. - Infine fra Pietro di Stilo dovè dare chiarimenti intorno a ciò che il Campanella avea detto della elezione del Papa e de' miracoli; e fattosi leggere il primo esame cercò di attenuarne la misura, dolendosi anche di fra Cornelio che scriveva troppo diffusamente, ma conchiuse che confermava quanto nell'esame trovavasi scritto. - Ben più lungo fu l'esame del Pizzoni, che di nuovo occupò l'intera seduta. Sempre dietro dimande, dovè dichiarare in qual luogo fosse stato ammalato negli ultimi tre anni, e se in Stilo (che egli aveva taciuto nella sua rassegna) avesse avuto stanza anche il Campanella al tempo della sua malattia. Dovè dichiarare di nuovo se in Pizzoni, quando il Campanella parlò di eresie, fosse stato presente fra Dionisio; e dettogli che un testimone suo amico affermava che fra Dionisio c'era, fu costretto a smentirlo definitivamente, dicendo che quel testimone (il Lauriana) sapeva di tali cose quanto il muro della stanza, che quel testimone, alla presenza di quasi tutti i frati ed altri secolari, aveva in Monteleone confessato che non sapeva addirittura nulla nè di ribellione nè di cose di eresia, e che avea parlato per paura e per subornazione del Visitatore, di fra Cornelio ed anche di D. Carlo Ruffo, con la speranza di essere subito liberato anzi premiato, e la paura era stata tale che avrebbe deposto perfino contro suo padre; che quanto avea deposto eragli noto solamente per la lettera al P.e Generale scritta di sua mano sotto la dettatura di esso Pizzoni. Intorno a tutte le altre citazioni di deposizioni testimoniali contrarie (riferibili segnatamente al Caccìa, senza che il nome di lui fosse pronunziato), egli dichiarò che doveano provenire da persone infami e bugiarde, o inimiche, o sedotte, ovvero anche da falsità di scrittura, dando per sospetto il Visitatore e fra Cornelio, ed affermando che in Monteleone il Pisano e il Caccìa se n'erano lamentati con gli altri prigioni, perchè gli aveano carpiti 100 scudi per uno ed altri donativi, con la promessa di sottrarli alla Corte secolare, e così gli aveano fatto dire quello che aveano voluto; inoltre il Caccìa avea dimandato perdono ad esso Pizzoni, per aver deposto dietro insinuazione di que' due frati, che gli dicevano essersi avute deposizioni del Pizzoni contro di lui, e poi anche dietro gli atroci tormenti sofferti mentre era travagliato dalla febbre. Negò di nuovo la cifra; confermò che il Lauriana gli avea detto essere rimasto scandalizzato, perchè il Campanella in una predica in Stilo aveva esclamato, «oh si mi fusse lecito estendermi in questa materia», parlando del governo de' Principi e Prelati, non già di eresia; infine ripudiò ad una ad una tutte le eresie che gli erano state addebitate.

L'indomani, 21 giugno, fu esaminato di nuovo il Bitonto, e poi, per la prima volta, fra Dionisio. Il Bitonto dovè dar conto di ciascuno di que' molti fatti che avea deposti il Pisano, e che direttamente o indirettamente lo riguardavano (senza che il nome del Pisano fosse mai pronunziato): ed egli rispose costantemente «non ho mai inteso tal cosa», qualche volta anche «l'ho inteso da che son qua carcerato», ovvero «l'ho inteso quando so stato esaminato dalli giudici et in particolare in hierace», aggiungendo che quivi fu esaminato dal Vescovo e dal Visitatore, essendo presente anche Carlo Spinelli; e conchiuse che tutte quelle cose avevano dovuto esser deposte da qualche infame o nemico suo. - Si passò quindi a fra Dionisio. Costui, sempre dietro dimande, disse di aver saputo dal Sances e dal carceriere che era stato imputato in cose di S.to Officio insieme col Campanella, e negò con la più grande energia di aver peccato nella fede. Diè una lunga lista de' suoi nemici, a cominciare da' Polistina e dagl'inquisiti per la morte dello zio M.° Pietro, e venendo sino a fra Pietro di Stilo che disse creatura del Polistina, al Pizzoni finto amico nelle sue liti col Polistina e ladro di molti suoi scritti predicabili onde dovè infamarlo, al Lauriana partecipe del furto degli scritti ed incaricato della vendita di essi, oltrechè legato in nefande relazioni col nipote del Pizzoni, fra Fabio, e col Pizzoni medesimo, onde dovè scacciarlo dal convento di Nicastro dove esso fra Dionisio trovavasi Priore. Negò di aver mai trattato con qualche ebreo in Cosenza, dichiarando spontaneamente che a tempo di quell'ebreo, allorchè venne eletto il P.e Generale Beccaria (cioè nel 1588), egli trovavasi in Napoli, nel convento di S.ta Caterina a formello, e che seppe in Napoli da una lettera di suo zio M.° Pietro avere il Campanella avuto conversazione con quell'ebreo di cattiva fama in Cosenza, essere fuggito in compagnia di lui da Calabria ed avere arrecato questa fuga grande scandalo, onde gl'ingiungeva di non avere più relazione col Campanella; dichiarò anche, dietro dimande, di non avere mai più avuta notizia di quell'ebreo, nè occasione di parlare col Campanella, che non vide più per 7 od 8 anni dopo quel tempo. Negò assolutamente di avere mai avuto scandalo dal Campanella per cose di fede, mentre pure avea cercato di chiarirsene, poichè dicevasi che avea diavoli, comandava diavoli e credeva poco: aggiunse di aver saputo da lui che era stato inquisito nel S.to Officio per un Sonetto bruttissimo contro la fede e contro Cristo, quale Sonetto gli recitò, che l'accusatore era stato condannato in galera ed esso Campanella liberato senza abiura, non avendo mai voluto accettare di avere abiurato, mentre di poi in Napoli ebbe a sapere che l'abiura c'era stata (onde dovrebbe dirsi che pure tra loro amici intimi si manteneva l'equivoco, confondendo l'esito di processi diversi). Tale fu la prima deposizione di fra Dionisio, che egli non potè sottoscrivere per la tortura avuta nel tribunale della congiura, e che crocesegnò tenendo la penna stretta tra' denti.

Fu poi fra Dionisio esaminato di nuovo tre altre volte successivamente, il 20 e 28 giugno, ed il 13 luglio, continuando sempre ad intervenire agli esami non il Nunzio, ma l'Auditore di lui Antonio Peri. Il 26 giugno fra Dionisio cominciò dal dire spontaneamente che avea ricevute dal Lauriana due lettere, con le quali gli narrava l'esame sostenuto in Calabria e gli chiedeva perdono, avendolo a torto accusato di proposizioni eretiche contro l'eucaristia, a suggestione del Pizzoni e per uscire dalle mani de' secolari; che queste lettere gli erano state tolte da' carcerieri, ed egli riteneva dovessero trovarsi nell'altro processo; che da esse rilevavasi essere stato deposto dal Lauriana di avere udite le eresie in un discorso tenuto dal Campanella in Pizzoni con lui, fra Dionisio, e con fra Gio. Battista di Pizzoni, e tale fatto era la più grande menzogna, non essendosi lui fra Dionisio mai trovato in Pizzoni contemporaneamente al Campanella (il fatto era fondamentale, e il vederlo a notizia di fra Dionisio mostrava che le lettere c'erano state, salva la quistione di sapere se in esse si parlava realmente di accuse ingiuste e di domanda di perdono). Narrò poi, interrogato, le circostanze della sua cattura e di quanto gli era avvenuto ne' giorni consecutivi (ciò che fu da noi esposto a suo tempo). Fornì spiegazioni sulla sua lettera trovata presso fra Vincenzo Rodino, sulla sua conoscenza col Pisano, sull'andata con costui a Messina e sull'andata successiva col Campanella e col Bitonto a Castelvetere, dove il Pisano trovavasi carcerato pel furto di una giumenta del Principe, riconoscendo di aver voluto aiutarne la liberazione, ma semplicemente per l'onore della famiglia di esso. Fornì spiegazioni sul fatto dell'inglese che in Roma avea dato un pugno all'ostia consacrata, dicendo di averlo veramente narrato perfino dal pulpito «etiam cum lachrimis», per dimostrare la gran bontà e tolleranza di Dio: dichiarò di non aver mai conosciuto l'avvenimento del prete annegatosi con l'ostia, e ripudiò assolutamente il fatto osceno commesso con l'ostia, facendone rilevare l'inverosimiglianza. Infine negò di aver mai parlato in dispregio dell'eucaristia, e disse che le precise parole, con le quali gli si faceva tale dimanda, si trovavano nelle lettere del Lauriana (altra prova che tali lettere c'erano state); notando che in Pizzoni egli non potea dire tali cose, poichè c'erano soltanto suoi nemici e un vigliacco fuoruscito (certamente il Caccìa), il quale poi si disdisse nell'atto di essere giustiziato. - Il 28 giugno, esaminato per la 3a volta, fra Dionisio negò ad una ad una tutte le eresie e tutte le accuse che gli erano state apposte (dal Soldaniero, dal Lauriana, dal Pisano etc.) e che i Giudici gli vennero successivamente formolando, non senza dare qualche spiegazione in sua difesa. Così, a proposito del pugno da lui dato a un'immagine del crocifisso in Soriano, dichiarò che il Priore e Lettore di quel convento erano suoi nemici, che vi si trovava anche un gran fuoruscito a nome Giulio Soldaniero stato per tutta la quaresima in relazione con fra Gio. Battista di Polistina, ed egli avea temuto di essere ucciso o almeno bastonato da lui, e gli avea parlato sempre in pubblico. A proposito di altre eresie che si era deposto aver lui udite dal Campanella e lodate ed insinuate ad altri, dichiarò che il Petrolo, già da circa un mese, passando innanzi alla sua prigione si era avvicinato alla finestrina di essa e gli avea dimandato perdono, facendogli sapere che avea deposto essere stato detto dal Campanella, in presenza di lui fra Dionisio, che non c'era purgatorio nè inferno; onde temeva che questo potesse nuocergli, sebbene avesse pure aggiunto alla deposizione che il Campanella prima diceva le eresie a lui e poi le diceva anche agli altri, ma in modo che esso Petrolo non sapeva se gli altri le intendessero (e questo mostrava che veramente il Petrolo avea dovuto parlargliene). Infine negò di aver mai saputo che il Campanella si fosse proposto di predicare, e che egli medesimo dovesse predicare contro la Chiesa. - Il 13 luglio, esaminato per la 4a volta, dovè dar conto di altre eresie ed accuse, sulle quali non era stato ancora interrogato (quelle deposte da Maurizio per propria scienza o per detto del Vitale, come pure quelle raccolte nel processo di Squillace). Ed egli negò egualmente ogni cosa; ed a proposito del fatto dell'ostia che pretendevasi avere una volta consacrata e poi gettata a terra, disse di aver saputo da Maurizio, nel venire a Napoli, che tale fatto era stato deposto da Gio. Battista Vitale «credendosi schifare la morte almeno per alcuno giorno», e fece rilevare che il Vitale prima di essere squartato avea revocata quella deposizione (c'era quindi stato ad ogni modo un colloquio con Maurizio su tale fatto, salva rimanendo la quistione di sapere se Maurizio avesse realmente attribuito il motivo suddetto alla deposizione, ed anzi se vi fosse stata realmente una deposizione del fatto innanzi a' Giudici da parte del Vitale). Potè poi questa volta dopo cinque mesi, stando meglio co' suoi polsi, sottoscrivere il processo verbale dell'esame sostenuto.

Dobbiamo aggiungere che nella seduta medesima fu esaminato ancora Giulio Contestabile, qualificato non solo teste, ma anche principale, senza dubbio per avere troppo conversato col Campanella. Egli disse di conoscere il Campanella e fra Dionisio, e di stimarli uomini tristi mentre erano inquisiti di cose triste; disse di sapere che il Campanella ora stato già prima processato per eresia, ma non sapere altro, e di avere due volte sole parlato col Campanella in Stilo, in casa sua, per la conchiusione della pace tra la famiglia sua e quella de' Carnevali; ma Geronimo suo fratello scrisse da Napoli che non volea si trattasse con persona già processata per eresia, ed avendo lui divulgata la lettera, il Campanella gli divenne nemico. Dichiarò di non aver mai udito il Campanella parlare di Cristo nè di Mosè, e fece rilevare che in Stilo c'era un altro Giulio Contestabile figlio di Lucio, Maestro della confraternita del Rosario e perciò molto assiduo nel convento dei Domenicani (il fatto era vero, ma rappresentava una scusa grossolana).

Il 1° luglio fu interrogato Giulio Soldaniero, testimone importante, che si dovè far venire dalla Provincia. Il Carteggio del Nunzio ci mostra che egli non trovavasi più in Calabria, ma in terra d'Otranto, e che lo si fece venire per mezzo del Vescovo di Nardò; parrebbe pure dall'esame suo che fosse stato tenuto in prigione fin dal marzo, sicuramente ad istanza del S.to Officio. Lo stesso Carteggio ci mostra che appunto per lui la trattazione della causa soffrì un ritardo nelle prime settimane di luglio; poichè alla sua venuta era stato rinchiuso in Castel dell'ovo, e quando si volle esaminarlo, si trovò il solito intoppo del non esserci ordine alcuno del Vicerè, onde il Nunzio ebbe a fare istanza che o si desse quest'ordine o si conducesse il prigione in Castel nuovo. Vedremo in sèguito che si fece venire anche il suo fido Valerio Bruno, ed entrambi furono rinchiusi in Castel nuovo insieme co' frati inquisiti. Il Soldaniero, dietro dimande, disse che era stato esaminato da fra Cornelio, e successivamente dal Vescovo di Gerace, dopo di aver mandato il Priore di Soriano al Visitatore per rivelare le cose dettegli da fra Dionisio; e ripetè talune di queste cose, affermando che quando vennero dette o fatte, era presente e consenziente il Pizzoni, e tutto proveniva dal Campanella. Invitato ad esporre ciò che fra Dionisio gli avea detto di provenienza del Campanella, non seppe dire più nulla e si richiamò all'esame precedente, poichè non se ne poteva ricordare. Aggiunse di aver visto in sèguito fra Pietro di Stilo, che gli raccomandò di non dir nulla di quanto gli avea detto fra Dionisio, ma egli già avea raccontato tutto al Priore e Lettore di Soriano: non potè ricordarsi se fra Pietro gli avesse parlato di eresie, ma negò di aver ricevuto lettere del Campanella. Disse che avea raccontato pure ogni cosa a fra Domenico e fra Gio. Battista di Polistina e costoro se ne maravigliarono, che vide fra Dionisio una sola volta (prima avea detto due volte), e parlò al Priore ed al Lettore perchè lo cacciassero dal convento.

Ma il fatto più importante della seduta del 18 luglio fu il tormento della corda dato al Campanella per un'ora, fatto ricordato poi da lui medesimo nella sua Narrazione, là dove dice: «el Campanella sendo impazzito hebbe un'hora di corda, e restò per pazzo quando era il Tragagliola». Già fin dal 12 maggio, dietro la richiesta del vescovo di Termoli, il Card.l di S.ta Severina avea scritto: «quanto al particolare che ella avvisa, che fra Tomaso Campanella si finge pazzo, et non vuol giurare ne rispondere à quello, che se gli domanda, le dico che S. S. rimette all'arbitrio di Monsignor Nuntio e di V. S., e del Generale Vicario Archiepiscopale di dargli la corda per havere da lui la precisa risposta, con avvertire di non interrogarlo de' capi del negotio principale per non debilitare le ragioni del Fisco». Adunque, dopo il Soldaniero, venne introdotto il Campanella, e questa volta egli toccò il libro su cui fu invitato a giurare, ma fin dalla prima dimanda che gli venne diretta rispose in modo strano ed incoerente. «Volsero pigliare fratimo, et poi si concitorno tutti contra di me, et mi hanno spogliato, et mi ritrovo in questo modo, et hò fatto tanti libri, et poi me li hanno cambiati» etc. Era sempre vestito da secolare, col suo cappello nero tra mano, e diceva: «questo cappello è tutto stracciato, et tutte queste veste che hò sopra sono stracciate»; e volle coprirsi il capo ma l'aguzzino glie lo scoprì, onde egli si rizzò contro l'aguzzino dicendo, «guarda costui che mi vuol levare il cappello», e soggiunse «bisogna che venghi il Papa et sbroglia queste cose» etc. Fu quindi fatto condurre alla stanza del tormento e là venne spogliato e ligato alla corda, con le proteste che il S.ta Severina avea raccomandate: ed elevato in alto cominciò a dire «hoimè che moro, ah traditori, figlioli di cornuti, bagascie, mi hanno ammazzato, madonna santissima aiutami». Rinunziamo a continuare questa atroce rassegna di dolori, che d'altronde i lettori troveranno nel relativo Documento: solo diremo che il povero Campanella, talvolta furioso, talvolta abbattuto, ingiuriava o invece blandiva chiedendo pietà, e spesso invocava il Papa o a lui si appellava, nota dominante per tutto il tempo della sua pazzia; allorchè si rivolse a qualcuno de' Giudici in particolare, per muoverlo a misericordia, si rivolse sempre al «frate», cioè al Vescovo di Termoli. Tra le svariate dimande fattegli vanno notate le seguenti: quanto tempo fu carcerato in Roma, se era stato visitato da qualche medico nelle carceri, come si chiamava il Commissario del S.to Officio in Roma al tempo in cui fu carcerato, ed anche, con ludibrio indegno, cosa avrebbe avuto di buono a pranzo, e dopo di avergli due volte minacciato il polledro, che dimandasse qualche grazia. E il Campanella, obbligato allora appunto a soddisfare a' suoi bisogni naturali stando sospeso alla corda, replicò all'ultima domanda che lo lasciassero... fare; nè rispose mai a proposito, e tra' diversi suoi detti incoerenti nominò il Marchese d'Arena, dicendo che «se havesse fatto (sic), non pateria questo», nominò Paolo Campanella, che avea disegnato una figura di S. Rocco, nominò Cicco Vono, qualificandolo suo nemico. Infine, scorsa un'ora, venne definitivamente deposto e sciolto, e secondo l'uso gli aguzzini gli ricomposero le braccia, quindi lo rivestirono e lo ricondussero nella sua carcere.

Subito dopo furono esaminati Geronimo padre e Gio. Pietro fratello del Campanella. Geronimo si dichiarò di Stignano, dell'età di circa 65 anni, e dovè rispondere intorno alla causa della carcerazione di suo figlio, intorno a un libro che costui avea scritto ed egli avea lodato come superiore anche a quello degli Apostoli, intorno alle divinazioni fattegli sull'avvenire degli altri figli, intorno al rifiuto di predicare espressogli da fra Tommaso e motivato col non voler fare l'ufficio di saltimbanco, intorno al pranzo di Stignano in casa Grillo, dove egli avea fornite vivande ed avea dovuto udire eresie da fra Dionisio. Il povero vecchio disse di sapere solamente che suo figlio era stato carcerato da Carlo Spinelli, o per detto d'altri che avea scritto un libro in Napoli, mentre quanto a sè egli non sapea leggere nè scrivere, soggiungendo, «alhora tutti mi dicevano beato et hora tutti mi dicono sfortunato». Quanto alle divinazioni, disse che suo figlio era stato quattordici anni fuori di Calabria, ed al ritorno appena lo riconosceva per padre, trattando solo con Principi e Signori, come il Principe della Roccella e il Marchese di Arena; quanto poi al rifiuto della predicazione, disse che veramente avea pregato fra Tommaso di accettare l'offerta fattane da que' di Stilo col compenso di 200 ducati, «per aiutare alcune figlie femine che hò è sono pezzenti», ma fra Tommaso non volle, dicendogli che sapeva quel che si faceva. Accettò di aver visitato fra Dionisio in casa Grillo, ma negò di aver fornite vivande, aggiungendo, «non hò per me, et hò nove tra figlie et nipote femine»; negò pure energicamente di avere udito discorsi eretici, ed aggiunse, «si fra Dominico (Petrolo) lo dice, fatime mettere un chiappo al collo et impendere». Da ultimo s'inginocchiò innanzi a' Giudici e disse, «Signori, siamo tutti spersi per povero regno, et si questi monaci hanno fatto male, vi prego, castigateli per amore di Dio»: con ciò, s'intende, egli volea dire che facessero presto, perchè così sarebbe presto tornato a casa sua ove l'attendeva una frotta di giovani donne rimaste nell'abbandono e nella miseria; e il suo desiderio era naturalissimo, ma faceva dimenticargli che tra' monaci i quali avrebbero dovuto essere gastigati, e non lievemente, c'era anche il migliore de' suoi figliuoli. - Molto più breve fu l'esame di Gio. Pietro Campanella, che si dichiarò di 28 anni in circa e di mestiere calzolaio. Gli chiesero se avesse mai udito suo fratello fra Tommaso parlare di rivoluzioni da dover accadere nel 1600; ed egli rispose che poche volte gli avea parlato e non mai di tali cose. Al pari di suo padre, non sapendo scrivere, segnò con una croce il processo verbale dell'esame.

Il 20 luglio venne il Campanella ricondotto innanzi a' Giudici, e continuò a mostrarsi pazzo. Non voleva rimanere nella sala di udienza, si tirava indietro, e poi cominciò a baciare certe figure disegnate nel foglio del Calendario. Gli si fecero dimande strane; quante sorelle aveva, dove trovavasi il suo padre carnale e da quanto tempo non l'aveva veduto, se possedeva il breviario etc. poi lo si avvertì di cessare dal fingersi pazzo. Ed egli nominò più sorelle, Costanza che era Badessa, Emilia maritata, Giulia da doversi maritare con Michele Castellano; parlò del padre in modo incoerente, ricordò che gli aveano presi tutti i suoi libri, accennò ad una «Signora grande», a soldati che l'aveano perseguitato, ad una sua fuga di 20 miglia. Lamentavasi per avere le braccia addolorate in sèguito della tortura, e da ultimo disse, «dammi da bere frate, quattro confortini (confortatori) negri negri vengono ogni sera et mi ammazzano...». Dal processo verbale si rileva che avrebbe sottoscritto l'esame, se non avesse avuto le braccia debilitate.

Fu di poi, nella stessa seduta, interrogato nuovamente il Soldaniero, quindi Giuseppe Grillo; inoltre furono richiamati fra Dionisio ed il Pizzoni, per dare qualche chiarimento. Al Soldaniero si fecero molte dimande; come mai fra Dionisio avesse cominciato a parlare con lui contro la fede mentre non c'era mai stata familiarità tra loro, se fra Dionisio fosse venuto a Soriano egli solo o in compagnia di qualcuno, come si fosse comportato il Pizzoni in quella circostanza, in quale giorno si fosse mangiato carne, a quale scopo que' frati gli avessero dette tante eresie. E il Soldaniero narrò di nuovo i particolari della venuta di fra Dionisio a Soriano, ed affermò che questa accadde di martedì, nel quale giorno, avendo precedentemente riportata una ferita di archibugio, egli non mangiava carne per divozione alla Madonna dell'Idria (cioè di Costantinopoli), ma fra Dionisio mangiò carne ed eccitò lui a mangiarne; non potè poi ricordarsi se il Pizzoni fosse presente, ma dichiarò che gli pareva di sì, e che costui confermava le opinioni di fra Dionisio, dicendo che erano opinioni del Campanella. I Giudici gli fecero notare che nella prima deposizione avea detto non essere stato presente il Pizzoni, essere avvenuto il fatto in giorno di venerdì, non avere fra Dionisio mangiato carne (l'aveva solamente desiderata per mangiarla), e che badasse quindi a non dire menzogne: egli rispose più volte che non se ne poteva ricordare e si rimetteva al suo primo esame, conchiudendo che le eresie gli erano state raccontate perchè le credesse. - Giuseppe Grillo, fatto venire dal Castello dell'ovo in cui era rinchiuso, dietro dimande, dichiarò di aver conosciuto anteriormente fra Dionisio e gli altri frati che poi vennero a pranzo in casa sua in Stignano, e di averne buonissima opinione, ma non così Cesare Pisano che vide allora per la prima volta; dichiarò che durante il pranzo fra Dionisio avea detto doversi «rengratiar Dio di tante gracie che ci fà e cose simile», ma non avea detto nulla contro la fede, perchè egli «saria ricorso da superiori», ed anzi lo stesso fra Dionisio fece poi un sermone in Chiesa, in Stignano, presenti tre dottori e moltitudine di popolo, e fu lodato assai. Avvertito di non dir bugie, il Grillo soggiunse che avea detto la verità; che dal Petrolo, per mezzo del figlio di Desiderio Lucane, gli era stato raccomandato di volersi esaminare in favor suo; che da Mario Flaccavento come pure da Felice Gagliardo e Camillo Ademari, prima di venire dal Castello dell'ovo, gli era stato raccomandato di voler dire che in Stignano si era mangiato carne in giorno di venerdì o sabato, e che egli stesso l'avea mangiata inavvertentemente, poichè così trovavasi affermato in processo, e non dicendo così anche lui, avrebbe avuto la corda, ma egli avea risposto di non voler dire la bugia (tanti erano impegnati a non far alleviare la posizione degl'inquisiti, o invece tanto era furbo questo giovanotto che inventava sollecitazioni per procurarsi credito). - Si fece poi venire fra Dionisio, per sapere in che giorno fosse stato in Soriano, e se il Pizzoni vi fosse stato con lui. Dietro varii tentennamenti di reminiscenze, egli conchiuse che vi fu col Pizzoni il mercoledì, e il Pizzoni si partì subito pel suo conventino poco distante da Soriano, che in quella sera si mangiò co' frati, e l'indomani, giovedì, si mangiò nel dormitorio col Priore, col Lettore, con alcuni spagnuoli, ed anche con Giulio Soldaniero. - Da ultimo si fece venire il Pizzoni per udirlo sullo stesso fatto, ed egli lo negò assolutamente (senza dubbio a torto); e dietro dimande disse che non era mai stato a Soriano con fra Dionisio, che non aveva mai confermato eresie nè biasimata l'astinenza dal mangiar carne per divozione, e che questa era un'infamia in suo danno da parte di fra Dionisio e del Campanella conformemente alle loro minacce!

A questo punto si erano già raccolti esami sufficienti per poter passare dal processo informativo, che dicevasi pure offensivo, al processo ripetitivo: difatti il 31 luglio, sull'istanza del Procuratore fiscale, la Corte emanò i suoi Decreti in questo senso, ed abbiamo ragione di credere che non poco v'influì Mons.r Nunzio, il quale era spesso sollecitato dal Vicerè a terminare la causa dell'eresia, acciò si potesse procedere alla spedizione di quella della congiura. Ma il Vescovo di Termoli, che avea realmente studiata la causa ed era abituato alla ricerca della verità senza transazioni, scorgendo un cumulo di circostanze poco atte a rassicurare la sua coscienza, volle che fossero interrogati dal tribunale il Priore e il Lettore di Soriano, fra Domenico da Polistina e così pure Valerio Bruno, inoltre fra Gio. Battista di Placanica e fra Francesco Merlino già interrogati dal Vescovo di Squillace in Calabria: e però fin dal 18 luglio avea con una sua lettera commesso a quel Vescovo di mandare tutti que' frati in Napoli, e di chiarire con nuovi esami alcuni punti del processo già da lui fatto nell'anno precedente; ed il Vescovo eseguì la commissione con ogni sollecitudine, procurando la comparsa de' frati al tribunale di Napoli ed inviando poi anche l'Informazione supplementare da lui presa, che per tal modo trovasi inserta nel processo di Napoli. Come si rileva dai documenti che fanno parte di questa Informazione, il Priore di Soriano era già venuto in Napoli chiamatovi dal P.e Generale, e fra Domenico da Polistina, funzionante da compagno del Provinciale di Calabria, fu da costui immediatamente inviato; a fra Gio. Battista da Placanica e a fra Francesco Merlino fu fatto dal Vescovo di Squillace, con la comminatoria di molte e gravi pene, precetto di presentarsi al tribunale in Napoli, l'uno nel termine di 20, l'altro nel termine di 25 giorni; al Lettore di Soriano fu fatto un uguale precetto, col termine di 30 giorni. - Si ebbe quindi una serie di altri esami, alcuni de' quali si compirono mentre già il processo ripetitivo faceva il suo corso: noi li poniamo tutti qui in continuazione degli esami precedenti, senza attenerci con rigore assoluto alla cronologia de' diversi atti processuali, per non intralciare di troppo il corso della nostra narrazione.

Ed in prima l'8 e l'11 agosto, nel convento di S. Luigi ove risedeva il Vescovo di Termoli, furono esaminati e riesaminati fra Giuseppe d'Amico Priore di Soriano e fra Domenico di Polistina. L'esame del giorno 8 fu fatto innanzi all'intero tribunale. Fra Giuseppe d'Amico, dietro dimande, disse che fra Dionisio e il Pizzoni vennero insieme a Soriano, un giorno di giovedì al tardi, ed allora nel convento trovavasi pure il Soldaniero, uomo di mala vita, che Mons.r di Mileto non voleva fosse cacciato, come anche Valerio Bruno, servitore del Soldaniero ed egualmente fuoruscito; che il Pizzoni l'indomani se n'andò al suo convento di Pizzoni, d'onde tornò il sabato con Claudio Crispo e si diresse tosto ad Arena ove trovavasi il Campanella; che fra Dionisio, rimasto il venerdì a Soriano, partì egli pure il sabato per Arena, poco dopo ch'era partito il Pizzoni, dicendo di temere che costui conducesse il Campanella a Pizzoni mentre egli volea condurlo a Soriano, e poi l'istesso giorno tornò a Soriano e vi rimase la domenica per farvi una predica, dopo la quale definitivamente se ne partì. Disse che, appena giunto, fra Dionisio dimandò del Soldaniero, e si recò in camera di lui e vi si trattenne un pezzo in colloquio, e ciò accadde nel giugno o luglio 99; che da otto a quindici giorni dopo, il Soldaniero parlò ad esso fra Giuseppe della ribellione, ma solo nel mese di agosto gli raccontò diverse eresie dette da fra Dionisio; che poi, trovandosi esso fra Giuseppe presso il Visitatore in Monteleone, quando già la congiura era scoverta e fra Dionisio era fuggito con una cavalla presa nel convento, riferì ogni cosa al Visitatore ed al Provinciale, ed avvertì al suo ritorno il Soldaniero di quanto avea fatto; che il Soldaniero allora gli rispose di dover essere esaminato, perchè avrebbe deposto anche di più, ma non aveva mai pregato lui che cacciasse fra Dionisio dal convento. Aggiunse che il Soldaniero non gli aveva mai discorso del Pizzoni come fautore di eresie, bensì come sollecitatore perchè «si havesse voluto trovare con l'intentione loro», e solo di fra Dionisio gli raccontò le diverse eresie, che egli si fece a ripetere; (così era certo l'armeggio per la ribellione da parte di tutti costoro insieme col Campanella, ma la faccenda dell'eresia era imputabile solo a fra Dionisio, che veramente ne faceva professione almeno come di un'arma di guerra). - Quanto a fra Domenico di Polistina, costui confermò che agli 8 o 9 di agosto dell'anno precedente, dopo l'incontro avuto col Campanella in Davoli, la sua fuga da quel posto per minacce di banditi e il suo arrivo in Soriano, seppe dal Soldaniero che fra Dionisio gli aveva esposto un gran numero di eresie, il fatto osceno contro l'ostia etc., eresie che fra Dionisio e il Campanella doveano predicare al tempo della ribellione, ed egli poi ne parlò a fra Cornelio del Monte; che del Campanella non seppe al di là delle cose dette, e con fra Cornelio non parlò del Campanella per conto dell'ostia consacrata (così fra Cornelio risultava falso, ma rimaneva pure a vedere se non era falso in ciò fra Domenico, e fino a qual punto costui fosse stato informato dal Soldaniero o viceversa). Aggiunse poi, spontaneamente, che il Campanella molti anni prima avea voluto uscire dalla Religione, e si era detto pubblicamente che avea lasciato la Calabria in compagnia di un certo Abramo ebreo o caldeo; (era sempre lui fra Domenico che evocava tale fatto, e questa volta per detto altrui, non per propria scienza). - Il nuovo esame di costoro, l'11 agosto, fu fatto innanzi al solo Vescovo di Termoli. Fra Domenico da Polistina narrò qualche circostanza di poco valore relativamente al suo incontro col Soldaniero. Fra Giuseppe d'Amico aggiunse che, parlando della ribellione col Soldaniero nell'agosto, ebbe a vedere nelle mani di lui una lettera del Campanella scritta di suo pugno, giacchè ne conosceva il carattere, la quale finiva col dire al Soldaniero che su quanto gli avea discorso fra Dionisio, se ne rimetteva al suo luogotenente fra Gio. Battista di Pizzoni; (così fra Giuseppe parlava sempre de' soli fatti della ribellione, ma è pur vero che non avrebbe potuto parlare de' fatti di eresia laddove fossero stati a sua notizia fin da principio, mentre non si era curato di denunziarli per tanto tempo). Infine, dietro dimanda, depose che il Campanella, quando si partì dalla Calabria, diceva di partirsene per la persecuzione che soffriva dal Provinciale di quel tempo P.e Pietro Ponzio, e si disse che era partito con un Abramo, ebreo molto scienziato ma che esso fra Giuseppe non avea veduto; (nessuno dunque avea veduto questo ebreo, ma è pur vero che a nessuno conveniva ammettere di averlo veduto).

Di poi, il 21 agosto, fu interrogato in Castel nuovo Valerio Bruno. Costui disse che era stato per circa un anno col Soldaniero nel convento di Soriano, che avea là veduto fra Dionisio rimastovi due giorni, durante i quali venne pure il Pizzoni, e che li avea veduti cacciare entrambi dal Priore a richiesta del Soldaniero, scandalizzato perchè gli avevano palesate molte eresie, le quali egli si fece a ripetere. Disse che fra Dionisio e il Soldaniero aveano mangiato insieme un giorno di martedì o venerdì; giorno in cui il Soldaniero si asteneva dalla carne per voto fatto in sèguito di un colpo di archibugio ricevuto, ed egli avea udito fra Dionisio maravigliarsene; che non seppe altro di ciò, ma poi l'indomani, essendo venuto il Pizzoni ed avendo confermato le eresie dette da fra Dionisio, ad un'ora o due in circa di giorno udì il Soldaniero che «comminciò a gridare che cose son queste che mi dite, à par mio dite queste cose, è comminciò à chiamare il Priore, Padre Priore venite, cacciati questi»; che il Priore il quale nella sera precedente avea cercato di scusare fra Dionisio dicendo che era briaco, ed avea raccomandato al Soldaniero, per amore di Dio, l'onore della Religione, finì per accorrere insieme col Lettore ed altri e così cacciarono que' due frati. Insomma, accumulando circostanze in modo abbastanza comico, questo furfante procurò di rendere sempre più credibile il suo racconto, ma avvertito da' Giudici che era caduto in qualche contradizione e che badasse di non dire bugie, cominciò lui a turbarsi veramente e ad esclamare «misericordia Signore, per l'amor di Dio, che questa cosa hà un anno che è passata che non mene ricordo;... io non son dottore, facilmente si può pigliare et errare una parola, habbiatimi compassione Signore». Infine dichiarò di non avere udito egli stesso, nè da altri all'infuori del Soldaniero, cose contrarie alla fede provenienti da fra Dionisio e dal Pizzoni; (evidentemente Valerio Bruno si era messo anche questa volta d'accordo col Soldaniero, per appoggiarne le deposizioni).

Vennero in sèguito da Calabria fra Gio. Battista da Placanica e fra Francesco Merlino, e il 30 agosto e il 2 7bre, quando già il processo ripetitivo faceva il suo corso, e furono sottoposti al primo esame e all'esame ripetitivo nel solito convento di S. Luigi presso Palazzo: venne egualmente fra Vincenzo di Lungro Lettore di Soriano, e poco dopo, il 7 7bre, fu egli pure esaminato nel medesimo convento innanzi all'intero tribunale. I due primi riuscirono di speciale interesse circa la persona del Campanella, l'altro circa la persona di fra Dionisio e i fatti di costui in Soriano. Fra Gio. Battista di Placanica disse di stare «di mal cervello, ciò e, di mal memoria», e si riferì costantemente all'esame già fatto dieci mesi innanzi in Squillace; fu interrogato su' concetti che il Campanella aveva espressi intorno all'immortalità dell'anima, alla fornicazione, alla scomunica, alle cerimonie de' turchi, alle religioni claustrali, e in genere non se ne seppe più di quanto se n'era saputo prima; può dirsi che fu esplicito solamente nell'attestare che il Campanella parlava della fornicazione in modo da sembrare che quasi dicesse non esser peccato, ed oltracciò nell'attestare che non potè avere nè dal Vescovo di Squillace nè dal P.e Provinciale la licenza di confessare e predicare in Monasterace. Nell'esame ripetitivo in sostanza disse di aver conosciuto il Campanella quando esso era novizio in Placanica, non aver mai udito direttamente da lui cose di eresie, aver solamente udito da lui dire «che inferno, che inferno» nel parlare a' suoi discepoli e segnatamente a Fulvio Vua e Giulio Contestabile, come pure che gli atti carnali non erano peccati tanto grandi quanto si ritenevano, poichè «Dio havea fatto il membro genitale...» per usarne. - Fra Francesco Merlino, nel primo esame, riferendosi lui pure all'esame sostenuto in Calabria, disse di avere solamente udito dire che il Campanella negava i miracoli fatti da Mosè, che avea mangiato più volte carne in giorni proibiti e segnatamente una porchetta insieme co' banditi in Pizzoni, che teneva con sè il demonio, e per arte diabolica conosceva tutto quello che sapeva; disse pure, a proposito del disprezzo della scomunica, che egli si trovava studente in S. Domenico di Napoli, quando il Campanella dimorava pure in questa città presso Mario del Tufo, e che venuto un giorno in S. Domenico il Campanella fu preso e tradotto nelle carceri del Nunzio, essendosi allora dato per motivo della carcerazione che aveva spiriti, ma essendosi poi saputo che ci erano altri motivi, e in ispecie che parlando della scomunica per coloro i quali estraevano libri dalla libreria avea detto, «come è questa scomunica, che, si mangia»? Nell'esame ripetitivo poi dichiarò, che avea cominciato a conoscere di vista il Campanella nel convento di Placanica, di cui esso Campanella era figlio, che in sèguito l'avea conosciuto in Napoli, quindi di nuovo l'avea visto in Calabria, essendosi più volte visitati, che non sapeva che avesse detto eresie, che altri aveano palesate più cose contro la fede da lui dette o fatte, le quali egli si diè a ripetere; che in Stilo passava per uomo onesto, che si era detto essere partito dalla Calabria coll'ebreo Abramo, ed avere la sua scienza per arte diabolica, ma egli non credeva questo, avendo conosciuto «che hà bello ingegno et hà studiato assai». Inoltre che si era detto «che esso si voleva fare nominare il Messia della verità», ma di questa, come di altre cose, si parlò dopo la carcerazione, e più di una volta fece notare tale circostanza, dicendo, «molte cose sono state dette subito che questi fratri furono presi, et non so come uscessero», (ben si vede che in fondo il Campanella non riusciva aggravato di troppo da tali deposizioni). - Quanto a fra Vincenzo, Lettore di Soriano, egli narrò la venuta di fra Dionisio e del Pizzoni in Soriano con lievissime differenze dal modo in cui l'avea narrata il Priore fra Giuseppe: soltanto aggiunse di più, che quando fra Dionisio andò momentaneamente ad Arena per condurre il Campanella a Soriano, il Campanella non volle venirvi; inoltre che veramente, 4 o 5 giorni dopo la dipartita di fra Dionisio, il Soldaniero gli disse che fra Dionisio era venuto a trattare della ribellione contro il Re, avendo molti Signori per lui, e gli disse pure che fra Dionisio non credeva a nulla, comunicandogli il fatto del pugno dato al crocifisso e il fatto osceno contro l'ostia perpetrato da fra Dionisio medesimo, cose «approbate da fra Dionisio come cose del Campanella». Negò assolutamente che il Soldaniero avesse comunicato al Priore i detti e fatti contro la fede, se non dopo un mese o dieci giorni in circa; e per quanto i Giudici avessero insistito con le loro dimande, negò che il Soldaniero avesse mai parlato di tali cose mentre fra Dionisio era in Soriano per farlo cacciare dal convento, come pure che avesse attribuite le eresie anche al Pizzoni, dichiarando che il Soldaniero «ben diceva, che frà Thomaso Campanella, frà Dionisio Pontio, frà Gio. Battista di Pizzoni, frà Silvestro di Lauriana, frà Pietro de Stilo, et frà Dominico di Stignano erano tutto una cosa insiemi, mà non mi parlò di heresie contra frà Gio. Battista predetto». (Si sarebbe tentati di credere che il Pizzoni, per essersi stretto a fra Dionisio e al Campanella, dovea dapprima venire spietatamente involto nel medesimo destino loro, ma avendo poi fatto il suo orribile voltafaccia, questi frati di Soriano, appartenenti alla fazione del Polistina, doveano oramai proteggerlo: intanto per fra Vincenzo il Campanella riusciva egli pure imputabile delle peggiori cose contro la fede, e il Soldaniero rimaneva per entrambi que' frati scoperto).

Mentre in Napoli si facevano questi esami, in Squillace nello stesso tempo, dall'8 agosto all'8 7bre, il Vescovo esauriva la sua Informazione supplementare, la quale riguardava interamente la persona del Campanella. Mediante i diaconi selvaggi della sua Corte citò ciascun teste a comparire personalmente innanzi a lui, sotto le solite gravi pene ecclesiastiche, in brevissimi termini: ed egli medesimo nel suo Palazzo, col suo Vicario Sir Agazio Colobraro e coll'Auditore Andrea Mantegna, procedè a quasi tutti gli esami. - Eccone un sunto. Vespasiano Vosco dottore di Girifalco dichiarò, che dopo la carcerazione del Campanella udì nella piazza di Squillace dire pubblicamente che costui riteneva Cristo essere un semplice eremita e Maria Maddalena sua concubina. - Gio. Battista Rinaldis dottore di Guardavalle dichiarò di aver saputo dalla sua suocera Dianora Santaguida, vedova di Ottavio Carnevale, che fra Scipione Politi le aveva detto che il Campanella «per stratiare et burlare li patri cappoccini, mentre andavano in Chiesa, li dicia dove andati, ad adorare un appiccato». - Marcello Fonte di Stignano confermò di aver saputo da Geronimo padre del Campanella, che costui non volle predicare in Stilo dicendo di non voler fare l'officio di Cantimbanco. - Il Rev. Scipione Ciordo di Camini confermò di avere udito da alcune persone del suo paese che il Campanella diceva «che la buggera (la fornicazione) non era peccato». - Fabio Contestabile di Stilo confermò che gli era stato detto dal Campanella di pigliarsi spassi e piaceri quanto più poteva «che del resto è pensiero di chi è». - La Sig.ra Dianora Santaguida di S.ta Caterina (questa sola innanzi all'Auditore Mantegna espressamente inviato) dichiarò che da Luzio Paparo suo parente avea saputo di aver lui udito dire che il Campanella diceva, «non vi ca (int. non vedi che) adorano uno impiso»; dichiarò che non avea saputo questo fatto da fra Scipione Politi, poichè costui non era venuto in casa sua, ma nello studio di suo figlio, separato dalla casa sua; aggiunse che l'aveva poi comunicato a Marcello Contestabile suo nipote. - Marcello Contestabile di Guardavalle raccontò ne' seguenti termini un discorso avuto con sua zia la Sig.ra Santaguida, a tempo della persecuzione fatta da Carlo Spinelli e dall'Avvocato fiscale; essa disse, «o Marcello figlio mio, secondo si intende questo fra Thomaso che vene a S.to Nicola alli monaci è peccato non me e abrusciato, et io le disse S.ra zia che cosa passa, et la detta mi rispose dicendomi figlio mio io tremo de dirti questi paroli, et raggionandomi disse credi Marcello che uno homo da bene che sta sotto parte illoco, nominando il nome ma non mi si ricorda come lo nominò ma per quanto mi ricordo mi pare che lo chiamò mastro Jacopo, et disse che quello l'havea detto che lo detto fra thomaso solia venire in S.to Nicola monesterio de dominichini di detta terra, et illà con li monaci facia banchetti et dopo si faciano portare uno leuto et sonavano et detti monaci et altri seculari ballavano et che... (un luridume da non riportarsi)... et detta donna me lo dicia con gran modestia sugiungendo che lo detto pure li disse che lo detto fra Thomaso raggionando di Jesu Christo disse, dati credito ad uno che morio impiso, et di questa parola spaventati io et la detta mia zia dicendone Jesu Jesu Vergine maria mi levai» etc. - Jacopo Squillacioti di S.ta Caterina (il mastro Jacopo della Santaguida) negò assolutamente di aver mai saputo e detto alla Sig.ra il lurido fatto che la modesta e pia donna riferiva, e cosi pure qualche concetto eretico che il Campanella e suoi compagni avessero in qualunque modo espresso: unicamente attestò avere udito dire «che era venuto a S.to Nicola delli dominichini uno fra Thomaso, et diciano li genti di S.ta Catherina che non guardava hom' in faccia ma sempre si guardava la ungnia». - Fu questa l'Informazione supplementare di Squillace, dalla quale sicuramente non emerse nulla di nuovo, e se qualche aneddoto venne in luce, esso fu smentito sul nascere; può dirsi di più che rimase quasi sempre infruttuosa la ricerca della provenienza de' fatti in quistione, e sopratutto la ricerca delle persone presenti allorchè essi erano stati enunciati, oggetto principale dell'Informazione, per quanto dalle interrogazioni ivi registrate è lecito argomentare.

II. Possiamo ora occuparci del processo ripetitivo, per lo quale, come abbiamo fatto avvertire più sopra, la Corte fin dal 31 luglio 1600 aveva già emanati i suoi decreti. E gioverà innanzi tutto dire in che consistevano le ripetizioni, e in qual modo vi si procedeva secondo la giurisprudenza del tempo. Le ripetizioni concernevano essenzialmente i testimoni del fisco. Il Procuratore fiscale, che compariva in dati momenti senza assistere alle sedute della Corte, facendo lo spoglio degli esami raccolti compilava tanti Articoli, capi, o posizioni, esprimenti tanti fatti o detti incriminabili da' quali emergeva il delitto onde si intitolava la causa. Questi articoli egli redigeva ed esibiva per far constare chiaramente il delitto, e in ciascuno di essi poneva, offriva, e voleva e intendeva provare ciascun fatto o detto, ciò che per altro era stato ed era vero, pubblico, notorio, pubblica voce e fama, e però egli, il fiscale, protestava di non ritenersi costretto ad una prova superflua! Presentando gli articoli conditi di un simile noioso formulario, faceva istanza e chiedeva che si venisse alla ripetizione; e la Corte, veduti gli atti e l'istanza del fiscale, emanava un Decreto, col quale ordinava la consegna di una copia degli articoli all'imputato, e stabiliva un termine entro il quale l'imputato dovea formare e produrre gl'Interrogatorii da farsi a' testimoni del fisco sopra quegli articoli, ed anche dimandare un Avvocato e procuratore, dichiarando che in contrario si sarebbe proceduto alla ripetizione de' testimoni senza interrogatorii; per solito la Corte deputava pure fin d'allora, ex nunc prout ex tunc, un Avvocato e difensore di ufficio quando prevedeva che l'imputato non l'avrebbe chiesto da sè, ed infine ordinava di notificare ogni cosa all'imputato. Nello stesso giorno il Mastrodatti faceva la consegna degli articoli e la notificazione del termine con la deputazione dell'Avvocato, e ne redigeva un atto in presenza di quattro testimoni, ordinariamente carcerati e carcerieri. Quindi l'Avvocato presentava a nome dell'imputato gl'interrogatorii da rivolgersi a' testimoni contro gli articoli, e faceva istanza ed umilmente chiedeva che i testimoni prima di esaminarsi su ciascuno articolo rispondessero a quegl'interrogatorii, in contrario con riverenza protestava. Quest'interrogatorii erano preceduti rutinariamente da alcune ammonizioni che si doveano fare a ciascun testimonio, cioè, di essere obbligato a dire la pura e semplice verità, sotto pena di scomunica ed altre molte e gravi pene, di tener presente che si commetteva falsità non solo col proferire il falso ma anche col tacere il vero, e che commettendo, Dio non voglia, la falsità, era sempre tenuto a restituire la fama. E non meno rutinariamente esigevano che ciascun testimone dicesse il suo nome, cognome, padre, madre, patria, esercizio, a spese di chi vivesse, quanto possedesse, se fosse solito confessarsi e comunicarsi, e presso quale confessore e in quale chiesa e da quanto tempo l'avesse fatto, se fosse stato mai scomunicato, e da quanto tempo e per quale causa: e poi, se conoscesse l'imputato, da quanto tempo e per quale causa, se gli fosse amico o nemico e perchè, se ci avesse mai conversato intrinsecamente e quale opinione ne avesse circa le cose della fede; e poi, venendo a ciascuna imputazione, se avesse udito qualche volta parlare l'imputato del tale argomento e in che senso, e con quali parole, e in qual luogo, e in qual parte di quel luogo, e con quale occasione, e in presenza di chi, e quante volte, e in quale ora, giorno, mese ed anno, e se determinatamente o d'improvviso, e se con assenso o con dissenso del testimone, e in caso di dissenso, con quali parole questo fu espresso e quali risposte ebbe etc. etc. etc. Ci rimangono saggi d'interrogatorii che costituiscono veri monumenti di fecondità in sottigliezze, e sempre allo scopo di far trovare qualche contradizione ne' testimoni, o di stancare interroganti ed interrogati e prender tempo. Era poi anche in facoltà dell'Avvocato di aggiungere qualche speciale interrogatorio, oltre quelli calcati sugli articoli, e perfino d'indicare qualche persona speciale cui quell'interrogatorio aggiunto dovea rivolgersi: d'altra parte, è quasi superfluo il dirlo, i Giudici non mancavano quasi mai dirivolgere di tempo in tempo a ciascun testimone, oltre la detta doppia serie di dimande, qualche loro particolare dimanda d'ufficio.

In tal modo fu iniziato e condotto anche il processo ripetitivo nella causa del Campanella e socii. Procuratore fiscale fu il Reverendo Andrea Sebastiano, fiscale della Curia Arcivescovile, che trovasi nella massima parte delle scritture processuali di quel tempo, avendo poi avuto a successore nel 1603 il Rev.do Silvestro Santorello: egli diede gli articoli soltanto contro ciascuno de' tre imputati principali, il Campanella, il Pizzoni e fra Dionisio, incolpandoli tutti egualmente «de haeretica pravitate et atheismo»; ma vedremo che durante la causa svanì l'ateismo e rimase unicamente l'eretica pravità. Il tribunale emanò tre Decreti, uno per ciascuno de' tre imputati, assegnando il termine di soli 4 giorni perchè si producessero gl'interrogatorii, ma veramente tollerò che questi fossero prodotti fin 16 giorni dopo, come si vede accaduto appunto pel Campanella, essendo stati gl'interrogatorii in nome suo presentati il 16 agosto. Nel Decreto relativo al Campanella si disse: «atteso che fra Tommaso Campanella simula o sembra simulare la pazzia, i Signori giudici, senza deliberar nulla sopra di ciò, perchè la giustizia non patisca danno in qualche parte e per abbondanza di cautela, decretarono che ad esso fra Tommaso Campanella venga assegnato d'ufficio come si assegna per curatore ed avvocato il Rev.do Attilio Cracco». Questo medesimo Cracco fu assegnato per Avvocato e difensore al Pizzoni e a fra Dionisio, nel caso in cui costoro non avessero da loro medesimi chiesto un Avvocato e procuratore. Per quanto ci consta da diverse scritture di quel tempo, il Rev.do Attilio Cracco era l'avvocato officioso quotidiano nelle cause del S.to Officio in Napoli, salvo l'assistervi o no con la debita diligenza; così nel corso di questo medesimo processo troviamo una supplica di fra Dionisio a' Giudici perchè provvedessero a far andare presso di lui il Cracco che non ci andava. Da una nota confidenziale, scritta da costui a piè di un atto del processo, rilevasi che egli era compare del Mastrodatti Prezioso e certamente coll'avvocatura di officio faceva la sua carriera nella Curia: difatti in una scrittura del 23 luglio 1615, durante l'Arcivescovato del Card.l Carafa, essendo Curzio Palumbo Vicario delle Monache e Commissario delle cause di S.to Officio, troviamo il Rev.do Attilio Cracco Canonico ed Avvocato fiscale.

Ecco ora con la maggior brevità possibile i particolari degli articoli e degl'interrogatorii dati per ciascuno de' tre inquisiti, contro i quali si fece il processo ripetitivo. - Contro il Campanella furono dati dal fiscale non meno di 20 articoli, riproducendo anche tutte le scritture, atti e processi formati contro di lui. Co' 20 articoli, corredati delle formole sopra esposte, il Fiscale volle provare avere il Campanella detto apertamente e pubblicamente: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera, che Cristo non era Dio ma un pezzente, che l'ecclissi del sole a tempo della passione di Cristo non fu miracolosa nè universale, che la risurrezione di Cristo non fu vera e il corpo di lui, al pari di quelli di certi legislatori, fu rubato, che Maria non rimase vergine, che nell'Eucaristia non c'era il corpo di Cristo ed essa fu istituita per semplice commemorazione, che i Sacramenti erano invenzioni di uomini ed istituiti per ragione di Stato, che i miracoli di Cristo non erano veri ed ognuno potea farne, e Mosè passò il mare profittando del flusso e riflusso e Lazzaro risuscitò per finzione, che era una stoltezza adorare il crocifisso, che non c'era purgatorio nè paradiso nè inferno e le anime tornavano nel nulla, che l'anima era mortale, che non c'erano i diavoli, che egli volea predicare una nuova legge migliore di quella de' Cristiani, che il peccato era tale in quanto così credevasi dagli uomini e non era peccato quello che commettevasi di nascosto, che gli atti venerei non erano peccati e la Chiesa avea fatto male a proibirli, che le Sacre Scritture erano invenzioni degli Apostoli ad oggetto d'introdurre la fede di Cristo, che era lecito cibarsi di carne in ogni tempo, che egli sapeva fare miracoli o poteva farli, che la legge de' turchi era migliore di quella de' Cristiani. Come si vede, egli presentò i fatti emersi dai varii processi, accogliendoli con tutta la larghezza possibile e così come erano stati deposti. Naturalmente anche l'Avvocato riprodusse le cose medesime per conto suo negl'interrogatorii con tutto il formulario d'uso; nè aggiunse alcuna cosa di proprio per combattere le accuse, ma invocò la dottrina, bontà e religione de' Signori della Corte, notando che in simili casi conveniva che essi fossero non solo giudici ma anche patroni per indagare la verità.

Quanto al Pizzoni, gli articoli del fiscale contro di lui furono solamente 4, volendo provare aver lui detto, creduto ed anche tentato d'insegnare, che non c'era Dio, che non c'era Trinità, che era vano astenersi dal mangiar carne, ed in complesso tutte le eresie che si pretendevano dette dal Campanella, per lo che aveva con costui una cifra secondo la quale si scrivevano scambievolmente. E l'Avvocato si attenne alle stesse cose negl'interrogatorii, e per l'articolo in cui si affermava avere il Pizzoni professate tutte le eresie del Campanella volle che ogni testimone dicesse: se conosceva che il Pizzoni e il Campanella fossero familiari tra loro e da quali segni l'avea rilevato, se aveva mai udito costoro parlare di cose contro la fede e di quali cose, dove, e quando, e alla presenza di chi, e in modo aperto e chiaro o piuttosto oscuro, se aveva poi riferito ad altri queste cose, e a chi, e dove, e quando, e con quale occasione e a quale scopo, se infine conosceva quali fossero le opinioni del Campanella e che le esponesse etc. etc. Diede dippiù altri interrogatorii aggiunti, volendo che ogni testimone dicesse se era stato persuaso da qualche giudice a deporre contro il Pizzoni, segnatamente perchè il Pizzoni avea deposto contro di lui, se sapeva che fossero state scambiate lettere tra il Pizzoni e il Campanella, e cosa esse contenessero e in quale carattere fossero scritte, se sapeva che il Campanella e fra Dionisio avessero minacciato il Pizzoni e procurate fedi testimoniali false, se sapeva che il Pizzoni fosse stato lettore e predicatore di buone dottrine cattoliche o si fosse mai detto il contrario, se infine esso testimone era stato mai inquisito, processato e condannato, e da chi, e dove e per quale causa.

Da ultimo, quanto a fra Dionisio, vi furono per parte del fiscale 17 articoli, volendo provare aver lui detto, creduto ed insegnato o tentato d'insegnare: che non c'era Dio, che la Trinità era una chimera... insomma quasi tutte le cose affermate contro il Campanella, aggiuntovi il fatto osceno in dispregio dell'ostia che sarebbe stato da esso fra Dionisio perpetrato, e con la conchiusione dopo tanto lusso di articoli, che aveva tenuto, creduto, insegnato o tentato d'insegnare tutte e ciascuna delle opinioni eretiche le quali si pretendeva aver tenute, credute e insegnate il Campanella. È superfluo dire che l'Avvocato seguì puntualmente il fiscale negl'interrogatorii; ma bisogna notare che aggiunse un'altra quantità d'interrogatorii divisa in tre gruppi, l'uno circa la persona del Pizzoni, l'altro circa la persona del Lauriana, il terzo circa la persona del Soldaniero. E col 1° volle che fosse il Pizzoni interrogato sopra più fatti: se esso Pizzoni fosse stato amico o nemico di fra Dionisio ed essendogli nemico come mai avesse fra Dionisio potuto comunicargli tanto gravi eresie, se fosse vero l'aver rubato molti scritti e prediche di fra Dionisio e l'essersene costui lagnato co' superiori, se avesse fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare per l'omicidio del P.e Ponzio, se fosse stato mai cacciato da qualche convento in cui fra Dionisio era Priore, se nel luglio 99 incontratosi con fra Dionisio in Stilo avesse cercato di parlargli e fra Dionisio vi si fosse rifiutato, se avesse dimorato più a lungo col Campanella ed avutane maggior conoscenza in paragone di fra Dionisio. Col 2° gruppo d'interrogatorii volle che il Lauriana dicesse: se esso Lauriana avesse cercato di vendere a fra Vincenzo Perugino certi scritti, che fra Vincenzo non volle comprare avendo conosciuto che apparteneano a fra Dionisio, se fosse stato mai suddito di fra Dionisio e da costui pubblicamente gastigato ed espulso dal convento per mala vita, se nel convento di Pizzoni ci fosse un passaggio per la cella del Vicario volendo andare alla cucina, se in Pizzoni fra Dionisio fosse stato prima o contemporaneamente al Campanella. Infine col 3° gruppo d'interrogatorii volle che il Soldaniero dicesse: se esso Soldaniero fosse andato nella camera in cui trovavasi carcerato fra Dionisio per parlargli, avendogli pure fatto visite, assistenza, spese, e prestato danaro quando fra Dionisio era infermo, allo scopo di conciliarsi con lui; inoltre se nelle carceri gli avesse rivelate le deposizioni fatte contro di lui, e divulgate alcune circostanze deposte nel suo esame.

Evidentemente gl'interrogatorii aggiunti, pel Pizzoni e per fra Dionisio, venivano da costoro medesimi suggeriti all'Avvocato con lo scopo di prepararsi il terreno alle difese. E così pel povero Campanella, che continuava a mostrarsi pazzo, non vi furono interrogatorii aggiunti, ed invece di essi vi furono le semplici raccomandazioni a' Signori Giudici.

Il 21 agosto 1600, nella seduta medesima in cui si faceva l'esame informativo di Valerio Bruno, procedevasi alle ripetizioni, cominciando da quelle contro il Campanella, che furono in breve esaurite nelle sedute successive del 22 e 23, aggiungendovisi una ripetizione supplementare il 29 agosto. Furono ripetuti il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo, fra Pietro di Stilo; la ripetizione del Petrolo ebbe bisogno di un supplimento, per chiarire alcuni punti su' quali non parve di avere avute risposte da poter contentare. Ad ognuno di costoro si lesse dapprima, con le debite ammonizioni, ogni singolo interrogatorio, di poi ogni singolo articolo «della parte avversa», a meno che la persona del testimone non vi fosse del tutto estranea, aggiuntavi pure qua e là qualche dimanda ex officio; e però nel processo si trovano inserti prima gl'interrogatorii con le ammonizioni e poi gli articoli, secondo l'ordine col quale doveano rivolgersi al testimone per averne le risposte. I lettori intenderanno che noi non potremmo in alcun modo riferire tutta la serie di queste risposte, le quali veramente dànno una quantità notevole di notizie, onde simili atti processuali riescono sempre di una grande importanza: moltissime notizie, da essi rilevate, hanno servito di base alla nostra narrazione degli antecedenti del Campanella, della congiura ed anche de' primi atti del processo; qui terremo conto essenzialmente delle cose che riflettono i punti più cospicui della causa.

Il Soldaniero (21 agosto) dovè dichiarare che era stato una volta scomunicato «per havere preso alcuni ribelli in chiesa» senza dire se fosse stato assoluto; e vedremo che pure di questo fatto si servì poi fra Dionisio per infermare la validità della sua testimonianza. Del rimanente continuò a dire che non aveva mai conosciuto il Campanella, non aveva mai ricevuta da lui alcuna lettera, e ne aveva avuta relazione solo da fra Dionisio, dal Pizzoni e da fra Pietro di Stilo, il quale ultimo non gli disse nulla del Campanella contro la fede, mentre i due primi gli dissero che il Campanella era uomo d'importanza, poteva fare miracoli, poteva risuscitar morti (null'altro che questo). Continuò a dire che mandò il Priore di Soriano a rivelare ogni cosa al Visitatore, e dichiarò di non avere avuta niuna promessa per deporre nel modo in cui depose. Naturalmente, non avendo mai conosciuto il Campanella, non potè attestare niuna delle cose affermate ne' 20 articoli del fiscale. - Il Pizzoni (22 agosto) ripetè le solite cose. Aveva conosciuto il Campanella da lungo tempo, ma solo quella volta che lo vide in luglio, lo udì parlare di eresie. Accennò (abbastanza goffamente) alle argomentazioni con le quali si era sforzato di ribattere le eresie che il Campanella aveva proferite, ed alla lettera che scrisse al P.e Generale, con l'opera del Lauriana, per informarlo di tutto; aggiunse che non potè fare altra dimostrazione contro di lui, perchè egli era accompagnato da tre o quattro banditi, come il Caccìa e Marcantonio Contestabile; (sempre senza riguardo alcuno verso il Campanella e solo intento a salvare sè medesimo con la menzogna). Confermò che al suo esame innanzi a fra Cornelio era presente D. Carlo Ruffo, che quell'esame conteneva molti errori e non gli era stato letto come era stato scritto. Sopra ciascuna eresia, che avrebbe udita dal Campanella, molto spesso si riportò agli esami fatti, non ricordandosi bene (circostanza da notarsi), ed infine aggiunse che quando parlava degli esami fatti, intendeva parlare di quelli fatti in Napoli, perchè in quelli fatti in Calabria ci erano «mille errori del scrittore». - Il Lauriana (nella seduta medesima) disse che conosceva il Campanella da due anni, e pel rimanente non fece che risponder sempre, «vedete al mio esamine che sarà llà... non mi posso ricordare... vedete llà all'esamine». Aggiunse infine, «queste cose le mantenerò in faccia à fra Dionisio et à fra Thomaso»; ed allora i Giudici gli fecero l'obiezione naturalissima, «come potrà sostenere quelle cose che dice di non sapere e non ricordare»; ed egli, «io lo sostenerò perchè essi l'hanno detto»; e i Giudici, «quali sono queste cose che i predetti dissero»; ed egli, «stanno scritte all'esamine, vedetelo llà»; e i Giudici, «dica le cose che si contengono in detto esame»; ed egli, «io non me ne ricordo»! Confermò del pari che a Monteleone D. Carlo Ruffo fu presente all'esame; e poi, venendo agli articoli, sul primo, cioè che il Campanella aveva detto non esservi Dio, rispose, «vedete l'esamine che mi pare che lo dica, et esso havea un libro in mano, che trattava de Deo, et si chiama Plinio»; su tutti gli altri rispose che non se ne ricordava, appellandosi continuamente al suo esame. - Il Petrolo (23 agosto) disse di avere conosciuto il Campanella prima che fosse frate, «che esso era prevetello», e poi negli ultimi due anni. Quindi, molto diffusamente, citando una quantità di circostanze, confermò ciascuna delle cose che avea deposte contro di lui. Narrò le pressioni sofferte la prima volta da parte di fra Cornelio per farlo deporre, la lettura fattagli privatamente dell'esame del Pizzoni per avere da lui le deposizioni medesime; e poi la presenza di D. Carlo Ruffo, del Capitano di campagna e di molti birri, nell'esame di Gerace, le pressioni ivi sofferte da parte di fra Cornelio per fargli sottoscrivere un esame che conteneva più di quello che aveva detto, l'andata alla stanza della tortura con lo Sciarava, le violenze di costui che prendendolo pel petto l'obbligò a sottoscrivere; onde si rimise all'esame fatto in Napoli «perchè quello di Calabria non fu scritto come egli diceva». Intanto venne ripetendo le eresie che il Campanella gli aveva espresse in discorsi confidenziali, negando quelle non deposte da lui e taluna malamente scritta in Calabria, come pure le diverse esagerazioni accumulate su quelle da lui deposte (che il fiscale aveva tratte dalle deposizioni del Caccìa, del Pisano etc.). - Fra Pietro di Stilo (nella seduta medesima) dicendo che si era confessato al P.e Gonzales, aggiunse che costui faceva a tutti belle esortazioni, ed andava spesse volte dal Campanella e gli faceva «brutte riprensioni». Narrò la sua conoscenza col Campanella «da che era figliolo», accennando anche ad un progetto di matrimonio tra un fratello suo ed una sorella del Campanella, che poi non si concluse «per questi romori». Confermò di non aver mai udito il Campanella parlare contro la fede, e di averlo solamente dovuto rimproverare come superiore del convento, ammonendolo che non praticasse tanto con secolari. Espose assai minutamente le circostanze verificatesi nel suo primo esame in Squillace, ricordando le dimande fattegli e le risposte date, e il non essersi voluto scrivere il processo verbale, e l'essere stato minacciato di consegna alla Corte Regia da parte del Visitatore e più ancora di fra Cornelio, presenti i birri della Corte; poi le cose medesime verificatesi in Gerace, presenti il Capitano di campagna e i suoi soldati, e l'avergli fra Cornelio mostrati certi ferri co' quali voleva fargli stringere il petto, e d'altra banda l'avergli promesso libertà se dicesse di avere udito eresie dal Campanella, aggiungendo che fra Cornelio aveva preso molti danari da' conventi ed altre robe da' particolari per fornirne gl'inquisiti, e intanto nessuno avea ricevuto nulla. Intorno alla Trinità, a' Sacramenti ed in ispecie all'Eucaristia, e così pure intorno alle Sacre Scritture, non solo negò che il Campanella ne avesse parlato male, ma attestò che alle volte disputando con dottori e con Cappuccini, alle volte predicando in Chiesa, ne aveva parlato sempre bene; del resto egli disse, «io non mi intendo di queste cose perchè son ignorante». Intorno all'ecclissi avvenuta a tempo della morte di Cristo rispose, «sò che il Campanella parlava di stelle, de lune, di clisse, è di terremoti et di tutte le scientie del mondo, è mi parevano cose curiose, è buone, mà dela oscuratione fatta à tempo dela morte di christo non ne sò niente»: intorno a' miracoli poi, pur negando che il Campanella avesse parlato de' miracoli di Cristo come era stato malamente scritto in Gerace, ammise che una volta, mentre il Campanella diceva che le opere sue si potevano comprovare con miracoli, avendo taluno, che forse era il Prestinace, argomentato in materia di miracoli, il Campanella mostrò di sprezzare quegli argomenti ed accennò ad una certa «elevatione di mente». Passando agli articoli, fin dal 1° disse, «poi che il fiscale dice questo, et è comprobato dalla Santa Chiesa che il Campanella è tenuto per uno heretico, vi dico che per l'avenire lo voglio tenere anchora io per heretico, ma però di queste cose contenute in questo articolo non ne sò niente»; ed egualmente per tutti gli altri articoli disse non saperne niente. - Infine il Petrolo (29 agosto) fu esaminato di nuovo, per dare chiarimenti intorno ad alcune cose che aveva ammesso per dette dal Campanella ovvero enunciate in modo confuso, e segnatamente intorno alle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia, intorno all'ecclissi a tempo della morte di Cristo, intorno all'essere stato il sacramento dell'Eucaristia istituito per ragione di Stato. Ed egli, negando quest'ultima proposizione, che disse di non intendere ed attribuì totalmente a fra Cornelio, negando che il Campanella avesse mai parlato di quella tale ecclissi ed ammettendo invece che avea detto essere il sole calato alcune miglia, dichiarò di non ricordarsi delle superstizioni che c'erano nell'Eucaristia. Ed aggiunse: «per l'amore di Dio, le Signorie Vostre non habbiano tanto riguardo alle cose fatte in Calabria, perchè le cose furono fatte tanto imbrogliate, è sotto sopra che non si potria dire»; e ricordò avere un prete di Gerace detto che loro frati si cavavano gli occhi l'un l'altro, ed essere stati dal Mesuraca dati 100 scudi a fra Cornelio perchè processasse mortalmente il Campanella ed egli potesse così guadagnarsi il taglione dalla Corte Regia, narrando di nuovo tutte le circostanze della fuga e cattura sua insieme col Campanella per opera del Mesuraca.

Se ci facciamo a valutare i risultamenti delle ripetizioni contro il Campanella, troviamo le seguenti cose. Riuscirono: assai meno gravi e quasi insignificanti le testimonianze del Soldaniero, già prima poggiate essenzialmente sopra vaghi detti e congetture; abbastanza chiaramente false le deposizioni del Lauriana, già dettate da suggestioni ed ingrossate per bestiale scempiaggine; pur sempre molto gravi e compromettenti le testimonianze del Pizzoni, già date senza dubbio per doppiezza e speranza d'impunità; non meno gravi, comunque attenuate di molto, le testimonianze del Petrolo, già rese per eccessiva timidezza piuttosto che per malvagità; sempre più favorevoli e giustificative da ogni lato le testimonianze di fra Pietro di Stilo, già prima niente affatto lievi per avveduto apprezzamento de' tempi, de' luoghi e delle circostanze. Riuscirono poi unanimi le dichiarazioni di mala condotta de' primi processanti da parte dei frati d'ogni colore, ma se esse giungevano ad infondere gravi dubbî sulla legittimità del processo fondamentale di Calabria, non potevano giungere a scuotere la convinzione che molte eresie aveano dovuto essere manifestate dal Campanella almeno ne' discorsi confidenziali, poichè, mentre p. es. il Pizzoni diceva che «mille errori del scrittore» erano corsi nel suo esame, e il Petrolo diceva che «le cose furono fatte sotto sopra», in fondo entrambi confermavano in tutto o in gran parte le loro testimonianze precedenti.

Ecco ora i particolari degli esami ripetitivi contro il Pizzoni. Essi si fecero immediatamente dopo quelli del Campanella ed occuparono due sedute, il 23 e 24 agosto: furono ripetuti, il Soldaniero (in due volte), il Lauriana, Valerio Bruno e il Petrolo. - Il Soldaniero disse di avere già conosciuto il Pizzoni qualche tempo prima che confermasse le eresie di fra Dionisio, perchè veniva spesso in Soriano; che quando vi venne con fra Dionisio, in due giorni successivi confermò le eresie che costui diceva, cioè che il Sacramento dell'altare non era vero, che egli se n'era servito per un uso osceno, e che i sette peccati (sic) erano stati fatti per ragion di Stato, rimettendosi in tutto il resto all'esame primitivo giacchè non se ne ricordava. Persistè nell'asserire che ne avvertì il Priore ed il Lettore fin dal 1° giorno, e poi, nel 2° giorno, procurò che que' frati fossero cacciati dal convento, affermando che il Pizzoni avea detto potersi sempre mangiar carne, ed avea lodato il Campanella e le sue opinioni eretiche, ond'egli congetturò che tutti e tre que' frati si avessero comunicate le eresie tra loro. Inoltre confermò di aver narrato il fatto a fra Domenico e poi a fra Gio. Battista di Polistina, e dietro dimanda d'ufficio, attestò che credeva costoro uomini da bene; disse di non conoscere lettere scambiate tra il Pizzoni e il Campanella, e infine dovè dichiarare di essere stato processato, secondo lui falsamente, per l'omicidio di due fratelli Soldaniero parenti suoi. Quanto alle cose contenute negli articoli del fiscale, disse che non si ricordava se il Pizzoni avesse o no parlato dell'esistenza di Dio e della Trinità, che avea parlato del potersi mangiar carne ogni giorno, e che egli riteneva avergli discorso di eresie in que' due giorni per insegnargliele! - Il Lauriana disse di aver conosciuto il Pizzoni da oltre sei anni, non averlo mai visto fare o dire qualche cosa contro la fede, e solo averlo udito dire, a proposito di un libro del Campanella, che alcune delle cose scritte in quel libro gli parevano buone ed altre no, mentre esso Lauriana non le riteneva buone, perchè erano contro S. Tommaso, non già contro la fede. Confermò che in Pizzoni il Campanella e il Pizzoni stettero insieme sette giorni, e che quando il Campanella parlò di eresie era presente anche fra Dionisio. Disse di non sapere che il Pizzoni avesse professate le eresie del Campanella, di sapere che costoro si scrivevano ma di non averne mai visto i caratteri, infine di non essere a sua notizia che alcuno avesse minacciato il Pizzoni e procurato fedi false contro di lui. Quanto alla materia degli articoli del fiscale, sopra ognuno di questi rispose o di non averne udito nulla o di non ricordarne nulla. - Valerio Bruno disse di aver conosciuto il Pizzoni in Soriano, ma non avergli mai parlato; di aver udito dal Soldaniero, quando lo fece cacciare dal convento insieme con fra Dionisio, che avea detto mille cose contro la fede, ma non avere saputo nulla di particolare. Non avea saputo nemmeno che avesse detto potersi mangiar carne ogni giorno. Così non potè dare alcuna notizia precisa, e su ciascuno articolo rispose non saperne nulla. - Finalmente il Petrolo disse di aver conosciuto il Pizzoni da due anni, ma non aver mai trattato con lui, di sapere che il Campanella era stato in Pizzoni e che gli era amico, onde si visitavano l'un l'altro; di non potere dir nulla delle opinioni di lui non avendolo trattato. Confermò che alla Roccella, un giorno o due prima della cattura, avea visto lettere venute al Campanella e scritte in cifra, che il Campanella gli disse provenienti dal Pizzoni e da non potersi intendere che tra loro due; dietro dimande d'ufficio, disse dapprima che la lettera in cifra non avea sottoscrizione, di poi che non sapeva se avesse sottoscrizione e che egli non la lesse nè poteva leggerla; (si ricordi che di questa cifra esisteva in processo la sola sottoscrizione del Pizzoni e del Campanella, vergate di mano di fra Cornelio). E in somma non potè dare la benchè menoma notizia delle cose che s'imputavano al Pizzoni, e fu negativo in tutto, dicendo che avea solo congetturato che il Pizzoni e il Campanella fossero amici intrinseci, perchè si scrivevano in cifra tra di loro.

Come si vede, le prove testimoniali contro il Pizzoni si andavano attenuando in un modo sensibile. Il Petrolo e Valerio Bruno non attestavano quasi nulla, mentre il fatto della cifra, deposto e conformato dal Petrolo, poteva riguardare la congiura, non l'eresia, e quel tanto che in genere deponeva Valerio Bruno si fondeva nella deposizione del Soldaniero. Il Lauriana disimpegnavasi straordinariamente bene, con ogni probabilità guidato dallo stesso Pizzoni attenuando le cose già deposte. Il Soldaniero medesimo attestava meno del solito, e d'altronde, continuando a sostenere che il Pizzoni era stato presente in due giorni a' colloquii di fra Dionisio con lui e che egli era ricorso al Priore e al Lettore contro quei frati, cose, specialmente in riguardo al Pizzoni, già ben provate false, non poteva punto conciliarsi la fede de' Giudici. E si può dire che il peggior testimone rimasto a carico del Pizzoni era il Pizzoni medesimo, che con le sue tante rivelazioni contro il Campanella, e col fatto, già ben provato falso, dell'essere ricorso contro costui al P.e Generale e al P.e Visitatore, infondeva grave sospetto che veramente avesse trattato di eresie col Campanella, egli che n'era stato uno degli amici più intimi ed operosi; di tal che la furberia e doppiezza che gli erano naturali, eccitate dalle pressioni inique di fra Cornelio, mentre tanto nocquero al Campanella, nocquero non meno a lui medesimo.

Ci rimane a dire degli esami ripetitivi contro fra Dionisio. Essi si fecero il 26, 28 e 29 agosto, aggiungendovisi anche una ripetizione supplementare nell'ultima seduta. Furono esaminati il Bruno, il Soldaniero, il Pizzoni, il Lauriana, il Petrolo e fra Pietro di Stilo. - Valerio Bruno (26 agosto) disse di conoscere fra Dionisio da un anno, di non avere mai parlato con lui, e di crederlo un uomo dabbene e buon cristiano (singolare credenza mentre andava di nuovo a farlo dichiarare eretico). Attestò di avere solamente udito dal Soldaniero che avea detto «alcune cose contra Dio.... non so che per raggione di Stato, e contra li sette peccati mortali»; inoltre, nel corso degl'interrogatorii, disse di avere anche udito dal medesimo Soldaniero, quando due volte ricorse al Priore e al Lettore contro di lui e del Pizzoni, che avea parlato della Trinità, dell'abuso osceno dell'ostia, del disegno di predicare una nuova legge; per altro dichiarò pure che in que' giorni avea predicato in Soriano, «et li gentilhomini dicevano che predicava buono, mà io non sò quel che si dicesse, mà mi pareva che parlasse de le cose di missere Domine dio, è che parlasse bene». Aggiunse di aver veduto discorrere tra loro alla tavola fra Dionisio e il Soldaniero, ma discorrevano piano, e non sapeva quel che dicessero, nè sapeva «che tra di loro venessero a parole»; di poi dichiarò che fra Dionisio non avea mangiato carne, e avea detto al Soldaniero «Signore, cammarati, perchè non è peccato mangiare caso, ova, e latticini, e niente più occorse» (chiare contradizioni con le deposizioni precedenti). Dimandato d'ufficio se avesse veduto in Napoli il Soldaniero da che trovavasi in carcere, rispose di averlo veduto due volte e di averne solamente avuto conforto, con dire che stesse allegramente, e di averlo poi veduto anche dopo di essere stato esaminato ma senza parlargli. Infine, venendo agli articoli del fiscale, riaffermò le cose dette negl'interrogatorii, e di nuovo attestò di non sapere che fra Dionisio avesse detto esser lecito il mangiare carne ogni giorno indifferentemente. - Il Soldaniero (nella stessa seduta) confermò di aver veduto a Soriano per la prima volta in giugnetto, cioè in luglio, fra Dionisio che gli «fece de basciamano» e rimase a Soriano due giorni, aggiungendo di non averlo mai più veduto in sèguito se non carcerato, a Gerace, a Monteleone, sulle galere, e poi in Napoli, dove trovandosi lui ammalato a letto, esso Soldaniero lo avea guardato dalla porta, senza entrare nella camera. E ripetè ciascuno de' detti e fatti di fra Dionisio contro la fede, presente ed accettante il Pizzoni (poichè ciascuno interrogatorio gli dava modo di ricordarsene), e disse che que' frati aveano definito «impressioni di testa» i voti e le divozioni, come pure i miracoli, che aveano detto essere stati istituiti i Sacramenti dalla Chiesa «ad trahendum ad se»; del resto, nel ripetere ciascuno de' capi da lui deposti, per maggior cautela si riferì sempre al primo esame, dicendo anche una volta, «non esca da queste carceri se quanto ho detto nel mio esamine non è vero». E confermò di averne avvertito il Priore ed il Lettore, ma dovè non di meno attestare che fra Dionisio, ad istanza di un Rutilio di Pucci, predicò, e a lui parve che predicasse dottrine cattoliche (non era stato dunque cacciato a sua istanza dal convento). Non mancarono poi i Giudici di rivolgergli gl'interrogatorii dati espressamente per lui, se cioè avesse visitato, assistito, cibato con le mani sue e fornito di danaro a prestito fra Dionisio, mentre costui trovavasi infermo, per riconciliarsi con lui: il Soldaniero rispose negativamente su tutto. Infine, su ciascuno articolo, non occorre dire che ripetè quanto negl'interrogatorii avea dichiarato. - Il Pizzoni (28 agosto) disse di aver conosciuto fra Dionisio fin da che era studente del Fiorentino, e di essere poi stato suddito di lui nel convento di Nicastro: aggiunse che gli era divenuto nemico da che esso Pizzoni ne avea riconosciute le eresie, onde ne avea avute mille minacce. Confermò quindi avergli fra Dionisio in Pizzoni manifestate quelle medesime eresie, che tre o quattro giorni dopo anche il Campanella gli manifestò, e che esso Pizzoni poi espose al Visitatore e scrisse al Generale, servendosi del Lauriana, il quale così venne egli pure ad averne notizia. Addusse taluni degli argomenti co' quali combattè fra Dionisio, affermando che per quelle così dette verità, mentre erano eresie, non si poteva dir savio il Campanella, dal quale fra Dionisio le faceva derivare; narrò come costui finì per dargli dell'asino, ed egli lo scacciò dal convento, ricordando una quantità di circostanze, di tempo, di luogo, d'occasione (che poteva bene citare a modo suo poichè non c'era stato presente alcun altro). Venne così confermando ciascun capo di accusa a misura che gl'interrogatorii li riducevano alla sua memoria; e sugl'interrogatorii dati espressamente per lui rispose, che veramente fra Dionisio aveva persi alcuni scritti sull'Apocalisse e gliene aveva chiesto conto, mentre egli non ne sapeva niente, che non aveva fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava di farlo carcerare, che costui mentiva quando diceva essere lui stato espulso da un convento per delitti e furti, che nel luglio 99 erano andati insieme ad Arena e quindi avevano di necessità dovuto conversare tra loro, che in Stilo fra Dionisio e il Campanella aveano perfino dormito insieme e quindi erano intrinseci amici. Sugli articoli del fiscale si riferì a quanto avea detto sugl'interrogatorii, talvolta anche a quanto avea detto negli esami precedenti, ripudiando ciò che non aveva udito o visto (come p. es. il fatto del pugno dato al crocifisso, del quale veramente avea parlato il Soldaniero) e tornando a ripetere che l'esame di Calabria era stato falsificato dal Visitatore e da fra Cornelio, i quali aveano preso anche danari dal Pisano e dal Caccìa e gli aveano fatti rimanere ingannati, come costoro dicevano in Monteleone alla presenza di molti frati e secolari mentre stavano tutti in una carcere. Conchiuse col dire che egli aveva inteso di sgravare la sua coscienza, e non di gravare quella degli altri indebitamente. - Il Lauriana (nella seduta medesima) disse di aver conosciuto fra Dionisio da quattro anni, perchè era stato suddito di lui in Nicastro, e di esserne rimasto in Pizzoni scandalizzato per una proposizione da lui detta contro l'Eucaristia; ma ostinatamente disse di non ricordarsi di tale proposizione, e se ne riferì al primo esame, come fece anche per tutta la serie degl'interrogatorii senza che i Giudici avessero mai potuto cavarne alcuna spiegazione. Dietro dimanda d'ufficio, disse che il Pizzoni gli aveva fatto scrivere al P.e Generale una lettera in cui gli pareva «più presto de sì che altramente» che si fosse fatta menzione di fra Dionisio, parlandosi di ribellione e di cose di S.to Officio. Sugl'interrogatorii speciali per lui, disse che il Pizzoni lo aveva una volta mandato a vendere per sei ducati un libro di prediche a fra Vincenzo Perugino, il quale non lo volle, ed egli non ricordava che fra Vincenzo avesse detto che erano prediche di fra Dionisio; che egli aveva una volta avuto penitenze da fra Dionisio; che nel convento di Pizzoni, per salire alla cucina, si doveva passare per la cella del Vicario; sul resto si riferì al primo esame. Finalmente sugli articoli del fiscale si riferì del pari al primo esame, poichè non ricordava alcuna cosa.

Continuarono il 29 agosto gli esami ripetitivi contro fra Dionisio. - E dapprima il Petrolo disse di avere, fin da quando era novizio, conosciuto fra Dionisio, ed averlo poi veduto due volte in Stilo di passaggio, oltrechè in Stignano, l'ottava del Corpo di Cristo, quando fece una predica sul SS.mo Sacramento che non si poteva sentire più bella «et tutti la laudorno» (la predica egli menzionava, il pranzo in casa Grillo no). Disse di non aver mai udito eresie dalla bocca di lui, ma solamente udito da fra Pietro di Stilo che egli, fra Dionisio, aveva dette al Lauriana alcune parole contro il SS.mo Sacramento, oltrechè aveva commesso qualche peccato di carne della peggiore specie. Rispose quindi su tutti gli interrogatorii negativamente: e dietro dimande d'ufficio disse che fra Dionisio era veramente amico del Campanella, ma egli non sapeva che il Campanella gli avesse comunicato eresie, nè aveva mai detto che il Campanella discorresse di eresie alla scoperta, mentre invece ne discorreva in modo che solamente qualcuno poteva intenderle. Sugli articoli del fiscale rispose del pari negativamente. - Fra Pietro di Stilo disse di aver conosciuto fra Dionisio ed averlo veduto tre volte in Calabria, due volte in Stilo ed una volta in Briatico quando andava contro fra Gio. Battista di Polistina; e dichiarò di averlo ritenuto sempre un ciarliero e vendicativo, ma non cattivo nelle cose di fede. Dimandato di ufficio se avesse almeno udito dire qualche cosa contro di lui in materia di fede, rispose che una volta il Lauriana gli cominciò a dire qualche cosa contro di lui, «ma non finì»; ed avvertito di non dir bugie, rispose che non aveva potuto comprenderlo (oramai fra Pietro era in vena di difender tutti, anche tirandola un po' troppo). Insomma non ebbe nulla a dire contro fra Dionisio, eccetto che era «scaccione, ciò e chiacchiarone», e riuscì negativo su tutti gl'interrogatorii e così pure sugli articoli: segnatamente sull'ultimo articolo, che diceva avere fra Dionisio creduto, insegnato o cercato d'insegnare tutte le opinioni eretiche del Campanella, egli rispose di non aver mai udito dire tali cose contro la fede da niuno di loro. Ed aggiunse, spontaneamente, che stando in Pizzoni ed avendo udito frati e secolari sparlare di fra Dionisio pe' suoi discorsi di cose lascive, avendogli anzi Claudio Crispo detto che pure nel discorrere la prima volta col Soldaniero si era comportato egualmente e costui n'era rimasto scandalizzato, egli nel passare per Soriano andando ad Arena, poichè il Soldaniero l'interrogò circa il Campanella e gli disse che fra Dionisio era un cervellino, lo pregò di tacere quanto fra Dionisio gli aveva detto, essendo nella natura di lui il ciarlare con tutti, ed intese di alludere a' discorsi di cose lascive; (così volle sopprimere la circostanza dell'aver lui portato una lettera del Campanella al Soldaniero, e veramente la tirò un po' troppo). - Da ultimo il Soldaniero, e successivamente Valerio Bruno, vennero entrambi interrogati in via supplementare sul fatto dell'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento di Soriano per parte del Priore e del Lettore. Il Soldaniero confermò che nel secondo giorno in cui que' frati gli aveano parlato di eresie, il Priore, dietro il suo reclamo, li cacciò entrambi, e poi gli disse, «che ti pare, non te l'ho fatti sfrattare?» ed egli rispose, «havete fatto bene». Valerio Bruno confermò egli pure che que' frati furono cacciati nel secondo giorno in cui il Soldaniero avea parlato al Priore ed al Lettore, ed aggiunse che gli aveva veduti partire; (ma oltrechè il Priore e il Lettore lo negavano, era stato pure da entrambi questi testimoni affermato che fra Dionisio aveva fatta una predica in Soriano, e ciò non si accordava coll'espulsione).

Evidentemente anche per fra Dionisio le prove testimoniali riuscivano sempre meno gravi in questi esami ripetitivi. Fra Pietro di Stilo deponeva a favore di lui, e il Petrolo non l'accusava menomamente. L'accusava bensì il Lauriana, ma costui, che non sapeva più dar conto di nulla, era stato già dichiarato testimone falso dal Pizzoni medesimo che ne aveva diretto i passi. Non rimanevano dunque contro fra Dionisio che il Pizzoni e Giulio Soldaniero con Valerio Bruno: tuttavia il Pizzoni si andava scovrendo di una morale assai disputabile, ed intento solo ad accusare gli altri per iscusare sè medesimo; il Soldaniero poi non poteva riuscire ad accreditarsi, mentre sosteneva essergli state fatte tante confidenze in materia di eresie durante una prima visita di fra Dionisio (bisognava conoscere a fondo il modo di agire di costui per ammetterlo), ed oltracciò confessava di aver prima confabulato co' Polistina nemici capitali di fra Dionisio, continuava a deporre fatti indubitatamente falsi come l'espulsione di fra Dionisio e del Pizzoni dal convento, e mostrava abbastanza chiaramente di avere indettato il suo fido Valerio Bruno (come il Pizzoni avea fatto col Lauriana) e spintolo a deporre ciò che ad esso Valerio non constava, per far risultare più credibili le proprie deposizioni. Nè occorre dire che la condotta iniqua de' primi processanti, entrambi devoti alla fazione de' Polistina, accertata anche dal Pizzoni testimone del maggior peso contro fra Dionisio, faceva apparire per lo meno esagerata la colpabilità di costui e di tutti gli altri inquisiti.

Siffatti apprezzamenti, che sorgono spontanei nell'animo di chiunque sia fornito di una dose anche discreta di equanimità, non potevano non sorgere nell'animo del Vescovo di Termoli, che al rigore di un vecchio Commissario del S.to Officio sapeva accoppiare un senso squisitissimo di giustizia. E ci è rimasto di lui un documento che lo dimostra abbastanza bene, rivelandoci ciò che l'agitava a questo periodo della causa: poichè precisamente alla fine del volume che comprende il processo offensivo e ripetitivo, in uno de' folii esuberanti rimasti in bianco, troviamo un quadro di note ed appunti che egli redigeva intorno alla colpabilità di ciascuno inquisito, note ed appunti incompleti e in qualche tratto vergati con parole tanto abbreviate da rendersi poco intelligibili, ma in somma esprimenti le diverse contradizioni, inverosimiglianze, falsità, ed accuse rimaste infondate, che emergevano dalle deposizioni raccolte. I lettori troveranno questo quadro tra' Documenti: d'altronde vedremo in sèguito, dopo il processo difensivo, ciò che il Vescovo scriveva a Roma intorno alla causa, e il concetto che in ultima analisi se n'era formato.

Non appena esaurite le ripetizioni, nello stesso giorno 29 agosto 1600 i Giudici deliberarono di devenire alla spedizione della causa e al processo difensivo: pertanto disposero che fosse subito inviato al S.to Officio di Roma una copia del processo tanto informativo che ripetitivo; e sappiamo che l'8 settembre questa copia fu mandata al Nunzio dal Vescovo di Termoli insieme con una sua lettera, e che nella stessa data il Nunzio la trasmise al Card.l di S.ta Severina, accompagnandola con un'altra lettera sua, in cui partecipava le sollecitazioni che spesso riceveva da' ministri Regii desiderosi di potere spedire la causa della ribellione. Diremo ora anche qui, innanzi tutto, in che modo si procedeva nelle difese. Un decreto fermava che ciascuno inquisito avesse una copia del processo (copia repertorum), ma senza nome e cognome di coloro i quali aveano deposto, «secondo lo stile del S.to Officio»; che inoltre fosse avvertito aver facoltà di scegliersi un Avvocato e procuratore a suo piacere, bensì persona cognita ed approvata dalla Curia, fornita de' requisiti necessarii, e con ciò un termine di tanti giorni per fare ogni e qualunque difesa, se intendesse e volesse farne: questo decreto era da' Giudici medesimi partecipato di persona a ciascuno inquisito, che facevano tradurre al loro cospetto separatamente. Scelto l'Avvocato, o dall'inquisito, o in mancanza dai Giudici, d'ufficio, costui recavasi nella casa di qualcuno de' Giudici a prestare il giuramento nelle mani di lui, inginocchiato, toccando i Santi Evangeli e promettendo di fare «le giuste difese» del tal di tale secondo lo stile del S.to Officio. Il Notaro e Mastrodatti consegnava allora al più presto le copie de' reperti a ciascuno inquisito, e redigeva sempre un atto di questa consegna e del seguìto ricevimento in presenza di quattro testimoni (i soliti carcerieri e carcerati) decorrendo dalla data di quest'atto il termine per le difese: talvolta pure, sia d'ordine de' Giudici, sia dietro spontanea deliberazione dell'inquisito, redigeva o autenticava una dichiarazione, in cui l'inquisito manifestava di volersi difendere, ovvero di non volersi difendere riposando nella giustizia e pietà dei Giudici, ed avendo per rato, fermo e valido quanto essi ordinerebbero, ciò che poteva farsi anche durante lo svolgimento delle difese. Mettendosi d'accordo coll'Avvocato, allorchè voleva difendersi, l'inquisito redigeva e presentava una serie di così dette eccezioni ossia articoli, in ciascuno de' quali eccepiva, poneva e voleva provare un dato fatto in sua discolpa, affermando per solito ogni volta che esso era vero, verissimo, come constava a coloro che lo sapevano o l'avevano udito: e quasi sempre cominciando dai fatti della sua buona vita fin dalla tenera età, passava, mano mano, a' fatti delle inimicizie che aveva incontrate, alla mala condotta e speciale odiosità de' testimoni che intendeva o supponeva aver deposto a suo carico, alla falsità ed erroneità delle imputazioni fattegli, a tutti gl'incidenti che spesso si verificavano durante i processi. Oltracciò dava una lista di testimoni a difesa, indicandone anche la residenza, i quali dovevano essere esaminati sopra tutti o sopra alcuni determinati articoli. Dal canto suo il fiscale, sugli articoli presentati, faceva ed esibiva i suoi interrogatorii, ed istantemente chiedeva che i testimoni fossero esaminati prima sopra di essi e poi sugli articoli: gl'interrogatorii erano preceduti dalle solite ammonizioni, ed esigevano le solite informazioni sulla persona del testimone, e poi le informazioni su' fatti posti negli articoli con tutte le relative circostanze, terminando con un appello alla diligenza de' Signori Giudici. In somma si teneva la via medesima del processo ripetitivo ma all'inversa: gli articoli erano presentati dall'inquisito assistito dal suo Avvocato, e gl'interrogatorii erano presentati dal fiscale; e però questi ultimi erano sempre redatti senza tante sottigliezze e con molto maggiore concisione. Dobbiamo anche dire che i Giudici talvolta cassavano qualche articolo contenente fatti già enunciati in altri articoli, e il processo presente ce n'offre un esempio; inoltre non accoglievano mai tutti i testimoni dati se erano assai numerosi, come sovente accadeva, ma ne sceglievano un certo numero a loro piacere. S'intende poi che l'Avvocato non assisteva alle sedute del tribunale, ma poteva all'occorrenza fare una comparsa e più tardi presentare una vera e propria Difesa scritta, come ne conosciamo in gran numero pervenute sino a noi. Figurava poi sempre quando esauriti gli esami testimoniali e consegnatane una copia all'inquisito, costui era citato «ad dicendum», e neanche nel tribunale ma nella casa di abitazione di uno de' Giudici. Quest'ultima circostanza mostra sempre più chiaramente che non l'inquisito ma il suo Avvocato presentavasi allora in nome di lui, era interrogato se dovesse dire altro e potea forse presentare anche una Replica scritta; ma non apparisce che fossero ammesse le arringhe.

Come dicevamo, il 29 agosto i Giudici deliberarono che si procedesse alle difese; nello stesso giorno fecero tradurre alla loro presenza, l'uno dopo l'altro, il Petrolo, fra Pietro di Stilo, il Pizzoni, il Lauriana, il Bitonto, fra Paolo della Grotteria, e a ciascuno di essi separatamente parteciparono la loro deliberazione, assegnando per le difese il termine di otto giorni; poi si recarono alla carcere di fra Dionisio, che trovavasi ammalato a quel tempo, e parteciparono anche a lui la loro deliberazione e il termine stabilito di otto giorni. Sappiamo infatti che fra Dionisio fu ammalato una prima volta nell'agosto del 1600: ce lo mostra un conto di spese che vedremo più tardi fatte pe' frati inquisiti, e che contiene la nota delle medicine fornite a fra Dionisio dallo Speziale del Castello Ottavio Cesarano, con l'indicazione de' giorni in cui esse vennero fornite; e fu in questo frattempo che il Soldaniero vide fra Dionisio, gli prestò qualche assistenza e forse anche gli chiese perdono pe' travagli procuratigli coll'opera sua, come fra Dionisio asserì e il Soldaniero negò negli esami ripetitivi. Dobbiamo intanto notare che pel Campanella non fu tenuto lo stesso procedimento, senza dubbio a motivo della sua pazzia, ma ebbe in sèguito un Avvocato: per fra Pietro Ponzio poi non vi fu provvedimento alcuno, giacchè davvero in questa causa, come in quella della congiura, nulla gli si potè addebitare, all'infuori dell'intima amicizia col Campanella, provata specialmente con la scoperta delle conversazioni notturne tenute tra loro.

Il 5 settembre nel convento di S. Luigi il Vescovo di Termoli, presente anche l'Auditore del Nunzio Antonio Peri, ricevè il giuramento del dot.r Carlo Grimaldi Avvocato del Pizzoni; il 15 settembre ricevè ancora, egli solo, quello di Gio. Filippo Montella Avvocato del Petrolo, di fra Pietro di Stilo, del Lauriana, di fra Paolo e del Bitonto; il Montella nello stesso giorno prestò giuramento anche nelle mani del Vicario Arcivescovile, ma, non si saprebbe dire perchè, venne più tardi sostituito dal Rev.do dot.r Scipione Stinca, il quale prestò giuramento il 13 ottobre, e trovasi qualificato «avvocato deputato» per la difesa de' frati suddetti. Alla mancanza del Montella, seguita dalla deputazione dello Stinca, si deve forse riferire un memoriale de' frati al Vescovo di Termoli per dimandare un Avvocato, memoriale senza data, ed inserto nel processo un po' a caso, dopo le difese di fra Dionisio. Nessuno Avvocato si trova nominato per fra Dionisio, comunque in una lettera, da lui scritta nell'inviare taluni articoli a' Giudici, si legga che non avea «potuto accapar dal suo Avocato la compilatione di tutti gli articoli... per la lunghezza del processo et occupationi d'infiniti altri negotii di detto suo Avocato». Il 17 settembre fu consegnata a fra Dionisio la copia de' reperti della sua causa secondo lo stile del S.to Officio, e il giorno seguente una copia analoga fu consegnata al Pizzoni; di poi (15 e 18 ottobre) fu consegnata allo Stinca la copia de' reperti della causa de' diversi frati che egli doveva difendere. Aggiungiamo che ancora più tardi (31 ottobre) fu prestato il giuramento dal dottore di leggi Gio. Battista dello Grugno in qualità di Avvocato difensore del Campanella, certamente «Avvocato deputato» anche lui, comunque di una simile qualificazione non si trovi alcun ricordo. Dobbiamo dire che l'opera di questi Avvocati nel presente processo apparisce anche meno del solito. Vedremo mancanti del nome dell'Avvocato non solo gli articoli di fra Dionisio, che forse li compilò da sè, ma anche quelli del Pizzoni, ne' quali per altro la mano dell'Avvocato si rivela da qualche errore materiale circa le persone, errore che l'inquisito non avrebbe certamente commesso; pel Campanella poi vedremo una comparsa del procuratore rimasto anonimo, ma vedremo anche qualche altro atto in cui il nome dell'Avvocato non manca; infine per gli altri frati vedremo che non ci fu occasione di comparsa dell'Avvocato, perchè non si fece nulla. - Ci crediamo pertanto nel dovere di dare qualche notizia intorno a' suddetti Avvocati. Carlo Grimaldi era un dottore non ispregevole; pervenne all'ufficio di Giudice della Gran Corte della Vicaria nel 1622-23, come è attestato anche dal Toppi. Il dot.r Scipione Stinca è stato da noi già incontrato una volta nel corso di questa narrazione, sotto le forche preparate pel povero Maurizio, che egli ebbe ad assistere nell'estremo momento. Apparteneva ad una famiglia illustre per magistrati, nella quale figurava tuttora il dot.r Ottavio Stinca, che abbiamo pure avuta occasione di nominare qual difensore del Duca di Vietri, ed avremo occasione di nominare ulteriormente a proposito di qualche altra singolare persona la quale verrà in iscena più tardi. Era Avvocato e sacerdote, come tanto spesso accadeva a quei tempi: nel processo è detto «Presbyter Neapolitanus» e possiamo aggiungere che era ascritto all'ordine de' Cappellani Regii, poichè abbiamo trovato il suo nome nell'elenco di que' Cappellani, ripetuto dal 1595 al 1603, nelle scritture della Cappellania maggiore esistenti nel Grande Archivio. Quanto al dot.r Gio. Battista dello Grugno Avvocato del Campanella, egli era un uomo ancor più distinto. Nominato lettore delle Instituta e glose nel pubblico studio di Napoli, in sèguito dell'ingresso di Giulio Berlingieri nella Congregazione de' Gerolamini (31 8bre 1598), fu poi promosso alla lettura De Actionibus, vacata per morte di Gio. Maria Cossa, con provvisione raddoppiata in omaggio alla sua persona (ult.° di febbr. 1601); ed in tale qualità morì verso la fine del 1604, avendo a successore Ottavio Limatola, come ci risulta da' documenti sparsi nelle medesime Scritture della Cappellania maggiore. Bisogna dunque riconoscere che le difese de' frati, e massime del Campanella, non si trovavano affidate a dottori di poco conto; solo si può dire che la ricerca di essi fu laboriosa, poichè durò circa due mesi, e forse, oltre il Montella, parecchi altri rifiutarono il carico di queste difese; d'altronde occorre anche vedere se vi attesero con diligenza, e su questo punto li giudicheremo all'opera.

Il 30 settembre si diè principio agli esami difensivi per fra Dionisio, co' quali si aprì il 3° volume del processo dell'eresia. Egli aveva scritto a' Giudici di non aver potuto ancora ottenere dall'Avvocato la compilazione di tutti gli articoli a sua difesa, e di averne intanto formato da sè un certo numero, pregando che sopra di questi venissero esaminati «alcuni carcerati, quali per essere stati «habilitati facilmente partiranno per la Calabria»; ed è superfluo dire quanto sia per noi degna di nota siffatta circostanza, poichè ci rivela lo stato del processo della congiura pe' laici a quel tempo, e il destino di taluni tra loro, i cui nomi si leggono nella lista de' testimoni dati da fra Dionisio contemporaneamente a' suoi articoli. Appena sette furono gli articoli allora presentati da fra Dionisio, e con essi poneva e voleva provare la falsità delle deposizioni del Lauriana, e così pure del Soldaniero e di Valerio Bruno. Intorno al Lauriana, egli affermava, che costui avea già detto nelle carceri di Squillace e poi in quelle di Gerace, presenti molti, di essersi esaminato contro fra Dionisio ed altri, deponendo falsamente in materia di eresia e di ribellione persuaso dal Pizzoni, e di volersi ritrattare per scrupolo di coscienza; che poi nelle carceri di Napoli si era consigliato circa tale ritrattazione con un dot.r Domenico Monaco egualmente carcerato, il quale gli avea detto che ritrattandosi avrebbe avuta la corda e sarebbe stato mandato in galera; che quando in Napoli ratificò il primo esame, rimproverato da molti a' quali avea detto di essersi esaminato falsamente, avea risposto, «che sempre c'era tempo per accomodar la conscientia, ma non sempre c'era tempo d'evitar la corda, et la Galera, et che più facilmente si potea accomodar con Dio, che con gl'huomini, et officiali»; che dopo ciò, quando nelle litanie si giungeva al verso a falsis testibus libera nos Domine, tutti guardavano in faccia al Lauriana e ridevano, ed egli arrossiva, e quando toccava a lui dir le litanie, ometteva quel verso con grandissimo riso di tutti; che infine avea negli ultimi giorni cercato perdono ad esso fra Dionisio, facendosi più volte chiudere per questo nella stessa carcere con lui dal carceriere. Intorno al Soldaniero e Valerio Bruno affermava, che il Soldaniero, egualmente per ottenere il perdono delle falsità deposte contro di lui, gli avea fatto visite, servigi, regali e prestito di danaro; che inoltre teneva continuamente presso di sè Valerio Bruno suo servitore, e poteva presumersi avergli fatto deporre il falso, essendosi da entrambi dichiarato ne' rispettivi costituti che non aveano mai parlato tra loro, mentre a tutti era noto il contrario. Sopra siffatti articoli dava per testimoni, variamente sopra ciascuno di essi, oltre fra Pietro di Stilo e fra Paolo, Geronimo Marra, Francesco Salerno, Nardo Rampano, Cesare Bianco e tutti gli altri carcerati di Catanzaro, Giuseppe Grillo di Oppido, Domenico Monaco il dottore, Aquilio Marrapodi suo servitore e il carceriere. D'altra parte il fiscale (sempre D. Andrea Sebastiano) presentava i suoi interrogatorii al n.° di 18, preceduti dalle solite ammonizioni, e contenenti le informazioni di rutina e le informazioni su' fatti asserti negli articoli. - I Giudici si limitarono ad esaminare Geronimo Marra, Francesco Paterno (o forse Salerno) e un Minico Mandarino, tutti giovani sarti di Catanzaro carcerati per la congiura; e li udirono su tutti gl'interrogatorii e tutti gli articoli indifferentemente, impiegandovi la sola seduta del 30 settembre. Le deposizioni di costoro non diedero alcun risultamento serio. Nessuno sapeva nulla; nessuno avea veduto nulla. Il solo Geronimo Marra dichiarò di avere udito in Napoli il Lauriana, dopo di essere stato esaminato, dire ad alcuni carcerati, «quando uscirò, Dio provederà all'anima», ma senza aver capito a quale scopo avesse dette tali parole. Perfino intorno a Valerio Bruno rimase assodato che stava in una camera diversa da quella del Soldaniero, ma non si giunse a sapere nemmeno se facesse l'ufficio di servitore presso di lui (i guai sofferti aveano resi quei testimoni più che riservati).

Una lunga interruzione si verificò dopo questa seduta, la qual cosa reca un po' di meraviglia, mentre non si può negare che fino allora si era proceduto con la più grande celerità, e se molto tempo si era impiegato nello svolgimento del processo, ciò era accaduto unicamente per l'intrinseca qualità della procedura, che nelle cause di S.to Officio era sempre scrupolosamente osservata. Bisogna dire che i Giudici ebbero a persuadersi non poter convenire questi esami sopra articoli in numero ridotto, dopo i quali si era costretti a fare nuovi esami sopra articoli in numero completo. E in tal guisa riesce di spiegarsi che il Notaro e Mastrodatti Prezioso, d'ordine del Vescovo di Termoli, il 6 ottobre si recò presso fra Dionisio, gli chiese formalmente se volesse o no difendersi, ed innanzi a testimoni rogò un atto in cui fra Dionisio dichiarò che voleva ed effettivamente intendeva fare le sue difese, e si sottoscrisse confermando tale sua volontà. Ma senza dubbio non potè presentare le sue eccezioni od articoli se non a' primi del mese consecutivo, poichè si venne agli esami sopra di essi soltanto il 6 novembre. Verosimilmente fu sollecitato anche il Pizzoni a voler presentare i suoi articoli, essendo scorso da un pezzo il termine assegnato di otto giorni, ciò che era sempre tollerato dal S.to Officio, ma non poteva poi durare indefinitamente; così, mentre si menavano innanzi gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero ancora quelli pel Pizzoni. E certamente l'Avvocato del Campanella, non appena prestato il suo giuramento il 31 ottobre, dovè essere sollecitato del pari; giacchè poco dopo fu presentata al tribunale una comparsa, con la quale si diceva essere il Campanella pazzo, non potersene fare le difese, chiedersi un termine per provare la pazzia; e nello stesso giorno 6 novembre, quando cominciarono gli esami difensivi per fra Dionisio, cominciarono pure gli esami informativi sulla pazzia del Campanella. Sicchè dal 6 al 16 del mese venne simultaneamente esaurito tutto ciò che rifletteva la difesa degl'inquisiti principali: ma per procedere ordinatamente, sarà bene narrare prima gli esami difensivi per fra Dionisio, che erano stati già in parte iniziati, poi gli esami difensivi pel Pizzoni, che rappresentano il contrapposto degli anzidetti, infine gli esami informativi sulla pazzia del Campanella.

Le eccezioni od articoli, che fra Dionisio definitivamente presentò in sua difesa, ascesero nientemeno al numero di 58; e noi pur troppo non possiamo dispensarci dal darne conto, tanto più che in sostanza vi si comprendono le difese di tutti gli altri frati all'infuori del Pizzoni e del Lauriana, non escluso il Campanella che per la pazzia rimaneva ecclissato. Con le sue eccezioni fra Dionisio affermò i suoi titoli di onore, cominciando dalla tenera età e passando a' tempi della vita monastica, ricordando pure l'andata presso Clemente VIII come procuratore della città di Nicastro per la faccenda dell'interdetto, e la premura spiegata per «manifestar l'innocenza del sangue del P.e M.° Pietro Pontio suo zio ucciso proditoriamente da alcuni monaci», come potea rilevarsi dagli Atti esistenti nella Corte del Nunzio, onde si acquistò le inimicizie di tutti gl'inquisiti e loro parenti, e massime de' due Polistina. Affermò che costoro, d'accordo col Priore di Soriano eccitarono il Soldaniero contro di lui, e fecero circondare di birri il convento per costringere il Soldaniero ad accettare l'indulto offertogli da fra Cornelio altro suo nemico, e così poteva intendersi l'inverosimiglianza dell'avere esso fra Dionisio confidate a un tratto tante gravissime cose al Soldaniero. Che costui era di pessima vita e cattivo cristiano al punto di persistere tuttora nella scomunica inflittagli in Calabria, teneva per servitore Valerio Bruno nelle carceri di Napoli e dichiarava di non aver mai parlato, ed avea più volte cercato perdono ad esso fra Dionisio narrandogli i particolari del fatto di Soriano; che mentre era impossibile accordare la cacciata di esso fra Dionisio da Soriano e la predica contemporaneamente permessagli dal Priore, dovea notarsi aver lui deposto dopo il Pizzoni, quando da fra Cornelio gli fu detto che il Pizzoni l'aveva nominato come uno de' capi della congiura. Che esso fra Dionisio avea nella predica di Soriano, a santo e pio fine, parlato di qualche fatto esecrabile commesso contro il SS.mo Sacramento, per mostrare l'infinita pazienza di Dio; che lo stesso Valerio Bruno avea con più persone lodata la predica di lui in Soriano, dicendo che era riuscita a farlo piangere, la qual cosa non gli era mai accaduta; che se il Priore e il Lettore di Soriano avessero deposto di aver cacciato esso fra Dionisio dal convento, risulterebbero mendaci, poichè gli aveano permesso di predicare e non aveano partecipato nulla a' superiori. Che il Pizzoni gli era nemico, atteso il furto degli scritti per lo quale esso fra Dionisio l'aveva svergognato; che era sempre stato amico de' nemici di lui, ed avea fatto fuggire il Polistina, procurando che fra Pietro di Stilo l'avvertisse, quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; che era sempre stato di pessima vita, soggetto a penitenze per molti furti (citato uno per uno), affetto da mal francese etc., scappato in pianelle, senza cappello e senza cappa dal Capitolo di Catanzaro per fuggire la prigionia, obbligato a circondarsi di fuorusciti per salvarsi dalle vendette di coloro che aveva offeso con le sue disonestà. Che nella causa della congiura, negando dapprima l'esame di Calabria, il Pizzoni aveva espressamente affermato di aver detto anche in materia di eresia molti mendacii, amplificati ed accresciuti da fra Cornelio e dal Visitatore, e nella fossa in cui fu posto avea pure scritto sul muro di esservi stato posto perchè si volea che dicesse bugie, come tuttora potea vedersi, ma poi persuaso dal Lauriana confermò di nuovo il primo esame. Che aveva scritto al Campanella, entro il suo breviario, essere state da lui deposte le eresie per eccitare gelosie di giurisdizione tra il Papa e il Re, ma essere risoluto di ritrattarle, e due cartoline di questo genere furono prese dal Sances sul Campanella, quando costui fu tormentato. Che veramente il Pizzoni avea praticato col Campanella più lungamente di esso fra Dionisio, ed avrebbe potuto piuttosto il Pizzoni dire a lui, che lui al Pizzoni, le cose del Campanella; e poi a molti avea dichiarato essergli state da fra Dionisio dette le eresie non assertive ma recitative tantum; e poi nel vespro di quel giorno di luglio in cui parlarono tra loro in Pizzoni, esso fra Dionisio fu visto parlargli sdegnato e bravarlo, poichè gli dimandava conto del furto degli scritti (lato questo il più debole della difesa per essere stato troppo spinto). Che il Lauriana gli era nemico perchè creatura del Pizzoni, perseguitato fin dal P.e Pietro Ponzio pe' suoi vizii e disonestà, complice del furto degli scritti che cercò di vendere al P.e Perugino, scacciato da esso fra Dionisio dal convento di Nicastro per le turpi relazioni con fra Fabio nipote del Pizzoni; che avea scritto due lettere ad esso fra Dionisio chiedendogli perdono, come l'avea pure chiesto a voce a traverso un foro esistente tra le carceri rispettive, ed inoltre l'avea chiesto anche a Ferrante Ponzio per lettere delle quali esibiva una in data 10 ottobre 99. Che nelle carceri aveva tenuta corrispondenza col Pizzoni ed animatolo a star saldo sulle cose deposte, perchè si trovassero uniformi nelle falsità, come fu provato durante il processo, rimanendo anche convinto di averlo falsamente negato; che avea fatto sapere a molti essere stato costretto a deporre il falso da fra Cornelio e dal Visitatore; che sopratutto avea falsamente deposto essersi trovati in Pizzoni al tempo medesimo esso fra Dionisio e il Campanella, mentre esso fra Dionisio vi era stato molti giorni prima; che avea detto a molti volersi ritrattare, cercando anche perdono a fra Pietro Ponzio, e poi consigliato da un Domenico Monaco non l'avea fatto ed aveva indotto il Pizzoni a non farlo; che n'era stato rimproverato da molti, ed era ritenuto falso testimone e deriso nel dir le litanie; che avea chiesto anche negli ultimi giorni perdono ad esso fra Dionisio infermo (come negli altri articoli già dati precedentemente). Che il Visitatore gli era stato sempre nemico, perchè esso fra Dionisio avea dovuto presentare al Papa memoriali contro di lui nelle quistioni de' Riformati e poi nel tempo de' torbidi di S. Domenico di Napoli; che aveva in Calabria forzato i testimoni a deporre contro esso fra Dionisio, e l'aveva condannato a gravi penitenze negandosi sempre a perdonarlo. Che fra Cornelio gli era nemico per fatti personali occorsi tra loro (già narrati altrove); che si era perciò unito a' Polistina, insieme co' quali avea sedotto e forzato il Soldaniero a deporre come avea deposto, procurandogli l'indulto. Che il Petrolo gli era nemico, perchè riteneva derivati da esso fra Dionisio tutti i suoi travagli, e perciò, come si era espresso con molti, l'aveva conciato a dovere ne' suoi costituti; oltracciò nell'altro tribunale si era dapprima disdetto, dichiarando che il Campanella l'aveva indotto ad imitare il Pizzoni nell'esporre eresie per sottrarsi alla furia secolare; che poi, al pari del Pizzoni, non era rimasto saldo in tali assertive, ed entrambi rimproverati per questo da molti carcerati aveano detto esservisi determinati pe' maltrattamenti del fisco e le visibili propensioni de' Giudici. Che fra Pietro di Stilo gli era egualmente nemico, perchè creatura del Polistina, che si diè premura di far fuggire quando esso fra Dionisio cercava di farlo carcerare; nè avea voluto andare al convento di Nicastro dove era stato assegnato quando esso fra Dionisio vi si trovava Priore. Che infine per tutto il tempo, in cui esso fra Dionisio era stato carcerato, ognuno avea dovuto persuadersi esser lui vittima di falsità fatte deporre dal Visitatore, da fra Cornelio e dallo Sciarava, ed essere cosa impossibile in lui la colpa specialmente di eresia.

In prova di così numerose affermazioni, fra Dionisio diè testimoni non meno numerosi, oltre 60 individui, secolari ed ecclesiastici. Alcuni tra loro erano individui liberi dimoranti in Napoli, ed altri già carcerati e rimasti in Napoli, come p. es. Tommaso d'Assaro, Pietrantonio Tirotta, Cesare Forte; altri già carcerati e tornati in Calabria, come D. Marco Petrolo, D. Minico Pulerà, Gio. Francesco Paterno e Geronimo Marra, su' quali ultimi abbiamo così la data precisa della liberazione; altri tuttora carcerati, sia per le cause presenti, sia per cause diverse come vedremo più sotto. Vi erano poi egualmente tra' testimoni frati disseminati in tutti i conventi di Napoli, come pure dimoranti in Calabria e in altre provincie, perfino in Siena e in Venezia. Ognuno de' testimoni era indicato per la prova di determinati articoli; ed oltracciò erano prodotti diversi documenti, e date le indicazioni per averne altri de' quali gli articoli facevano menzione. Così troviamo inserte nel processo, al sèguito delle difese di fra Dionisio: la procura originale in pergamena fattagli dalla città di Nicastro per trattare anche presso il Papa la faccenda dell'interdetto; la lettera del 10 ottobre 99 scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, per iscusarsi delle falsità deposte insieme col Pizzoni contro fra Dionisio, e pregarlo che trovasse modo di farlo venire a nuovo esame per ritrattarsi; e poi una fede dell'Università di Fiumefreddo sulle eccellenti predicazioni ed opere di carità fatte da fra Dionisio in quella terra; inoltre le fedi di Gio. Luca de Crescenzio de' P.i Ministri degl'infermi e di D. Eligio Marti Cappellano della galera S.ta Maria, già confortatori di Gio. Battista Vitale e Gio. Tommaso Caccìa sul punto di essere giustiziati, attestanti che da costoro si era dichiarato aver deposto il falso per forza de' tormenti dati dallo Sciarava. A questi documenti si aggiunsero poi quelli che il Vescovo di Termoli, sulle indicazioni date da fra Dionisio, venne procurando sopratutto dall'altro tribunale; ma allora si era già agli esami difensivi, e di essi conviene oramai occuparci.

Naturalmente non tutti i testimoni dati da fra Dionisio furono chiamati all'esame, ma soltanto i frati inquisiti (all'infuori del Pizzoni e del Lauriana), parecchi carcerati per la causa della ribellione, tra' quali il Contestabile, il Di Francesco, Geronimo padre del Campanella e il Barone di Cropani, dippiù quattro carcerati per altre cause, e con tutti costoro il carceriere. Su' quattro carcerati per altre cause ci crediamo in dovere di dare qualche notizia speciale; troveremo due di loro celebrati dal Campanella nelle sue poesie, da doversi considerare come suoi amici ed anche benefattori, e per parte nostra non avverrà mai che un amico e benefattore del povero filosofo rimanga in alcun modo trascurato; d'altronde importa pure conoscere un po' addentro le qualità de' testimoni, per essere in grado di valutare la fede che le loro testimonianze possono meritare. Essi furono: Cesare Spinola, D. Francesco Castiglia, fra Antonio Capece cav. Gerosolimitano, Domenico Giustiniano marinaro. Cesare Spinola nel suo esame si dichiarò genovese, dell'età di 30 anni in circa, celibe, benestante tale da potere spendere 100 scudi al mese: senza dubbio egli era uno di que' numerosi Spinola, che al pari di moltissimi altri Liguri ammassavano ricchezze con le loro speculazioni e facevano continui acquisti di rendite in Napoli. Di altrettali Spinola l'Archivio di Stato fornisce una serie infinita al cadere del secolo 16.°, anche con frequenti omonimi; ma per fortuna col nome di Cesare se ne trova solamente uno detto «q.m Stephani q.m Bartholomaei», e varii documenti lo mostrano abitante dapprima in Genova, dove stava anche una sua sorella a nome Antonia, monaca in S. Silvestro de Pisis, possidente del pari di varie rendite acquistate dal padre, massime sulla gabella della seta ma anche sopra altri cespiti. Da uno de' documenti raccolti Cesare apparisce inoltre parente, forse cugino, del Marchese Ambrogio Spinola, essendo insieme col Marchese erede di una parte delle facoltà di Lorenzo Spinola; da altri documenti apparisce sotto la tutela di alcuni suoi parenti nel 1588, ed abitante già in Napoli nel 1602, circostanze tutte che rispondono a quelle notate nel processo. Ci rimane tuttora ignoto il motivo della sua prigionia: ma sappiamo che nel 1599 un Cesare Spinola trovavasi affittatore del feudo di S. Nicola, e con ogni probabilità era appunto il Cesare del quale si è discorso, avendo sempre avuto i genovesi di ogni ceto il lodevole costume di lanciarsi nelle speculazioni; nè è difficile intendere che per quistioni insorte, col metodo spiccio di quel tempo, egli fosse stato imprigionato. Vedremo che di poi il Campanella in un suo Sonetto, fra mille lodi, lo ringraziò anche della difesa che di lui avea fatta. Quanto a D. Francesco di Castiglia, era costui uno de' tanti spagnuoli che facevano la loro carriera nelle provincie napolitane, ma era nato a Verona, ed avea già i suoi 40 anni: ne' Registri Officiorum Viceregum lo troviamo nominato Capitano di Rossano pel 1594, poi Capitano di Ostuni pel 1598; e mentre era al governo di Ostuni fu carcerato in Lecce e tradotto nel Castel nuovo di Napoli; il Campanella lo lodò non solo come un alto personaggio, ciò che era quasi di obbligo con uno spagnuolo, ma perfino come poeta, cantore delle Donne sante e de' suoi cocenti amori, della vinta Antiochia e dell'abominio che si meritavano le Corti false e bugiarde (dopo di averne persa la protezione). Quanto a fra Antonio Capece, la sua storia è molto brutta: il suo esame ne dice poco o nulla, ma ce l'insegnano ampiamente moltissime Lettere esistenti nel Carteggio del Nunzio, ed anche qualche documento de' Registri Curiae dell'Archivio napoletano. Era uno de' tanti Cavalieri di Malta, che profittando delle guarentigie giurisdizionali cominciavano per fare i prepotenti, e poi ben presto finivano per fare gli assassini di strada insieme co' compagni a' quali erano costretti ad appoggiarsi. Di nobile famiglia napoletana, dimorante nel vicino paesello di Melito, aveva appena 26 anni e già fin dal 9 marzo 1595 trovavasi carcerato in Castel nuovo perchè le carceri del Nunzio erano malsicure per lui, essendosi distinto per molti e gravi delitti, omicidii, scarcerazione violenta di detenuti, svaligiamento del procaccio di Puglia, ricatti, furti ed assassinii al passo tra Melito ed Aversa, furto e ricatto di notte nella stessa città di Napoli in casa di Ascanio Palmieri fuori la porta del pertuso (quella che fu poi detta porta Medina e non ha guari è stata diroccata): fuggito una volta dalle galere mentre lo traducevano a Malta per esservi giudicato, nel 1598 era riuscito a fuggire anche dal Castel nuovo con un altro carcerato del Nunzio, Cesare d'Assero clerico, ma semplicemente «perchè il carceriere havea lassata la porta aperta et egli voleva buttarsi alli piedi di S. S.», siccome scrisse a Roma quando fu ripreso in Gaeta e ricondotto in Castel nuovo; e poichè tutti i suoi compagni nelle scelleraggini, i quali aveano testificato contro di lui, erano stati prontamente appiccati dalla Corte Regia e non potevano più farsi gli esami ripetitivi per convincerlo, il Nunzio lo teneva così in carcere senza sapere cosa dovesse farne. Ci affrettiamo a dire che la Musa del Campanella non si mosse per lui. Finalmente quanto a Domenico Giustiniano, sappiamo dal processo che era un povero marinaro di Scio, preso da' turchi all'età di 7 od 8 anni e divenuto così maomettano, poi tornato in grembo alla madre Chiesa, ed in espiazione della colpa di rinnegato già da 10 anni in carcere, con otto grani al giorno pel vitto: il suo contegno ce lo mostra un uomo semplice ed ingenuo, senza ombra di fiele, e sì che egli poteva ben raccontare quanto fosse dura la via del paradiso; dimenticato nel carcere, quivi morì il 28 marzo 1607, come si legge ne' libri parrocchiali del Castello.

Il 6 novembre si tenne la prima seduta, ed ecco le deposizioni che si raccolsero. D. Francesco di Castiglia disse correr voce tra i carcerati in generale che i frati si accusavano l'un l'altro; avere udito che Valerio Bruno teneva pratica col Soldaniero ma non averlo visto; aver saputo direttamente dal Soldaniero che era stato assediato nel convento di Soriano e forzato a dire ciò che gli era stato domandato. - Di poi fu interrogato Giulio Contestabile, che riuscì un testimone di grande importanza. Egli disse avere udito da molti, e li nominò, che il Lauriana avea lasciato intendere di essersi esaminato contro il Campanella e fra Dionisio per istigazione del Pizzoni e per timore di D. Carlo Ruffo, Carlo Spinelli, Sciarava, fra Cornelio; aver lui medesimo veduto in Calabria, mentre fra Cornelio esaminava, que' secolari assistere con molta distinzione alle sedute e interrogare; avere più tardi saputo che il Lauriana volea ritrattarsi in Napoli, e non l'avea fatto per consiglio di un dottore; esser vero che tutti lo ritenevano testimonio falso e che arrossiva quando nelle litanie si diceva a falsis testibus; aver veduto lui stesso il Lauriana entrare nella camera di fra Dionisio, e così pure il Soldaniero più volte, avendogli costui inviato anche regali e fatto fare il pranzo da Valerio Bruno che lo serviva sempre, come ben sapeva perchè era compagno di stanza del Soldaniero. Aggiunse essere stato presente, quando Cesare Spinola disse al Soldaniero non dover procurare tanta rovina a que' frati, e il Soldaniero si scusò raccontando come era stato costretto di deporre contro fra Dionisio dopochè fu circondato il convento in cui stava per opera de' Polistina e del Priore; avere lui stesso udito il Soldaniero lamentarsi, perchè i frati l'aveano ridotto nelle mani del diavolo e non poteva ritrattarsi senza essere appiccato; aver veduto l'indulto concesso al Soldaniero da Carlo Spinelli coll'intercessione di fra Cornelio, e sapere che trovavasi depositato alla banca di Barrese. Aggiunse aver saputo in Napoli direttamente tanto dal Pizzoni quanto dal Petrolo, che in Calabria fra Cornelio diceva loro doversi dare soddisfazione a' Giudici laici, che essi aveano dovuto deporre eresie per isfuggire da' secolari e tentare di esser chiamati a Roma, e che «per verità tutto era stato inventione»; aver saputo anche dal Di Francesco suo cognato, carcerato insieme col Pizzoni in Gerace, che fra Cornelio «con bravate, e con bone parole lo suggerì ad esaminarsi contra non so chi frati». Conchiuse aver dovuto giudicare, dietro le cose sapute dal Soldaniero, dal Pizzoni e dal Petrolo, che erano state dette molte falsità (e vede ognuno di qual peso riusciva una simile testimonianza da parte del Contestabile, convertito oramai in deciso difensore de' frati).

Il 7 novembre s'iniziò la seconda seduta col cavaliere fra Antonio Capece, il quale disse aver veduto una volta un frate rossetto, compagno del Visitatore di Calabria, venire a visitare il Lauriana nel carcere, e costui ricordargli che avea deposto quanto egli avea voluto, e dimandargli qualche somma de' danari che erano stati contribuiti da' conventi di Calabria, ricevendone buone parole e nove carlini; aver poi saputo dallo stesso Lauriana che era sicuro di aver la corda, ma non se ne curava per amore del Pizzoni suo maestro, che lui veramente non conosceva nulla di quanto avea deposto, ma l'avea deposto per liberarsi dalla Corte temporale e non essere «inforcato et fatto in pezzi», e si voleva veramente ritrattare; essersi ritenuto pubblicamente che si sarebbe ritrattato, ma non lo avea fatto dietro consiglio dato dal dot.r Monaco, presente Domenico Giustiniano; essere state una sera omesse da lui nella litania le parole a falsis testibus, ed avergli fra Pietro di Stilo detto «che non si vergognasse ma che le dicesse» (vigile ed accorto sempre quel fra Pietro); essere corsa pubblicamente la voce che avea chiesto perdono a fra Dionisio per le deposizioni fatte contro di lui. Aggiunse aver veduto il Soldaniero visitare e servire fra Dionisio ammalato, presenti anche il Contestabile, fra Pietro Ponzio e il carceriere. Inoltre aver veduto una lettera che fra Pietro Ponzio diceva scritta al Pizzoni dal Lauriana; avere udito lui stesso il Pizzoni da una fossa parlare al Lauriana in latino e perciò non averlo capito; aver saputo dal Pizzoni medesimo, che andava in quella fossa per non aver voluto confermare l'esame di Calabria fatto per uscire dalle mani de' laici e tutto falso; aver saputo dal Pizzoni e dal Lauriana che il Visitatore e fra Cornelio li avevano esortati a confessare per dar soddisfazione a' Giudici secolari, «che poi passata quella furia sarebbero andati in Roma per il S.to officio è llà si saria accomodato ogni cosa» (testimonianze per certo troppo esplicite, e troppe volte poggiate su notizie raccolte direttamente). - Di poi Cesare Forte di Nicastro, conciatore di pelli, carcerato per la congiura, confermò avere udito tra i carcerati che il Lauriana si voleva ritrattare ma un Domenico Monaco lo sconsigliò; essere ritenuto testimonio falso, rifiutandosi a dire le parole a falsis testibus, onde i carcerati ne mormoravano; su tutto il resto disse non saper nulla. - In sèguito Cesare Spinola attestò aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana in alterco, aver domandato allora al Lauriana come mai nel Castello «non c'era cane nè gatto che lo potesse vedere, et alhora fra Silvestro rispose Dio perdoni à chi n'è causa», e dietro le sue insistenze gli palesò esserne stato causa il Pizzoni che gli avea fatto deporre quanto avea deposto. Aggiunse di sapere che il Soldaniero aveva parlato a fra Dionisio quando costui era ammalato, e che aveva a' suoi servigi Valerio Bruno; di avere una volta veduto il Soldaniero tornare dall'esame col viso infuocato, ed avergli detto «non più contra questi poveri frati, che tante cose? et esso rispose, che voi che io faccia? per Dio che non posso far di manco per trovarmi haver detto contra di essi monaci», e raccontò il fatto dell'essere stato circondato in un convento ed obbligato da un monaco a deporre contro fra Dionisio per non essere consegnato alla Corte; ond'egli, lo Spinola, volgendosi al Contestabile che era presente, ebbe a dirgli in disparte «mira che anima negra». Aggiunse di conoscere che il Soldaniero aveva avuto l'indulto da Carlo Spinelli, ma non conoscere ad istanza di chi (testimonianze tutte gravi anche per la loro provenienza da un uomo non volgare). - Venne quindi la volta di Domenico Giustiniano, il quale dichiarò avergli un giorno il Lauriana dimandato consiglio, dicendo «che non havea faccia di comparere avanti di fra Thomaso Campanella perche si havea esaminato falsamente contra di lui, e detto milli falsità»; avergli lui risposto essere in obbligo di dire la verità, ma temendo il Lauriana che avrebbe la corda, essersi deciso consultare qualche letterato; «e così chiamassemo un giovane nominato Gio. Vincenzo mezzo monaco il quale non si volse impacciare, chiamassemo poi Domenico Monaco Dottore, et fra Silvestro li proposse il caso, et il dottore li disse, Io te hò ditto più volte che tu debbi star saldo alla prima esamina che altramente sarrebbe andato in una galera». Confermò avergli il Lauriana detto che i suoi superiori l'aveano forzato a deporre in quel modo, essere da tutti ritenuto falso testimone, avere una volta nelle litanie omesse le parole a falsis testibus, onde fra Pietro di Stilo lo rimproverò e tutti ne risero. Aggiunse di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nella carcere civile, ma non sapere che si fossero concertati o no fra loro (testimonianze rese ancora più gravi dall'ingenuità della persona). - Infine Giuseppe Grillo, che già conosciamo, dichiarò essere stato presente allorchè nelle carceri di Gerace il Lauriana si scusò con fra Pietro Ponzio perchè non si era ritrattato, dicendo che «esso era andato con animo di disdirsi pensando di trovare solo la Corte spirituale, mà che ci era anco presente Carlo Spinello et l'Avvocato fiscale Regio, è che lo spaventavano solamente à guardarlo». Confermò tutto il resto intorno allo stesso Lauriana, ma solamente per detto di altri. Confermò che il Lauriana e così pure il Soldaniero e Valerio Bruno aveano parlato con fra Dionisio, ciò che avea visto egli medesimo.

L'8 novembre fu dapprima interrogato, senza il formulario solito, il carceriere Alonso Martines di Medina del Seco, il quale disse: «frà Dionisio Pontio stette male à morte, et il sig.r Don Giovanni Sanges mi ordinò che io li dovesse dare un compagno, et che dovesse lassar aperta la porta della priggione nella quale era il detto frà Dionisio»: e quindi vi entrò più volte il Soldaniero, che con le proprie mani imboccava fra Dionisio quando mangiava, e diceva di farlo per carità; vi entrò pure Valerio Bruno, che portò a fra Dionisio da parte del Soldaniero «qualche regalillo di frutta», ed anche il Lauriana, che una volta rimase a parlare con fra Dionisio per un'ora. Egli vide tutto ciò, e quando erano partiti il Soldaniero e il Lauriana, fra Dionisio gli disse, «guarda costoro, si sono esaminati contra di me, et adesso mi vengono à dire che non si erano essaminati contro... niente» (non disse dunque che gli avessero dimandato perdono, ma d'altro canto perchè il Soldaniero specialmente negava con tanta ostinazione la visita fatta?). - Nardo Rampano di Catanzaro, sarto, carcerato per la congiura, disse essere stato sempre compagno del Lauriana nelle carceri di Squillace e poi anche in quelle di Napoli, avere udito più volte fra Pietro di Stilo in Squillace dare del falsario al Lauriana, che «piangeva e diceva che lo lassasse stare con li guai suoi»; aver veduto ancora in Napoli venire alle mani il Lauriana ed il Petrolo, il quale anche dava del falsario al Lauriana. Confermò tutto il resto circa il Lauriana, ed aggiunse inoltre di avere lui stesso udito il Pizzoni parlare dalla fossa col Lauriana «per un pertuso che risponde fuori, et parlavano latinamente» e dopo tre giorni il Pizzoni fu tolto dalla fossa e rimase da basso per più di due mesi in compagnia del Lauriana che lo governava; (senza mettere in dubbio l'orribile condotta del Lauriana, bisogna pur dire che tutti i frati d'ogni colore, eccetto il Pizzoni, seppero organizzare una vera crociata contro di lui). - Di poi Marcello Salerno di Guardavalle, sarto, carcerato egualmente per la congiura, confermò di avere udito tutte le voci che correvano su' fatti del Lauriana, tra le altre «che un certo dottore chiamato Dominico era stato la salute di frà Silvestro et la ruina dela causa». Aggiunse di aver udito prima fra Dionisio e il Lauriana quistionare e gridare tra loro e poi quietamente parlare insieme; aver veduto anche il Soldaniero visitare fra Dionisio. Non potè pertanto attestare di aver veduto in Squillace il Lauriana dimandare perdono a fra Pietro Ponzio per le falsità dette contro fra Dionisio, perchè allora esso Marcello aveva avuta la corda e stava male; attestò solamente di averlo udito dire da altri carcerati, come pure di aver udito che il Lauriana era stato sedotto a deporre in quel modo da un frate chiamato fra Cornelio. Aggiunse che veramente il Lauriana e il Pizzoni erano stati in un medesimo carcere più mesi; (nulla di nuovo, ma una concordanza notevole). - Quindi Cesare Bianco di Nicastro, domestico, carcerato come sopra, confermò le voci che correvano intorno al Lauriana, che tutti lo dicevano falsario, aggiungendo prudentemente, «quanto à me lo tengo per religioso da messa di S. Domenico». Attestò di aver veduto lui medesimo il Soldaniero ed anche Valerio Bruno parlare con fra Dionisio; ricordò di avere già deposto circa la lettera che il Lauriana avea mandata al Pizzoni; negò di avere udito il Lauriana dire che ci era tempo ad accomodare la coscienza, avendolo invece saputo per detto di altri carcerati; conchiuse dicendo, «fra Dionisio publicamente si tiene per homo da bene come lo tengo io, è per buon religioso, è predicatore, et publicamente si è ditto, è si dice particolarmente tra li carcerati che le cose che li sono state apposte sono state falsità»; (una testimonianza simile da un uomo piuttosto prudente merita di essere considerata). - Venne poi esaminato Geronimo padre del Campanella, che questa volta si disse di Stilo, calzolaio, costretto a vivere col carlino al giorno che a lui dava la Corte (come agli altri compagni poveri), e dichiarò di non saper nulla su quasi tutte le dimande che gli furono fatte. Attestò che dicevasi il Lauriana essere falsario, aggiungendo «et esso se lo sape». Attestò che avea veduto il Lauriana visitare fra Dionisio e parlargli, come pure il Soldaniero, non così Valerio Bruno, il quale serviva di cucina il Soldaniero; (il povero vecchio era sempre di molto cattivo umore). - Successivamente venne esaminato Gio. Battista Ricciuto di Monteleone, orefice, che dichiarò del pari non saper nulla su quasi tutti i punti e volle barcamenarsi. Disse il Lauriana ritenuto «appresso di alcuni per buono et appresso di alcuni altri non»; aver recitato la litania «giusta», ma lui, Gio. Battista, non saper «lettera»; non sapere se il Lauriana avesse visitato o no fra Dionisio, ma la camera di costui essere rimasta aperta a tutti. Quanto al Soldaniero fu più esplicito; l'avea veduto in camera di fra Dionisio, avea veduto Valerio Bruno servirlo, avea saputo da costui l'indulto accordatogli. - Finalmente Tommaso Tirotta, già servitore del povero Maurizio e carcerato e tormentato per questo, dovè rispondere solo intorno al Soldaniero e a Valerio Bruno: e disse aver conosciuto l'uno e l'altro fin da quando stavano ritirati nel convento di Soriano, sapere che il Bruno serviva il Soldaniero anche nel Castello, sapere che il Soldaniero avea visitato fra Dionisio, non sapere che il Bruno l'avesse egualmente visitato ed anche servito, poter attestare aver lui medesimo, Tirotta, cucinato due polli per fra Dionisio nel focolare del Soldaniero col consenso di costui (testimonianza insignificante per questa causa).

Il giorno seguente, 9 novembre, si cominciò ad interrogare i frati. E dapprima fra Paolo confermò che il Lauriana da tutti era stimato falsario, ricordando specialmente che così l'avea chiamato pure il Petrolo nel venire alle mani tra loro. Disse aver udito in Gerace perfino da' birri, ma non dal Lauriana, che costui avea detto volersi ritrattare e poi non l'avea fatto per timore, aggiungendo, a dimanda d'ufficio, che lo Spinelli e lo Sciarava erano presenti agli esami e minacciavano, ed il Capitano di campagna era anche presente e insolentiva, come avea provato egli stesso e parimente il Petrolo. Confermò aver udito in Gerace e in Monteleone che il Lauriana non conosceva nulla di quanto avea deposto, ma l'avea deposto per timore di fra Marco e del suo compagno, i quali dicevano volerlo consegnare alla Corte secolare se non confessava. Dichiarò aver veduto nella carcere di fra Dionisio, in colloquio con costui, il Lauriana, e così pure altra volta il Soldaniero; d'avervi veduto egualmente Valerio Bruno, che era servitore del Soldaniero, tanto che pur in que' giorni, essendo il Soldaniero passato al Castello dell'ovo, gli preparava il pranzo e glie lo mandava aggiungendo che da Valerio era stato detto di aver udito quanto avea deposto non da fra Dionisio ma dal Soldaniero. Attestò che trovandosi in Pizzoni, vide fra Dionisio venuto per ricuperare certi scritti dal Pizzoni e sdegnato verso costui uscire dalla Chiesa dove gli avea parlato (testimonianza troppo tardiva e quindi sospetta). Attestò le cattive qualità del Pizzoni, i furti, il mal francese, le disonestà che gli erano addebitate. Disse di sapere che in Pizzoni, quando vi fu fra Dionisio, non c'era il Campanella; confermò che fra Pietro di Stilo non era amico di fra Dionisio, ed invece lo era del Polistina; (così fra Paolo si mostrava ben diverso da quello di prima, ma perciò appunto non poteva conciliarsi molta fede). - Successivamente fu interrogato fra Pietro di Stilo, che abbondò moltissimo ne' particolari, profittando della circostanza per far entrare nelle difese in un modo anche più largo la persona del Campanella, sicchè la sua deposizione riesce di una importanza straordinaria. Dichiarò aver saputo direttamente dal Lauriana, in Squillace e in Monteleone, che avea deposto «tutto buggie ad instantia di frà Cornelio, è di frà Gio. Battista de Pizzoni», ed espose l'occasione a questo modo: «io dissi à fra Silvestro, come è possibile che tu che sei inimico di frà Dionisio perche ti persequitò per conto di frà fabio in Nicastro.... et tù sempre sei stato lontano da frà Thomaso, che essi ti habbiano communicato queste cose à te, et à me che ero amico di fra Thomaso, e paesano, non habbia ditto niente, Et fra Silvestro alhora mi disse, non per Dio, io mai seppi queste cose, mà me l'ha fatto dire il maledetto frà Gio. Battista da Pizzoni, in servitio del quale hò posto l'onore, è molte volte in pericolo la vita, Et io dissi come è possibile che si hai deposto contra frà Dionisio, et il Campanella ad instantia di frà Gio. Battista, che tu poi habbi accusato fra Gio. Battista, esso mi rispose che quelli doi ciò è il Campanella, è frà Dionisio li dovesse nominare come in effetto li nominai, et io da me aggionsi fra Gio. Battista per terzo, massime che frà Gio. Battista mi havea ditto di haver udito heresie dal Campanella, è da frà Dionisio» (rivelazioni molto sottili). Attestò che pure alla presenza di molti di Catanzaro il Lauriana disse di aver deposte falsità, ed esso fra Pietro glie ne fece rimprovero. Attestò di aver saputo dal Dottore Monaco il consiglio dimandatogli dal Lauriana; disse che uguale consiglio fu dimandato al Giustiniano e poi ad esso fra Pietro medesimo, onde ebbe a rispondere, «che si havea detto la verità stasse saldo, et moressero li tristi, è si havea detto la falsità mirasse a sè, è che li testimonii falsi condennorno il figliolo di Dio alla morte». Confermò che il Lauriana era falsario, anche perchè avea deposto di avere udito eresie da fra Dionisio, dal Campanella e dal Pizzoni, «e non dimeno, egli disse, frà Dionisio non è stato mai in Pizzoni con frà Thomaso Campanella, perche io era in Pizzoni in questo tempo, et l'haveria saputo si ci fusse stato», indicando testimoni, per sapere la verità, fra Paolo e il Pizzoni medesimo. Confermò aver fatto un appunto al Lauriana durante le litanie, quando si giunse alle parole a falsis testibus, poichè «parve che à fra Silvestro s'ingroppasse, è non potesse dire». Attestò che un giorno fra Dionisio e il Lauriana vennero a briga tra loro per le falsità, e poi la sera li vide discorrere insieme, come il Lauriana medesimo gli disse l'indomani. Attestò aver veduto più volte il Soldaniero parlare con fra Dionisio; quanto a Valerio Bruno, aver saputo lo stesso da carcerati. Dichiarò aver saputo da Giulio Contestabile che il Soldaniero gli avea detto essere stato da fra Cornelio forzato a deporre, ma attestò averlo poi saputo anche direttamente ed ecco in quale occasione: «al Soldaniero dissi che frà Gio. Battista di Pizzone se li raccomandava per amore di Dio, et Giulio rispose che non li volea perdonare, mà roinarlo, perche esso fù il primo che accusò il Soldaniero che con trenta persone voleva uscire in campagna per la ribellione, et che li rencresceva bene di haver detto contra frà Dionisio, perche la sospittione che havea contra frà Dionisio che se la tenesse con Eusepio suo inimico non era stata vera, è disse di haver fatto il debito suo verso frà Dionisio in camera di frà Dionisio, ma che al Pizzone lo voleva convincere col detto di valerio bruno suo servitore de loco, et tempore, perche da quello servitore faceva dire quel che lui voleva, è questo sarà il servitio che voglio fare à fra Gio. Battista, Et dopò questo biastemò San Gio. Battista, S. Giovanni evangelista, è Santo Cornelio, Et soggionse se venessero persone che havessero questi nomi io non li crederia mai, ne tan poco voglio credere à questi Santi per tali nomi, perche questi, ciò è frà Cornelio del Monte, e Maestro Gio. Battista Polistina, sono stati causa, che hò perso l'anima, la robba, e dubbito che perderò la vita, Et poi cacciò una carta reale, è disse questa mi costa un'anima, è tre mila docati, et confortandolo io che saria remesso, mi rispose questo è l'indulto, et maledicì quando mai fu indultato, et che era meglio per esso che fosse stato alli passi» (rivelazioni sempre più sottili ed anche abbastanza teatrali, un pochino inverosimili trattandosi non di un uomo semplice ma di un capo di fuorusciti qual era il Soldaniero). Dichiarò inoltre avergli lo stesso Soldaniero affermato, che i fatti esecrabili commessi contro l'ostia consacrata erano stati narrati da fra Dionisio nella predica di Soriano a pio fine (unico testimone fra Pietro su questo articolo tanto scabroso); avergli dippiù Valerio Bruno lodato grandemente quella predica. Accettò di aver fatto molto opportunamente fuggire il Polistina quando era perseguitato da fra Dionisio (con che si accreditava come testimone a favore di costui), e confermò ad una ad una le accuse di furto, malattie e «cose di donne» addebitate al Pizzoni, mostrandosi personalmente informato di tutto. Riconobbe che il Campanella avea trattato molto col Pizzoni, ma disse di non poter entrare a giudicare se dovesse ritenersi più probabile che il Pizzoni avesse manifestate a fra Dionisio opinioni del Campanella, o invece il contrario. Affermò di avere tanto lui quanto il Petrolo saputo dal Pizzoni che fra Dionisio avea parlato di eresie disputativamente, e soggiunse essergli stato detto dal Pizzoni, nelle carceri di Monteleone, che volea ritrattarsi di quanto avea deposto contro fra Dionisio e il Campanella, allegando «molte raggioni per le quali esso havea confessato la prima volta, è fra l'altre... il timore della morte, e la speranza di libertà, l'odio che havea con frà Dionisio, et l'occasione dela soversione delle cose, che alhora pareva che il mondo tutto andasse sotto sopra» (non si poteva dir meglio); al quale proposito ritornò sulle minacce fatte da D. Carlo Ruffo, da fra Cornelio, dal Visitatore, da Ottavio Gagliardo, e ricordò quello che costoro aveano fatto contro lui medesimo. Ma la lunghezza di questo esame obbligò i Giudici a rimandarne il sèguito ad altra seduta.

L'indomani 10 novembre fu ripigliato l'esame di fra Pietro di Stilo. Ed egli continuò sull'articolo delle minacce fatte in Calabria a ciascuno de' frati inquisiti, esponendo anche a lungo gli eccitamenti avuti da fra Gio. Battista di Polistina unito con fra Cornelio, poco prima di montare sulle galere in partenza per Napoli, perchè deponesse contro fra Dionisio, onde giudicò che in questa faccenda si trattasse di una vendetta particolare del Polistina. Confermò l'inimicizia del Lauriana con fra Dionisio, avendolo costui perseguitato per le pessime relazioni tra lui e fra Fabio Pizzoni: attestò di aver veduto la lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio, di avere udito più di quaranta volte dal Lauriana che era stato sedotto dal Pizzoni e da fra Cornelio, esponendo tutti i particolari del modo di procedere tenuto per gli esami in Calabria, la lettura dell'esame del Pizzoni agli altri che dovevano esaminarsi, la presenza de' laici che interrogavano anche in materia di eresia perfino in Gerace, facendosi gli esami innanzi al Vescovo. Così mano mano confermò ciascuno articolo su cui venne interrogato, sempre di scienza propria: e nel parlare del mulo rubato dal Pizzoni ad un uomo di Stilo, dichiarò che egli, insieme col Campanella e col Sig.r Francesco Petrillo, s'interpose per accomodare la faccenda; nel parlare degli eccitamenti del Visitatore perchè si deponesse contro fra Dionisio, aggiunse di essere stato eccitato a deporre anche contro il Campanella. Così pure, nel parlare della conferma dell'esame di Calabria fatta in Napoli dal Pizzoni a consiglio del Lauriana, aggiunse che egualmente il Petrolo (accusatore del Campanella) confermò l'esame a consiglio del Lauriana datogli allo stesso modo; nel parlare poi dell'inimicizia tra Dionisio e il Petrolo, dichiarò che non ne sapeva nulla, ma che sapeva bene esservi inimicizia tra il Petrolo e il Campanella, «perche si disse che una sorella di frà Dominico era innamorata di frà Thomaso, et che havevano peccato insiemi, et per questo si disse che frà Dominico cercò di fare ammazzare il Campanella dal Mauritio, mà Mauritio non lo volse fare; quando poi si suscitorno questi rumori di ribellione il Mauritio cercò di ammazzare il Campanella, è fra Dominico, mà non potè si ben li sequitò per alcune miglia»! Finalmente, nel parlare del motivo per cui il Pizzoni e il Petrolo dicevano aver dovuto confermare i rispettivi esami, cioè l'insistenza minacciosa del fisco, non solo dichiarò averlo udito da que' frati mentre discorrevano tra loro di notte, ma soggiunse averlo udito particolarmente dal Petrolo mentre lo diceva al Campanella per iscusarsi (e ben si vede che il povero fra Pietro si spingeva quanto più poteva, certamente un po' troppo, per giovare al suo disgraziato amico). - Dopo di lui fu esaminato il Petrolo, ma sopra un numero di articoli assai limitato. Egli attestò aver saputo direttamente dal Lauriana che avea deposto contro il Campanella, fra Dionisio e il Pizzoni, che vi era stato colto da fra Cornelio e dal Visitatore mentre non sapeva nulla di quanto depose, che voleva ritrattarsi almeno relativamente al Pizzoni suo maestro, ma non già che avesse deposto il falso ad istigazione del Pizzoni; e spiegò le confidenze fattegli, dicendo essere stato assistito dal Lauriana dopochè ebbe due ore di corda (naturalmente per la congiura). Attestò essere il Lauriana ritenuto pubblicamente falsario, persistente nel falso a consiglio di un dottore «furbo e mariolo», riluttante a dire le parole a falsis testibus nelle litanie per quanto avea saputo da fra Pietro di Stilo. Attestò aver veduto il Lauriana e fra Dionisio parlare insieme, sibbene fuori la carcere; aver udito il Soldaniero bestemmiare santo diavolo e borbottare minacce contro i Polistina, ciò che il Bitonto gli spiegò col dire che i Polistina lo avevano costretto a deporre ciò che depose; inoltre aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio dentro la carcere e prestargli danaro, come pure aver veduto nella carcere di fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Dichiarò di avere non solo udito il Soldaniero lamentarsi dei Polistina, ma ricevute lui stesso in Bivona raccomandazioni dirette da fra Gio. Battista di Polistina perchè non risparmiasse fra Dionisio, e nella medesima occasione veduto anche il Polistina riscaldarsi con fra Pietro di Stilo. Dichiarò di aver udito il Soldaniero dire che in Calabria avea dovuto fare il birro per salvarsi la vita; di sapere che il Pizzoni era stato in relazioni molto strette col Campanella; di avere udito dal Pizzoni che le cose dettegli da fra Dionisio erano state dette recitative e poi egli l'aveva accomodate nella sua deposizione a modo di disputa; di avere avuto preghiera dal Pizzoni, perchè raccomandasse al Lauriana di persistere nella discolpa conoscendo che l'aveva discolpato; di sapere che il Campanella non era stato a Pizzoni quando vi fu fra Dionisio, perchè il Pizzoni e il Lauriana glie l'aveano detto, ed anzi il Lauriana, preoccupato di aver detto il contrario, lo pregò di raccomandare a fra Paolo che non lo scovrisse su questo punto. Infine dichiarò di sapere che il Pizzoni e il Lauriana erano stati più mesi insieme nelle carceri civili, e di credere che si fossero là messi d'accordo a voce dopochè aveano cercato di farlo in iscritto; (così oramai il Petrolo, col contatto de' frati, si era modificato di molto, ed avea capito che la causa di ognuno rifletteva quella di tutti; ma si era troppo spinto innanzi per tornare francamente indietro). - Fu interrogato da ultimo il Bitonto, e costui dichiarò di aver saputo dal Lauriana in Gerace, che si era esaminato contro fra Dionisio e il Campanella a persuasione del Pizzoni, che non si era ritrattato per timore di Carlo Spinelli, ma che si sarebbe ritrattato in Napoli, dimandando ad esso Bitonto se si dovesse o no ritrattare. Attestò di aver veduto un giorno fra Dionisio e il Lauriana quistionare insieme ed aver poi saputo dallo stesso Lauriana che la sera era andato a cercare perdono a fra Dionisio per le falsità deposte contro di lui; aver veduto il Soldaniero visitare fra Dionisio nella carcere e portargli cose da mangiare, ed aver veduto egualmente presso fra Dionisio Valerio Bruno servitore del Soldaniero. Attestò aver udito dal Soldaniero che non gli si teneva conto del guidatico, e che i Polistina e fra Cornelio lo avevano consigliato e costretto a deporre le cose di eresie. Attestò che il Pizzoni avea fatto fuggire fra Gio. Battista di Polistina quando fra Dionisio cercava farlo carcerare, che in Calabria era reputato un cattivo soggetto, avea rubati scritti a fra Dionisio e commessi altri furti, aveva avuto il mal francese e fatto udire molte cose in materia di donne. Attestò egualmente di propria scienza la pessima condotta del Lauriana in materia di costumi, e per detto altrui le lettere che avea scritte a Ferrante Ponzio revocando le cose affermate contro fra Dionisio e il Campanella. Infine attestò l'amicizia di fra Pietro di Stilo per fra Gio. Battista di Polistina nemico di fra Dionisio (come si vede, nulla di nuovo, e d'altronde il testimone era troppo ligato a fra Dionisio per potergli accordare molta fede).

Il 16 novembre si tenne l'ultima seduta, e furono interrogati il Barone di Cropani e Geronimo di Francesco, fatti venire dal Castello dell'ovo. Il Barone di Cropani, Antonino Sersale, narrò come egli si fosse adoperato per far perdonare dal Provinciale fra Dionisio quando costui ebbe grave punizione per aver bastonato un frate, come inutilmente avesse in tale circostanza procurato i buoni ufficii del Vescovo di Catanzaro e dell'Auditore De Lega presso il Visitatore, con la conseguenza rincrescevole per lui di essere ritenuto a motivo di queste trattative con fra Dionisio, «sospetto come li altri calabresi carcerati». Attestò per scienza propria le ottime qualità di fra Dionisio, e per detto altrui l'ostilità del Visitatore verso questo frate dietro antichi dissensi circa le controversie de' frati Riformati, come pure l'amicizia del Visitatore per fra Gio. Battista di Polistina nemicissimo di fra Dionisio. Attestò aver saputo da due Padri Gesuiti, mentre si trovava nelle carceri di Monteleone, che il Mileri e il Crispo, quando vennero giustiziati, dicevano con alte grida aver tutto deposto in materia di ribellione per forza di tormenti avuti dallo Sciarava; e la cosa medesima essersi detta di altri tre che vennero giustiziati sulla galera in cui egli si trovava, sebbene non l'avesse udito di persona poichè soffriva il mal di mare, specialmente di Gio. Battista di Nicastro (il Bonazza), che per questo motivo non voleva nemmeno riconciliarsi con Dio ma poi si piegò. Aggiunse essere anche in materia di fede fra Dionisio «da tutti tenuto per bonissimo Catholico». - Geronimo di Francesco disse di avere appena conosciuto fra Dionisio, e di poter attestare che tutte le accuse fatte a questi frati erano falsità, come aveva in parte udito e in parte saputo dal Pizzoni, aggiungendo che i due giustiziati in Catanzaro (Mileri e Crispo) avevano confessato di aver tutto deposto per forza di tormenti e persuasione dello Sciarava; (e così entrambi i testimoni confondevano troppo la materia della ribellione e quella dell'eresia).

Abbiamo già avuta occasione di dire che in questo stesso periodo di tempo, oltre gli esami difensivi per fra Dionisio, si fecero anche quelli pel Pizzoni. Costui presentò in sua difesa 34 articoli, e poi ne diede in supplemento pure qualche altro nell'ultima ora scrivendolo di suo pugno (sicchè a quel tempo dovè la lesione della spalla dargli un po' di tregua), ma i Giudici non vi badarono nemmeno. Secondo il solito volle provare che fin dal suo ingresso nella vita monastica avea vissuto religiosamente, e poi predicato ed insegnato ne' conventi principali, aggiungendo di avere strettamente digiunato ogni sabato e di non essere stato mai inquisito nè processato. Che il processo fatto da fra Marco e fra Cornelio era falso, avendo ricevuto danari e donativi da diverse persone per fare un processo tale da guadagnarsi un premio. Che que' frati eccitavano gl'inquisiti l'uno contro l'altro dicendo che l'uno avea deposto contro l'altro, leggevano in precedenza all'uno l'esame raccolto dall'altro, facevano co' tormenti dire quanto loro piaceva. Che senza precedente denunzia, inquisizione o querela, aveano fatto carcerare esso Pizzoni, dicendolo pubblicamente nemico di Cristo e del Re. Che il fisco e gli ufficiali Regii promettevano premii e diedero indulti per far deporre contro la propria coscienza. Che un testimone del fisco, il Caccìa, aveva in punto di morte dichiarato di aver deposto il falso e se n'era fatta fede che esso Pizzoni riproduceva; inoltre questo Caccìa era stato sottoposto alla tortura mentre aveva la febbre e in tale condizione era stato sedotto da que' frati a nominare esso Pizzoni! Che i due Polistina erano suoi nemici, essendo lui stato a Roma contro di loro quando concorrevano al Provincialato. Che Giulio Soldaniero gli era nemico capitale e l'avea più volte minacciato, pretendendo che avesse nascosto Eusebio Soldaniero; e poi era stato eccitato da' Polistina a deporre contro di lui. Che Valerio Bruno era compagno di delitti e servo stipendiato del Soldaniero, e quindi non meritava fede; e poi egli medesimo confuso per le sue falsità avea detto a' Giudici, «misericordia signore, che sono ignorante». Che esso Pizzoni non era stato mai cacciato dal convento di Soriano, ma sempre accoltovi con affetto, e vi avea pure cantata la messa in presenza del Visitatore nel giorno di S.to Agostino (vale a dire il 28 agosto). Che il Campanella e fra Dionisio non aveano mai parlato di quelle cose che esso Pizzoni avea deposte, se non separatamente e fuori la presenza di alcuno; e il libro del Campanella stampato in Napoli non era scritto contro S. Tommaso ma contro Antonio Marta napoletano, e S. Tommaso vi si trovava nominato sempre colla massima riverenza (in questo contradiceva al Lauriana, col quale oramai il disaccordo era completo). Che avea sempre letto e predicato dottrine approvate dalla Chiesa. Che fra Dionisio gli era divenuto nemico mortalissimo da che esso Pizzoni avea deposto contro di lui molte cose intorno alla congiura e alla fede; fra Domenico Petrolo era stato eccitato a deporre contro esso Pizzoni da fra Cornelio, il quale glie ne lesse pure l'esame, oltrechè non avea potuto vederlo ammalato in Pizzoni due anni prima, perchè allora esso Pizzoni si trovava in altri posti. Che mai vi era stata tra lui e il Campanella corrispondenza in cifra, che non era mai il Campanella venuto altre volte a Pizzoni, che quando ci venne fu perchè volea vedere i Vescovi di Mileto e di Nicotera i quali dovevano là venire, che dopo di averlo esso Pizzoni cacciato dal convento, non gli scrisse mai più. Che se esso Pizzoni lo vide in Stilo, ciò fu per certo danaro che dovea restituire a un fra Marcello Basile, e per certo altro danaro che doveva esigere andò a vederlo presso il Marchese di Arena. Che avvertì il P.e Generale facendo scrivere la lettera al Lauriana e mandandola egualmente per costui alla posta di Monteleone, non appena seppe le cose delittuose del Campanella e di fra Dionisio. Che tutte le deposizioni de' frati furono fatte innanzi ad ufficiali Regii, ed anche innanzi a D. Carlo Ruffo, il quale era speciale nemico di esso Pizzoni per controversie passate tra loro. Che nel convento di Pizzoni egli non era stato se non durante tre mesi prima della sua carcerazione, mandatovi a forza da' Superiori suoi nemici, ed avea supplicato inutilmente di poter lasciare quel posto, solito ad essere frequentato da fuorusciti protetti dal Vescovo di Mileto, onde due Vicarii suoi predecessori aveano dovuto scapparne di soppiatto.

A questi articoli, redatti con un po' di disordine e con diversi errori di nomi, attestanti la poca cura dell'Avvocato e l'affievolimento del Pizzoni pur sempre infermo, venne aggiunto un elenco di testimoni rappresentati da tutti i frati inquisiti all'infuori di fra Dionisio (oltrechè del Campanella come ben s'intende), da molti frati de' conventi di Calabria, e da taluni de' conventi di Napoli, dal Contestabile e dal di Francesco carcerati per la ribellione, dallo Spinola e dal Castiglia ed anche da un D. Francesco di Genova carcerati per altre cause, da Fabio Pisano disgraziato padre di Cesare dimorante in Calabria. E con una fiacchezza di accorgimento sempre più notevole, vennero tutti i frati inquisiti indicati come testimoni su tutti gli articoli indifferentemente, sicchè p. es. il Petrolo ed il Lauriana doveanoprovare anche le affermazioni contenute negli articoli addotti contro di loro; e può dirsi senza esitazione, che la difesa del Pizzoni, già essenzialmente scabrosa, fu mal condotta davvero. - Il fiscale Sebastiano diede dal canto suo appena 6 interrogatorii, contenenti le solite ammonizioni e generalità rutinarie, senza brigarsi menomamente de' fatti affermati negli articoli, tanto dovea sentirsi sicuro che non ve n'era bisogno. I Giudici poi chiamarono all'esame soltanto i frati inquisiti, lo Spinola e il Castiglia, il Contestabile e il Di Francesco, e in due sedute successive, il 14 e 15 novembre, esaurirono le difese del Pizzoni.

Il 14 novembre fu interrogato dapprima fra Paolo della Grotteria, il quale disse di conoscere da poco tempo il Pizzoni e non poter dare testimonianze sulla vita di lui; avere udito con molti altri carcerati in Monteleone Cesare Pisano affermare, che da suo padre era stato dato danaro ed altro al Visitatore e compagno, per passarlo dalla Corte temporale all'ecclesiastica; esser vero che il Visitatore e compagno, presenti Spinelli, Sciarava e il Vescovo di Gerace, minacciarono esso testimone se non avesse deposto contro il Pizzoni intorno al mangiar carne in tempo proibito; che D. Carlo Ruffo con suoi famigli era venuto nelle carceri a sedurlo e così pure fra Cornelio; che avea veduto minacce di pugni e di consegna alla Curia secolare, la quale procedeva a modo di campagna, fatte al Petrolo e a fra Pietro di Stilo. Avere udito parlare della fede fatta dal Caccìa a tempo della sua morte, ma non averla veduta; poter attestare che il Caccìa fu tormentato mentre avea la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno fossero stati presenti. Avere udito da un birro che i due Polistina coll'intervento di un secolare, il quale doveva essere Giulio Soldaniero, avevano fatta una lista di accuse, non sapere se il Campanella e fra Dionisio avessero parlato o no di eresia, ma poter attestare che il Pizzoni si era con lui lamentato del Visitatore e compagno, perchè con buone parole e promesse di liberazione, al pari di D. Carlo Ruffo, l'aveano indotto a deporre contro que' due frati, ed egli l'avea fatto tanto più perchè pensava di non avere a nuocere a fra Dionisio che era fuggito; potere inoltre attestare che nella Chiesa di Pizzoni fra Dionisio avea parlato al Pizzoni con sdegno. Su tutto il resto disse non saper nulla (la difesa del Pizzoni già cominciava a risultare ben altro che difesa, e se venivano a galla tutte le infamie del Visitatore e di fra Cornelio, non per questo il Pizzoni se ne giovava). - In sèguito il Petrolo disse del pari aver conosciuto poco il Pizzoni, avendolo veduto appena una volta in Stilo e poi nel carcere; sapere che era buon predicatore e letterato ma assai maledico, e che avea cominciato a digiunare il sabato da sole tre o quattro settimane! Aver udito in Gerace che il Mesuraca avea dato 100 scudi a fra Cornelio per far processare mortalmente i frati inquisiti, a fine di guadagnarsi il taglione sopra il Campanella ed esso Petrolo; aver udito in Monteleone da Cesare Pisano ed anche dal padre di costui, presenti altri frati, che erano stati dati 100 scudi e robe di tela a fra Cornelio, convenendo di far dire cose di eresie per passare al foro ecclesiastico. Essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni, ma non detto che dovesse deporre contro il Pizzoni. Essergli stato detto dal Pizzoni che fra Cornelio, presente Geronimo di Francesco, l'istruiva nella carcere su quanto avrebbe dovuto deporre; poter assicurare che esso testimone medesimo era stato visitato nella carcere da fra Cornelio, il quale voleva fargli sottoscrivere un verbale che egli non voleva sottoscrivere, «e disse con giuramento, dicendo per queste mani, monstrando le mani sue, che tu non hai da uscire da questo Castello se non in pezzi, et io mi humiliai, et esso col visitatore mi sputavano in faccia con dire non basta questo, ma volevano che io dicesse delle cose che non sapeva... et il Sciarava mi pigliò una volta per il petto, è mi condusse alla banca sotto la corda, et voleva che confirmasse lo mio esamine quale io non voleva confirmare per le falsità che contineva». Dichiarò inoltre che tutti i frati di S. Domenico erano chiamati ribelli, che ognuno de' persecutori si aspettava un premio, e di fra Cornelio si diceva che sarebbe stato fatto Arcivescovo di Toledo! Avere udito che il Caccìa avea fatto fare una fede per ismentire le falsità deposte, e che era stato tormentato mentre avea la febbre; aver saputo da lui medesimo, in Squillace e poi in Monteleone, che era stato esaminato contro il Pizzoni e avea deposto il falso; ma i Giudici gli fecero osservare d'officio che dal processo si rilevava essersi le deposizioni del Caccìa avute senza tormento, e il Petrolo ripetè che in Gerace aveva avuta la corda (erano state confuse negli articoli le deposizioni sulla congiura e quelle sull'eresia, e i testimoni continuavano in tale confusione). Avere udito che il Pizzoni non era nemico ma amico del Polistina (confusione di due periodi diversi); aver saputo dal Pizzoni medesimo che fra Dionisio non gli avea dette tante eresie; e che glie le avea dette recitativamente; nulla poi aver saputo intorno al Campanella. Poter assicurare che il Pizzoni era stato esaminato innanzi al Visitatore e compagno, allo Spinelli e allo Sciarava, come esso medesimo era stato esaminato; che anzi lo Spinelli e lo Sciarava volevano esaminarlo soli ed egli si rifiutò di rispondere dicendo che era ecclesiastico, ma Sciarava gli disse che non lo era più, perchè aveva allora lasciato l'abito, e finirono per interrogarlo (ma questo era accaduto in Gerace, e il Pizzoni avea già deposte tante cose propriamente in Monteleone, fuori la presenza dello Spinelli e dello Sciarava). Sugli articoli che concernevano direttamente la persona sua, confermò essergli stato da fra Cornelio letto in gran parte l'esame del Pizzoni ma non fatto eccitamento a deporre contro il Pizzoni; confermò inoltre aver veduta una lettera in cifra che il Campanella gli disse essere stata scritta dal Pizzoni. Su tutto il resto dichiarò non saper nulla. - Venne poi la volta del Lauriana, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da molto tempo, non essergli amico nè nemico, sapere che era buon predicatore ma non che digiunasse o no. Aver udito dal Pisano e dal padre di costui il pagamento e regalo fatto a fra Cornelio; aver saputo dal Caccìa essere stato spinto a deporre contro il Pizzoni dietro assicurazione che il Pizzoni avea deposto contro di lui. Avere lui medesimo avuta dal Visitatore e compagno la minaccia di essere consegnato allo Sciarava, il quale diceva volergli dare la corda. Avere udito dal Caccìa che molte cose erano state da lui deposte contro il Pizzoni e che venendo in Napoli si sarebbe ritrattato; sapere che il Caccìa era stato sottoposto alla corda mentre aveva la febbre, ma non sapere se il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti. Avere il Soldaniero scritto a Claudio Crispo lamentandosi che in Pizzoni si desse ricetto ad Eusebio suo nemico, la qual cosa non era vera. Riferirsi al suo esame circa la presenza contemporanea del Campanella e fra Dionisio in Pizzoni quando si parlò di eresia, e così pure circa la lettura del libro stampato dal Campanella. Esser vero che il Pizzoni leggeva la dottrina di S. Tommaso, che era stato Teologo del Vescovo di Nicotera, che era andato presso il Campanella per le ragioni da lui addotte. Avere scritto realmente la lettera al Generale, con cui il Pizzoni rivelava le cose del Campanella e di fra Dionisio, ed averla lui medesimo portata alla posta. Nel suo primo esame non esservi stati altri esaminatori che il Visitatore e fra Cornelio, senza intervento di persone laiche. Esser vero che il Pizzoni si lamentava sempre del Provinciale e del Polistina i quali l'avevano mandato nel convento di Pizzoni, e che in questo convento erano stati sempre ricoverati banditi, da' quali una volta il Vicario predecessore del Pizzoni aveva avuto minaccia di essere buttato dalla finestra.

Il 15 novembre si venne agli esami di tutti gli altri testimoni. E dapprima fu esaminato fra Pietro di Stilo, il quale, come sempre, ebbe di mira principalmente la difesa del Campanella, sicchè il Pizzoni non potè punto giovarsene. Egli disse aver conosciuto il Pizzoni da otto anni, averlo avuto a lettore in Briatico, essergli amico, essere rimasto con lui una volta che gli altri scolari gli si ribellarono; sapere che era buon lettore e buon predicatore, ma di vita scandalosa. Confermò di avere udito da alcuni preti in Gerace che a fra Cornelio erano stati dati danari da Misuraca, perchè aggravasse la condizione de' frati e così egli guadagnasse la taglia; si diffuse sull'argomento de' premii e quindi della falsità del processo, dicendo, «chi pretendeva per questa causa di voler essere vescovo, chi cardinale, chi conte, chi una cosa, et chi un'altra, et comunemente fra Cornelio et il visitatore si tenevano vescovi, et quelli preti dissero con pietà, la causa di questi monaci non può andare bene perchè li istessi monaci li cacciano, et altro non mi racordo per ora, Et poi si il processo sia falso, dico che frà Gio. Battista da Pizzone et frà Silvestro de Lauriana separatamente l'uno dall'altro mi hanno detto che hanno detto la falsità, et per questo bisogna che il processo sia falso, quanto poi alli Giudici ciò e, Visitatore, et compagno, facevano, è dicevano tante cose, come saria pigliavano me, è mi conducevano avanti li giudici secolari, et dicevano, ve lo consegno per tre hore, facciati quel che vi piace, è se partivano..., di più dicevano si tu confessi non morirai, è sarai libero, et haverai premio, et altre parole simili, et l'istesso anco mi è stato fatto da don Carlo Ruffo è da quello di casa guagliardo (intend. Ottavio Gagliardo) à Monteleone...; fra Cornelio si monstrava non amico, mà servitore deli giudici secolari, et l'istesso visitatore pareva che dependesse da frà Cornelio, et per tutte queste cose, et altre, hò anco sospetto che per mali modi tenuti dal visitatore, è compagno che il processo sia falso». Disse poi non sapere che si leggessero prima a' testimoni gli esami raccolti contro di loro, ma saper bene che i giudici «fingevano et dicevano parecchie cose contra il Campanella, frà Dionisio, et il Mauritio, che erano tristi, et scelerati, et heretici, è che fra thomaso Campanella havea predicato publicamente le heresie, Et io facendo instantia di vedere le cose che mi dicevano non me le volevano monstrare, è poi mi dicevano hor su tu vuoi morire...». Ed inoltre: «fra Cornelio con belle parole, è lusinghe mi voleva persuadere à dire quel che lui voleva, ciò e, che io accettasse l'esamina deli altri, dicendomi tu solo non puoi portare il carro et si tu solo sarai pertinace, tu solo morirai, monstrando certe pietà, è forfanterie con me, et ultimamente sempre mi lassava con bravarie... Facevano gran cose per fare confessare, e massime frà Cornelio, il quale mi minacciava la morte, et io risposi pacientia, più presto la morte che offendere Dio». Dichiarò non conoscere che il Caccìa avesse fatta una carta di ritrattazione, ma conoscere che fu tormentato mentre avea la febbre senza essere informato se v'intervenisse o no il Visitatore ovvero fra Cornelio; poter poi attestare, avendolo udito dal Caccìa medesimo, che si lamentava di fra Cornelio perchè l'avea sedotto a dire la falsità con l'assicurazione che avrebbe così evitata la corda, onde diceva aver deposto la falsità per la corda (evidente ripiego per profittare in qualche modo di un articolo scioccamente redatto). Disse di sapere che il Soldaniero si era lamentato di fra Dionisio (anche di fra Dionisio), del Pizzoni e del Lauriana, perchè ospitavano Eusebio fuoruscito suo nemico; sapere per detto di fra Paolo che il Soldaniero si era concertato col Polistina in questa faccenda, e che a lui parea vero, mentre il Polistina avea tentato di sedurre lui medesimo perchè deponesse contro fra Dionisio (ma non si pronunziò sulla inimicizia sorta tra il Pizzoni e i Polistina). Dichiarò non potere esser vero che fra Dionisio avesse dette eresie al Pizzoni, mentre nel principio di luglio, essendo in Stilo e sapendo che vi era venuto il Pizzoni, corse a prendere un candeliere dall'altar maggiore per ucciderlo, a motivo di certi scritti rubatigli da lui; ed esso testimone col Campanella doverono quietarli, promettendo il Pizzoni che avrebbe restituiti gli scritti e mandatili ad Arena (mezzo di difesa venuto in campo negli ultimi tempi). Dichiarò non sapere che il Pizzoni avesse accusato fra Dionisio a' superiori; potere invece attestare, che il Pizzoni voleva persuadere esso testimone a dire che avea veduta una lettera da lui scritta allo Sciarava e che costui glie l'avea mostrata, la qual cosa era «bugia tremendissima»; potere attestare ancora che il Lauriana avea detto ad esso testimone non esser vero che avesse portato alla posta una lettera del Pizzoni al P.e Generale (troppe confidenze ricevute). Quanto a fra Domenico Petrolo, dichiarò non sapere che costui avesse avuto terrori da fra Cornelio perchè deponesse contro il Pizzoni, ma avere udito dal Petrolo medesimo che aveva avuto terrori per deporre contro il Campanella e fra Dionisio (sempre confidenze da tutti costoro, che pure lo conoscevano amico intimo del Campanella). Quanto al non avere più il Pizzoni trattato col Campanella dopo di averlo cacciato dal suo convento, dichiarò constargli il contrario, mentre essendo il Campanella in Pizzoni verso la fine di luglio, fu pregato di volervi rimanere ulteriormente, e vi rimase tre giorni più di quanto si era proposto; aver sempre il Pizzoni pregato il Campanella che si recasse al convento di Pizzoni, averlo anche in Arena pregato in tal senso, sicchè per queste falsità non avrebbe dovuto farlo esaminare come testimone! Esser vero che quando il Pizzoni venne a Stilo portò certi danari a M.° Marcello Basile, come «ne portò anche al speciale che li curò il mal francese»! Sapere che fra Gio. Battista di Polistina l'avea processato per i suoi delitti; sapere che in Pizzoni vi erano banditi, ma non sapere che vi fossero prima che ci andasse per Vicario il Pizzoni (altro che difesa; il Pizzoni amico infedele, doveva essere trattato come un deciso nemico, oltrechè dimostrato testimonio falso per le seduzioni e il terrore incussogli da fra Cornelio). - Venne di poi il Bitonto, il quale disse aver conosciuto il Pizzoni da dodici anni, averlo saputo di mala vita, essere stato tenuto per scandaloso e maligno. Avere udito da Fabio Pisano la faccenda de' danari e regali dati a fra Cornelio per far liberare il figlio dalla morte, e da' carcerati la faccenda de' danari pagati allo stesso fra Cornelio dal Mesuraca, per far processare mortalmente il Petrolo e il Campanella. Avere fra Cornelio detto a lui medesimo che il Pizzoni gli si era esaminato contro, eccitandolo così a deporre contro il Pizzoni; e dicendo lui che non sapeva nulla, avere avuto da fra Cornelio minaccia di consegna a' Giudici secolari. Sui cattivi modi di esame, e sulle speranze de' premii da parte de' Giudici e persecutori, disse: «usorno milli stracie verso di noi il fra Cornelio, et l'Avocato fiscale, et Carlo Spinello, acciò per le stracie dicessimo quello che volevano loro..., quello che pigliò à me pretendeva di acquistare una baronia, è don Carlo Ruffo, pretendeva essere Prencipe de Stilo, è frà Cornelio per quanto disse l'Avocato fiscale se li saria procurato un vescovato, et io udì quando che il fiscale disse questo in risposta che diceva non haveria mancato di fare tutto quello che havesse possuto in servitio del Re Catholico al quale era devoto». Intorno al Caccìa disse sapere che gli fu data la corda mentre aveva la febbre e che in particolare gli fu dimandato del Pizzoni, ma non sapere chi ci fosse presente e se vi fosse intervenuto il Commissario e compagno. Intorno alle relazioni tra il Pizzoni e il Polistina, disse sapere che il Pizzoni era andato a Roma per mostrare che l'elezione del Polistina al Provincialato non era valida. Confermò che il libro del Campanella era scritto contro un certo Marta napoletano (egli solo tra' testi si trovò in possesso di tale notizia). Confermò che il Petrolo era stato eccitato da fra Cornelio a deporre il falso contro il Pizzoni, dicendo averlo saputo dallo stesso Petrolo ed aggiungendo essere stato lui medesimo presente alle bravate di fra Cornelio verso il Petrolo. Su molti altri articoli, sulla condotta del Soldaniero messosi di accordo co' Polistina, su' fatti del convento di Soriano, sulle relazioni del Pizzoni con fra Dionisio e il Campanella disse non saper nulla; sulla presenza di banditi nel convento di Pizzoni disse aver saputo dal Lauriana che c'erano già prima che il Pizzoni ci andasse per Vicario (e ben si vede che le testimonianze del Bitonto furono pel Pizzoni assai migliori di quanto si poteva attendere).

Nella stessa seduta furono esaminati i rimanenti testimoni, chiamati a deporre sopra determinati articoli. - Cesare Spinola disse di conoscere un frate chiamato fra Gio. Battista di Pizzoni ma non avergli mai parlato; non sapere che il Soldaniero si fosse messo d'accordo co' Polistina contro il Pizzoni; sapere bensì che Valerio Bruno passava per servitore del Soldaniero. - Giulio Contestabile disse aver conosciuto il Pizzoni nelle carceri; poter attestare che il Caccìa avea deposto contro esso testimone e al momento dell'estremo supplizio si era ritrattato, onde egli se ne avea procurata dai confortatori una fede che aveva presentata in giudizio a sua difesa; non conoscere i Polistina e non sapere che si fossero concertati col Soldaniero a danno del Pizzoni, sapere che Valerio Bruno era da tutti tenuto per servitore del Soldaniero. - D. Francesco di Castiglia disse non conoscere il Pizzoni personalmente, non saper nulla del concerto del Soldaniero co' Polistina, sapere che Valerio Bruno era servitore del Soldaniero. - Infine Geronimo di Francesco disse aver conosciuto il Pizzoni solamente nelle carceri di Gerace, dove stava con lui in una medesima camera, ed aggiunse: «essendo priggione con frà Gio. Battista di Pizzoni, venne un frate rossetto, di bassa statura, e giovane quale lo chiamavano il compagno del visitatore, e per nome intendo si chiama frà Cornelio, et parlando con fra Gio. Battista udii che disse: Padre frà Gio. Battista mio bisogna per sutterfuger lo giudicio temporale che deponestivo in materia dal Santo Officio, et confermassi l'esamina fatta, et à questo modo si daria satisfatione à questi Signori, ciò e, al Advocato fiscale di Calabria, et saressi forzato di andare in Roma per ordine del Santo officio, Et questo detto si appartorno un poco da me che io non potesse udire et raggionorno quasi mezza hora secretamente che non udii, mà dopò frà Gio. Battista mi disse che il Compagno non havea parlato solamente come da se, mà mandato dal Padre visitatore à posta per persuaderlo à quanto hò ditto di sopra». Ed interrogato d'ufficio dichiarò ancora: «frà Gio. Battista disse così confusamente per che io non volsi sapere quel che havea deposto, che esso si era esaminato avanti don Carlo Ruffo, et che era molto attimorato, è mi giurò sopra li ordini che lui tiene, che delle cose che lui havea deposto, non ne sapeva niente, et che si Dio li faceva gratia di venire in buona sanità, che alhora havea certi discensi molto fastidiosi nelle braccia, voleva morire in una corda per mantenere la verità, essendo che quello che haveva detto non era la verità, et à questo niuno altro fù presente perche noi doi soli eravamo in quello carcere» (troppe confidenze). Intorno alle sevizie da parte del Visitatore e compagno dichiarò, che al Petrolo esaminato da fra Cornelio, «perche non disse come voleva esso, li levò il ferrarolo, et il cappello essendo alhora in habito secolare nel quale era stato preso, et lo fece tornare alla carcere che pareva un pescatore, et io lo viddi senza cappello, e senza ferrarolo, per il che mi mossi à dimandarli perche non havea il cappello, et il ferrarolo, et esso mi racontò quanto hò ditto». Intorno al Caccìa, disse che «fu tormentato à tempo che havea la febre, et l'Avocato fiscale fece venire un medico, il quale dubitando di non essere carcerato, disse per quanto si è inteso che si li poteva dare la corda». Dichiarò per altro non sapere che il Visitatore e compagno vi fossero intervenuti, ed aggiunse: «quando questo Gio. Thomaso Caccìa et Gio. Battista Vitale furono giustitiati io mi trovai presente su le galere, et questi doi publicamente dissero, havendo anco chiamato prima l'Avocato fiscale, è li padri dela Crocella, et Maestro Cesare Pergola franciscano che era passiggiero, che quanto havevano detto contra di loro nelli tormenti, poiche non voleva credere detto fiscale che fusse mentita, è falsità, e perciò si contentavano di morire; mà in quello che toccava li altri dichiaravano che quanto havevano detto tanto in materia di ribellione come del Santo officio tutto era falsità, è fecero instantia che ne facesse fare atto publico, mà esso non volse» (dichiarazioni evidentemente troppo larghe, estese anche alla congiura, della quale lo stesso Di Francesco era stato almeno persecutore; in quanto al Pizzoni poi testimonianze di accusa, non di difesa). E così ebbero termine gli esami difensivi pel Pizzoni.

Ecco ora gli esami informativi sulla pazzia del Campanella, che si fecero contemporaneamente agli anzidetti, in due sedute, il 6 e il 15 novembre, ad istanza del suo procuratore. Senza dubbio vi erano state da parte de' Giudici sollecitazioni per procedere alle difese del Campanella, poichè il Dello Grugno era entrato in funzione non prima del 31 ottobre, e ben presto fu presentata una comparsa scritta chiedendo un'informazione sulla pazzia; onde con appena sei giorni d'intervallo le si diè principio. La comparsa, che trovasi inserta nel processo, non reca il nome di chi la scrisse, ed è redatta in latino ne' seguenti termini che diamo tradotti: «Innanzi agl'Ill.mi e Rev.mi Signori giudici delegati dal Santiss.mo S.r N.° nella causa di fra Tommaso Campanella dell'ordine dei predicatori carcerato nelle carceri del Castel nuovo, comparisce il procuratore dello stesso e dice, che il detto frate, da alcuni mesi in quà, è stato ed è in manifesta demenza, è stato ed è privo totalmente d'intelletto, siccome è apparso ed evidentemente apparisce dalle sue parole e da' suoi gesti, poichè a modo dei matti sempre ha detto e continuamente dice parole risibili, non a proposito, stravaganti; e però che non si possono fare per lui difese intorno alle cose delle quali trovasi inquisito, mentre a volerle fare bisognerebbe cavarle dalla bocca sua. Laonde chiede gli si conceda un termine conveniente per provare la predetta demenza, e frattanto si sospenda ogni cosa, premessa la protesta di non decorrenza del termine concesso per le difese...» etc. I Giudici diedero immediatamente corso alla dimanda, e cominciando dal carceriere esaminarono dieci testimoni, de' quali poterono aver notizia da' primi esaminati. Dobbiamo anche dire che nella prima seduta intervennero il Vescovo di Termoli, il Vicario Arcivescovile di Napoli e l'Auditore Antonio Peri (il Nunzio era pur sempre occupato in altre faccende), e nella seconda seduta raccolse gli esami il solo Notaro e Mastrodatti Prezioso per mandato dei Giudici. Daremo con tutta la larghezza possibile le cose raccolte, poichè esse non solo addimostrano la vita, almeno la vita apparente, del povero filosofo, ma anche rivelano le sue vedute e le sue tendenze in questo periodo molto importante della sua prigionia.

Il 6 novembre Alonso Martinez, carceriere, esaminato disse avere più volte parlato al Campanella, che gli avea risposto sempre «spropositatamente», e narrò come l'avea trovato la prima volta pazzo nel giorno di Pasqua, col letto bruciato e la prigione piena di fumo, giacente a terra e poco dopo furioso al punto da esserglisi avventato contro per morderlo; tutte le circostanze già da noi dette altrove (ved. pag. 86). Interrogato se credesse che simulava la pazzia per isfuggire le pene forse dovutegli, rispose, «à giudicio mio il Campanella è pazzo». Indicò lo Spinola, il Castiglia, il Contestabile, il Grillo, tra coloro che potevano essere esaminati sull'incidente. - Giuseppe Grillo disse non avere parlato al Campanella, ma averlo visto quando il carceriere andava a dargli da mangiare; narrò che «diceva parole spropositate, è che voleva fare la bibbia, è la Cruciata, et pigliava le scarpe, è quando altra cosa, et faceva cose da pazzo». Indicò come contesti il Salerno, il Ricciuto, il Marrapodi, lo Stanganella, il Tirotta: interrogato se credesse che era finto pazzo, rispose crederlo «pazzo vero, perche la fintione in tanto tempo saria scoperta». - Cesare Spinola disse: «io hò visto et parlato col Campanella molte volte, secondo l'occasioni, et sempre hà parlato spropositatissimamente, et io alle volte ci hò posto pensiero particolare per vedere si era cosa finta ò reale questa sua pazzia, et in somma à mio giudicio è pazzo per le cose che l'hò sentito à dire, è dice che aspetta il Papa, et l'indulgentia per la cruciata, che bisogna che il Papa sia Monarcha, et à me diceva che mi voleva fare Confaloniero della Cruciata, mà con patto che io dovesse digiunare quaranta giorni, et quaranta notti»! (non poteva riuscire più esplicito). - Giulio Contestabile disse: «dicono che frà Thomaso Campanella sia pazzo, è così quando il carceriero li porta da mangiare sono andato à vederlo et sentire li spropositi che lui diceva, non che io l'habbia parlato in secreto ne di cose particolari»; inoltre, «dalle cose che lui ha ditto è fatto io lo giudico per pazzo, e potrebbe essere che lui simulasse, mà però dagli effetti lo giudico pazzo» (sempre riservato e cinto di cautele; era compatriotta del Campanella e clerico). - Marcello Salerno disse: «sempre dice parole al sproposito, et hier sera cercando del pane da noi altri carcerati, et non havendo, esso Campanella disse, questi diavoli di soldati che hò mandato alla Cruciata tutto se lo mangiano..; subito cominciato una cosa passa in un'altra...; io per quello che hò visto lo giudico pazzo». - D. Francesco di Castiglia disse: «io hò udito frà Thomaso Campanella parlare dalla porta della priggione, quando si li dava da mangiare, et anco dala finestra, è li raggionamenti suoi sono stati sempre mai spropositati, et io hò posto particolar cura per farlo parlare alcuna cosa à proposito in materia di filosofia, ò in altra cosa curiosa, et esso sempre risponde, di fare la Cruciata, et che spetta (intend. aspetta) sua Santità, è dalla fenestra cominciò à dimandare il populo che andava à vedere ad impiccar uno, è diceva che li voleva dare il confalone dela cruciata che faceva, è milli altri spropositi..; l'animo suo non lo posso giudicare, ma dico bene che le parole sue, et atti sono da pazzo, ne mai l'hò potuto cavare da bocca cosa al proposito, et quando ultimamente li fù data la corda si lamentava che li forausciti l'havevano robbato trenta carlini, et l'havevano battuto assai in milli modi, senza dir parola che li fosse stata data la corda per ordine delle Signorie Vostre».

Il 15 novembre furono dal Prezioso esaminati i rimanenti testimoni. Gio. Angelo Marrapodi disse: «molte volte io hò udito à parlare fra thomase Campanella dentro le carceri dove stà, et il parlare suo è al sproposito dicendo delle parole spropositate, et parla pazzescamente, perche comincia a dire una cosa, et lassa quel parlare, et entra in altre parole..; lo tengo per pazzo come è tenuto dali altri...» - Gio. Battista Ricciuto disse: «da che si è ditto che frà thomaso Campanella sia pazzo, io con curiosità più volte lhò parlato, et anco inteso quando altri li hanno parlato, à tempo che il carceriero hà aperto la porta dela carcere dove stà per darli da mangiare, et ogni volta che hà parlato con altri hà parlato molto spropositatamente come soleno parlare li pazzi, et quando io, ò altri lhavemo dimandato qualche cosa non ha risposto à proposito, uscendo à diversi raggionamenti, che non ci era proposito, et hò visto che quando parla fà atti di pazzo, non stà fermo in un loco dela carcere, mà passeggia, è si hà soluto affacciare alla fenestra dela sua carcere, è chiamare dicendo ò Jaconi del convento, che si fà, venete quà che ci mancano cavalli, è dice che vole fare lo confaloniero, et che vole fare la cruciata, et chi vole fare capitano, è chi alfieri, è sargente maggiore, et che il Papa lhave scritto che metta in ordine li cavalli, e li soldati, tal che sempre lhò inteso parlare al sproposito, e fuori di raggione come soleno parlare li pazzi, et dicontinuo dice di simili cose, et quando parla fa molti segni con la bocca, è con li occhi, et con le mani, et alle volte piglia lo terreno dall'astraco dela carcere, è la butta in faccia di quelli che li parlano, et quando piglia li suoi scarponi che porta in piedi, è con quelli dà, et sequita quelli che sono ne la sua carcere...; da tutti quà in castello è tenuto per pazzo... et à giudicio mio dico che è pazzo, che si non fusse tale qualche volta parlaria al proposito». - Marco Antonio Stanganella, oltre le solite cose, disse: «alle volte salta, alle volte gioca di mano ad alcuno, e con li suoi scarpuni dà à quelli che li parlano, e li tira mò ad uno, et mò ad un altro, et alle volte hà detto che aspetta il Papa, e che voleva far confaloniero il Sig.r Cesare, et alle volte si accosta ala fenestra dela sua carcere, è gridando, dice ò Jaconi Jaconi del convento mettetivi in ordine che viene il Papa, e così sempre io lhò visto fare atti al sproposito, è parlare al sproposito...; è tenuto da tutti li carcerati per pazzo, ed anco da altri che vengono in castello che lo sentono parlare, et io lo tengo per pazzo». - Da ultimo Tommaso Tirotta disse: «sempre vole parlar esso, et hà udito che ha detto parole al sproposito, et dice che vole fare la Cruciata, et che aspetta il Papa, et diceva ò là scopati bene, acconciati le stantie per il Papa, et che have tanta migliara di cavalli, et vole fare soldati, et che vole fare confaloniero il Sig.r Cesare Spinola che stà quà carcerato, et à me disse una volta che mi voleva fare artiglieri, che havesse cura dell'artegliarie, et chiama li Jaconi del convento, et per nome sole chiamare frà Giovannello, e fra luca, e fra nicodemo, e sole chiamare Scannaribecco, e così di continuo hà parlato, e sole menare à quelli che li parlano terreno in faccia, li scarpuni che porta in piedi, et và saltando per le carceri, e fà altri atti al sproposito, et parla spropositatamente, giusto come li pazzi, et quando ebbe la corda quà ultimamente, non si lamentava dela corda, ma diceva solo che li forasciti lhavevano tirato delle archabusciate, e dato delle bastonate, e che ne voleva scrivere al Papa, et mai hà parlato ne risposto à proposito, et hieri per ultimo lo viddi e fece il medesimo...; a giudicio mio lo tengo per pazzo, et così è tenuto dalli altri, et in quanto à me non lo posso passare per sapio, mentre parla al sproposito e risponde al sproposito, e fatti atti (sic) spropositatamente, come ho ditto». - Adunque tutti e dieci i testimoni affermarono che il Campanella era realmente pazzo; quasi tutti poi affermarono la sua mira verso il Papa, che doveva essere Monarca secondo la testimonianza dello Spinola, che doveva fare la Crociata secondo la testimonianza della massima parte; e si conosce che questo disegno della Crociata era una delle idee fisse di Clemente VIII, e si comprende che essa conveniva molto al Campanella accusato di connivenza col Turco. I carcerati accorrevano presso di lui quando il carceriere ne apriva la prigione, e così pure coloro i quali solevano venire a visitare i carcerati, per la curiosità di vedere il pazzo.

Esauriti gli Atti pe' tre inquisiti principali, si sarebbe dovuto passare a quelli per gli altri frati; ma per essi non si fece nulla. Probabilmente i Giudici ritennero che le difese di costoro si trovavano incluse in quelle de' principali; tuttavia non ne abbiamo veramente alcuno indizio. Abbiamo soltanto una comparsa di fra Pietro di Stilo, il quale, col suo squisito buon senso, esponeva «che li giorni passati essendoli stati à bocca dichiarati dal Sig.r Avvocato Scipione Stinca alcuni capi sopra li quali li fu da quello, come anco dalle SS.rie V.re detto che si volesse difendere.... hà risoluto, conoscendo penitus la sua innocentia sensa niuna culpa, renuntiar dette sue defese... havendo per rato, fermo, et valido quanto faranno le ss.rie loro». Ciò in data 17 novembre, vale a dire immediatamente dopo terminati gli Atti pe' principali.

Nello stesso giorno 17 novembre una copia degli Atti, formata a misura che essi si compivano, fu inviata con una lettera del Vescovo di Termoli al S.to Officio di Roma, secondochè rilevasi da un'annotazione inserta nel processo originale ed anche da una lettera del Nunzio al S.ta Severina in pari data. Certamente insieme con la copia degli Atti dovè essere inviata anche una copia de' documenti che fra Dionisio avea presentati, e così pure de' documenti che aveva indicati e che il Vescovo di Termoli si era dato a raccogliere con la più viva premura. Il Vescovo avea raccolto dall'altro tribunale la copia dell'indulto concesso al Soldaniero e a Valerio Bruno da Carlo Spinelli per opera di fra Cornelio, le copie dell'esame del Pizzoni, delle confronte del medesimo Pizzoni col Campanella e con fra Dionisio, del primo e secondo esame del Petrolo, delle cartoline trovate sulla persona del Campanella quando ebbe il tormento del polledro; e così ci sono pervenuti questi preziosi documenti inserti nel processo dell'eresia. Egli aveva chiesto pure una copia delle lettere inviate dal Lauriana a fra Dionisio, che avrebbero dovuto trovarsi egualmente nel processo fatto dall'altro tribunale; ma, come si rileva da quanto ne scrisse a Roma e fu rammentato ne' Sommarii de' processi, le lettere non vi si trovavano ed erano state forse perdute. Aveva inoltre chiesto il Breviario del Pizzoni, che recava la corrispondenza scritta tra esso Pizzoni e il Campanella, ed ebbe a sapere che questo Breviario nemmeno si trovava ed era stato sicuramente perduto. Non potendo rassegnarsi a questa perdita, il buon Vescovo pensò allora di rivolgersi a fra Dionisio medesimo, dimandandogli a nome del tribunale una relazione particolareggiata sulla faccenda del Breviario; e la relazione, trascritta da fra Pietro Ponzio, venne anch'essa inserta nel processo tra' documenti a difesa di fra Dionisio. Diciamo qui di passaggio che molto più tardi a questa massa di documenti fu aggiunta anche una fede di alcuni frati carcerati, compreso il Lauriana, e di alcuni laici, attestanti che il Pizzoni più volte, e segnatamente tre giorni prima della sua morte, avea dichiarato di essere debitore di fra Dionisio degli scritti dell'Apocalisse da lui presi (confessione del furto fatto) del valore di D.i 10, come pure di D.i 4 avuti in prestito, commettendo al Lauriana di notificare a fra Dionisio dove si trovavano le sue robe in Calabria acciò sopra quelle fosse soddisfatto; inoltre, sempre più tardi, una fede del clero di Fiumefreddo, attestante le ottime qualità di fra Dionisio dimostrate due volte in quel paese con la predicazione cattolica, la bontà della vita e il fervore di carità, e questa fede potè essere inserta solamente nel 4° volume del processo. Aggiungiamo pure che il Vescovo di Termoli provvide che fosse interrogato di ufficio fra Pietro Ponzio sulla asserta domanda di perdono fattagli dal Lauriana in Gerace, ed egualmente che fosse istituita una perizia calligrafica sulla lettera che era stata presentata come scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio; e furono questi gli ultimi Atti processuali complementari, che si fecero durante la commissione tenuta da quel rispettabile Prelato.

Il 21 novembre, d'ordine de' Signori Giudici, il Prezioso riceveva in Castel nuovo la deposizione di fra Pietro Ponzio, il quale, con molte particolarità e citando i testimoni, espose la comunicazione fattagli dal Lauriana in Gerace nella carcere detta la Marchisa; l'inquietudine da lui mostrata perchè si trovava «in mano del diavolo» avendo deposto molte falsità in materia di S.to Officio contro fra Dionisio e il Campanella, ad istanza del Pizzoni e parimente del Visitatore e compagno dietro minacce e promesse; la determinazione del Lauriana di volersi ritrattare con la dimanda del come dovesse procedere, e il rifiuto fattogli da esso fra Pietro di volersene occupare, per non trovarsi intrigato in queste faccende dubitando di commettere errore; la consegna di una lettera scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio per dimandare a costui il consiglio rifiutatogli da esso fra Pietro, e l'invio di detta lettera al suo destino; la non avvenuta ritrattazione del Lauriana in Gerace per paura dello Spinelli e dello Sciarava, e la dimanda di perdono avuta da lui in tale occasione; la nuova comunicazione fattagli in Napoli di volersi ritrattare, con l'invio di un'altra lettera a Ferrante Ponzio, la quale ultima lettera era stata presentata nella causa della congiura, mentre la prima, passata nelle mani di fra Dionisio, era stata presentata nella causa dell'eresia.

Il 3 e 4 dicembre furono raccolte le deposizioni di due periti calligrafi su questa lettera dal Vicario napoletano Ercole Vaccari «congiudice» nella Curia Arcivescovile. Gio. Antonio Trentacapilli «scrittore» disse che «essendo prattico, et versato nel scrivere diverse sorte di lettere cossi cancellaresche, come tonde, et corsive, potria conoscere per qualche similitudine di tratti, e di sillabe et di ligature di sillabe, et conietturare si fussero scritte da una mano istessa»; e mostratagli la lettera del Lauriana in data di Gerace 10 ottobre 1599 ed alcune sottoscrizioni del Lauriana medesimo agli Atti processuali, disse: «fatta la comparatione da lettera à lettera, da sillaba à sillaba, da tratto à tratto, e da carattere à carattere della lettera, et sottoscrittioni di fra Silvestro da Lauriana, dico che la sudetta lettera è stata scritta con inchiostro bianco, et con penna accomodata sottile, et le sottoscrittioni... sono state scritte con inchiostro più negro, et con penna accomodata più grossa, et per tale differentia non si può conoscere chiaramente che siano scritte di una istessa mano, però come esperto et al mio giudicio giudico et dico che alcune lettere delle sottoscrittioni... hanno similitudine in parte colle lettere della sottoscrittione della lettera sudetta». - Di poi Alfonso Peres esercitato in tenere la scola di scrivere et di abbaco», interrogato, egualmente, col formulario medesimo conchiuse: «dico et confermo come esperto et prattico di diverse sorte di lettere scritte à mano, che tanto la sottoscrittione che stà in piedi di dette lettere... come anco le sottoscrittioni che dicono lo frà Silvestro de lauriana hò deposto ut supra sono state et sono scritte da una stessa mano». Così mentre uno de' periti rimaneva in dubbio, l'altro affermava che la lettera in quistione era veramente del Lauriana.

Dopo tutto ciò non sapremmo dire quale fosse stata, intorno a' meriti della causa, l'opinione formatasi dal Vicario Arcivescovile e dall'Auditore del Nunzio, mentre della persona stessa del Nunzio, tenutasi così a lungo lontana, non accade dover parlare per ora; ma in quanto al Vescovo di Termoli sappiamo benissimo che rimase sempre più perplesso e dubbioso, nè soltanto sull'eresia, ma di rimbalzo anche, e maggiormente, sulla congiura; lo sappiamo da' cenni della sua corrispondenza con Roma, inserti negli ultimi Sommarii del processo compilati in Napoli, e parimente da un brano di lettera del Nunzio scritta più tardi. Il Nunzio, in una circostanza in cui ebbe a parlare di fra Marco Visitatore, disse di sapere che costui «era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli... per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che l'essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità»; e realmente anche più di questo troviamo ne' cenni delle lettere scritte dal Vescovo a Roma, de' quali è tempo oramai di tener parola. Abbiamo già avuta altrove (vedi pag. 126) occasione di dire che il Vescovo diede continuamente ragguagli al Card.l di S.ta Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati, e di ciò che gli riusciva di sapere anche per vie estragiudiziarie: così il 19 maggio, due giorni dopo che il Campanella erasi nell'esame mostrato pazzo, diè ragguagli su questa pazzia, sulle ragioni che l'aveano fatta nascere, su' motivi che c'erano per crederla simulata, sulla necessità di adoperare la tortura. Egualmente intorno al Pizzoni, mostratosi con la spalla lesa, fece conoscere che era rimasto storpio per la tortura avuta nell'altro tribunale; intorno a fra Dionisio, mostratosi anche impossibilitato a sottoscrivere i processi verbali, fece sapere in qual modo atroce fosse stato tormentato. Nè mancò poi di scrivere, «non sembra verosimile che fra Dionisio, senza grande familiarità col Soldaniero giovane a 22 anni, avesse voluto comunicargli tante eresie»; e d'altra parte, Aloisi spagnolo già Fiscale in Calabria (lo Sciarava) mi hà detto, che fra Gio. Battista da Pizzone non voleva confessare contro il Campanella avanti il visitatore, ma che esso li disse non hai tu detto la tale, è tale cosa d'heresia? et che all'hora testificò». Ancora non mancò di far sapere che «quando Cesare Pisano fu esaminato, il 19 ottobre 1599, già il Campanella era carcerato». E circa il processo di Calabria scrisse senza esitazione: «questo mi pare malissimamente fondato, et primo per quel che spetta à tutto il processo non si vede fondamento alcuno, et quella scrittura, che è stata posta inanzi al processo (l'elenco delle 36 proposizioni ereticali), è un compendio fatto di tutto il processo dopo che è stato finito, come mi hà detto à bocca frà Cornelio e dalla scrittura istessa appare». Circa poi la congiura fece sapere avergli fra Cornelio detto «che Fabio di Lauro di anni 20 fu il primo che gli rivelò il capitolo della ribellione, il quale Fabio riferì ad esso Vescovo medesimo avergli fra Dionisio manifestato che il Papa voleva il Regno di Napoli e molte altre cose inverosimili, dalle quali si desume essere il primo fondamento di tale Ribellione molto tenue anzi falso». Non mancò nemmeno di far rilevare la nessuna delicatezza de' primi Giudici scrivendo: «si fecero dar molti denari per provedere à questi carcerati et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li ha spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli superiori in Calabria». Passando al processo di Napoli e toccando i fatti accaduti prima del suo arrivo, fece conoscere che le due lettere scritte dal Lauriana a fra Dionisio circa l'esame fatto in Calabria, e sorprese da' carcerieri, non si trovavano nel processo della congiura, e che D. Pietro De Vera gli riferì che erano state forse perdute giacchè erano state portate al Vicerè»; e così pure che il Breviario in cui si conteneva la corrispondenza del Pizzoni col Campanella nemmeno si trovava, come «gli riferì il notaro della causa», aggiungendo che del pari «D. Pietro De Vera gli disse che il detto Breviario era stato perduto, giacchè dato al Vicerè ed all'Arcivescovo di Taranto» (fratello confidente del Vicerè); le quali ultime notizie su' danari di Calabria, sulle lettere e sul Breviario, in fondo venivano a mostrare tutta l'incuria del Nunzio, al quale, e come Nunzio e come Giudice della causa della congiura, incombeva l'obbligo di guardare alle cose de' frati con ogni diligenza. La conclusione del Vescovo presso il Card.l di S.ta Severina fu questa: «i frati carcerati debbono essere tradotti alle carceri del S. Officio in Roma per cavarne la verità»; e su tale conclusione insistè anche con altre lettere, scrivendo: «questi rei non furono ben difesi, perchè furono perdute due lettere e il Breviario di cui diè notizia fra Dionisio Ponzio, e perchè non fu trovato un Dottore che avesse voluto scrivere in dritto a favor loro, e credo che in questa causa i testimoni habbiano deposto per isfuggire il foro secolare, per li essempi quotidiani che havevano avanti all'occhi, il qual timore si vede che persevera in essi mentre sono nelle forze de i ministri Regii, ma tengo per cosa certa che se fussero fatti venire à Roma si scopriria la pura verità dei negocii passati, et parmi apunto che questo negocio sia simile a quello di bitonto». Aggiungiamo che il Vescovo trasmise pure a Roma un memoriale di fra Dionisio intorno alla causa della congiura, concepito negli stessi sensi. Il memoriale, di cui ci dànno notizia egualmente i Sommarii de' processi, era diretto a S. S., e fra Dionisio vi diceva essere innocentissimo tanto per l'eresia quanto per la ribellione, credere di averlo abbastanza provato per l'eresia, ma dubitare di poterlo pienamente provare per la ribellione allegando le molte ingiustizie patite da parte de' Ministri Regii, a' quali importava grandemente che non si scovrisse la sua innocenza, e il non aver potuto trovare un procuratore che non gli fosse sospetto. Faceva conoscere che molti condannati all'ultimo supplizio aveano disdette le cose deposte contro gli altri tanto in materia di ribellione che di fede, ma i Ministri Regii aveano proibito che si mettesse in iscritto qualche cosa intorno a ciò; esponeva la crudelissima tortura avuta e le inumanità sofferte in sèguito; conchiudeva supplicando il SS.mo si degnasse comandare che gli fosse data opportuna facoltà di potersi legittimamente difendere, che fosse rimosso dalle carceri secolari e tradotto nelle ecclesiastiche poichè in tal modo avrebbe potuto difendersi, che la causa della ribellione non fosse spedita sul processo sin'allora fatto come nullo ed invalido, appellandosi al SS.mo e protestando della nullità di tutta la causa e di qualsivoglia Atto di essa.

Senza alcun dubbio i frati non avrebbero potuto avere un Giudice più del Vescovo di Termoli benigno verso di loro, pur essendo ad un tempo severo applicatore della giurisprudenza inquisitoriale. La sua benignità emerge da tutti gli esami fatti e rifatti con tanta diligenza, e massime dalle diverse sue dimande d'ufficio rivolte agl'inquisiti; ma rifulge straordinariamente nel giudizio che si permise di enunciare intorno alla congiura, e nella conclusione alla quale si dichiarò pervenuto intorno a tutta la causa. Egli giudicò il primo fondamento, su cui era stata poggiata la faccenda della congiura, «molto tenue, anzi falso», ciò che per altro disse unicamente a riguardo delle ciarle che Fabio di Lauro riferiva essergli state manifestate da fra Dionisio, e ci preme assai che non rimangano equivoci su tale punto; ma il vedere quel fatto messo in rilievo da lui, che non aveva l'obbligo di occuparsene, mostra bene qual fosse l'animo suo verso gl'inquisiti. E sempre meglio ancora lo mostra la conclusione da lui palesata, che cioè i rei dovessero essere tradotti nelle carceri di Roma, sottratti al terrore delle forze de' Ministri Regii, «che se fossero fatti venire a Roma si scopriria la pura verità de i negocii passati»; con la quale conclusione egli non disse già que' frati innocenti, degni di essere liberati, ed anche qui ci preme che non rimangano equivoci, ma accolse appieno i desiderii loro, i desiderii adombrati da fra Dionisio nel suo memoriale e abbastanza apertamente espressi anche dal Campanella, che nella sua pazzia e durante la tortura gridava «al Papa al Papa, quà bisogna che venga il Papa». Senza dubbio il Vescovo di Termoli, ignaro de' riguardi e delle transazioni abituali tra le due Corti, onde talora giungevasi fino a conculcare la giustizia e a sacrificare gl'innocenti, non teneva conto delle difficoltà che si opponevano all'adempimento della sua conclusione; dovea quindi di necessità trovarsi in un ordine d'idee ben diverso da quello del Nunzio, che già abbiamo visto esclusivamente tenero della buona amicizia tra il Papa e il Vicerè, condiscendente alle richieste Vicereali purchè si salvasse l'apparenza, incurante non solo degl'interessi degl'imputati ma perfino del buono andamento della giustizia verso di loro, e, come vedremo in sèguito, censore singolarissimo dell'opera del suo collega, ciò che per certo rappresenta il migliore elogio di costui. Animato dal puro e semplice amore per la verità, il Vescovo di Termoli dovea sentirsi imbarazzato vedendo quante circostanze aveano concorso ad ottenebrarla, la prepotenza ed immanità de' Giudici Regii, la nequizia de' primi Giudici ecclesiastici, la ferocia degli odii frateschi, lo spirito di profitto da una parte, la sete di vendetta dall'altra, il terrore incusso agl'inquisiti da tutti i lati; e dovea soffrirne pure non poco, amiamo crederlo, per quel sentimento di affetto che il Campanella avea saputo da lungo tempo ispirargli, e che se non giunse mai a farlo deviare un solo momento da' suoi doveri d'Inquisitore, lo rese certamente sempre più caldo nella ricerca della verità. Ma la morte venne a toglierlo da tanta inquietudine, e venne anche a togliere a' frati inquisiti l'unico sostegno, su cui potevano contare nella loro infelice condizione.

III. L'anno 1601 s'iniziava con tristi auspicii pe' poveri frati. Il 1° gennaio il Vescovo di Termoli moriva nel convento di S.ta Caterina a Formello, presso la porta Capuana, convento del suo ordine, in cui si era negli ultimi mesi recato, abbandonando quello di S. Luigi, e il 2 gennaio era sepolto nell'attigua Chiesa di S.ta Caterina. Nessuna memoria speciale ricorda il buon Prelato, ma in una lapide posta non lungi dalla sacristia, rilevata dall'Engenio e poi, a quanto pare, dispersa, si leggevano i «Nomi e Cognomi dell'Illmi Cardinali, e Rev.mi Arcivescovi et Vescovi che sono sepolti in questa venerabil Chiesa, come quivi di sotto sono scritti, e la maggior parte sono sepolti con li Padri sacerdoti», e l'ultimo dell'elenco, l'11°, era «il Rev.mo Maestro Alberto di Firenzuola del medem' ordine Vescovo di Termoli, morì à 3 di Gennaio 1601» (sic). Le circostanze della sua morte ci sono interamente ignote finora. Nel Carteggio del Nunzio una lettera del 3 gennaio, dopo notizie di tutt'altro genere, reca anche questa: «hieri si diede sepoltura al Vescovo di Termoli in S.ta Caterina à Formello, dove si era ritirato come frate di quella Religione di S. Domenico»; nè si trova una parola sola di chiarimento e anche meno di compianto per la perdita del collega Giudice in una causa di tanto rilievo! La Narrazione del Campanella poi, a proposito di questa morte, reca qualche parola che ha tutto l'aspetto di una insinuazione, oltre le solite affermazioni spinte che il Campanella sapeva ben trovare a sua difesa: «Sendo per la causa del S. Officio venuto dal Papa per Commissario il Vescovo di Termoli M. Alberto Tragagliola, e si scoperse la falsità del processo di ribellione per le molte ritrattation che fur fatte dalli testimoni vivi e morendo; e per le contradittioni, e sconvenienze, e manifeste scolpationi dell'heresie trovate per schifar la pena della finta ribellione, el detto Vescovo si fè intendere, che volea liberar tutti, anche che il Vicerè e Fiscali con promesse e minacce lo voleano levar di questo proposito, e venne a morte, Dio sà perchè, e disse morendo «mi dispiace ch'io moro, e non ho liberato questi frati» e lo scrisse al Papa». Adunque la morte del Vescovo sarebbe stata forse procurata nientemeno che dal Vicerè e da' fiscali: ma nulla veramente autorizza ad accogliere un sospetto sì grave, nè quel Vescovo avea propriamente scoperta la falsità del processo della congiura, il quale trovavasi fuori la sua ingerenza, nè volea propriamente liberare tutti i frati; e se avesse scritto al Papa in questo senso, i Sommarii de' processi ecclesiastici non avrebbero mancato di riferirlo. Ben potè rincrescergli che morendo rimanevano i frati senza alcuno appoggio; e dal complesso delle affermazioni del Campanella deve anche conchiudersi che il Vescovo effettivamente non faceva un mistero assoluto delle opinioni che su que' negozii si avea formate, e «se ne lasciava intendere», come il Nunzio scrisse più tardi a Roma.

Naturalmente un'interruzione si verificò nel corso del processo, non solo perchè dovè sostituirsi un nuovo Giudice al Vescovo di Termoli, ma anche perchè doverono in Roma studiarsi gli Atti processuali fin allora compiuti per mandare a Napoli istruzioni su quanto rimanesse a farsi ulteriormente. E frattanto il Governo Vicereale raddoppiò le sue insistenze, perchè si terminasse una volta la causa dell'eresia, e si potesse così spedire quella della congiura. Già abbiamo visto che fin dall'8 settembre, nel mandare a Roma la copia del processo offensivo e ripetitivo, il Nunzio avea partecipato le premure fattegli dal Vicerè e da' suoi Ministri; ma dopo di aver mandata la copia anche del processo difensivo, non cessò mai di sollecitare una risoluzione, e di far conoscere le vive istanze dei Ministri Regii e de' «Deputati insieme seco nella causa della ribellione», vale a dire anche di D. Pietro de Vera certamente dietro doglianze del Vicerè. Così nella lettera stessa di annunzio della morte del Vescovo di Termoli, e in molte altre successive, del 19 e 26 gennaio, del 2, 16 e 23 febbraio e del 15 marzo, non si trova altro che una serie di comunicazioni nello stesso senso, leggendosi: sono stato sollecitato «nè solo hora ma infinite altre volte per il passato, si che hò havuto et hò che disputare»...; «vengo di nuovo sollecitato molto per la speditione della causa de' frati»...; «son di continuo molestato da questi Ministri Regii per la speditione della causa della ribellione» etc.. Queste lettere, non pubblicate dal Palermo, son rimaste ignorate; ma vede ognuno quanta importanza esse abbiano per raddrizzare certi giudizii molto inesatti, che sono stati proferiti sulla condotta del Governo spagnuolo nella faccenda del Campanella.

Il 24 marzo (non maggio come fu letto dal Palermo) il Card.l di S.ta Severina partecipava finalmente al Nunzio la risoluzione di S. S., che Mons.r Vescovo di Caserta intervenisse nella causa del Campanella e complici «nell'istesso modo che faceva Mons.r Vescovo di Termoli»; oltracciò l'ordine dato, dopo aver visti i processi, di far nuove diligenze col ripetere alcuni testimoni ed esaminarne altri, come pure di far «diligenze sopra la simulatione della pazzia di esso Campanella» secondo che scriveva a lungo a Mons.r di Caserta, il quale glie l'avrebbe comunicato. E nel processo dell'eresia abbiamo appunto la lettera del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta; ma crediamo bene dar prima qualche notizia sulla persona del Giudice, cui doveva oramai deferirsi ogni cosa, come già al suo predecessore. - Vescovo di Caserta era D. Benedetto Mandina, nato in Melfi di nobile famiglia. Aveva già prima esercitato in Napoli l'avvocatura con un certo credito, e poi, illuminato da un grave calcio di cavallo ricevuto ad una gamba mentre cavalcava con gran sèguito di suoi clienti, era entrato nella Congregazione de' Chierici regolari al convento di S. Paolo nel 1583. Successivamente trasferitosi a Roma, perchè pure in S. Paolo era sempre consultato per faccende legali, gli accadde la cosa medesima da parte delle diverse Congregazioni, onde venne in credito tanto maggiore, e da Clemente VIII fu creato Vescovo di Caserta nell'ultimo di gennaio 1594; poco dopo, nel 1595, fu inviato come Nunzio in Germania, in Boemia, in Polonia, presso Massimiliano, Rodolfo, Sigismondo ed altri Principi, a' quali fece un'orazione nel convegno di Varsavia, determinandoli alla lega contro i turchi e a quella guerra in cui si ebbe la famosa rotta di Agria che abbiamo già avuta occasione di ricordare a proposito del Bassà Cicala. Al suo ritorno, dopo la morte di Mons.r Carlo Baldino Arcivescovo di Sorrento avvenuta nel 1598, gli fu affidata anche la carica di Ministro della S.ta et Universale Inquisizione Romana nel Regno, e però, naturalmente, avrebbe dovuto a lui esser commessa la causa del Campanella se fin da principio si fosse trovato presente in Napoli. Tutti questi elevati ufficii da lui tenuti, a' quali venne poi ad aggiungersi anche la sopraintendenza della Chiesa Arcivescovile di Napoli dopo la morte del Card.l Gesualdo, fanno intendere l'opportunità della sua vocazione a Chierico Regolare, e fanno anche intendere la profusione di lodi cantategli da' suoi biografi. Era caritatevolissimo, generosissimo, giustissimo; lo si disse perfino morto in concetto di santità come il P.e Beccaria (solo pel Vescovo di Termoli non ci fu alcuno che sentisse il menomo odore di santità). Erasi fin dal tempo del suo laicato «esercitato in tutte le opere di carità nel sodalizio della SS.ma Trinità de' Pellegrini al quale avea dato il suo nome»; la generosità ed umiltà sua l'aveano ridotto al punto che si rappezzava le vesti da sè medesimo etc. etc. Inoltre «nell'amministrar la giustizia era innocentissimo», ma severo co' delinquenti, ed una volta, in Caserta, gli fu dato il veleno nel vino con cui celebrava la Messa, ed egli se ne avvide, e perdonando chiunque glie l'avesse dato, se ne venne immediatamente a Napoli per curarsi. Da parte nostra non ci saremmo permesso il menomo dubbio su così splendide virtù, se non avessimo trovato fatti assolutamente opposti nella trattazione della causa del Campanella e socii.

Ecco ora in breve quanto il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta nella stessa data 24 marzo; la lettera fu inserta nel processo, iniziando con essa la serie degli atti compresi nel 4° volume. Per ordine di S. S. egli doveva intervenire nella causa del Campanella «con l'istesso modo, et autorità che faceva il Vescovo di Termole», e però gli si mandava una copia del Sommario del processo. Dovevano farsi alcune nuove diligenze «co' testimonii tra' quali può essere contestura, à fine di convincere il detto Campanella, poichè degl'inditii ve ne sono assai», ma ciò nella diocesi di Squillace, dal Vescovo di quella diocesi che allora trovavasi in Roma e presto se ne sarebbe tornato; si erano quindi redatti in Roma alcuni articoli addizionali per la ripetizione de' testimoni, e se ne mandava la copia a Napoli per farli presentare in processo e darne comunicazione legale al procuratore del Campanella, il quale avrebbe redatti gl'interrogatorii da doversi fare sopra i detti articoli e da doversi mandare a Squillace. Trovandosi carcerati in Napoli due di que' testimoni, cioè Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco (e ben si vede che il S.ta Severina non conosceva la condanna all'esilio già in corso pel Contestabile), dovevano essere egualmente esaminati, ed anche ripetuti su' medesimi interrogatorii ed articoli laddove avessero deposto cose rilevanti. Infine dovevano pure per ordine di S. S. farsi le diligenze necessarie per scoprire la simulazione della pazzia del Campanella a questo modo: «che si faccia visitare da Medici più volte, et poi si habbia il loro parere in scritti, et anco se gli dia il tormento della veglia con quella circonspettione che parerà conveniente per scoprire, et ritrovare questa simulatione di pazzia». Tutte queste cose egli dovea comunicare a' suoi colleghi, al Nunzio ed al Vicario Arcivescovile.

Mandava perciò il Card.l di S.ta Severina l'elenco delle diligenze da doversi fare in Squillace e parzialmente in Napoli, coll'indicazione de' testimoni da doversi esaminare e ripetere su ciascuno de' fatti che si volevano provare; inoltre gli articoli, ne' quali si trovavano espressi i più cospicui tra codesti fatti. I testimoni erano parecchi. E dapprima fra Simone e fra Dionisio di Placanica, e fra Domenico di Riace; questi erano stati nominati da fra Gio. Battista di Placanica, siccome presenti alle due affermazioni del Campanella, la fornicazione non essere peccato, e la legge dei turchi essere migliore di quella de' cristiani. Dippiù Tiberio e Scipione Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco Bono, Fabrizio e Paolo Campanella, fra Scipione Politi, tutti nominati dal Petrolo come coloro a' quali il Campanella avea comunicate diverse eresie delle quali si dava un ricordo. Dippiù altri ed altri ancora, nominati nel primo processo del Vescovo di Squillace, siccome presenti alle affermazioni del Campanella, del potersi salvare anche senza il battesimo, del non esser valida la Messa celebrata da chi si trovasse in peccato mortale. Infine anche D. Marco Petrolo, nominato da Cesare Pisano come presente al sermone di fra Dionisio nella casa di Gio. Alfonso Grillo; nella quale occasione poteva esaminarsi anche Tiberio Lamberto che avea detto volere il Campanella predicare una nuova legge. - Gli articoli, compilati dal solito Procuratore fiscale Rev.do Giulio Monterenzio bolognese, furono solamente quattro, attestanti avere il Campanella osato affermare «etiam cum pertinacia», che non valeva, e dava solo qualche vantaggio temporale, la Messa celebrata essendo il sacerdote o l'instante in peccato mortale, che poteva esservi salvazione senza battesimo, che non occorrevano tante religioni di frati, le quali cose erano notorie nella diocesi di Squillace e qua e là nella Calabria anche prima della carcerazione del Campanella. Il fatto di maggiore importanza in questi articoli fu la qualificazione della causa del Campanella, che venne detta «di eresia e di relapso»; per la prima volta non si parlò più di ateismo e si cominciò invece a parlare giudizialmente di relapso, ciò che era ben più grave nelle sue conseguenze, come abbiamo già avuta occasione di mostrare altrove.

Avuta la lettera e gli atti or ora indicati, il Vescovo di Caserta recatosi dal Nunzio, secondochè ci fa sapere una lettera di costui del 30 marzo, disse che per allora gli occorreva andare alla sua Chiesa, ma sarebbe presto tornato per condurre a termine la causa. Ed intanto si provvide che fin dallo stesso giorno 30 marzo fosse data all'Avvocato assegnato al Campanella la copia degli articoli addizionali, col termine di due soli giorni per produrre gl'interrogatorii; e il 2 aprile, il magnifico Gio. Battista dello Grugno, che questa volta si nominò, produsse 11 interrogatorii, scritti nelle solite maniere, ma meno banali, più conducenti allo scopo, e in diversi punti non senza un certo acume. P. es. a proposito del non essere necessarie tante religioni, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato nel senso che non fossero necessarie nelle città, ovvero nel senso che non fossero buoni mezzi di salute; a proposito del potersi salvare senza battesimo, egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato parlando del battesimo in re, ovvero del battesimo in voto. Del resto, come Atti riguardanti la persona del Campanella, noi ci siamo creduti in debito di riportarli tra' documenti, e i lettori potranno giudicarli. - Mettiamo qui, per non intralciare la narrazione, che gli articoli del fisco vennero subito mandati a Squillace, ma in ultima analisi non si potè quivi conchiuder nulla, come ci mostrano due lettere del Card.l di S.ta Severina, l'una al Nunzio scritta il 30 marzo, l'altra al Vescovo di Caserta scritta parecchi mesi dopo. I testimoni in generale probabilmente aveano fin perduta la memoria di quelle proposizioni; parecchi tra loro e i più importanti, come il Vua e il Prestinace, erano irreperibili, poichè si tenevano nascosti per isfuggire i rigori del Governo; ed oltre a tutto ciò fra non molto tempo, nel giugno di quell'anno, il Vescovo di Squillace se ne morì, onde la Sacra Congregazione di Roma dovè persuadersi che non c'era più nulla a sperare da quella via. Dalla via di Napoli poi nemmeno si potè raccapezzare qualche cosa, e il risultamento più certo dovè esser questo, che il Governo Vicereale rimase tanto più sospettoso ed irritato per quelle lungaggini, le quali doveano parergli tergiversazioni.

Il 7 aprile fu esaminato Geronimo di Francesco, uno de' due testimoni da doversi interrogare in Napoli secondo le ultime prescrizioni di Roma. Il Vescovo di Caserta si era già istallato in Napoli, ciò che mostra in lui molta alacrità nel compiere l'ufficio suo, e conosciamo che prese stanza nelle case di S. Andrea delle monache, propriamente nel palazzo posto all'angolo tra la via di Costantinopoli e quella della Sapienza. Aggiungiamo che il Nunzio medesimo, al contrario di quanto avea fatto durante la vita del Vescovo di Termoli, non mancò mai più alle sedute, o almeno alle sedute riguardanti la trattazione dell'argomento principale. Il di Francesco, interrogato, disse di conoscere molto bene il Petrolo e il Campanella patriotti suoi, di aver trattato poco col Petrolo, ma aver desiderato di far amicizia col Campanella «per la nominata che sentiva di esso, di essere litterato, et nominata di esser dotto»: ma soggiunse che fu colto da una infermità che lo tenne a letto cinque mesi, onde non potè trattare con lui, e poi per un cattivo ufficio fattogli da esso Campanella presso certi suoi parenti, al punto da metterlo in questione con loro, gli divenne nemico. Dietro altre interrogazioni, disse di non aver mai trattato da solo a solo col Campanella, di avergli parlato una volta di cose comuni insieme con fra Pietro di Stilo, di averlo un'altra volta visto «in sua cella dove legeva di filosofia» essendosi lui fermato alla porta senza parlargli, e di avergli forse qualche altra volta parlato in piazza, senza ricordarsi di che, presenti Marcello Dolce, morto, e Gio. Francesco d'Alessandria (che sappiamo nascosto e forgiudicato; sempre testimoni irreperibili). Soggiunse di non ricordarsi che in presenza sua il Campanella avesse mai parlato di cose di fede. Con ciò manifestamente non v'era alcun luogo a ripetizione, e gl'interrogatorii e gli articoli doveano mettersi da banda. - Ci sarebbe stato da esaminare anche Giulio Contestabile; ma non si sapeva nemmeno dove si trovasse, ed è certo che, oltre un mese dopo questo al quale siamo pervenuti, il Nunzio non era riuscito ad averne notizia, come rilevasi da una sua lettera al Vescovo di Squillace.

Fu quindi sospesa la trattazione della causa, probabilmente con la speranza di trovare la persona del Contestabile, ed anche con la speranza di avere qualche risultamento dalle informazioni commesse a Squillace. Scorsero così presso a poco due mesi senza far nulla, e può intendersi con quanta mala soddisfazione del Governo Vicereale: ma si verificarono in questo periodo di tempo diversi avvenimenti, de' quali andiamo a dar conto. E dapprima furono ripigliate le sedute dell'altro tribunale per trattare la causa del clerico Marcantonio Pittella, che le forze Regie aveano catturato nuovamente dopo la sua fuga: ma di questo, che non entra nell'argomento attuale della nostra narrazione, discorreremo altrove. Un avvenimento, da doversi qui ricordare, fu l'invio di un memoriale di fra Pietro Ponzio a S. S., per reclamare un provvedimento intorno alla sua singolare posizione. Non ci è venuto sott'occhio il testo del memoriale, ma ne abbiamo trovato qualche altro consimile inviato più tardi dallo stesso fra Pietro, che non cessò mai dall'inviarne; e in sostanza egli, non vedendosi incriminato in nulla, chiedeva di essere giudicato, e non trattenuto in carcere solamente perchè germano di fra Dionisio. Il Nunzio, cui fu trasmesso il memoriale dal Card.l S. Giorgio, con sua lettera del 6 aprile rispose, esser vero che fra Pietro «fu preso come fratello di fra Dionigi Pontio capo insieme con il Campanella della pretensa ribellione, pretendendolo informato di essa, et non havendo trovato contra di lui cosa di fondamento, si sarebbe liberato con molti altri che si liberarono, se egli stesso con i ragionamenti fatti di notte con il Campanella da certe finestre non si fosse reso sospetto d'esser informato del tutto; et perchè questa causa della ribellione resta sospesa da quella della Inquisitione, per questo non si è passato più avanti contro di lui; quando si tratti di nuovo di questo negotio, che potrà esser presto, per la speditione che si deve dare ad un Clerico (int. il Pittella), che dopo d'essere stato un pezzo latitante è venuto finalmente in mano della Corte, et la sua causa è in speditione, procurerò si tratti anche di spedir quella di questo fra Pietro, che per quanto vado considerando deve essere anche lui di mala razza». Vegga ognuno se possa dirsi questo il linguaggio di un Giudice serio e giusto: d'altronde egli non fece nulla di quanto promise; scorso poco più di un mese il Pittella era già fuori carcere come si rileva dalla sua lettera al Vescovo di Squillace, e fra Pietro rimaneva a languire nel Castel nuovo.

Un altro avvenimento d'importanza anche maggiore fu l'invio di un memoriale di fra Dionisio a S. S., per far conoscere che fra Marco di Marcianise avea mandato fra Cornelio in Ispagna, la quale circostanza poteva ben connettersi con le loro gesta in Calabria contro i poveri frati. S. S., per mezzo del Card.l di S.ta Severina, ingiunse al Nunzio che s'informasse di tale partenza di fra Cornelio per la Spagna, «da chi vi sia mandato, et à che effetto»; ed il Nunzio, con sue lettere del 6 e del 20 aprile, rispondeva in certi termini che meritano di essere testualmente riferiti e ben considerati. «Quanto al particolare che mi domanda di quel fra Cornelio, posso dirle che hò parlato à chi l'hà visto in Genova per la volta di Spagna, et hò ritratto che è andato con partecipatione del Sig.r Vicerè, nè son lontano à credere che sia stato di consiglio et d'ordine di quel fra Marco da Marcianise, il quale sò che era mal sodisfatto del Vescovo di Termoli, che Dio habbia in gloria, per l'opinione che teneva, et se ne lasciava intendere, che le essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per la verità, et Dio voglia che l'opinione in ciò di detto Vescovo non l'habbia fatto più largo di quel che conveniva in dar adito à quei frati di ritrattare le loro confessioni, come mi lasciai un tratto intendere che mi pareva, et ne avvertii, se bene lasciavo guidare à lui il negotio, come pratico et essercitato lungo tempo in cotesto S.to officio dal quale era stato deputato, ma per le molte occupationi non potei sempre trovarmi à quelle lunghe repetitioni et difese che potettero fare, vi mandai bene il mio Auditore quelle volte che non potei esser io. Se sarà vero, come temo, che detto fra Cornelio sia andato alla Corte per scusare tal fatto, ò per far altro officio concernente questo interesse, lo reputerò molto errore et del Marcianese et di lui, perchè se erano mal sodisfatti dovevano pigliare altra strada». Ed in sèguito: «Hò havuto occasione di parlare con il Padre Fra Marco da Marcianise, il quale mi hà detto che egli (fra Cornelio) è andato in Spagna principalmente per un negotio del Sig.r Carlo Spinello, et che sapeva che haveva parlato al Sig.r Vicerè avanti partisse, et che poteva esser che trattasse là del negotio della ribellione et dell'Inquisitone, poi che si era trovato in Calabria à quei Processi, ma che sopra di ciò non gli haveva ordinato cosa alcuna. Come si sia, non voglio dubitar punto che ne parlerà, et questo non sò se potrà piacere; saprà V. S. Ill.ma quello che dovrà farsi». Con ogni probabilità il Card.l di S.ta Severina non fece nulla contro que' frati: ma ciò che riesce ancor più interessante per noi è il vedere il Nunzio riscaldarsi tanto, sol perchè poteva essere alla Corte di Spagna riferita sotto mala luce l'opera de' Giudici ecclesiastici di Napoli, e con questa preoccupazione, intento solo a salvare sè medesimo, spingersi fino a censurare l'opera del defunto Vescovo di Termoli. Egli che non aveva forse nemmeno letto il processo di Calabria, egli che certamente non aveva avuto cura de' più sacri dritti degl'inquisiti nel tribunale della congiura e d'altra parte aveva assistito ben poco alle sedute del tribunale dell'eresia, egli osava mettere innanzi i suoi scrupoli, perchè il Vescovo di Termoli era stato largo nel dare agl'inquisiti agio di ritrattarsi, ed aveva professata l'opinione che i processi di Calabria fossero stati fatti piuttosto per dar soddisfazione a' Ministri Regii. Ed era proprio bene scelto il momento per fare queste osservazioni, mentre que' due ribaldi davano la miglior dimostrazione che il Vescovo di Termoli era nel vero, e facevano manifesta la loro scelleraggine, ricorrendo a Spagna d'accordo col Vicerè e con Carlo Spinelli. Ma bisognava dunque schiacciarli ciecamente quegl'inquisiti per non turbare le buone relazioni con la Corte di Spagna, bisognava sacrificarli alla «ragione di Stato», della quale ben si vede che non a torto si dolse continuamente in versi ed in prosa il Campanella. Per verità il Campanella e socii potevano essere molto colpevoli, ed anzi per noi giuridicamente lo erano, ma meritavano senza dubbio Giudici assai migliori di quelli che ebbero.

L'ultimo avvenimento, che si verificò nel periodo di tempo al quale siamo pervenuti, fu la morte dello sciagurato fra Gio. Battista di Pizzoni. Il 14 maggio, dopo tante sofferenze per la spalla slogata e suppurata, dopo un'apoplessia che gli tolse la parola per quattro giorni (circostanza da notarsi), egli spirò nelle carceri del Castello: lo mostra un'informazione, che d'ordine de' Giudici fu presa da Gio. Camillo Prezioso, e sulla data della morte concorda anche la notizia che ne abbiamo trovata ne' libri Parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo. Difatti in un elenco di morti posto al sèguito del libro III, col titolo «Memoria de quilli che morino in questo Castello novo dal di 23 de giugno fatta 1597» si legge: «A di 14 de maggio 1601 morse fra gio. batt.a calabrese». Con questa vaga indicazione, impossibile a decifrarsi senza l'aiuto di altri documenti, trovasi registrato l'amico intimo divenuto poi accusatore del Campanella, colui che fornì la base principale a quei processi, onde il povero filosofo ebbe a patire tante miserie, ed egli medesimo fu tratto ad una precoce fine odiato e malmenato da tutti. - L'informazione su questa morte fu presa il 1° giugno, e fu inserta nel 3° volume del processo, al sèguito delle difese che il Pizzoni avea fatte. Vennero esaminati Alonso Martines carceriere, Antonio de Torres carceriere anche lui e socio del Martines, inoltre Marcello Salerno carcerato per la ribellione, che già abbiamo conosciuto in altri Atti precedenti. Il Martines espose la malattia e la morte del Pizzoni a questo modo: «l'infermità sua fù che havea un braccio guasto per la tortura che hebbe quà in questo Castello per ordine delli Officiali Regii per la causa della ribellione (si vede bene che il Nunzio, la tonsura di D. Pietro De Vera, il Breve e Clemente VIII, non bastarono per far credere nemmeno al Prezioso, che raccolse la deposizione, essere sul serio quel tribunale per la ribellione un tribunale ecclesiastico); et per tal causa a lo braccio se li fece una postema, et dalla postema poi... se li fece una piaga, et li sopravenne un discenso grande che li levò la parola, et sequitandoli quella infirmità trà quattro giorni se morì, et morse la notte de li quattordici di detto mese di maggio, alle cinque hore, et io lo viddi morto ad una camera dove stava, e morse in questo regio Castello novo, et non solo lo viddi morto ma anco lo viddi sepellire alla sepoltura dove si soleno sepellire li preti, et di detta morte di frà Gio. Battista de pizzone ne è stata et è publica voce et fama in questo Castello novo trà quelli che lo conoscevano, è così è la verità». Le cose medesime esposero in sostanza anche gli altri, con un identico formulario; potrebbe appena rilevarsi che aggiunsero essere stato il Pizzoni leso nel braccio destro, avere usato molti rimedii inutilmente, avere avuta la visita di due medici etc. In conchiusione la morte di lui risultò con siffatte testimonianze legalmente accertata.

Intanto fin dagli ultimi giorni di maggio erano in corso i preparativi per ripigliare il processo, in adempimento delle diligenze ordinate da Roma a fine di scovrire la pazzia simulata del Campanella. Si era provveduto che due medici visitassero più volte il Campanella, come risulta da una delle fedi che costoro scrissero e come d'altronde era stato da Roma ordinato; ma senza attendere tali fedi, si era provveduto anche quanto occorreva pel tormento della veglia; per questo dovè farsi venire ogni cosa dalle carceri della Vicaria, poichè sappiamo di certo essere stato della Vicaria uno degli aguzzini che a suo tempo vedremo entrare in iscena. Siffatti preparativi, che non potevano tenersi nascosti, posero in agitazione vivissima i poveri inquisiti: apparve a tutti che specialmente o fra Dionisio o il Campanella fossero sul punto di avere un tormento de' più gravi, e che di poi sarebbe venuta la volta degli altri; si pensò quindi di fare qualche tentativo capace almeno di trattenere un poco l'amministrazione del tormento.

Il 3 giugno fra Pietro di Stilo trasmise con una sua lettera al Vescovo di Caserta alcune carte del Campanella, sulla provenienza delle quali, dovendo nascondere il vero, fece una narrazione abbastanza inverosimile. Erano le proprie Difese con gli Articoli Profetali, che il Campanella aveva scritte durante il processo della congiura, e che non aveano potuto essere presentate a tempo debito. Fra Pietro, che fin dall'inizio di questi processi avea prescelto di far la parte dell'ignorante, mostrando di non conoscere che cosa quelle carte rappresentassero, scriveva al Vescovo di aver ricevuto dal Campanella già da un anno, poco dopo il suo primo tormento (il tormento del polledro), alcune carte scritte di sua mano, con preghiera che le facesse copiare e le conservasse, perchè erano cose di molta importanza; ed egli le avea prese, e perchè non le intendeva, le avea fatte leggere all'olim fra Gio. Battista di Pizzoni (sempre citato il morto o l'assente) acciò vedesse se ci fossero cose di S.to Officio da poterlo compromettere, nè avea mai più potuto riaverle, dicendogli il Pizzoni che le avea perdute e che erano cose sospette; ma appunto nella sera precedente le avea riconosciute tra altre carte lasciate dal Pizzoni, e per suo discarico le consegnava a S. S.a Ill.ma, perchè vedesse se c'erano cose di eresia come il Pizzoni avea detto, e provvedesse secondo giustizia, assicurando che quelle carte erano «il vero trasunto di quelli scritti del detto frà Thomaso Campanella». - Da parte sua fra Dionisio, il 4 giugno, trasmise con una sua lettera a' Giudici, perchè provvedessero come meglio fosse loro parso di giustizia, una lettera a lui diretta dal Petrolo fin dal 28 maggio, nella quale costui, dicendosi infermo ed abbandonato, scriveva: «intendo che si fanno molti preparamenti di tormenti, e dubito che non siano per V.a Reverenza, o per il Padre Campanella, io, come hò possuto vedere nella copia del processo suo, non m'hò esaminato contra V.a paternità in niente, perche non ci era occasione, si bene mi hò esaminato contra di frà Thomaso ad un certo fine, ch'io esposi in un memoriale all'Ill.mo Sig.r vescovo di Termoli olim commissario di questa causa (pia menzogna, sempre citando il morto), per il quale memoriale credeva io che fossemo tutti rimessi alli nostri superiori, ma vedo che non ha fatto effetto mentre cquà si tormenta, dunque vostra paternità mi favorisca di avvisare li signori superiori e protestarsi che facciano la causa nelle carceri delli nostri superiori (ciò era stato già eseguito appunto da fra Dionisio), ò vero che prima che procedano a cosa alcuna mi reesaminino» etc.. Evidentemente questa lettera, fatta scrivere dal Petrolo infermo, era un pretesto per pigliar tempo e scansare il tormento almeno per qualche giorno; la lettera medesima di fra Pietro di Stilo, senza dubbio poggiata su qualche cosa assai più concludente, non aveva uno scopo diverso; ma i Giudici cominciarono per fare amministrare il tormento, e di poi, anzi durante il tormento, si occuparono di tali lettere ad essi inviate.

Il 4 giugno dunque il povero Campanella ebbe quell'atroce tormento detto la veglia, prolungato senza misericordia fino alla metà del giorno successivo. E prima di tutto dobbiamo spiegare in che consisteva la veglia, ed inoltre rammentare in che modo lo stesso Campanella ne parlò specialmente nella sua Narrazione. Anche qui le più esatte notizie ci sono fornite da un medico, e questa volta de' più celebri, da Paolo Zacchia. Si conosce che la veglia fu inventata nella 1a metà del 1500 da Ippolito de Marsiliis, famoso criminalista bolognese e Giudice nella Valle Lugana, «avverso gli ostinati e coloro i quali non temevano i tormenti». Egli si serviva soltanto di uno scanno di legno su cui faceva sedere l'inquisito per 40 ore, con due uomini a lato, i quali, ogni qual volta l'inquisito accennava a dormire, gli davano con la mano sul capo e glie lo sollevavano per tenerlo desto, venendo di tempo in tempo surrogati da altri, mentre i primi andavano a riposare; e il De Marsiliis si applaudiva molto di questo suo trovato, il quale, come egli scrisse, eragli parso piuttosto una cosa da ridere che un tormento, prima che ne avesse fatta l'esperienza, mentre invece ebbe a vedere «non trovarsi alcuno tanto feroce da potervi resistere» (era feroce l'inquisito, non il Giudice); al più tardi in due notti ed un giorno, con la promessa del riposo, l'inquisito confessava tutto, e però bisognava rammentarsi di questo genere di tormento che era della massima potenza e non affliggeva il corpo, «sicchè per esso il Giudice non incorreva mai in sindacato». Immediatamente i suoi contemporanei e successori se ne giovarono, accertandone tutti i vantaggi, come li accertò p. es. Paolo Grillando nel suo trattato. Ma il progresso si fece sentire anche in questo tormento, e si cominciò coll'aggiungervi copioso cibo e vino in precedenza, acciò il sonno divenisse tanto più grave, e si finì col modificare lo scanno ed associarvi altre specie di tormenti per accrescerne l'efficacia. Così diedesi allo scanno una maggiore altezza affinchè i piedi dell'inquisito non poggiassero a terra, ed anche una superficie non piana ma ad angolo, denominando perciò lo scanno capra, cavallo o cavalletto, affinchè le parti deretane dell'inquisito ne venissero travagliate. E vi si associò pure la sospensione dell'inquisito alla corda con le braccia torte in dietro, nei soliti modi, ed anche con gli omeri fermati mediante funicelli alle mura laterali della stanza, talora perfino col petto fermato mediante una fascia al muro corrispondente al dorso, senza dubbio per impedire che l'inquisito col dondolarsi potesse sfuggire l'azione dello scanno. Infine vi si aggiunse lo scostamento, e l'elevazione forzata degli arti inferiori, mediante un lungo bastone posto per traverso, sulle cui estremità venivano ligati i piedi con altri funicelli, mentre un terzo funicello attaccato alla parte media del bastone lo attirava verso il muro di fronte, senza dubbio per impedire del pari che il tormentato, con lo stringere le cosce sullo scanno, potesse di tempo in tempo sottrarre le sue parti deretane all'azione di esso. Prospero Farinaceo, criminalista appunto del tempo del quale trattiamo, volle mostrarsi umanitario rifiutandosi di descrivere il tormento della veglia, perchè, egli disse, non era «nè aguzzino nè birro»; ma l'Ambrosino accennò alle condizioni dello scanno, alto 7 o 8 palmi, fornito di tre piedi e a superficie angolare ottusa, su cui doveva poggiare l'inquisito con le parti deretane nude, aggiungendo di aver visto talvolta lo scanno ad angolo acuto, che poteva uccidere il torturato venendogli rotte e perforate quelle parti. Paolo Zacchia, di poco posteriore per tempo, ci diede la descrizione completa del tormento quale allora si usava, e non è dubbio averlo dovuto il Campanella sostenere presso a poco in quella maniera perfezionata, che lo Zacchia descrisse e che noi abbiamo stimato necessario riferire. Che al Campanella sia stata amministrata la veglia secondo gli ultimi perfezionamenti risulta dall'Atto del suo tormento, in cui oltre lo scanno di legno detto il cavallo, la sospensione alla corda con le mani ligate dietro la schiena, l'aguzzino sedutogli accanto che lo toccava ed avvertiva di non dormire, è citato anche il funicello applicato a' piedi, che il povero tormentato chiedeva si portasse più in alto perchè i piedi gli bruciavano; e risulta egualmente da quanto ne lasciò scritto in ispecie nelle Quaestionum moralium, non che dalle parole stesse della sua Narrazione, in cui i funicelli sono ricordati in primo luogo, e sono ricordati anche i guasti verificatisi nelle sue parti inferiori. «Al tempo del Manini (int. Mandina) fu ad istanza del Sances Fiscale, ch'andò fin a Roma personaliter per tal licenza, tormentato 40 hore di funicelli usque ad ossa, legato nella corda a braccia torte, pendendo sopra un legno tagliente et acuto, che si dice la Viglia: che li tagliò di sotto una libra di carne, e molta poi n'uscìo pesta et infracidata, e fu curato per sei mesi con tagliarli tanta carne, e n'uscir più di 15 libre di sangue delle vene et arterie rotte, et sanò delle mani, e parti inferiori contra la speranza di medici quasi per miracolo, nè confessò heresia nè ribellione, è restò per pazzo non finto come diceano». E qui non possiamo dispensarci dal far avvertire che questa menzione del Sances, fatta già anche nella lettera a Paolo V, ci apparisce uno de' più spinti ripieghi del Campanella per mettere nella penombra l'opera dei Giudici ecclesiastici e far risaltare la ferocia degli ufficiali Regii; il ripiego gli riuscì bene, se non presso Roma, presso il resto del mondo, poichè fino a' giorni nostri è stata sempre attribuita agli ufficiali Regii l'amministrazione della veglia, rimanendo pure dimenticato il canone allora vigente, «clericus regulariter torqueri non potest per laycum». Non intendiamo mettere in dubbio che il Governo Vicereale, e per commissione di esso il Sances, abbia potuto insistere presso la Curia, perchè si badasse bene a provare energicamente la pazzia la quale si avea ragione di credere simulata; ma crediamo assai difficile poter ammettere che da tali insistenze fosse nata l'idea di amministrare il tormento della veglia. Da un lato non si comprende in che modo il Sances avrebbe potuto sapere, o mostrar di sapere, lo stato della causa di S.to Officio e prendervi un'ingerenza diretta; d'altro lato in Roma non aveano bisogno di eccitamenti per ordinare l'amministrazione della veglia, non solo perchè era massima di giurisprudenza che agl'inquisiti finti pazzi si potevano e dovevano amministrare i tormenti gagliardi, tanto più che ritenevasi esservi con loro minor pericolo di morte, ma ancora perchè, ogni qual volta a Roma appariva necessario un tormento gagliardo, solevasi in quel tempo ordinare l'amministrazione della veglia. Difatti dal Carteggio del Nunzio si rileva che, meno di un anno dopo di aver data la veglia al Campanella, ad un altro frate Domenicano, fra Raimo dell'Olevano, essendo stata inutilmente adoperata la corda nel tribunale della Nunziatura, dietro licenza di Roma fu data pure la veglia e del pari senza cavarne nulla, sì che fu poi mandato alle galere: vero è che questo frate trovasi qualificato «Theologo et Predicatore se bene un gran tristo», già evaso dalle carceri del Nunzio fin dal 1593, ripigliato dalla Corte nel 1601 in abito di assassino con 7 palle in tasca, stato in campagna ed imputato di 6 delitti capitali ed un ricatto; ma l'imputazione del Campanella non era niente meno grave per la Curia Romana.

Ecco ora il doloroso racconto di quanto accadde durante la veglia data al Campanella, come risulta dall'Atto che ne fu disteso e che pubblichiamo tra' Documenti. Tutti i Giudici erano al loro posto: il Campanella introdotto dal carceriere Martines e richiesto del giuramento disse, Juravit Dominus, Deus in adiutorium..; ammonito su' guai a' quali andava incontro rispose, dieci cavalli bianchi; toccato dal cursore della Curia Arcivescovile gli disse, non mi toccare che sei scomunicato per la bolla in coena Domini. Alle ore 7 del mattino (ora 11a) fu ligato alla corda e sospeso sul cavalletto: nell'essere ligato diceva, ligatemi bene, badate che mi storpiate; poi con alte grida cominciò a dolersi, massime per la forte strettura de' polsi, dicendo son morto, non feci niente, e tante altre cose fuor di proposito, che era un santo, che era un Patriarca, che aspettava il Breve della Crociata etc. chiamando uno de' Giudici Monsignore, e il Vicario Arcivescovile «zio Arciprete». Chiese che gli si pulisse il naso, e si dolse di nuovo fortemente quando gli furono ligati i piedi; toccato dall'aguzzino gli disse, non mi toccare, che sii squartato. Udì suonare le trombe sulle galere ormeggiate al molo presso il Castel nuovo, e disse, suonate, suonate, sono ammazzato frate; guardò la porta della camera che stava aperta e disse all'aguzzino, aprimi, oh frate, oh frate. Poi abbassò il capo e tacque per un pezzo, e toccato dall'aguzzino disse, oh frate, e continuò a stare per un'ora col capo e col petto abbassati. Richiesto se volesse discendere, giurare e rispondere, accennò di sì, ma non volle proferire parola: lo fecero poi discendere perchè soddisfacesse a' bisogni naturali. Quindi fu posto di nuovo al tormento (2a volta) e disse, ora mi ammazzate ohimè, e tacque: l'aguzzino gli ricordava di non dormire, ed egli diceva, siedi, siedi alla sedia, taci, taci, nè rispose mai alle continue ammonizioni di mettere da parte la pazzia, ed alle diverse interrogazioni sulla sua patria, sulla sua età etc.; si lagnava di tempo in tempo, ma alle interrogazioni non rispondeva. Si giunse così alle 8 della sera (ora 24a) essendo questa volta rimasto sempre nel tormento senza interruzione, nè altro si udì da lui che, ohimè, ohimè; e battute le 9 (1a ora di notte) chiese da bere e l'ebbe, nè mai rispose alle interrogazioni, ma si notò che mostrava di udire con cura e di percepire le parole e le ammonizioni a lui dirette, e guardava anche i circostanti. Di poi disse, Cicco Vono l'ammazzò; e dichiarò che era di Stilo, Domenicano da Messa, che aveva impiantato il monastero di S. Stefano, che aveva preso l'abito alla Motta Gioiosa, e nominò Lucrezia sua sorella e Giulio suo fratello ivi dimoranti, nominò anche Emilia figlia di suo zio che egli aveva maritata. Più tardi chiese da bere vino e l'ebbe, e ricominciò a lagnarsi, a dire che chiamassero suo padre, quindi si ripose a tacere, e gli dicevano, «Tommaso Campanella che dici? non parli?», ed egli non rispondeva, e solo volgevasi di qua e di là guardando i vicini. Sorse così il giorno e furono aperte le finestre e spenti i lumi, ed egli, sempre taciturno, appena diceva qualche volta, moro, moro, non posso più, non posso più, per Dio. Ma poco dopo parve che svenisse, onde i Giudici ordinarono di toglierlo dal tormento e porlo a sedere; quindi gli concessero di soddisfare a certa sua necessità, e poco dopo batterono le 7 (erano già 24 ore di tormento). L'infelice chiese allora qualche uovo da bere, e glie ne furono date tre, aggiuntovi del vino; disse che sentivasi morire, e chiestogli se volesse confessare i suoi peccati, rispose di sì e che gli chiamassero un confessore. Ma non se ne fece nulla essendosi ristabilito, e venne ordinato che fosse riposto nel tormento, ed egli incominciò a dire, lasciatemi stare, aspettate frate mio; gli fu detto allora perchè mai avesse tanta cura del corpo e non dell'anima, ed egli, «l'anima è immortale». Fu dunque riposto nel tormento (3a volta), e rimase taciturno, ma poi chiese all'aguzzino che portasse più in alto il funicello con cui erano ligati i piedi, perchè questi gli bruciavano; e i Giudici lo concessero. Continuò a star quieto, gli si dimandò se volesse dormire e disse di sì, gli si promise che avrebbe avuta comodità di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed egli non parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le 11 del mattino (ora 15a); i Giudici aveano profittato di quella seduta per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea presentate; gli ordinarono quindi di parlare al Campanella che stava nel tormento, e di persuaderlo a rispondere formalmente, ad evitare i tormenti che per lui erano affatto inutili, avvertendolo che il S.to Officio avrebbe procurato di ottenere da lui le risposte in tutti i modi! Fra Dionisio, come si notò nell'Atto, «adempì l'incarico con bastante diligenza e carità», discusse, disputò, e il Campanella gli disse che voleva rispondere alle interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse deposto dal tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda; intanto gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità, lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di un'ora di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di consigliarlo, ma si può supporre in qual senso). Fecero di poi sedere il Campanella presso il loro tavolo, l'eccitarono a rispondere e gli dimandarono perchè si trovasse carcerato nel Castello; il Campanella rispose, che volete da me? Avendone solo parole, lo fecero riporre nel tormento (4a volta), e il Campanella vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di tempo in tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire la menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato nel tormento per circa 36 ore.

La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più grande perchè nel tormento del polledro non gli era riuscito di mostrarsi forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli, era stato posto allo strazio e vi avea resistito un giorno e mezzo: i suoi amici ne rimasero ammirati, e vedremo segnatamente fra Pietro di Stilo farne gli elogi più entusiastici. Cosa ne avessero concluso i Giudici, si può rilevarlo dal Carteggio dell'Agente di Toscana. Era morto allora il Battaglino fin dalla notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli successo Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con forte stipendio il «Jus civile della sera» nello studio pubblico di Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per gli affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il Turaminis fin dal 2° giorno del tormento, essendone l'esito tuttora ignoto, avea scritto a Firenze che il Campanella veniva provato «nella sveglia ad istanza del S.to Officio» sul fatto della pazzia; e il 12 giugno scrisse, che avea lasciato «dopo hore 37 di risveglia confuso ognuno, et in dubio più che mai se fosse savio o matto». Rimase dunque scossa l'opinione che la pazzia fosse simulata, se dobbiamo credere al Turaminis, che potè veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra poco che ad ogni modo si ebbe presto motivo di non recedere da quella opinione, ed intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi tormenti. Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito nella sua Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed in qualcuna delle sue opere, col ricordo che era stato «sette volte tormentato»; e per l'ultimo tormento trovasi detto, più o meno, che avea perduta «una libbra di carne nelle parti deretane e diece libbre di sangue», che «era uscito sano dalla fossa (int. dalla sua tristissima condizione) dopo sei mesi», che avea «riacquistata la sanità per la diligenza dell'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli». Senza dubbio in tutto ciò deve riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni nel tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo procurato di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro riposizioni nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del Vescovo di Termoli, e le due riposizioni nel polledro avuto per la congiura; nè sarà inutile ripetere ancora una volta che tutti questi tormenti furono dati sempre da Giudici deputati dal Papa, dietro ordine o consenso espresso del Papa, sicchè non riesce giusto attribuirli agl'inumani spagnuoli, pur riconoscendo che questi avrebbero fatto molto peggio se avessero potuto. Non è dubbio poi che la veglia abbia prodotto una ferita lacero-contusa con mortificazione ed emorragie consecutive, sebbene le valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano fatte con molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che due mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre a letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò le sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci abbia destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci abbia costato il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di consultare i libri parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo. Sapevamo che in ogni Castello si tenevano a que' tempi, con misero stipendio, un medico ed un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci era riuscito di trovare che funzionava allora da medico-chirurgo un Bonifazio del Castillo con cui senza dubbio il Campanella dovè aver che fare quando più tardi fu trasportato a S. Elmo, ma pel Castello nuovo le scritture di più Archivii non ci aveano rivelato che il medico Gio. Geronimo Orabona fino all'anno 1591: d'altronde nel processo attuale trovavamo, per altre cure delle quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo Scipione, e da un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del Campanella, non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi sono abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo ci hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante in quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi impiegate: onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero filosofo, e meritarne la stima e la riconoscenza.

Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2° giorno del tormento del Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate. Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la lettera inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra Dionisio l'avesse ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea sapere, dicendo di aver ricevuta la lettera del Petrolo già da otto o nove giorni per mezzo di Felice Gagliardo carcerato per la congiura, il quale glie l'avea data passandola per la fessura superiore della porta del carcere, in cui si trovava egli solo e sempre chiuso. E i Giudici non se ne brigarono ulteriormente, nè chiamarono a nuovo esame il Petrolo come costui dimandava. - Si fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare fra Pietro di Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture, del Campanella con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli profetali. Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin dall'anno scorso, nel principio di quaresima, il Campanella gli avea mandate certe carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle carceri ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per la fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua richiesta, perchè erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella settimana santa, fece copiare il 1° fascicolo da fra Pietro Ponzio venuto allora a stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un compatriotta, Vincenzo Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in Napoli con un suo fratello, presso un Signore che non sapea dire chi fosse e che avea udito essere andato alla guerra, e il detto Ubaldini l'avea fatto copiare da un copista. Aggiunse che gli originali non c'erano più, perchè il copista non volle restituire quello a lui consegnato, dicendo che era cosa curiosa, e l'altro, consegnato a fra Pietro Ponzio perchè lo copiasse, fu dato al Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle restituir nulla dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò quelle scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale predetto, ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati presenti il Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato. Aggiunse che aveva bensì lette quelle scritture, ma senza capir nulla dei profetali, e facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio qualche cosa del fascicolo che egli copiava: inoltre che il martedì o un altro giorno della settimana santa, il Campanella «che non si era ancora publicato pazzo» mandò a chiedergli le copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi glie le rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere di mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del solito. Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro quelle scritture, nè sapeva che alcun altro le avesse viste all'infuori de' già nominati, e che non le avea presentate prima perchè non le avea potuto aver prima. - È superfluo dire che molte circostanze di tale racconto erano mentite: lasciamo da parte il non conoscere il figliuolo che a nome del Campanella avea portato gli originali delle scritture (forse Aquilio Marrapodi) e il copista laico che avea trascritto una di esse; lasciamo da parte che quelle scritture erano state sempre nelle mani del Pizzoni, e poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a circa tre mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto con bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in tempo mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che i frati vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone forse un grande effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo a tempo opportuno esposto con larghezza la materia di tali scritture, che rappresentavano le Difese del Campanella nella causa della congiura: potrebbe sembrare che il Nunzio, uno de' Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir l'obbligo di trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella causa era finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che mettersi d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances, il Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi risentimenti, se non si fosse trovato nella necessità di parlarne il meno possibile; non farà quindi meraviglia che quelle Difese fossero rimaste inserte nel processo dell'eresia, utili solamente a noi, che abbiamo così potuto avere la comodità di esaminarle. Ma perchè furono esse presentate al tribunale dell'eresia? Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro di Stilo non potè aver altro scopo, che quello di fare un tentativo disperato per allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione della veglia, senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare perdute. E il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in alcun modo sull'esito della causa della congiura.

Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici periti; il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro Vecchione, il 15 quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro appartenevano alla più elevata categoria de' medici allora in voga, e non sarà inutile darne qualche notizia, onde riuscirà manifesto che le ricerche sulla pazzia del Campanella, se vennero condotte con precipitazione, almeno in quanto alle persone de' periti vennero prese certamente sul serio. Pietro Vecchione da Nola, col suo esercizio d'insegnante privato, secondo il costume napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione, che giovane ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano maggiore era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato lettore della «theorica della medicina ordinaria», cattedra fra le più stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani, e già occupata da Filippo Ingrassia (insieme con la pratica) dal 1547 al 1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas nel 1560, da Gio. Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel 1565, da Salvio Sclano nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da Quinzio Buongiovanni nel 1579, da Latino Tancredi in qualità di straordinario nel 1589, tutta una serie di uomini stimati altamente. Esercitava poi la pratica con immenso successo, ma del resto era uno de' molti, anzi troppi, che non avevano scritto mai nulla, facendo parte di quella beata falange degli uomini illustriinediti, specialità non napoletana soltanto ma italiana, ancor oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che la sua è la via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le alte cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura di pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico nell'aprile 1619. Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino, calabrese, già distinto allievo dell'Ingrassia, era un vecchio cultore di anatomia e chirurgia assai accreditato, e basta dire che fu maestro di Marco Aurelio Severino: non ebbe lettura pubblica essendo allora la cattedra di chirurgia ed anatomia occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che fu il primo a riunire insieme nel pubblico studio in un modo definitivo queste due branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed anche illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60 anni al tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua relazione sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto nella Chiesa di S.ta Chiara. - Ecco ora ciò che essi riferivano intorno al Campanella. Pietro Vecchione scrisse, che invitato a visitare più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero desipiente e melanconico o simulasse tale malattia, per quanto avea potuto esplorare con la mente, con la conversazione e coll'opera, avea ben rilevato che egli aberrava nell'immaginativa, nel discorso e nella memoria; ma poichè non avea visto alcuno de' sintomi che sogliono trovarsi negl'infermi di tale malattia e v'erano grandi cause per simulare, era venuto nel dubbio che quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad esplorarla con maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza degli astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di certo; ma conchiuse, «per quanto mi è dato scorgere congetturalmente, giudico che colui simuli la malattia». D'altra parte Giulio Jasolino, con un lungo scritto, venne nella medesima conclusione, ricingendosi di alquanto maggiori riserve, ed appoggiandosi ad un nugolo di citazioni d'Ippocrate e di Galeno. Ciò che fa riuscire notevole per noi questa sua relazione si è qualche notizia che vi si rileva intorno al modo tenuto nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo di congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide «melancolico» nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale ovvero «acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia» (non si parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che «essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata»: ma aggiunse che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe voluto, conchiudendo «che cossi si potrà chiarire della verità della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia». Adunque, tra il sì e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.

Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a' Giudici che la pazzia doveva essere simulata. L'aguzzino che aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le «parole che si lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento». Ed egli rispose: «essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che si pensavano che io era co...... (int. sciocco) che voleva parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente». A voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura del Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera; ma l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in modo, da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse procurata dal Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta sotto giuramento da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni modo un valore incontrastabile.

Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del tempo accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le altre prove e «purgare gl'indizii»; e giacchè il tormento era stato gagliardo e non ordinario, tanto più l'inquisito veniva a giovarsi dell'esito avuto, secondo le dottrine de' criminalisti più in voga. Così il Campanella dovea giuridicamente ritenersi pazzo, quantunque tutti fossero persuasi che egli simulasse la pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.to Officio non era indifferente: come «relapso» egli anche pentito avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che l'avrebbe fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna, e laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire e pentirsi. Non occorre dire quanto siffatto principio sia degno di nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma venne presa più tardi intorno al Campanella.

Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una lunga fermata, sicuramente perchè i forti calori della stagione estiva solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e poi più tardi perchè la malattia la quale afflisse il Vicerè, e finì per trarlo alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile sollecitatore della causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto nel resto dell'anno, e con molta fiacchezza, per un novello incidente sorto in questo tempo.

Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le particolarità precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè intervenire il tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a narrare le cose a modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere intorno ad essa dalle migliori testimonianze non soltanto degl'inquisiti ma anche degli ufficiali del Castello. Quello spirito irrequieto di Felice Gagliardo era stato dapprima in compagnia di Orazio S.ta Croce nel Castello dell'ovo per 17 mesi, ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co' banditi delle vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col padrigno suo Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po' per bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia: il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea fatto rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra questi anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano molte carte di negromanzia e già molte altre dello stesso genere ne avea lacerate, fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le carte che trovò, delle quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances, altre tenne presso di sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia Auditore del Castello. Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo venne posto in una medesima camera con Orazio S.ta Croce, con fra Paolo della Grotteria, fra Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di poi insieme col S.ta Croce passò a stare col Soldaniero, più tardi fu di nuovo allogato nella camera in cui si trovavano fra Paolo e il Bitonto, e con essi il Petrolo e fra Pietro Ponzio: naturalmente egli si strinse subito in amicizia con fra Paolo, che sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e col Bitonto, che già conosceva e che si mostrò egualmente proclive a questo genere di cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano, li aiutò grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta della così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel giuoco del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti, ricette, scongiuri ed artifizii magici. Il Gagliardo e il Bitonto si diedero subito a trarre una copia di tali scritture, e s'intesero tra loro al punto, che o per amicizia o piuttosto dietro qualche piccolo compenso, facile ad assumere ogni maniera di responsabilità quasi bravando i rigori del tribunale, il Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta in presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa affermava non esser vero quanto in processo leggevasi deposto da lui contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in ordine perchè presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato falsamente inserto da quelli che formarono il processo. Tali scritture, con altre ancora, si conservavano in una cassa appartenente al Bitonto, e questa cassa, non molto tempo prima dell'avvenimento che dobbiamo narrare, fu portata dal Bitonto nella camera di fra Dionisio, ritenutane la chiave in poter suo, pel motivo o pel pretesto che nella camera in cui stava erasi verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra Pietro Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo dalla camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì di allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.ta Croce. L'Adimari uscito fuori sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perchè già stavano troppi letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il quale gli diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una parte e i frati dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli altri in difesa di fra Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.ta Croce e il Gagliardo, si azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed inoltre con fra Dionisio uscito dalla sua camera per quel rumore, avendo i frati «sarcene alle mani e seggiolelle di paglia» (fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e servendosi i laici de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano. I soldati del Castello e il carceriere intervennero e separarono i contendenti, cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu trovato ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il S.ta Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.

Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si presentò al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya, d'altro lato il S.ta Croce e nientemeno anche il Gagliardo si presentarono al sergente Francesco Alarcon, dicendo che per servizio di Dio e di S. M. facessero fare una ricerca nella camera di fra Dionisio, rovistando tutta la camera ed una cassa che là si trovava, perchè sarebbero venute fuori «scritture e carte triste e prohibite»; e quegli ufficiali, insieme con due soldati e col carceriere Martines, si portarono a fare la ricerca non solo nella camera di fra Dionisio, facendolo stare presente, ma anche nella camera degli altri frati e in quella del Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera e segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza la chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed avuta la chiave dal Bitonto, ne furono estratte le «carte di fattocchiarie», la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in favore del Bitonto ed anche le scritture concernenti la persona di fra Dionisio nella causa di eresia, vale a dire gli articoli del fiscale contro di lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù una «Consideratione dell'essamina et lettura del processo de pretensa rebellione». Presso fra Pietro Ponzio fu trovato «dentro uno marzapane grande tondo» (canestro tondo di vimini fornito di coverchio) un libretto di Poesie rivestito di pergamena, «con zagarelle di seta pavonazze e rangiate» per fermagli; erano le poesie del Campanella che fra Pietro si occupava di raccogliere e divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì infruttuosa, ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo, che stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata condotta con maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero fuora altre carte di sortilegi. Infine presso il Campanella fu trovata qualche altra cosa, e ne lasciamo il racconto al sergente Alarcon che così si espresse quando fu poi esaminato più tardi su tale incidente: «Andassemo ancora à cercare la camera di frà Thomaso Campanella, et non vi trovai altro eccetto che una lettera serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et perche lui stava malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la camera, non mi ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera, et mentre si faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello di Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una scrittura di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io pigliai è portai al Sig.r Castellano». Vedremo più tardi cosa fosse questo scritto del Campanella: diremo intanto che il Castellano D. Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo ordinò che fossero rinchiusi nel torrione del Castello, in due criminali separati, fra Pietro Ponzio primo motore della rissa e fra Dionisio ritenuto autore delle carte proibite; ordinò inoltre che tutte le carte trovate nella ricerca fatta fossero portate al Vicerè dallo stesso luogotenente De Moya. Con ogni probabilità allora appunto, nell'essere fra Dionisio preso e tradotto al torrione, vennero trovate ancora nella camera di costui quattro lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto, scritte pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti di Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi chiamato a deporre: «Le fici portare... à sua Eccellenza del vicerè di questo Regno, che stava alhora à chiaya alle case è giardino di Don Pietro di toledo, et io proprio in nome di detto Sig.r Alonso castellano le consegnai al vicerè alla presentia di Don Pietro Castelletta Regente di Cancellaria, è di Don Giovanni sanges de luna, dandoli conto come si erano trovate è dove, et in particolare dissi che alcune di quelle scritture erano state trovate dentro di una cassetta di detto fra Dionisio pontio, et detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è lessero, et alhora medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro date al detto Sig.r don Giovanni sanges de luna, il quale se le pigliò in suo potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte restorno in potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che scritture fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali foro quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che io ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io mi licentiai dal vicerè et me n'andai». Probabilmente le scritture che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di segreti, ricette e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad ogni modo doverono certamente destare curiosità sopra tutte le altre quelle della difesa di fra Dionisio nella causa di eresia, per le quali si potè avere una notizia abbastanza precisa di detta causa. Riesce poi notevole che il Vicerè non abbia fatto trasmettere al S.to Officio le carte che cadevano sotto il dominio di quel tribunale: è impossibile ammettere che egli non vi avesse dato importanza, ma si può meglio ritenere che egli non le abbia trasmesse per evitare un motivo di ulteriori lungaggini. Invece se ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non quietò, finchè non venne ordinato di pigliare informazione su questa faccenda delle scritture.

Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, supplicandolo di venire in Castello «per cose importantissime di S.to Officio»; e il 26 agosto, innanzi al Vicario Arcivescovile e al Rev.do Antonio Peri, trovandosi impedito il Nunzio ed assente il Vescovo di Caserta, fu interrogato circa il memoriale mandato. Egli disse che coloro i quali gli si erano esaminati contro, in materia di eresia e di ribellione, avevano assaltato lui ed il germano fra Pietro, l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e poco dopo, fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate scritture proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto, che l'avea portata presso di lui perchè la conservasse; e ne' giorni seguenti aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto gli avesse «fatto il tradimento» d'accordo col S.ta Croce, Soldaniero e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si trovava, come egli stesso, in un criminale, avea minacciato costoro di volerli denunziare al S.to Officio per cose gravissime. Chiese quindi che si pigliasse informazione intorno a quelle scritture, che ne fossero gastigati gli autori o possessori, che si desse a fra Pietro suo germano il modo di poter presentare i capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero costoro «separati e posti in clausura», tanto perchè potesse scovrirsi la loro perversità, quanto perchè erano incorsi nella scomunica. Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture di carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea veduto in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i capi del fisco in materia di S.to Officio (così profittava dell'occasione, se pure non l'aveva egli stesso provocata, per giustificare i suoi ritardi e prender tempo ulteriormente): disse ancora che tutti e tre que' ribaldi l'aveano percosso, ma il S.ta Croce l'avea ferito, mostrando la ferita, medicatagli «dal chirurgo del Castello nomine Scipione» di cui non sapeva il cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de' testimoni, e dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio discacciare dalla camera sua il Gagliardo «per alcuni furti et perche haveva inteso che andava vendendo magarie»; aggiunse che la cassa del Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera sua. - Verso lo stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al Vicario Arcivescovile contro fra Pietro Ponzio, perchè aveva insultato esso querelante pacifico e quieto, e gli avea dato uno schiaffo in presenza della maggior parte de' carcerati, onde chiedeva una diligente informazione su questa insolenza e un provvedimento di giustizia. Naturalmente fra Pietro non poteva starsene tranquillo, dovea rispondere alla provocazione e già avea mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non gli mancava la materia per la risposta. D'altra parte ancora, non si saprebbe dire perchè, il Lauriana mandò al Rev.mo Vicario un memoriale, supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non si riscaldò menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto dell'anno, nè ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci dalla parte del Governo di Napoli erano venute meno.

Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da certi edemi che gli erano comparsi e che si dicevano «pienezza di carne»; quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma a' primi di settembre già susurravasi essere la malattia dell'intestino retto e dover finire con una «fistola penetrante»; se ne indicava anche la cagione, attribuendola alla intemperanza dell'infermo, per la proclività ad accettare i banchetti offertigli continuamente da' Nobili e forse graditi alla sua Signora più che a lui. I medici erano in moto, e come faceva sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18 7bre ritenevasi ottenuto un miglioramento, per una medicina che «una parte de' medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri». Una insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta di consiglio e rimedio, fu inviata dalla casa del Vicerè al dottor Diaz a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è l'Archivio di Firenze: ma un medico di provincia, che abbiamo già avuta occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse francamente male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di esser chiamato al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo Provenzale dovuto recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli era stato concesso nel 1598 e che si godè fino al 1612. Dopo di aver molto penato, «con febbre, flusso, siero e fistola penetrante», il 19 ottobre il Vicerè venne a morte; a 57 anni di età, dopo 57 giorni di malattia, come notarono gli studiosi de' numeri di quel tempo, calcolando il principio della malattia dal giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi notarono ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello suo da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de' distinti personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del Vicerè, tra i quali Carlo Spinelli; così pure le lodi dell'estinto, il compianto dei cittadini etc. etc. e questa volta bisogna dire che abbia ragione, poichè dopo la condotta per lo meno scempiata del Conte Olivares suo predecessore, la condotta del Conte di Lemos apparve tanto più degna di encomio. Non mancarono a' canti delle vie, come già in certi altri momenti del suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli infamatorii, sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi goffi, ma che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p. es. il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro il Lemos, e talora con parole estremamente acerbe.-Successe come Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito del Lemos, il quale pure altra volta, in assenza del padre andato a Roma, avea governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo che allora non mancò d'insistere perchè il negozio de' frati avesse un termine, ma non apparisce che avesse fatto sollecitazioni in questo periodo del suo governo, avendo invece cominciato a farle molto più tardi.

Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a languire nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per comprendere alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo dovremo passare a rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin dal 7 7bre al Provinciale de' Domenicani di Calabria, ci fa sapere che da' conventi di quella Provincia erano stati una volta mandati danari perchè fossero distribuiti a' carcerati, ma che appunto il Campanella, il quale ne avea «bisogno più che gli altri come malato, non hebbe nulla»; e però il Nunzio aveva ordinato che fosse risarcito con la somma che allora si diceva pronta per lo stesso oggetto, e che tutti i danari rimanessero in mano di un corrispondente del Campanella in Napoli, il quale l'avrebbe provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe badato, «sendo mentecatto», che non gli fossero rubati; aggiungeva poi il Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano passare per varie mani e poteano per lo meno incagliare per via. Difatti vedremo più in là che una somma di D.ti 200 inviati da Calabria, con ogni probabilità quella medesima per la quale avea scritto il Nunzio, ebbe a patire la detta traversìa ed anche qualche cosa di peggio. Nè ci mancano documenti da' quali si desume che i poveri carcerati, nel tempo cui siamo pervenuti, doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a Napoli, perchè si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.

IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.l di S.ta Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto cessata la sospensione della causa. Il 4 gennaio, a nome della Congregazione de' Cardinali colleghi il S.ta Severina scriveva che non si era saputo più nulla intorno alla causa, che oramai per la morte del Vescovo di Squillace, pel lungo tempo trascorso etc. non c'era nulla da attendersi sulle informazioni commesse in quella diocesi, che infine si voleva conoscere se fosse stato provvisto al vitto de' carcerati, come più volte erasi da Roma ordinato a' loro superiori. - E gli 11 gennaio i carcerati dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo facendogli sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo scrivano dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro bisogni, ma avea «dimostrato non troppa intentione di charità», e quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la loro firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il carceriere Alonso Martines, e da ciò ben si rileva che egli continuava sempre a mostrarsi pazzo.

Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo sostituì definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute, fu esaminato di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse dire altro, poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non erano materia di S.to Officio. Fra Dionisio rispose che aveva inteso deporre sulle scritture trovate in camera sua e mostrategli dal Barrese, per le quali voleva essere punito se mai fosse risultato colpevole. Aggiunse poi che il Soldaniero, comunque scomunicato per averlo percosso, e già prima scomunicato anche dal Vescovo di Tropea per violata immunità ecclesiastica, non se n'era mai curato nè se ne curava, continuando ad ascoltare la Messa nella Chiesa del Castello. - Certamente il tribunale dovè allora rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture in quistione, giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S. Eccellenza, le scritture gli furono inviate: ma non credè di dover ritardare per questo la spedizione della causa principale, non si curò dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti ulteriori e poco dopo abilitò, come allora si diceva, il Soldaniero ad uscire dal carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene gravemente offeso, e pensò allora di rivolgersi al S.to Officio di Roma, dal quale vedremo in sèguito ordinato di procedere alla debita informazione sulla faccenda delle scritture. Non meno ebbe a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio, il quale poco tempo prima avea potuto finalmente presentare i suoi capi di accusa, una denunzia formale in materia di S.to Officio contro i laici intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro mesi ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come fossero anche per questo divenuti furiosi.

Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu iniziato un processo secondario contro Orazio S.ta Croce continuato poi contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della denunzia presentata da fra Pietro Ponzio, la quale veramente, oltre il S.ta Croce e il Gagliardo comprendeva anche Giulio Soldaniero e un Ferrante Calderon dottore spagnuolo del pari carcerato. I lettori intenderanno che riuscirebbe impossibile seguire tutti i particolari di questo processo, condotto a sbalzi per due anni interi, senza intralciare orribilmente la narrazione del processo principale ed anche correre il rischio di non finirla più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni, i quali veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava la vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia di fra Pietro mandata al Card.le Arcivescovo di Napoli, recava le seguenti cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a questo modo: 1° Contro il S.ta Croce; che era un pubblico bestemmiatore e diceva anche continuamente «santo diavolo» (esclamazione calabrese ancor oggi comunissima); che giocando a dadi col carceriere avea detto «Dio, non ti credo, se la prima volta ch'io giocarò con Martines non mi farai uscire da questo Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in canna» (un laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato a giocare col Martines; che avea detto essere «il diavolo assai più potente di Dio, perchè Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo aiuta li suoi vassalli li tristi»; che non dava alcun segno di devozione, non andava a Messa nè recitava officio nè rosario, e ne' giorni solenni era visitato da una certa Delia sua antica concubina, con la quale stava di giorno e di notte, mangiava e giaceva in presenza anche de' frati, ed essendogli stato ciò proibito avea proferita una laidissima proposizione (la quale perciò sarà meglio non ripetere); che avea ferito fra Dionisio nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era dato mai pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con un proverbio calabrese, «meglio essere scomunicato che comunicato all'imprescia» (comunicato in fretta). 2° Contro il Gagliardo; che era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed un libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli ufficiali del Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di legno, che stava al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da lui avea detto che in quel Castello gli erano state trovate carte contro Dio; inoltre che nel Castel nuovo un certo Marcantonio Buono calabrese veniva a visitarlo per cose magiche, ed un giorno rimasti soli fecero insieme suffumigi con zolfo «e una pignatella piena di mill'imbroglie», e Geronimo Campanella entrando nella camera se n'uscì subito spaventato e cacciato dal puzzo gridando che là «ci erano cento mila diavoli», che in presenza de' carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con la suocera e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere di tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a prescriverli; che pubblicamente ritenevasi aver lui scritto col proprio sangue una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che era ladro, e in tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco timore di Dio. 3° Contro il Soldaniero; che da due anni scomunicato per Cedoloni affissi alla Cattedrale di Tropea, e poi incorso nuovamente nella scomunica per aver percosso sacerdoti suadente diabolo non si era curato dell'assoluzione, continuando a udir la Messa e conversare con tutti absque resipiscentia. 4° Contro il Calderon; che avendo chiesto a fra Pietro su che si fondava il Campanella per sostenere prossimo il dì del giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de' Padri, e tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di S. Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare nell'occidente la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel Breviario, si era lasciato dire queste essere ciarle fratesche per accrescere onore alla religione; che discorrendo della fede ne' beati ed in noi viatori, si era lasciato dire altro essere ciò che noi crediamo ed altro ciò che quelli vedono, ed esservi differenza non solo nel principio e nel mezzo, ma anche nelle conclusioni della fede; che infine si era lasciato dire la fede vera procedere dall'esperienza e non dall'udito, nè voler credere se non ciò che vedeva.

Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse stato tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere che nelle cose di S.to Officio non si transigeva facilmente in quel tempo, ed al contrario di quanto generalmente si ritiene, lungi dall'essere il tribunale della fede mal tollerato, vi si accorreva molto volentieri, come lo dimostrano le «spontanee comparse» contro la propria persona, numerose al punto da far rimanere stupiti allorchè si esamina una collezione di scritture di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia suddetta di fra Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo Adimari contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato, querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio Peri, nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno Brundusio Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta, nella 2a seduta e in qualche altra; più tardi funzionò il solo Curzio Palumbo qual deputato speciale, e talvolta senza questo titolo, che anzi in qualche decretazione figurò il Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e il nuovo Vicario generale Alessandro Graziano. Un notevole elenco di testimoni fu dato da fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo riesce di molta importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco Castiglia, il carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres (sic), vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da fra Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro Prezioso, che dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi ultimi, eccetto quello di Gio. Pietro Campanella forse per dimenticanza, e vi segnò a lato il rispettivo domicilio, onde si legge, «Geronimo Campanella è in Stignano, Geronimo Conia à Castellovetere, Camillo Adimari è d'altomonte non si sà dove sia» etc; quanto a Francesco Gentile si legge, «è stato carcerato e liberato, non se sape dove habita», e poi, «à mezzo cannone alla banda de la fontana, sagliendo ad alto passata la fontana» (una via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando all'attenzione de' lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo ad occuparci più in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti che erano già liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella lista, ed anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro motivo perchè la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della congiura era dunque finito per essi prosperamente, nè il S.to Officio avea posta l'empara per quelli che aveva esaminati in materia di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra parte Geronimo Campanella, sicchè avea lasciato cadere le imputazioni dapprima accolte contro di loro. Ma la data in cui fu scritta la lista del Prezioso non è determinata; si può solamente dire che dovè essere scritta tra il febbraio e l'aprile 1602, e però tale sarebbe la data approssimativa del rilascio della maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che taluni di loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista quando trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo sappiamo aver patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il processo fu avviato realmente nel mese di marzo, e continuato a riprese in luglio, agosto, settembre e novembre. Dapprima, il 13 e 19 gennaio, fu esaminato fra Pietro Ponzio per lo svolgimento della denunzia presentata; di poi si attese fino al 6 marzo per esaminare il Soldaniero, il quale già trovavasi fuori carcere e ad ogni modo pervenne a giustificarsi, affermando che nella rissa si era limitato a dividere i contendenti, e che in Tropea non era stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al quale egli era subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati quali testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono i fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i Ponzii e il S.ta Croce, e costui, assolto dalle censure, venne quindi esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale affermò aver presa parte solo per dividere i contendenti, ed essere la ferita di fra Dionisio imputabile non a lui ma al Soldaniero. Dopo questo esame il processo rimase lungamente interrotto, nè venne ripigliato che scorsi quattro altri mesi, nel luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne l'esposizione.

Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la spedizione della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti il 19 gennaio 1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra Dionisio, e gli assegnò un termine preciso e perentorio di altri 15 giorni per fare qualunque difesa se volesse farne; e fra Dionisio espose che non aveva Avvocato, e che gli occorreva la copia delle difese sin allora fatte. Nel giorno medesimo tenne lo stesso procedimento col Petrolo, col Lauriana, con fra Pietro di Stilo, con fra Paolo, col Bitonto, chiamandoli in massa alla sua presenza, e non ricordando che fra Pietro di Stilo aveva già da un pezzo rinunziato alle difese. - Ma il 26 gennaio fra Paolo e il Bitonto presentarono egualmente la loro rinunzia e dimandarono di essere spediti secondo gli Atti del processo che ritenevano legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed innocentissimi, cruciati da lungo carcere «per la tentata ribellione pretesa e figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia»: lo stesso poi fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del pari innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e l'ultimo di loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora, il 31 gennaio, citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed il loro Avvocato Stinca e Procuratore Montella, perchè dopo di essere stata intimata tale citazione venissero sulle 19 ore (verso mezzogiorno) alle case de' Giudici, per dire ed allegare su' capi spettanti al S.to Officio ciò che volessero, tanto a voce che in iscritto, nel diritto e nel fatto; e l'intimazione fu eseguita il 2 febbraio. Certamente non si potè fare lo stesso con fra Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti che gli mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter fare le sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo Sciarava, copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del tempo al quale siamo giunti, senza saperne il motivo.

Deliberavasi intanto l'«abilitazione» del Soldaniero, e il 12 febbraio, fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del Nunzio, lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di Napoli, in guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da' Giudici in iscritto, sotto pena di D.i mille in beneficio del fisco apostolico; e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando in garanzia tutti i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio l'alloggio di Lucrezia la bottegaia alla Carità. - Ma i frati già avevano concertato di far cadere interamente sopra di lui la responsabilità delle scritture di sortilegio, e senza alcun dubbio si diedero premura di far accedere anche Felice Gagliardo al loro disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra Dionisio potè presentare al tribunale una Dichiarazione in questo senso, scritta da Felice Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali si aggiunse inoltre fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche il S.ta Croce: costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro presenza, mentre stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto portava la sua cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero lo avea pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le quali erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio aveva aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture. Il Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col Bitonto, con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione sua che quando il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al luogotenente e sergente del Castello perchè procedessero ad una ricerca di carte presso fra Dionisio, disse a lui Gagliardo, «non dubitare, ch'io cilo carricata (int. ce l'ho caricata) a fra Dionisio, et adesso sì che lo farò bruggiare, perche quelli scritture che me vedesti porre in quella cassa sono pieni di negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà il complimento della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione sue ch'ha fatte». Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto l'interesse di fare e di procurare che altri facessero simili dichiarazioni: fra Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente nell'interesse di tutti i frati, e si vede bene che i comuni pericoli aveano in lui cancellata ogni traccia della ripugnanza che avea sempre sentita per la persona di fra Dionisio. A questi tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.ta Croce, il quale per altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto portare la sua cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni probabilità egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto veridica, a fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la pace, che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da testimoni nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano del Castello, D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta, inoltre il sergente Alarcon e due altri: essi certificarono le firme de' dichiaranti, ma solo quelle de' primi tre, la qual cosa dà motivo di ritenere che il S.ta Croce dovè intervenire più tardi.

E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il 20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D. Juan Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di Caserta che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di consegnare a S. S.ia R.ma le scritture trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello Barrese sul come erano state trovate. Questa relazione o non fu fatta, o non rimase nel processo, ciò che riesce più probabile; ma le scritture furono consegnate tutte, per quanto è lecito giudicare dagli Atti processuali che ne trattarono, comprese quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa soltanto la lettera trovata chiusa presso il Campanella, della quale non si fece mai più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli Atti, e queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio, le quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la dichiarazione di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le cose che avea deposte in materia di ribellione (ved. pag. 231); quest'ultima scrittura, se i Giudici, e segnatamente il Nunzio, fossero stati più teneri del loro dovere, avrebbe dovuto essere trasmessa al tribunale della congiura, ma invece rimase nel processo dell'eresia. Tutte le altre scritture, divise in due gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.e Cherubino Veronese Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile; nel 1° gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state trovate nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però imputabili più o meno a' frati; nel 2° gruppo si contenevano quelle trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal processo, e tale distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe che ci dovè essere la relazione del Barrese, quando le scritture furono consegnate. Vedremo che al 2° gruppo si aggiunse ancora un'altra scrittura, composta dal medesimo Gagliardo nientemeno mentre il tribunale procedeva agli esami su tale argomento; e poi si formò inoltre un 3° gruppo con le scritture appartenenti del pari al Gagliardo, trovate quando egli era rinchiuso in Castello dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre relazioni successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa con una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono messe insieme in un volume col titolo «Scritture o Segreti manoscritti proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in Castel nuovo con le relazioni del Rev.do Teologo sulle loro qualità», mentre non tutte erano state trovate in Castel nuovo e nella cassa di fra Dionisio, e già sapevasi che la cassa non apparteneva a fra Dionisio ma al Bitonto.

Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed anche della qualificazione espressa dal P.e Cherubino su quelle che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte immediatamente tra gli atti del 4° volume del processo, e dapprima dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9 luglio 1601. Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora ricevuto canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in poesia), e promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di fra Dionisio, la quale difatti giunse e trovasi in questo volume del processo che non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso contenuti: spera poi ardentemente la liberazione di tutti, manda un abbraccio al P.e fra Pietro «et all'amico», ricorda «la natività» e promette «alcuna cosella»; sulla soprascritta si dice quella lettera «data in potere della S.ra Donna Ippolita cavaniglia al castel nuovo». Vedremo che fu poi dichiarato essere appunto il Campanella l'amico, dal quale il Del Buono si aspettava che consultasse l'oroscopo e desse la natività di un suo figliuolo; e vuol essere intanto notato il nome di colei alla quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita Cavaniglia, pietosa Signora che troveremo esaltata nelle poesie del Campanella come sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci di lei debitamente. - Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di Stilo. Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e dirette tutte a Stilo, alla Sig.ra Giulia Prestinace sorella di Gio. Gregorio, alla Sig.ra Porzia Vella suocera dello stesso, a Suora Francesca Prestinace monaca di S.ta Chiara altra sorella, ed al P.e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In sostanza, più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si ammonisce che l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle assicurazioni del fratello, partito da Napoli credendo «di haver effettuato ogni cosa à loro sodisfattione»; aspetti che la forgiudica sia tolta, la qual cosa solamente il giudice Marc'Antonio di Ponte può sapere quando accadrà, e non si piglino «viziche per lanterne» ma si ascoltino «li consigli delli mal patiti»; e badi l'amico «che con vane speranze se ne ritorni alla patria» e pensi che vi sono nemici «et massime nci è illoco Giuda Scarioto» (forse Giulio Contestabile), e che nel Castello «ci sono emoli... quali non cessano dalla loro anticha perfidia» (certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato), e finita ogni cosa ne darà avviso «et allora l'amico potrà far la sua risolutione di appresentarsi». Contemporaneamente vi si dà speranza di prossima fine della causa con buon esito, perchè il Campanella ha vittoriosamente superato un grosso tormento e deve averne un altro, e fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le scritture di segreti che si scoversero, ma un altro ne avrà anche il Petrolo, e su costui non si può contare come su' due primi, e però bisogna stare a vedere: questi concetti che esprimono i giudizii, le speranze e i timori, senza dubbio divisi dallo stesso Campanella, meritano di essere testualmente conosciuti. Fiero del suo fra Tommaso per l'ottima prova da lui data, alla Sig.ra Giulia fra Pietro dice: «Campanella hebbe quaranta hore di tormento chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la fè più di un lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro chiamato, pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà assoluto da ogni cosa, per tanto vidiamo (int. aspettiamo a vedere) questo fine, de più si hà di tormentare frà Dionisio per li secreti adesso si sebbero (int. le scritture di secreti che adesso si seppero) et si scoversero per vere, et si à questi dui non temeti come huomeni di honore, che diremo di fra Domenico di Stignano, quale rovinò tutta questa causa, quale harà di avere uno grave tormento?» E alla Sig.ra Porzia: «Campanella dopò lo tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente come leone, si dice per verissimo che in materia di ribellione lui et frà Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha di esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si bene si hà ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et per l'esperienza fatta non li dovemo haver credito». E a suora Francesca: «Campanella... queste settimane passate sostentò uno horribile tormento di quaranta ore non senza grande honor suo et bene quanto alla inquisitione; ben presto per materia di ribellione harà un altro pochetto di tormento insieme con frà Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi et assoluti omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti dubbio; lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo di stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità». E si adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora Francesca, dopo di avere con delicata attenuazione parlato del «pochetto di tormento» da doversi sostenere da' due principali inquisiti, scherzosamente dice che al suo ritorno le darà gran penitenza, perchè non ha pregato Dio per lui: confortatore egli che avrebbe pure avuto bisogno di conforto, quantunque ignaro che un tormento era riserbato del pari alla persona sua, questo frate dabbene non può non destare la più viva simpatia. Pertanto interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo, giudizii assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo è dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto che iniquo. - Circa la dichiarazione rilasciata da Felice Gagliardo in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta scritta in data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del dichiarante reca quella, scioccamente vergata, del Curato del Castello, ed anche quelle de' due clerici assistenti la Chiesa. Come abbiamo già esposto altrove, il Gagliardo con essa negava di aver detto ciò che trovavasi da lui deposto contro il Bitonto in materia di ribellione: ed afferma che è falsità «falsamente posta, con reverenza, da quelli che faceano il processo»!

Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e qualificate dal P.e Cherubino. Cominciando da quelle del 1° gruppo appartenenti a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo la così detta Clavicola di Salomone in molti fogli e con la seguente nota: «fatta experientia per il Re di franza, per il Gran Duca di fiorenza et altri Signori, et hoggi in questo Regno un solo la tiene et il Prencipe di Conca sta dando opera di far tal arte». Il carattere di tale scrittura non è da per tutto uniforme, sia per essere stata copiata in più volte, sia per essere stata copiata da diversi individui: vedremo che il S.ta Croce, molto competente, la disse di mano del Gagliardo, ma costui la disse in parte di mano sua e in parte di mano del Bitonto, avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia, e così confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data quella copia a fra Dionisio perchè la conservasse nella camera sua, dove poi fu trovata. Il P.e Cherubino, nel qualificarla, riconosce che è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano allora stampato essa è notata nella prima classe delle opere proibite di autori incerti, risultando dichiarati veementemente sospetti di eresia coloro che la leggono, la posseggono e si servono delle cose in essa contenute, e formalmente eretici coloro che credono vere le cose in essa insegnate. Si hanno poi diverse scritture di minor mole che recano quasi sempre scongiuri, per trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per avere uno spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc. etc. sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente il carattere è quello del Gagliardo, e il P.e Cherubino appone ad ognuna il «sapit haeresim manifeste». Inoltre si ha un opuscoletto sulla musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere di qualcuno de' frati. Ancora un grosso fascicolo con moltissime ricette e «percantazioni» curiose; per non far dormire alcuni, per non esser preso, per far divenire zoppo un cavallo, per indurre discordia, per sciogliere un ligato o per chi non potesse stare con la moglie etc., tutto di mano del Gagliardo e qualificato dal P.e Cherubino nel solito modo; alla fine poi di questo fascicolo si trova una poesia in dialetto calabrese distinta in due parti col titolo di «Amorosa» e «Partenza», di mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non vista o non curata dal Notaro e dal P.e Cherubino. Sono 24 stanze, alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per conoscere le qualità dell'autore. Dell'«Amorosa» scegliamo le seguenti:

«Quandu ti viju a sa fenestra stari

mi pari in celu un Angela vidiri

e poi mu ti viju amacciari

mi piglu pena affannu e dispiaciri

ca chi raggiuni non mi voi parlari

chi ti haiju fattu lu vorria sapiri

poi ca lu mancu non mi voi guardari

fingi chi non mi vidi e non fuijri.

Volsi provari lu luntanu stari

forsi di menti mi potevi usciri

l'amuri a autra banda volsi dari

e ijri arrassu per non ti vidiri

st'afflittu cori dissi nun lu fari

non ti scordari di lu ben serviri

mill'anni mi paria lu riturnari

cara patruna mia per ti vidiri.

Si vidi un'ursa in silva tetra et scura

aspra silvaggia, mansueta fari

si vidi un scogliu et una petra dura

spissu cadendu l'acqua arrimollari

e vui chi siti humana creatura

non vi potiti cu piantu placari

eccu chi siti ingrata di natura

essendo amata non voliti amari».

E queste altre della «Partenza»:

«Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri

restati in guardia dilu miu sustegnu

e di lu pettu so mai ti partiri

ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu

avisami per via dili suspiri

si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu

e si canusci chi mi ha da tradiri

ijetta un suspiru chi subbito vegnu.

Gula d'argentu cinta di ligustri

pettu chi si la bianca nivi equali

bucca suavi chi parlando mustri

vivi rubini e perni orientali

occhi sireni più di un suli lustri

. . . . . . . . . . . . . .»

Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo. Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.r Francesco Gentile patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle azioni, della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2 agosto 1601, vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde meritano di essere diligentemente considerate ed illustrate; noi l'abbiamo già fatto in parte e seguiteremo a farlo più in là, limitandoci per ora a notare che il P.e Cherubino le qualificò in latino ed italiano «Carmina in laudem et improperium multorum, ad amorem alliciendum; in quibus sunt multa quae videntur sapere idolatriam. Scrive a la donna da lui amata chiamandola Sommo bene. Dicteria multa, quae videntur sapere libellum infamatorium». Decisamente il P.e Cherubino era disposto a trovarvi il peggio possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel reveglino del Castello, sotto la finestra del carcere del filosofo, gettatavi dal fratello Gio. Pietro al momento in cui venivano gli ufficiali in cerca di scritture; ma essa non vi si trova, non essendo stata aggiunta alle altre inviate al P.e Cherubino e nemmeno inserta puramente e semplicemente nel processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa a' Giudici del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6 marzo 1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di questa scrittura merita di esser notata, ma non si può interpretarla in modo plausibile, se non ammettendo in qualcuno de' Giudici, o de' loro auditori e segretarii, il gusto di possedere un'opera filosofica del Campanella, giacchè con la scorta dell'unico cenno datone nell'esaminare l'Alarcon si rileva che tale era detta scrittura. Vedremo infatti tra poco registrato in questo esame che essa, composta di 32 fogli, in carattere minuto e senza coperta, cominciava con le parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre, «ma che ne fece poi voi lo sapete»; donde si rileva che trattavasi delle due prime parti dell'Epilogo di filosofia, edito poi in latino dall'Adami nel 1623 col titolo di Philosophia realis epilogistica; e ci rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che se i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere, senza dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una scrittura, nella quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si trattava di Dio, di Dio creatore e della Provvidenza Divina, mentre il Campanella era stato incolpato di ateismo oltrechè di eresia: d'altra parte dobbiamo notare che il Sances e il Governo Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la detta scrittura, ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era tutt'altro che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.

Ben poco ci tratterranno le scritture del 2° gruppo, appartenenti esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola, in lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio istruzione di un dottore intorno al valore giuridico della tortura, che è dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico e di Farinacio e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far vedere che la tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre anche al delitto principale malgrado la protesta del citra prejudicium probatorum, poichè il Giudice rimane obbligato a punirlo con pene miti: vedremo poi come il Gagliardo profittò moltissimo di tale istruzione. Le rimanenti scritture, quasi sempre di una sola carta ognuna ed anche costituite da piccole cartoline, mostrano talora semplici ricette e disegni astrologici, talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per fare lo stagno, la tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi sono figure di circoli e pianeti, e il P.e Cherubino per queste come per la scrittura precedente dichiara «nihil contrà fidem». Vi sono d'altra parte segreti molto spesso ad amorem, con oscenità da non potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una scrittura tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza naturale, in più punti della quale son segnate certe parole, e qua e là, invocazioni di demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte queste scritture il P.e Cherubino dice «sapiunt haeresim manifeste». Tali furono le scritture dapprima raccolte, alle quali altre se ne aggiunsero ma un po' più tardi.

Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del processo. Il 1° marzo 1602 il Card.l di S.ta Severina scriveva al Vescovo di Caserta, che avendo fra Dionisio presentato memoriale, con cui esponeva essergli state tolte dagli ufficiali Regii le scritture della sua causa, ed essere state trovate in camera sua scritture cattive appartenenti al Bitonto, delle quali doveva rispondere il Bitonto e non esso fra Dionisio, S. S. avea ordinato che si procurasse di ricuperare le scritture delle cause di S.to Officio, e che si pigliasse la debita informazione contro il Bitonto od altri colpevoli per quelle scritture che risultassero cattive. In verità, come abbiam visto, il tribunale avea già procurato di ricuperare quelle scritture, ed anzi le avea ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato pensiero di restituire a fra Dionisio le scritture della causa, nè glie le restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente. Ma dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione prescritta, e dal 6 marzo al 1° maggio esaurì gli esami sulle scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata durante l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere intorno alle ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella causa principale, tollerando che il termine accordatogli fosse già scaduto. Diremo dapprima dell'informazione presa sopra le scritture.

Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi sempre innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e all'Auditore Peri, si venne agli esami de' testimoni e degl'interessati. Nella prima seduta del 6 marzo, si cominciò dall'interrogare il sergente Francisco Alarcon, il quale narrò minutamente la causa ed i particolari della ricerca fatta dal tenente del Castello e da lui nelle camere di fra Dionisio, di fra Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in generale di scritture trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso fra Pietro, e della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali poterono prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un altro frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva. Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da costui trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli non aveva nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed aggiunse, «se io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino trà le due porte, menata, per quanto si potte sospettare da me et dal tenente, dal fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre non mi confideria di conoscerle»; aggiunse ancora che, dopo la pacificazione di fra Dionisio col S.ta Croce e col Gagliardo dentro la Chiesa del Castello innanzi al P.e Cura chiamato D. Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea sottoscritta una carta nella quale si dichiarava che fra Dionisio non avea colpa in quella faccenda delle scritture. E mostratagli la scrittura di 32 fogli che cominciava con le parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre «ma che ne fece poi voi lo sapete», disse, «questa mi pare la scrittura che fù trovata al reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere del Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata dal fratello del Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non ci era coperta, però quello che si contenga in detta scrittura non lo sò perche non lhò letta». - Si passò quindi all'esame di fra Pietro di Stilo e mostrategli le 4 lettere che gli appartenevano, disse che erano state scritte di sua mano nella camera di fra Dionisio ma non ancora mandate, e riteneva essere state prese con le altre scritture. Dietro dimande spiegò che l'amico del quale si parlava in quelle lettere, raccomandando che si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio Prestinace, fratello di Suor Francesca e della Sig.ra Giulia, e genero della Sig.ra Porzia Vella; che non sapeva «la causa di che era inquisito e lo vero negocio», ma da carcerati suoi compatriotti aveva udito «che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa dela ribellione» (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo); che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con tanto calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente e parente di Gio. Gregorio, «procurava farlo pigliare ò vivo ò morto, perche li era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al vicere del Regno, et lhavea trattato lo fratello di Giulio contestabile, li quali tutti erano inimici del detto» (studiata confusione di due periodi diversi, e diffidenza non cessata mai; nominato il fratello di Giulio, invece di Giulio Contestabile, per riguardi facili ad intendersi). Dimandato se il Prestinace praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai il Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in presenza di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava e conversava come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne avea detto negli esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti de' quali avea parlato nella lettera alla Sig.ra Giulia Prestinace rispose, «sono secreti di taverna, che ogni uno che viene porta novelle di quello che sente, è le dicono quà in castello, et non so veri, et di questi secreti io scriveva» (accorta confusione di cose per non dare spiegazioni compromettenti). - Venne poi la volta di fra Dionisio. Egli disse che teneva le scritture, le quali gli furono trovate, in parte nelle sue tasche, in parte sotto la materassa, ma le scritture della causa erano state a sua dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la portò in camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero, suo nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene dal Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.ta Croce. Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano del Barrese, poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa al Castellano, e le scritture tolte da essa furono poi date a D. Gio. Sances e quindi portate in Castello dal Barrese, il quale glie le mostrò e voleva esaminarlo sopra di esse. Presentategli alcune scritture (quelle del 1° gruppo, escluse le poesie trovate a fra Pietro Ponzio), le riconobbe di mano del Gagliardo, ed una sola di esse, quella sulla musica, di mano del Pizzoni; riconobbe anche le scritture della sua causa, ed invitato poi a dare spiegazioni sulla lettera di Sertorio del Buono e massime sulla «natività» che costui gli chiedeva, rispose: «mi scriveva che io mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la quale mi cercò che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che havea inteso che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù in napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello, et che si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io non so che frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape fare, si ben lui diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa natività, perche io non so fare tal cosa». Nel rimandarlo, i Giudici ordinarono che gli fossero restituite le scritture della causa. - Il giorno seguente (7 marzo) fu esaminato fra Giuseppe Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto scritture ma solo qualche lettera, e con un poco di biancheria la teneva in una cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perchè nella camera di costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che mentre portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli in essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia, dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500 ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che fra Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti concernenti la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa fu presa dagli ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella quale il Soldaniero, il Gagliardo e il S.ta Croce vennero contro di loro frati «et li maltrattorno assai, con pugni, et con lo stregneturo (stringitoio, cinturone) et roppero la testa à frà Dionisio», la ricerca di scritture proibite fatta ad istanza de' tre sopramenzionati, come gli fu riferito da molti «et in particolare da Scipione medico di questo Castello» (già nominato anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della cassa che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che in detta cassa erano state trovate «la Clavicola di Salomone et altre cose di magarie», le quali il Gagliardo gli avea confessato esser sue, ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli dissero che avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il Gagliardo, costui gli rinfacciava di aver dovuto fare questo tradimento a' frati per servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo avea loro detto che era stato fatto concerto di porre le dette scritture sotto il capezzale del letto di fra Dionisio, ma poi aveano potuto riporle nella cassa (un mucchio di menzogne e una doppiezza veramente fratesca). Infine citò anche la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo su tale proposito (ma nella dichiarazione il Gagliardo non diceva che quelle scritture fossero sue proprie). I Giudici vollero allora che riconoscesse dette scritture, e mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse che «alli sigilli di pasta» che recava quella scrittura gli pareva essere l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che era di mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi parenti medesimi, i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto ad esso deponente che si era dato al demonio mercè una carta scritta col proprio sangue, e si trovava poi carcerato in Napoli per conto della ribellione; aggiunse che essendo stato durante un anno in Castello dell'ovo, il Castellano di quel tempo, a nome Figueroa, avea pure trovato presso di lui scritture sortileghe, come si era saputo da un soldato di detto Castello con la gamba di legno a nome Navarro, che era venuto a riscuotere da lui certo danaro per un letto datogli in fitto, ed avea detto di volerlo accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe che la Clavicola di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure tutte le altre scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate (quelle del 1° gruppo) insieme con la poesia «materno idiomate in octava rima»; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del quondam Pizzoni «quale si delettava di musica et ne sapeva molto»; e richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture, disse che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del Gagliardo, altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro Ponzio, ma più tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso deponente e a fra Paolo, trovarono entrambi «un libro stampato grande, in quarto foglio, di astrologia, con molti caratteri, et un pezzo di carta dentro, nel quale erano scritti secreti contra la corda con nomi di demonii, et ci era il nome di felice gagliardo, et questo libro e foglio, overo pezzo di carta, restorno in potere di fra Pietro Pontio». Infine gli fu mostrato anche il libretto di poesie «lingua paterna» (le poesie del Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.

Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla necessità di trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati Felice Gagliardo e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere stato carcerato in Castelvetere per un colpo di fucile tirato in rissa ad un suo cognato, e poi essere stato tradotto in Napoli per la causa della ribellione, dopochè Cesare Pisano, venuto nelle stesse carceri di Castelvetere e quivi visitato da fra Dionisio e dal Campanella, lo avea nominato in tortura qual complice nella detta ribellione. Chiesero allora i Giudici di che aveano parlato al Pisano il Campanella e fra Dionisio; ed egli rispose che aveano parlato segretamente, e non ne sapeva nulla, ma che fra Dionisio gli aveva poi detto che avesse dato credito a quanto gli diceva Cesare Pisano, e soggiunse, «io credo che mi volesse significare che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à prestarli dinari, di che ne hò fatto fede à detto frà Dionisio» (ben si vede che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno curarsi delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre dimande disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non avendo prima conosciuto nè visto fra Dionisio, costui avesse potuto dirgli che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, «lo detto Cesare havea detto che io era felice gagliardo gentilhomo di hierace, et cossì detto fra Dionisio me disse quelle parole»! Ma infine si venne alla faccenda delle scritture, e dietro varie dimande rispose, che ciascuno de' frati carcerati, co' quali si trovava di camera, aveva una cassa, ma egli non aveva nè cassa, nè scritture, nè libri, e solamente qualche lettera; che in luglio «perchè in detta camera ci entrava ogn'uno et non so che si perdío.... frà Paolo portò la sua cassa alla camera di Geronimo Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe (Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio»; che il Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture sigillate perchè glie lo conservasse, ed egli non sapeva che scritture fossero, ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano scritture proibite, senza manifestargli altri particolari sopra di esse, e che le avea fatte trovare in camera di fra Dionisio per rovinarlo, ond'egli ne avea rilasciata una fede, alla quale si rimetteva. Mostratagli questa fede, la ratificò, negando di sapere che specie di scritture fossero state trovate nella cassa. Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse parlato con lui di cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia a' superiori come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea parlato anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di Gerace, e il Vescovo quando poi vennero «li rumori universali di Calabria» mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua deposizione, con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi commesso dalla Sacra Congregazione di Roma e sollecitato dal Vescovo di Caserta l'esame di D. Pietro Manno in Gerace. - Fu quindi esaminato fra Pietro Ponzio, ed egli narrò il trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio, per furti verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in altra camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il Soldaniero e il S.ta Croce si erano concertati di far trovare le scritture proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in camera sua con la scoverta di un libretto di poesie che egli teneva sul letto, e di altre scritture che stavano sotto la materassa del Gagliardo. Riconobbe il libretto di poesie e disse, «è scritto di mano mia et è intitolato (int. dedicato a) francesco gentile, e son sonetti del Campanella e di diversi altri autori, che sono andato radunando, et vanno per tutta questa città di napoli». Fece avvertire che il Gagliardo soleva scrivere con caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto presso il Bitonto una carta con un circolo e un segreto «per havere una donna», che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di velluto. Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture, fra Paolo avea trovato un libro stampato di astrologia con un circolo e un segreto contro la tortura di mano del Gagliardo, e disse averlo letto insieme con gli altri frati e poi consegnato al luogotenente del Castello. Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto e sempre a danno del Gagliardo, contro il quale non agiva soltanto fra Pietro per iscagionare suo fratello, ma si erano rizelati senza ritegno principalmente i già suoi complici in materie sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la quistione delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.

Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra scrittura del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni scorsi avea veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla segretamente a un paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della Marchesa della Valle, carcerato per ordine della Marchesa e chiamato Nicolò, il quale avuta la carta venne a farla leggere ad esso Bitonto per sapere se poteva starci bene in coscienza, e udito che la carta recava la scomunica a chi la teneva, glie la lasciò. Ed esibì la strana scrittura a' Giudici, i quali la fecero unire con le altre scritture proibite. Dietro altra domanda poi disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di Condeianni, dimorante in Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto più volte nel carcere, ed avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era lamentato che gli avea fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto, aggiungendo che spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una volta «haveano fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et ossa, cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti, et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico di stignano» (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi). Aggiungiamo che la novella scrittura fu subito mandata al P.e Cherubino, che la qualificò col «sapit haeresim manifeste», e fu unita con le altre costituenti il 2° gruppo o gruppo delle scritture appartenenti al Gagliardo. - Frattanto venne subito chiamato Nicolò Napolella, giovane a venti anni, nativo di Napoli e paggio come sopra si è detto, il quale credè opportuno mettersi in assoluta negativa, onde il suo interrogatorio ci risulta un modello di pervicacia nell'inquisito e di pazienza ne' Giudici. Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il Gagliardo nel Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui; averlo visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con molti, «e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la mano»! Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai parlato di scritture nè chiesto consigli, aggiungendo, «faccionosi li fatti loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à queste cose». E i Giudici, «che dica chi sono quelli che lo voleno inbrogliare, et in che»; ed egli si fece allora a narrare che la sera precedente fra Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli di avere informato il tribunale del segreto per amore dato al Gagliardo e raccomandandogli di deporre che era vero, ed egli avea risposto «buono» (int. «bene», espresso alla spagnuola); poi l'avea condotto presso il Bitonto che gli disse e gli raccomandò la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma nella notte ci avea pensato meglio e si era deciso a non farne nulla, dicendo, «mi sono risoluto di non dannare l'anima mia». E i Giudici, «in che cosa si pensava di dannare l'anima sua»: ed egli, «in dire una falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire una falsità»! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità sul fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone Garzia spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto disse, «non è vero niente». - Immediatamente vennero esaminati i tre testimoni indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in quel momento medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata avuta da fra Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto che non sapeva tal cosa. Il dottore Calderon della città di Pax, di anni trenta, disse che nel passeggiare sulla loggetta col Garzia e col Napolella avea veduto fra Pietro accompagnato da un altro frate, chiamare il Napolella in disparte, parlargli segretamente e poi condurlo alla camera in cui stavano il Petrolo e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure la stessa cosa. - Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse che veramente avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro di Stilo, e l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno al segreto sarebbe stato certamente esaminato, e però attendesse a dire la verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto, perchè avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il quale gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.to Officio era stato obbligato di agire come aveva agito. - Ed ecco in iscena fra Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere il Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la faccenda del segreto, perchè «stando lui male con la Sig.ra Marchesa dela valle che havesse fatto casare lo figlio per via di magarie, si saria confermata in questa opinione et non l'haveria mai fatto escarcerare de Castello». Aggiunse aver visto la carta del segreto in mano al Bitonto, ed aver avuto preghiere da fra Paolo e dal dottore Calderon perchè facesse buono ufficio verso il Napolella acciò non fosse rovinato presso la Marchesa; aver avuto inoltre preghiera dal medesimo fra Paolo, perchè non facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il S.ta Croce, considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza grandissima al fatto in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta negativa del Napolella). - Infine fu esaminato anche il Bitonto, il quale confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di lui, ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del segreto, avrebbe manifestato la verità.

Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo meglio sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al Vescovo di Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere stato esaminato all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver saputo cosa si dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto bene); laonde supplicava Monsignore, che si degnasse «di restar servita di novo venirlo a saminarlo, che dirra la ystessa e pura verità come passa chi li ha dato detti scritti».

Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato dapprima il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e confessò di aver narrato al Gagliardo che «amava una donna ma non sapeva se si era dismenticata» di lui, onde il Gagliardo gli volle dare quel rimedio perchè la donna non se ne scordasse; e riconobbe lo scritto avuto e attestò di averlo mostrato al Bitonto e di averlo poi lasciato nelle mani di lui quando udì che recava la scomunica. Dietro dimande, disse che non in questa circostanza, ma fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo gli avea chiesto «un paro di calzoni usati per amor de Iddio» ed esso glie l'avea donati; che dopo il suo esame avea udito tenere il Gagliardo «mala fama di queste poltronerie». Infine scusò il non aver detto prima la verità, allegando l'essere «giovanetto di poca età... è travagliato di carcere longo tempo», e l'aver dubitato che accettando quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua. - Si passò allora all'esame di Orazio S.ta Croce, il quale, sempre dietro dimande, disse che era stato già carcerato in Siderno e a Castelvetere il 22 luglio 1599, per aver bastonato un tale che gli aveva uccisa una giumenta, e poi era stato incolpato della ribellione e tradotto in Napoli; che nelle carceri di Castelvetere udì esservi già venuti il 2 luglio il Campanella e fra Dionisio per far liberare Cesare Pisano; che costui parlava di cose contro la fede e tutti i carcerati ne presentarono memoriale al Principe della Roccella per mezzo di Mario Scadova carceriere. Inoltre che conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di Gerace, che non aveva mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni aveva udito che veniva processato «per fatochiaro». Ed avendo detto che era in grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite scritture (tanto del 1° che del 2° gruppo), e le riconobbe tutte di mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli veniva mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella contenente la poesia in dialetto calabrese, a proposito della quale disse crederla di mano del Gagliardo «tanto più che lui fà professione di fare versi è sonetti volgari» (non gli fu mostrata la scrittura contenente il segreto dato al Napolella, forse perchè era stata trasmessa al P.e Cherubino, ma intanto per tutte le altre potea dirsi decisivo il giudizio del S.ta Croce, uomo competentissimo e non sospetto). - Si continuò ancora l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio. Si volle sapere da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era a sua notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra Dionisio, cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono. Gli furono quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di mano del Gagliardo (come si era fatto pel S.ta Croce), ed egli confermò che veramente lo erano, escludendone solo quella sulla musica che disse di mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto delle poesie trovate a lui, quelle del Campanella, ed in ciò importa conoscere la dimanda e la risposta testualmente. «Et dimandato alcuni sonetti che stanno scritti al libro n.° septimo, che sono maledicenti, altri che trattano di cose oscene (sic), et ci sono alcune cose scritte à donne amate che sapiunt idolatriam, da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.t io un altra volta me ricordo di havere deposto che ad instantia di francesco Gentile haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli quali parte mene havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so l'authore, et alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.ra Maria et alla Sig.ra donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri carcerati, li quali dicevano che erano stati composti da frà thomaso Campanella, et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio de rinaldo calandoli con uno filacciolo dala fenestra del torrione, et che depoi la morte di Mauritio lhavea dati alli altri carcerati uno Cesare forse che havea servito detto Mauritio, et altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de pizzone» (il Vescovo di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore peggiorato, e fra Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi, massime perchè composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in dubbio l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti). Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al Napolella delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto l'obbligo del silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo zelo di carità, e il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli avesse detto il vero intorno alla scrittura data dal Gagliardo al Napolella. - Da ultimo fu esaminato anche fra Paolo della Grotteria il quale disse di non conoscere il carattere del Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con lui, comunque egli dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta la notte (negativa tirata un po' troppo). Dietro dimande, attestò che il Gagliardo avea pessima fama, dicendo, «et ognuno se ne lamenta e ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere molte cose de fattochiarie»; attestò ancora che la cassa trovata nella camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto, «che nella ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte scritture furono trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e andati via gli Ufficiali il Bitonto trovò a terra un libro e disse dover essere quello il libro che il Gagliardo dolevasi di avere perduto. Così mentre il Bitonto deponeva che il libro era stato trovato da fra Paolo, costui deponeva essere stato trovato dal Bitonto, e tutto induce a far ritenere che il libro stava nelle mani di entrambi, come pure che il Gagliardo avea bensì copiate di sua mano le più notevoli tra quelle scritture, ma in servigio specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto interesse e le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si riuscì a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche, fino ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della causa principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.

Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il Figueroa già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato del medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al Gagliardo anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più dimorante nel Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si curò di comparire; laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di Caserta ed intimata dal cursore una nuova citazione in iscritto esistente in processo, con monitorio di dover comparire l'indomani personalmente sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda, e malgrado ciò anche questa volta egli non comparve. Ma comparve il Navarro e poi il Figueroa (20 e 22 aprile). Francesco Navarro, di Montbeltran nella nuova Castiglia, disse aver conosciuto il Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato nel Castello dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel tempo certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano Figueroa. - D. Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella Nuova Spagna, disse di aver tenuto carcerato nel Castello dell'uovo il Gagliardo, e perchè era molto inquieto, avere ordinato che fosse chiuso in un criminale lui ed anche Orazio S.ta Croce; narrò la ricerca di scritture fattagli dietro avviso di altri carcerati, e la scoverta di molte carte di negromanzia, per le quali fece relazione a D. Gio. Sances, non nascondendo che alcune di quelle scritture furono prese dall'Auditor Moccia, ed altre rimasero presso di lui, le quali offrì di esibire al tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro altra dimanda disse che il Gagliardo avea «molta mala fama e di huomo pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li havea fatta una scritta col suo sangue». - Venne poi finalmente ridotto anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di Caserta ordinò contro di lui una nuova citazione per sentirsi dichiarare scomunicato coll'affissione de' cedoloni, e non avendo il Moya neanche questa volta obbedito, il 29 aprile lo dichiarò scomunicato, ordinando che fosse come tale pubblicato mediante i cedoloni affissi ne' luoghi pubblici della città, dandone all'uopo la relativa bozza. Ed ecco, affissi i cedoloni, immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta, il 1° maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S. Anna di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed anche i domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente l'assoluzione per avere parlato con lui ne' due giorni ne' quali egli trovavasi scomunicato. Ben poco intanto ci tratterrà il suo esame che fu raccolto dal solo Notaro Prezioso. D. Cristofaro de Moya, della città di Mensiner nella nuova Castiglia, narrò l'istanza fattagli da un carcerato calabrese, di cui non si rammentava il nome, perchè avesse proceduto ad una ricerca di scritture proibite nella camera e cassa di fra Dionisio; la ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon, dal carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si rammentava in particolare; la presa della cassa che fu portata al Castellano; e la scoperta di altre scritture in essa contenute; infine la sua andata al Vicerè con le scritture raccolte, per ordine del Castellano, e tutti i particolari che su questo proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro dimande, disse di non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di avervi visto disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di avere udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, «che erano cose di fattochiarie»; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle scritture venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale fra Dionisio fu ferito nel capo. Mostrategli le scritture, riconobbe i circoli e la mano disegnata che altra volta avea visto, e cadendogli sott'occhio il libretto di poesie (le poesie del Campanella) disse, «et questo libro ancora riconosco che portai al vicere con l'altre scritture, et lo riconosco alla coperta, et alle zagarelle, benissimo». Notiamo che nulla egli accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra della camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.

Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances, avea subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo nel Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.e Cherubino le aveva immediatamente qualificate con una sua relazione in data del 24 aprile, e il tribunale, costituendone un 3° gruppo, le avea fatte riunire alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare indebitamente il volume delle così dette scritture proibite trovate nella cassa di fra Dionisio Ponzio, tanto più indebitamente perchè non erano punto proibite, riguardando tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si studiò di non consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta, e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione, sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica.

Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una piena conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute in sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro Veronese padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio 1600; con essa il Veronese gli dà notizia della salute della moglie, sorelle e madre, lo eccita «a far cose honorate», e riverisce il Signor Orazio (S.ta Croce) dal quale ha avuta una lettera, come pure i due fratelli Moretti. Segue una lettera di Marcello Gagliardo, scritta da Gerace il 12 9bre 1600 forse ad Orazio S.ta Croce (manca la carta della soprascritta); e in essa si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta di un invio di danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte del Principe (il Principe della Roccella che era Signore di Condeianni) etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta da Gerace il 14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di aver visitato il figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà notizia della salute de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig. Orazio (S.ta Croce) «et tutti quelli Signori», e gli partecipa che a Gerace «fu amaczato gelonardo regitano come vile». Questo disgraziato verosimilmente apparteneva alla famiglia del cognato di Felice Gagliardo a nome Francesco Regitano, che il Gagliardo avea ferito con un colpo di fucile, causa della sua carcerazione; l'essere stato ammazzato come vile, nel gergo de' facinorosi ancor oggi in uso, vuol dire che era stato ammazzato per non aver saputo tacere sulle mosse loro. Pertanto a siffatto annunzio esulta il Gagliardo e scrive una poesia in dialetto calabrese, intitolata «Capitolo delo scaduto», che rappresenta un'altra delle scritture raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per saggio:

«Piangia Geraci, hor ridarà eterno,

per ch'e guarito delo antiquo mali,

hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.

Ridi Siderno, che Matteo Spetiali

dessi li cunti à lo amaro scaduto

ridimu tutti, riditi ho (sic) Casali.

Non darà parapezzi lu tributu,

no sarà chiu Brombaci assassinatu

hora che fu amazatu stu fallutu.

Tu Condianni statti arritiratu

e fa allegriza d'ogni cantu e locu

chi li frutti anderanno à bon mercatu.

E' vui massari fati festa e giocu

cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),

hora che Riggitan' e intra lu focu» etc.

E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha ucciso; e il P.e Cherubino, che in tutte le scritture del presente gruppo non trova «nihil contra fidem vel bonos mores» definisce la detta poesia «una facetia ridiculosa», mostrando bene che pure i Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del tempo. Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al Gagliardo, l'una scritta «dala per me oscura selva li 22 di xbre 1600», l'altra da Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio 1601: sono due lettere brigantesche, atte a chiarire molto bene i procedimenti de' fuorusciti di que' tempi, e massime a tal fine ci è parso bene riportarle tra' documenti. D. Giuseppe di Capoa, come si rileva dalle lettere, era un capo di fuorusciti con 43 compagni, tra' quali Luzio fratello del Gagliardo ed altri «amici sui et del Sig.r Veronese che li comanda», tutti del resto in relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata, dopo il 12 10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace senza saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e figlio, teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde scriveva al Gagliardo, «ho dato licenza a Caporale Giulio et compagni per haver fatto un atto brutto, che si unirno con minichello et lutio il vostro, et hanno boscato molti migliara di scuti et volevano dar parte a me, ma per nessuno modo la volse, che tant'anni sono in campagna ho vissuto con le mie intrate, ne habbia dio ordinato tal furfanteria». Poi agli 11 gennaio, dietro la persecuzione da parte di un Auditore che faceva ogni sforzo per prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48 compagni erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di dove scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora raccomandava la lettera propria ad un tale, che non è nominato, con queste parole caratteristiche, «la gentileza d' V. S. et la protetione che come Cavaliere Cristiano tine (sic) de miseri gentilhuomeni travagliati attortamente dalla fortuna et dalla giustitia ne danno animo». Il Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe che presto sarebbe uscito dal carcere, che un Cavaliere suo amico, in procinto di ottenere la commissione di capitano, aveva offerta a lui l'insegna (il posto di alfiere) per arrolar gente, che tutta la banda avrebbe potuto andarsene con lui alla guerra; e D. Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i suoi compagni, aspettandosi di essere guidato per questo, come allora si usava, e faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli sei canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, «tutto quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il cervello suo balzano et non con consiglio di amici»; poi, all'ultima data, s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua parola se fra un mese il Gagliardo non avesse l'insegna, sottoscrivendo la lettera insieme con altri compagni, «Lutio Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi alias il Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura». Non sapremmo dire se la proposta di andare alla guerra, fatta dal Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma dobbiamo attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si trovava pure carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro Piccolomini, 5° Duca di Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12 anni di carcere per parte del Governo Vicereale ed una condanna a 10 altri anni da doversi espiare nel Castello di Aquila, dopo di avere avuto anche un processo di S.to Officio, per bestemmie ereticali e ricerche di segreti e sortilegi, finito con la condanna all'abiura e ad un anno di carcere, chiedeva allora appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo di andare a servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia dal Conte di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con rescritto del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto offerto il posto d'alfiere al Gagliardo. Ad ogni modo riesce maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima liberazione, mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In ciò bisogna vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono egualmente un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo che dobbiamo ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di commedie (oltre una storia di S. Agata e S.ta Dorotea e un principio di racconto mitologico), che si mostrano infiorati di concetti non ispregevoli, certamente raccolti da trattati di siffatta materia, e che potrebbero pure rappresentare semplici ricordi di prologhi composti da altri e da lui recitati, ma sempre scritti col colore locale e con que' suoi curiosi modi calabresi. Vi è poi una Lettera in versi italiani, in cui finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per averla udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in libertà, e finalmente rimastane ingannata, perchè egli con la scusa di andare a visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito per la Calabria; una specie di Didone abbandonata, invano confortata dalla sua nutrice Tolla (a que' tempi vezzeggiativo di Vittoria), che sfoga il suo affanno, e narra e rampogna e prega il seduttore che ritorni, stemperandosi in oltre 300 endecasillabi, qualche volta zoppi, non di rado privi di senso ovvero sconnessi, ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti «Al S. F. G. dela C. di G.» (evidentemente Al Sig.r Felice Gagliardo dela Città di Gerace).

«Questi mesti sospiri è questi versi

da le mie proprie man vergt' e scritte (sic)

coss' cantando, e sospirando muore

del bel Meandro in su l'herbose rive

il bianco Cigno à la sua morte appresso

se cancellanti (sic) e malamente intesi

seranno i tristi miei dolenti versi

fia solo (oime) perche sarà la carta

dal proprio sangue mio machiata e lorda

allor dovean l'invidiose parche

che dispensan l' vite de i mortali

haver finito d'avoltare il fuso

lo stame di mia vita all'hor potei (sic)

chiudere in bella et honorata sera

i miei sì belli et honorati giorni

quando te vidi in quella Real Sala

rapresentare in detti versi belli

il pastor Ergasto».......

E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche a dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.e Cherubino dichiarò questa scrittura «litera amorosa... simpliciter enarratur amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae aliquo modo sapiant haeresim». Ci resta infine a menzionare ancora un'altra lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in caratteri molto grossi segnati con la matita o forse col carbone, da uno che stava nella segreta, in questi termini: «Patron mio V. S. me mandi per il Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa che non so quello mi fare il giorno, mandatime si avete alcuno altro spassatempo, il grinto voli ch'io amo scosse che vostra Matri ami o la cara del Carpio et il carniero del barone (gergo di convenzione tra carcerati), avisatime alcuna cosa et dite al Sig. Scipione (Scipione Moccia Auditore del Castello), e al sig. Gio. Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme con il Sig. Castellano farne uscire de qua o farme unire con mio Compare» (notiamo che Orazio S.ta Croce dicevasi compare del Gagliardo e trovavasi allora egli pure in segreta). - Così uno de' «passatempi» del Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e tutto ciò che di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo giovane a 22 anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi realmente, nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo, di venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande circospezione.

Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.to Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar notizia di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo, singolarmente poi di questo che ci fece avere le Poesie del Campanella, ma anche per mettere in luce tutti gli elementi capaci di farci intendere le qualità del Gagliardo. Aggiungiamo che i colpevoli delle scritture proibite pervennero con le loro deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle precisamente del Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo: fu dunque stralciato questo carico dal processo principale e riunito agli altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo secondario contro il S.ta Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr. pag. 239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo qui, che contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale, poichè non lo troviamo esaminato ulteriormente; contro il Soldaniero, non avendo lui osservato l'obbligo di rimanere in Napoli ed essendosene partito per la Calabria, si prescrisse una apposita informazione, si confiscò la cauzione data, si ordinò a' Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a comparire fra tre giorni, sotto pena di essere dichiarato scomunicato oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, e fu carcerato di nuovo in Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne con comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la sua liberazione, impedita dall'empara interposta dal S.to Officio, e l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro prestata da un Michele Cervellone palermitano. In tal guisa rimasero sotto il processo già istituito i soli S.ta Croce e Gagliardo. Si ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio, cominciando dal S.ta Croce, il quale si ricorderà che fin dal marzo era stato già esaminato intorno alla rissa e alla ferita inflitta a fra Dionisio (ved. pag. 241-42). Egli fu questa volta esaminato intorno alle cose della fede, e disse che si trovava «lo più maravegliato huomo del mondo» per tale imputazione, negando ad uno ad uno tutti i capi di accusa e qualificandoli invenzioni de' suoi nemici, vale a dire de' frati ed anche del Martines, al quale egli avea «fatto perdere le chiavi» perchè convivea pubblicamente con la cognata nel Castello ed angariava i carcerati con le estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene in Calabria «li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo diavolo, tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono», ed espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva, ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia, come le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto alla Messa. Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il Bitonto, che ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure cattive informazioni sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.ta Croce fu, come allora dicevasi, «abilitato» ad uscire dal carcere, coll'obbligo di tenere per carcere il domicilio che avrebbe indicato in Napoli e di dare per questo una cauzione di 25 once d'oro, che fornì un Rev.do D. Marcello Palermo (18 e 23 luglio): in sèguito trovò più comoda per lui una casa «nel fondico d'Eliseo alla carità dove si dice la pigna secca», e si rinnovò l'obbligo impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi che per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito D. Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col termine di due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto): ma egli espose che tutto procedeva dalle inimicizie capitali contratte, con Alonso Martines per avergli fatto perdere l'ufficio, co' frati in generale a motivo della rissa, col Bitonto in particolare «perchè mandato da fra Dionisio alla casa di esso comparente fu, insieme coll'altro, autore di farlo trovare inquisito di ribellione»; e però dava la ripulsa a tutti i testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti medesimi (12 settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora il Martines già carceriere, il quale confermò le accuse principali, senza punto mostrarsi nemico del S.ta Croce. Ma costui, prima che la causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria, come spessissimo facevano gli «abilitati», lasciando i fideiussori alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un cespite ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal Prezioso, per commissione del Vicario, Lucrezia Papa l'albergatrice con altre due donne (17 novembre), ed accertata la fuga del S.ta Croce venne «incusata» la cauzione e carcerato D. Marcello Palermo, il quale, per la fideiussione prestata e per qualche altro conto che dovea saldare, riuscì appena a liberarsi nel principio dell'anno successivo, sborsando D.ti 30, avuti, come egli disse, «per carità d'alcuno timoroso d'Iddio». - Quanto al Gagliardo, le cose andarono molto più in lungo, poichè si era commesso al Vescovo di Gerace l'esame di quel D. Pietro Manno, che egli avea nominato qual suo confessore pel tempo in cui trovavasi nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e gli Atti relativi a tale commissione, benchè compiuti con la maggior sollecitudine, giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima del 1603, ed il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente dal maggio 1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il Gagliardo continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione data a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale, non mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel tempo, fra Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente quest'ultimo cercò di scusarsi mercè una serie di garbugli sostenuti con una improntitudine singolare. Narrò che al tempo del suo primo esame que' due frati gli consigliarono di negare ogni cosa, perchè altrimenti sarebbe stato bruciato dal S.to Officio, ma volendo ora manifestare la verità, riconosceva che quelle scritture erano di mano sua nella più gran parte, avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del Pizzoni (il morto), i quali gli davano in compenso un carlino al giorno e gli dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le scritture, indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti di esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi restituito l'originale; ammise che la carta data al Napolella era stata scritta da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale diceva essere un segreto contro la corda che volea mandare ad un suo amico, e poi gli «fece il tradimento» col sedurre il Napolella e suggerire a costui un secondo esame in contradizione del primo, acciò apparisse che era un segreto di tutt'altro genere avuto da esso Gagliardo, aggiunse che il Bitonto gli era divenuto nemico, perchè amoreggiava con una donna la quale stava sotto la loro carcere e corrispondeva con loro per un buco fatto al pavimento, ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso quella donna, e infine tutto era stato inventato da' frati, perchè egli si era esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver segreti per corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la suocera e la sorella della suocera trovando più dolce il concubito con le persone parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè (giusta le accuse originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio); negò inoltre di aver mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano erano state annunziate nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i capitoli del fisco, e gli fu assegnato il solito Avvocato Cracco; ma rinunziò alle difese, ed innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii, Graziano e Palumbo, sostenne un'ora di corda senza rivelar nulla, onde fattane relazione a Roma, coll'assenso della Sacra Congregazione fu decretata per lui l'abiura de levi, l'imposizione di alcune penitenze salutari, e il rilascio in libertà dietro fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città di Napoli. Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once d'oro Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi dire già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro la grave tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi superfluo dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma avendo poi là commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e quivi giustiziato due anni dopo, e in tale occasione venne a trovarsi di nuovo alla presenza del S.to Officio, avendo voluto fare una deposizione in disgravio della sua coscienza; questa deposizione, molto importante per noi, ci darà ancora motivo di parlare di lui.

Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene dire, che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse per loro la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di Calabria, ed attesa fin dal settembre dell'anno precedente; ma non ci volle poco per ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte. Si era in marzo 1602; sapevasi che 200 Ducati erano giunti a Napoli con lettera di cambio nelle mani di un frate del convento di S. Domenico, e questo frate non compariva: il Vescovo di Caserta, in data 23 marzo, mandò un precetto al P.e Arcangelo da Napoli priore di S. Domenico, perchè sotto pena di privazione del suo ufficio nel presente, e d'inabilità a qualunque altra dignità e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in quel medesimo giorno il frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse una fede dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S. S. in Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo bisogno che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23 maggio. A questa data il Vescovo di Caserta emise i primi ordini di pagamento, ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui girata tutta la somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte della Pietà; nella stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo fino al 9 giugno 1604, giorno in cui stava ancora in cassa un piccolo residuo della somma, e i frati reclamavano, il Vescovo ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu bisogno di un ordine al Prezioso sotto pena di scomunica ipso jure incurrenda! Tutti gli ordini di pagamento, le copie delle polizze di Banco, i ricevi di ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti, ed anche i memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo, che rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di un'importanza grandissima: poichè esso non ci mostra solamente come e quando il danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa conoscere le miserevoli condizioni de' frati e la condizione speciale del Campanella, il quale fu sempre riguardato qual pazzo, sicchè dapprima fra Pietro Ponzio e poi fra Pietro di Stilo riceverono per lui la rata che gli spettava; inoltre ci fa conoscere la data delle vicende successive de' frati rimasti in Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio fu rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso non fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la massima parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8 ducati, poi 2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato fra Pietro Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non averne bisogno; fu anche pagata in due rate una somma per medicinali forniti a fra Dionisio infermo dallo speziale del Castello Ottavio Cesarano, ma una somma di D.ti 14 e tarì 2 fu data al Prezioso per la copia degli Atti offensivi e difensivi mandati a Roma, ed anzi il primo ordine di pagamento fu per questa somma. Un ordine simile da parte del Vescovo di Caserta risulta indubitatamente biasimevole sotto tutti gli aspetti: egli non prese in benefizio suo, come avea già fatto altra volta fra Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma che doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche di un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno antecedente. Le prescrizioni erano: che per le cause del S.to Officio non si esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero anche gratis a Roma gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il Vescovo di Caserta non poteva ignorarlo.

Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire le ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il tribunale non lasciò di provvedere intorno a queste difese durante l'informazione sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio 1602 aveva assegnato a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di 15 giorni; ma fra Dionisio chiese che gli fossero prima date le copie degli esami de' testimoni, come pure che gli fosse assegnato un Avvocato e procuratore, che fosse esaminato di nuovo il Petrolo, che fosse presa informazione sulla ritrattazione fatta dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo, quando fu chiamato all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò tali dimande con una comparsa e protesta scritta esistente in processo, dimandando di più che prima si vedesse nel tribunale «caritativo e santo dell'inquisitione» la falsità de' testimoni a suo carico, avendo questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione, ciò che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la potenza del fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero, contro cui nella stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte del Gagliardo, del Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.ta Croce, attestanti quasi tutte, che le scritture proibite erano state fatte trovare nella camera di fra Dionisio per astuzia del Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale assegnò per Avvocato il Rev.do Attilio Cracco, ordinò la consegna della copia degli esami testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio e prescrisse al Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a' Giudici, nel palazzo del Nunzio, ad dicendum. Il 30 marzo, non appena intimato questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a' Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui, poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle scritture proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere, impedì a' Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte fra Dionisio, il 15 aprile, presentò una nuova comparsa, per chiedere copia di altri esami che non trovava fra quelli consegnatigli (l'esame del Soldaniero in Gerace, e quelli del Priore e del Lettore di Soriano), come pure «lettere e monitorii contro coloro che tenevano o in qualsivoglia modo conoscevano la ritrattatione fatta dal Pizzoni»; nè prima del 19 aprile furono da lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti di sua mano, ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra questi articoli. L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che fra Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia degli esami consegnatigli, perchè verificata la mancanza di quelli nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra due giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea dimandate le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il 24 aprile, e con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami già consegnati e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati: infatti si vede nel processo registrata la consegna de' documenti mancanti, tra' quali pure la confessione ultima di Cesare Pisano in punto di morte, che fra Dionisio richiese posteriormente, ed inoltre si vede registrata una seconda consegna finale di tutti gli esami raccolti a tempo del Vescovo di Termoli; la prima consegna reca la data del 31 aprile, la seconda quella del 18 maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero esser pronti, e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.

Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di tre. Col 1.° egli affermava che il Pizzoni venendo a morte, per disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e diverse persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio e di ribellione, ed avere solamente aspettato, per ritrattarsi, che fosse posto in carceri ecclesiastiche. Col 2.° affermava che il Petrolo avea dichiarato ad infinite persone volersi ritrattare su quanto avea deposto contro fra Dionisio ed altri in materia di S.to Officio, voler mostrare tutta la radice della falsità del processo, ed avere perciò fatto due volte istanza a' Sig.ri ufficiali di essere riesaminato. Col 3.° affermava che Giulio Soldaniero «per dar credenza alle falsità da lui deposte contro esso fra Dionisio» avea fatto mettere scritture proibite in una cassetta dentro la sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli ufficiali, onde egli era stato chiuso in un torrione per sei mesi e il Soldaniero l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli semplicissimi evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita; ed ecco i testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.°, Alonso Martines olim carceriere (era stato licenziato, come si è detto altrove, appunto nel maggio), il dot.r Michele Caracciolo, D. Francesco di Castiglia, il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso Blanch), il clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il D'Azzia era stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu scartato dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il Blanch, il D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato del Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul 2.° articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il cav.re gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il Petrolo; ma tra questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse solamente il Petrolo e il Capece. Sul 3.° articolo era riprodotta la dichiarazione scritta di Felice Gagliardo ed altri, coll'istanza che fossero esaminati i dichiaranti nel caso in cui non lo fossero stati ancora; ma il Vescovo di Caserta li ritenne già esaminati (la qual cosa era vera per alcuni e non per tutti) sicchè di tale articolo non si parlò più. - Vogliamo intanto, giusta il nostro costume, dar qualche notizia delle persone de' testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile in questo momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come pure del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti ma un po' troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare d'Accetto, le scritture della Cappellania maggiore che si conservano nel Grande Archivio, ed egualmente i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno conoscere i punti più notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense nel Sorrentino, ed a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano della Chiesa del Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa, dietro un processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore col titolo De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis: pertanto nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo, per l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea sposare una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e fu trovato ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già in funzione di P.e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto limitato, come lo mostrano gli Atti del processo del Campanella ne' quali prese parte, non apparisce punto inframmettente, e nel tempo di cui trattiamo tirava innanzi con una licenza annuale di poter confessare e amministrare gli altri sacramenti nel Castel nuovo, al pari di tutti gli altri ecclesiastici dello stesso ordine, mentre anche il Cappellano maggiore, D. Gabriele Sances fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti temporanei da parte di Roma, in seguito di una fiera lotta giurisdizionale allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno seguente, anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui era della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per questa ragione meno gradito: infatti non divenne P.e Cura che verso il 1609, mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del Cappellano maggiore in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de Magistro napoletano, «precedente (dice il decreto) la nomina nobis fatta da Maria de Mendozza moglie e procuratrice di D. Alonso de Mendozza Castellano del d.° Castello»; fino a tale punto si estendevano le ingerenze delle mogli de' Castellani. Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio. Tommaso Blanch, come leggesi sotto la sua deposizione. In questa egli si disse figlio del Barone di Olivito (int. Oliveto) dell'età di 19 anni, carcerato da oltre 13 mesi per un «preteso insulto» in persona di Ottavio Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari e sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto. Era uno de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2° Barone di Oliveto, e di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò moltissimo nella carriera militare: il terzogenito di costoro, Alfonso Blanch, si distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte e morì in Fiandra, nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi ordini il fratello Mario cavaliere gerosolimitano, che fu poi ucciso da' vassalli in Oliveto; il De Lellis non parla di questa brutta fine di Mario, ma ne parla il Nunzio nel suo Carteggio, perocchè il principale tra gli uccisori fu un clerico, ed opponendo le solite difficoltà delle prerogative ecclesiastiche il Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più anni, finchè il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere e sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso Blanch, entrambi clerici per poter godere delle prerogative ecclesiastiche, gli fecero «un brutto assassinamento con ferite et in casa propria» secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il disgraziato dottore, un po' troppo tardi, si munì di licenza d'arme «con 4 suoi creati» come si legge ne' Registri Sigillorum . Vincenzo Blanch riuscì a mettersi in salvo, ma Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere la remissione al foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo, quanto Gio. Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele, finirono con abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti. Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso, divenuto Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di Vercelli, fu promosso Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna Gattola: ma al tempo del quale trattiamo, essendo giovanissimo e spensierato, non farebbe meraviglia se si fosse accordato co' frati per assumere la parte che rappresentò nell'informazione della quale andiamo ad occuparci. Rimane a parlare di Gio. Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23 anni, trovavasi imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già due volte avuta la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a lui un documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i Giudici menomamente.

Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati tutti i testimoni. D. Francesco di Castiglia depose aver veduto il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere Martines insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere udito dal Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi esaminato contro fra Dionisio e il Campanella perchè così gl'impose un monaco di cui esso deponente non ricordava il nome (fra Cornelio), a fine di declinare la giurisdizione laica e liberarsi; che perciò ne avessero fatta testimonianza scritta, avendone lui già discorso col Curato e con altre persone, ma esso deponente non volle intrigarsi in questa faccenda, tanto più che il Pizzoni diceva esservi altre persone che lo sapevano. Dietro dimande aggiunse che non era stato ricercato da fra Dionisio nè da alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza, e non ignorava quanto importasse far testimonianza falsa specialmente in materia di S.to Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle dichiarazioni di volersi ritrattare fatte dal Petrolo. - Si passò al Blanch, il quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo, richiesto dal Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perchè il Pizzoni volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria e in Napoli contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al foro temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia, ed aver udito dal Pizzoni che erano attesi perchè volea si facesse detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo) e sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con la mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda aggiunse aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea dichiarato voler ritrattare le sue deposizioni contro il Campanella e fra Dionisio, le quali erano false, ed aver presentato per questo un memoriale al Nunzio ed un altro al Papa; aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni dopo fatta quella scrittura, la quale rimase in potere dello stesso Pizzoni, che volea darla al suo confessore perchè fosse presentata. È da notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del Castiglia in quella circostanza. - D. Gaspare d'Accetto depose non aver mai trattato nulla col Pizzoni nè prima nè dopo l'infermità da cui fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al ritorno aver trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile che Don Francesco della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio di Curato, sapesse qualche notizia della dichiarazione per cui veniva interrogato. - Gio. Francesco d'Apuzzo disse essere stato condotto dal Martines presso il Pizzoni insieme col Blanch, e non ricordarsi bene se il Castiglia fosse venuto con loro o si fosse trovato già nella camera del Pizzoni; avergli il Martines detto che il Pizzoni si volea ritrattare per disgravio di coscienza e che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a scrivere quanto il Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò che avea detto contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia di eresia come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal Blanch e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), «atteso francesco de Castiglia non ci si volse intromettere», ed essere rimasta quella carta in potere del Pizzoni, che diceva volerla dare al suo confessore. Dietro dimande aggiunse essersi lui offerto di fare questa deposizione, ed esserne stato quindi ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre avere più volte udito dire dal Petrolo che si volea ritrattare di quanto avea deposto, e che avea dato più volte memoriali a questo fine. - D. Francesco della Porta disse aver confessato il Pizzoni solamente pochi giorni prima che morisse, avergli anche amministrata l'estrema unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra loro, essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio. - Fu poi esaminato il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi, espressa e comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima deposizione che egli fece: «Signori, la verità è che io non posso vivere in queste carceri alle persecutioni che mi fanno li frati, non solo li carcerati, et altri dela religione, mà hanno sollevato tutta la Calabria contra di me, con dire che io habbia infamata la provintia è la religione con quello che hò deposto, et che per ciò io per defendermi et mantenermi, vado dicendo con li carcerati è con altri per posser vivere con poco di quiete, et per non essere offeso, che mi voglio retrattare sempre che haverò commodità, per mantenerli così in speranza perche non mi offendano, mentre stò quà, et anco che non facciano offendere li miei in Calabria, mà la verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo mettere ad effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor Vescovo di termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et per questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria dela vita et dell'anima». E i Giudici ordinarono che di questa deposizione non si rilasciasse copia. - Infine fu esaminato il Capece sul 2° articolo, sul quale era stato dato per testimone, vale a dire sulla volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a più persone; e il Capece depose non saperne nulla.

Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata utilissima egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il 3.° articolo non era neanche messo in discussione; il 2.° articolo provocava la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita; il 1.° articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni del Curato e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia. Da questo lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale veramente avrebbe potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò abbastanza impacciato nella sua deposizione; ma ad ogni modo attestò il fatto essenziale, e non si comprende come i Giudici non si fossero creduti in obbligo di udire su quel fatto il Martines ed anche il Domenicano confessore del Pizzoni, che avrebbero potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia bisogna ricordare che si era avuta una dichiarazione scritta per conto del Pizzoni vicino a morire, avendo lui voluta sgravare la sua coscienza per quegli scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati (ved. pag. 200); e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza, se veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto fra Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del Pizzoni, che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno a quel fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro di Stilo, che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle persone di casa Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno del tormento per confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere nell'accusa di falsa testimonianza col disdirsi, o veramente la sua coscienza non gli permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce difficile non abbracciare questa seconda opinione; ad ogni modo egli non si disdisse nè sulla ribellione nè sull'eresia come si era sperato. Quando le copie degli esami raccolti furono date a fra Dionisio, costui, non trovando quella dell'esame del Petrolo, potè capire come la cosa fosse andata: non di meno il Campanella, dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più tardi nella Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che «fatto poi processo nel S. Officio... tutti li testimoni si ritrattaro in utraque causa», come pure che «li monaci fur in S. Officio ritrattati o convinti di falsità». Per lo meno il Campanella non fu bene informato: solamente il Lauriana fu sufficientemente provato falso testimone, ma il Pizzoni e il Petrolo, i due testimoni davvero gravi per lui, non si poterono dimostrare ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare quanto la cosa debba dirsi importante.

Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non fu eseguita prima del 18 giugno. Per l'abitudine poi di quel Vescovo di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi, la causa de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto si procedè a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo memoriale al Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di Caserta (20 e 28 agosto) reclamò contro l'empara interposta dal S.to Officio alla sua liberazione mentre era stato «liberato dalle altre cause», e supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario emise l'opinione che fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e il Vescovo emanò da Caserta un decreto per l'abilitazione, la quale fu accolta anche dal Nunzio e dal Vicario generale Graziano e subito eseguita, con la fideiussione prestata dal padre del Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli sotto pena di D.i mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella quale fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a S.ta Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava coloro i quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in Caserta, il 30 agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e dei suoi colleghi, perchè fosse citato fra Dionisio ad dicendum nel palazzo del Nunzio, dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata spedita la causa nella sua prossima venuta a Napoli. Quest'ordine singolare, con l'assegno di un giorno non determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle ingiunzioni che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del Nunzio che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio l'andamento del tribunale di S.to Officio, ed ogni qual volta ne vedeva sospese le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2 agosto il Nunzio scriveva al Card.l Borghese (successo nelle cose dell'Inquisizione al Card.l di S.ta Severina morto il 1.° giugno 1602), che più volte il Vicerè gli avea ricordata la spedizione de' frati inquisiti di eresia «per che poi si potesse spedir anche il negotio della Ribellione trattato son già circa due anni», e il giorno precedente gli avea pure fatto scrivere dal suo Segretario Lezcano un biglietto in tale proposito; laonde pregava che si desse ordine a Mons.r di Caserta di mandare a Roma le scritture e quanto si era fatto per la spedizione della causa. Il 9 agosto ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni avute da D. Gio. Sances «Fiscale di permissione di N. S.re nella causa della rebellione di Calabria»; e nella stessa data il Card.l Borghese gli facea sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo di Caserta di mandare «il resto delle scritture co' voti de' signori Congiudici», sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad occuparsene senza ritardo.

Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò di nuovo S. S. perchè la sua causa fosse spedita, non essendosi in lui trovata alcuna colpa. Il 17 agosto il Card.l S. Giorgio lo partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S. che desse informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli perciò una copia del memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di aver sofferto innocentemente tre anni di carcere, di essere più volte ricorso al Vicerè, al Nunzio, a D. Pietro de Vera senza aver mai ottenuto nulla, di trovarsi in carcere solamente perchè fratello di fra Dionisio, concludendo col supplicare S. S. che si degnasse «ordinare à Mons.r Nuntio, et altri Giudici, che debbano con effetto provederlo di giustitia, giudicandolo secondo la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo la ragion di Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo dovria cessare». E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato carcerato «più per essere fratello di fra Dionisio... che per delitto che si pretendesse contra di lui», ma «pe' suoi ragionamenti molto domestici» avuti di notte col Campanella, era stato ritenuto conscio del fatto e quindi da dover rimanere in carcere fino a che la causa fosse spedita: «intanto (egli aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si fermò il negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine, et si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa dell'Inquisitione»; questa si era protratta tanto che i Ministri Regii ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di Caserta era stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di lui in Napoli dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata la spedizione di fra Pietro.

In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta il Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente, fra Pietro aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e dovè rassegnarsi a vedere prima terminata la causa di eresia per tutti gl'inquisiti, tra' quali apparve egli pure compreso, mentre neanche il Nunzio nella sua lettera a Roma avea mostrato di essersene mai avveduto! Fortunatamente si era già ordinato di venire alla conclusione intorno all'eresia, per poi passare alla conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta appunto a narrare esponendo gli esiti de' processi.

V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella in questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni, dal maggio 1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un qualche sollievo all'infinita noia inflitta a' lettori coll'esposizione del processo di eresia, inflitta veramente non per colpa nostra, ma per colpa de' Giudici. Come avea cominciato fin da' primi momenti dell'arrivo nelle carceri di Napoli, egli continuò a comporre poesie e prose, e per determinare nel miglior modo la data rispettiva, sarà bene dividere in due il periodo anzidetto. Nel 1°, che va dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, data della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali del Castello, egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono trovate presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo veduto costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente; inoltre compose o meglio ricompose il libro della Monarchia di Spagna. Nel 2°, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano alle opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica, che si ricorderà essere stata trovata sotto la finestra del suo carcere, buttata giù al momento in cui vi entravano gli ufficiali del Castello.

Al libro della Monarchia di Spagna egli attese certamente con la maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la difesa della causa della congiura: dopo gli Articoli profetali, probabilmente dalla 2a metà del maggio 1600, dovè esser questa la sua unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda mano il ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo spiegati a lungo altrove intorno alla data della composizione della Monarchia (ved. vol. 1°, pag. 146-47) e ne abbiamo anche detto qualche altra cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e 113); non sentiamo quindi la necessità di discorrerne ulteriormente. Solo diremo, che prima del giugno 1601, data in cui fra Pietro di Stilo presentò le Difese al tribunale, il libro dovè essere stato già scritto e mandato a Stilo, per farlo trovare in quel posto e farne menzione appunto nelle Difese. Nè ci dissimuliamo che siffatto termine di un anno, impiegato nella ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il Campanella, sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare che il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel carcere; ma ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu guardato di molto a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a provarla col tormento della veglia. Del resto, come abbiamo già fatto notare altrove, importa poco che il libro sia stato composto nella fine del 1598 o nel 2° semestre del 1600, non essendovi gran differenza tra l'essere stato scritto quando si meditava una congiura o quando si voleva dimostrare che non c'era stata congiura; importa solo sapere che non fu composto dopo dieci anni di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di occasione, destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde non gli si può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni del Campanella.

L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove, negli esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran copia, esso reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora al Reggente Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e di data, ora reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data del dicembre 1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore. Nel Syntagma de libris propriis troviamo registrato che egli compose la Monarchia dapprima in italiano, e poi essa «giunse nelle mani di tutti, nella lingua italiana e nella latina, dalle collezioni di Gaspare Scioppio e di Cristoforo Flugio». Vedremo più in là che il Flugio fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe certamente la Filosofia che il Campanella finì di scrivere dopo la Monarchia; non ci sembra quindi arrischiato l'ammettere che abbia avuta anche la Monarchia in siffatta occasione; lo Scioppio poi ebbe egli pure la Monarchia con diverse altre opere verso la metà del 1607. Volendo prestar fede al Syntagma, bisognerebbe dire che il Campanella abbia voltata in latino la Monarchia innanzi il 1607: ad ogni modo ci pare che le due date diverse della consegna di questo libro, il 1603 e il 1607, dieno la ragione del trovarlo indirizzato una volta semplicemente a D. Alonso, e un'altra volta al Reggente Marthos con tutte quelle altre sfolgoranti circostanze della provenienza e della data. Giacchè appunto nel frattempo, alla fine del gennaio 1604, come si rileva anche dal Carteggio del Residente Veneto, era trapassato il Marthos; avea quindi potuto il nome di lui esser posto in luogo di quello di D. Alonso, rimanendo così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas, e fornita una prova più limpida dell'affezione dell'autore agli spagnuoli, se non presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene, presso la Curia Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il medesimo Re di Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il povero filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro altre innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo tempo l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra gli eruditi; del resto un confronto qualunque de' diversi esemplari non è stato mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così per questa come per ogni altra opera del Campanella rimasta lungamente manoscritta, poichè nelle varianti potrebbe rilevarsi meglio la mano dell'autore e scoprirsene anche l'animo o piuttosto i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si conosce che la Monarchia fu pubblicata per le stampe dapprima in tedesco, senza indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo Besoldo, il quale l'ebbe certamente dal suo amico Tobia Adami cui fu consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto più tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte dell'autore, in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo (Hardevici 1640, Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643); quindi fu tradotta anche in inglese da Ed. Chilmead con pref. di Wil. Prinae in Londra 1649, ma nell'originale italiano fu pubblicata solamente a' giorni nostri a cura del D'Ancona in Torino 1854. Una lettera inedita del Campanella, che noi pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli ultimi anni della sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme con un'altra analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al Vicerè; ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne la pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore ed anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in Napoli (tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP. Gerolamini), una in Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne passarono a Parigi (Bibl. Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e una ne giunse pure a Londra (Mus. Brit. Egerton-collection n° 10,689) che reca essere stata eseguita «anno 1634 a quinto di Septembre». Non paia eccessiva tutta questa discussione, trattandosi della Monarchia di Spagna, che per lo meno riguarda troppo da vicino l'argomento nostro.

Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in questo periodo occupato pure della revisione de' «Discorsi a' Principi d'Italia» etc. che tanta attinenza aveano col libro della Monarchia di Spagna e che furono menzionati egualmente nella sua Difesa. Ma ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati a Massimiliano, e d'altronde, così come li possediamo, offrono la citazione di qualche opera scritta ancora più tardi; bisogna quindi rimandarne l'avvenimento della revisione a una data posteriore.

Venendo alle Poesie, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come p. es. la Sig.ra D.a Anna che vedremo dover essere stata una parente di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e dobbiamo ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo circoscritto dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi allora ben riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito assegnarne al detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le poesie indirizzate a persone, specialmente del bel sesso, in rapporti più o meno diretti con la famiglia del Castellano, nè poi il Campanella dopo la veglia avea peranco cessato di mostrarsi pazzo. Bisogna dunque conchiudere che nel Castello, perfino presso il ceto autorevole, non mancarono persone pietose e ben disposte verso il prigioniero; nè egli mancò di procurarsene la benevolenza e mostrarsene grato, esaltandone le virtù, carezzandone anche la vanità, abbandonandosi perfino al genere erotico e lascivo, sempre col gusto de' tempi, non senza comporre versi egualmente per conto di altri, spesso per procurarsene qualche favore e sovvenzione nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà quindi maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di niun valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; nè farà maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più elevati, si notino principii politici e religiosi comuni, mentre l'autore avea bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano circolare tra persone sovente attaccate al Governo, più sovente attaccate alla religione nel senso volgare. Si comprende agevolmente, che non potremmo fare una rassegna minuta di tutte queste poesie senza allungar troppo la nostra narrazione, ma si comprende pure che non possiamo passarcela di volo, dovendo rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in questo notevole periodo della sua prigionia.

Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e menzionati nel Syntagma quali Ritmi consolatorii, diretti a dar vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso

«La scola inimicissima del vero»

e l'altro col verso

«Mentre l'aquila invola e l'orso freme».

Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non senza mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra quanto il Campanella tornasse volentieri su questo tema, per ricordare «il fine instante delle cose umane»: esso fu dettato ad occasione di una richiesta avuta di scrivere qualche Commedia, e comincia col noto verso

«Non piaccia a Dio che di comedie vane» etc..

Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire Felice Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di Commedie. Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello poco convenientemente intitolato «Al Principe di Bisignano», che è veramente un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella medesima prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il poeta ha motivo di dire

«Gran forza e speme tanto essempio adduce»:

vi si possono fare varie osservazioni circa il numero di anni passati dal Principe in prigione, circa i motivi della prigionia, ed anche circa i motivi del ritorno in libertà, ma a' poveri calabresi la sola «cessata ragione di Stato» dovea sembrare un motivo soddisfacente.

Passando alle Poesie politiche, ne troviamo solamente cinque, intitolate all'Italia, a Genova, a Venezia, a Roma, e «Roma a Germania». Le tre prime furono poi pubblicate, le altre due furono scartate; ma quella all'Italia fu pubblicata sotto la forma di Canzone, mentre originariamente era stata composta in forma di Sonetto con appendici, e fu anche intitolata «Agl'italiani che attendono a poetare con le favole greche», mentre originariamente non aveva titolo determinato; nè sarà superfluo far avvertire, che le prime notizie delle proprie Poesie date dal Campanella nella lettera al Card.l Farnese del 1606, seguita dalle altre al Card.l S. Giorgio e al Re di Spagna, poi anche nel Memoriale al Papa del 1611, fanno distinta e principale menzione di tali poesie politiche.

Quella all'Italia può dirsi un vero Inno al primato italiano, nel quale son pure notevoli diversi concetti generali e particolari: l'essere cioè «sepoltura de' lumi suoi, d'esterni candeliere», il ferir sempre di nuovi affanni «lo stilense» il quale «quella patria honora che poi lui dishonora», il non cessar mai «di servir chi la paga d'ignoranza, discordia e servitute» alludendo certamente a Spagna ed a' Principotti italiani. Non parliamo poi del Sonetto a Genova nè di quello a Venezia, permettendoci solamente di ricordare ancora una volta, che da quest'ultimo, e non da ciò che dovè scrivere in certi momenti tristissimi, conviene desumere i convincimenti del Campanella intorno a quella mirabile repubblica, fondata sul sapere e sul potere, condotta senza fiacchezze sentimentali, e perciò durata tanti anni. Circa il Sonetto a Roma, conviene notarvi quel concetto osservabile

«Deh non pianger l'Imperio, Italia mia,

ch'hoggi l'hai vie più certo e venerando»,

mentre nel primissimo Sonetto all'Italia, composto in altre circostanze, il poeta si era doluto che non si vedeva già più «vergognarsi per l'onor di Dina» nè Simeone nè Levi. Ecco dunque uno spiccato ritorno indietro, e non di poco momento: ma non deve sfuggire che il Sonetto fu scartato quando si venne alla pubblicazione delle poesie, e si può anche osservare, che mentre ne' versi originarii della poesia menzionata più sopra e diretta «Agl'italiani» etc. si leggeva

«...... la gran Roma

dove anche ha Dio suo tribunal costrutto»,

ne' versi rifatti posteriormente e così dati alle stampe si lesse

«E del cielo alle chiavi alfin pervenne»;

cioè a dire, fu sostituito un encomio di abilità politica ad un riconoscimento di dono soprannaturale. Circa il Sonetto «Roma a Germania», esso segna il passaggio alle poesie religiose, rappresentando una tirata contro la riforma, e questo veramente non è affatto nuovo nell'ordine delle idee del Campanella, cui la dissociazione nella fede cristiana riuscì sempre assai molesta: ma è nuovo quel tuono da pergamo accompagnato da vaticinii d'immancabile rovina, e bisogna tener presente che questo Sonetto fu pure scartato, e manifestamente uno studio dello scarto fatto riescirebbe davvero istruttivo. - Citiamo qui, al sèguito degli anzidetti, il Sonetto «Sovra il monte di Stilo», poesia di niun valore, ma espressione di un caro ricordo del povero prigioniero, e passiamo subito a' Sonetti religiosi. Essi sono al numero di sei, de' quali furono poi pubblicati quattro, e riflettono la morte di Cristo, il sepolcro di Cristo, la Croce, l'Ostia consacrata. In tutti brilla la professione di cristianesimo senza riserve, il concetto di Cristo vero figliuolo di Dio, ciò che il processo mostrava essere stato da lui negato; intorno alla Croce, egli spiega la sua poca simpatia verso la tendenza a mettere in mostra Cristo crocifisso invece di Cristo trionfante, ed anche in ciò si trova una giustificazione riferibile alle cose emerse dal processo. De' due, che non furono poi pubblicati, l'uno tratta ancora del sepolcro di Cristo ma in tuono assolutamente predicatorio, l'altro rappresenta un fervorino sull'Ostia consacrata, e risulta esso pure una giustificazione. Si direbbero tutti questi Sonetti composti nella Pasqua del 1601.

Giungiamo alle poesie con indirizzo o menzione di persone diverse, talora non determinate, talora più o meno determinate, delle quali, potendo, c'ingegneremo sempre di dare qualche notizia, massime allorchè si tratti di persone benefattrici del povero prigioniero. Ci liberiamo dapprima di due Sonetti, l'uno per l'entrata di un alunno incognito nell'ordine monastico de' Somaschi, l'altro per l'entrata di un'Artemisia del pari incognita in un convento. Citiamo poi due Sonetti indirizzati a due persone delle quali già abbiamo fatto conoscenza: l'uno al Sig.r Cesare Spinola «splendor d'Italia, difensor di virtù», che l'autore encomia e ringrazia

«Del Campanella per la defensione

contro lo stuol traditoresco e rio»,

e manifestamente esso deve dirsi scritto poco dopo il 15 novembre 1600, giacchè a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato qual testimone dal Pizzoni; l'altro, senza dubbio di pari data e per la stessa circostanza, indirizzato a D. Francesco di Castiglia, che l'autore loda molto anche come poeta, cantore di donne sante, di cocenti amori, e perfino di Antiochia vinta. E forse egualmente al Castiglia, seguace del Tasso, deve dirsi indirizzato il Sonetto che nella Raccolta vien subito dopo: esso rappresenta una gentile ammonizione al seguace del Tasso, cui addita una meta più alta e abbastanza notevole per l'argomento della nostra narrazione, quella meta per la quale, il poeta dice, gioverebbe avere a guida Dante e Petrarca, scaldarsi al «fuoco de' lor petti», sentirsi il cuore punto «da giuste ire», elevarsi ed elevare

«Al degno oggetto dell'umana mente».

Ricordiamo inoltre qui il Sonetto indirizzato a un Sig.r Aurelio, un «canoro Cigno» tra' molti che si riunivano nelle Accademie napoletane, tanto più pullulanti quanto più avversate da Spagna. Non sapremmo, tra' mille Accademici di quel tempo, chi abbia potuto essere questo Sig.r Aurelio: ad ogni modo egli dovè vedere il Campanella ed eccitarlo a cantare di Cesare, e il Campanella se ne scusò adducendo le sue tristi condizioni,

«Che in atra tomba piango i miei dolori

sol pianto rimbombando il ferro e il sasso».

Ecco ora un Sonetto al Sig.r Troiano Magnati, un cavaliere del quale possiamo dare qualche notizia sicura. Primogenito di D.a Ippolita Cavaniglia, che vedremo tra poco celebrata egualmente, egli faceva parte della Compagnia de' così detti Continui, una specie di Guardia del corpo del Re, e per esso del Vicerè, composta per metà di spagnuoli e per metà di napoletani, scelti sempre tra le persone nobili, e ne' primordii dell'istituzione tra le persone nobili di prim'ordine: una cedola di pagamento del soldo per l'anno 1596, ed una dimanda di licenza al Vicerè per l'anno 1610, che si leggono nelle scritture dell'Archivio di Stato, ci hanno fatto conoscere questa sua condizione di Continuo. Il Campanella, dopo lodi enfatiche e seicentesche, gli chiede umilmente protezione per sè e pei suoi compagni:

«. . . . . . vendichi l'onte

fatte a tanti virtuosi e a me meschino».

Veniamo a D.a Ippolita Cavaniglia, la più alta benefattrice del Campanella e de' frati; a lei sono indirizzate non meno di tre poesie. Un documento, da noi rinvenuto nell'Archivio di Stato, ci mostra questa Signora esser figliuola di D. Garzia Cavaniglia Conte di Montella, ma forse figliuola naturale, già vedova fin dal 1593 di Fabio Magnati, e madre di Troiano, Flaminio, Gio. Battista e Geronimo. Si sa che i Cavaniglia, gente valorosa e fida e di sangue regio, vantavano l'essersi stabiliti nel Regno col 1.° D. Garzia, venuto da Valenza in Napoli con Alfonso d'Aragona, fatto Conte di Troia nel 1445 e celebrato dal Sannazzaro (la Contea di Montella sopraggiunse più tardi, nel 1477, con D. Diego, l'amante della sorella di Ferdinando Aragonese): ne abbiamo un trattato scritto dal Sarrubbo, oltre le notizie registrate dal De Lellis nei suoi ms. che si conservano nella Bibl. nazionale di Napoli; ma le donne non figurano mai nel Sarrubbo, e il De Lellis ricorda solamente, quali figlie del 2.° D. Garzia, Cornelia e Fulvia monache; e tuttavia il documento suddetto non lascia dubbio sulla origine di D.a Ippolita, mentre d'altra parte i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo fanno spesso menzione di lei e de' suoi. Quanto a Fabio Magnati, il Capaccio mostra la famiglia de' Magnati proveniente da Bologna, dove essa era una delle 40, venuta in Napoli con Carlo 1.°, e dichiara Fabio «dottore di leggi, gentil'huomo virtuosissimo»: non è improbabile che egli fosse Auditore del Castel nuovo, ma ad ogni modo là abitava con la sua famiglia. Nel corso di questa narrazione abbiamo visto raccomandata a D.a Ippolita la lettera inviata da Sertorio del Buono a fra Dionisio, che fu poi trovata il 2 agosto 1601 dagli ufficiali del Castello. Nelle poesie, oltre la sua nobiltà affermata con le nozioni storiche suddette, oltre la maestosa bellezza e tanti altri pregi, vediamo esaltata la sua

«Generosa pietà, man liberale»

e sempre col maggior rispetto, e con una impronta di serietà sovente lasciata da parte nelle altre poesie dirette al bel sesso; onde si vede che effettivamente il Campanella sentiva per lei quanto le esprimeva nel verso

«L'altre femine son, tu donna sei».

Ma nella terza delle poesie, che è un Madrigale, il Campanella rivela tutta l'intensità della sua gratitudine:

«...mille grazie e benefizii farmi

volesti ancor; felici ferri e sassi,

che stringete i miei passi,

ringraziar non poss'io

nè gioir del sol mio,

ringrazio voi e di voi più non mi doglio» etc.

Abbastanza analoga a codeste poesie, comunque meno fervorosa, è l'altra seguente, indirizzata a una Sig.ra Olimpia: non ci è riuscito interpretare chi abbia potuto esser questa Signora e parrebbe che non abitasse nel Castello, poichè i libri parrocchiali non fanno alcuna menzione di un nome simile; il Campanella ne loda essenzialmente «l'umanità». Lo stesso dobbiamo dire della Sig.ra Maria, della quale il Campanella esalta la grande bellezza ed invoca la cortesia e la pietà, mostrando pure che glie ne avesse dato prova una volta e poi si fosse posta in contegno: tali circostanze ci hanno fatto per un momento pensare che potesse trattarsi della Castellana medesima, cugina e moglie di D. Alonso, che varii documenti e perfino il Carteggio dell'Agente Toscano attestano sovranamente bella, e che per la sua posizione sarebbe stata veramente in grado di giovare il Campanella con la pietà; ma non può ritenersi punto consentaneo all'indole de' tempi veder chiamata la Castellana di casa Mendozza col nome di «Sig.ra Maria», e difatti «D.a Maria» o semplicemente «Maria» si trova sempre chiamata ne' libri parrocchiali del Castello. Potrebbe essere stata una Maria Gentile o una Maria Spinola, e piuttosto quest'ultima, poichè le si vede anche indirizzato ad istanza del Sig.r Francesco Gentile un Madrigale tutto smancerie e peggio secondo il gusto de' tempi; e vi sarebbe una Maria Spinola Centurione da potersi supporre quella di cui qui si tratta, ma non vale la pena di sciupare il tempo in supposizioni troppo vaghe. Giungiamo alla Sig.ra «D.a Anna». Qui il titolo è tale da dover fare ammettere senz'altro una Signora di casa Mendozza, ma, secondochè insegnano i libri di materie nobiliari e i libri parrocchiali del Castello, vi furono non meno di tre Signore di questo nome; 1.° D.a Anna di Toledo figlia di D. Pietro il Vicerè, maritata a D. Alvaro di Mendozza già Castellano e madre di D.a Maria la Castellana moglie di D. Alonso, rimaritata a D. Lope di Moscoso Osorio 4.° Conte di Altamura, onde ne' libri parrocchiali trovasi anche detta «Anna Moscosa»; 2.° D.a Anna sorella del predetto D. Alvaro, quindi zia di D.a Maria ed anche dello sposo di lei D. Alonso il Castellano che le era cugino, maritata a Lelio Carafa e rimaritata al Conte di S. Angelo, lungamente vedova e fondatrice della Chiesa di Pizzofalcone, spesso detta ne' libri parrocchiali Contessa di S. Angelo; 3.° D.a Anna ultima sorella di D. Alonso il Castellano, malamente detta Claudia dal De Lellis, maritata nel 1594 a D. Ferrante de Bernaudo e dimorante senza dubbio nel Castello, detta sempre «D.a Anna» ne' libri parrocchiali. Forse a quest'ultima, forse anche meglio alla prima D.a Anna, la quale era tuttavia una delle belle, fu indirizzato il Sonetto dal filosofo; ma a qualunque delle dette Signore sia stato esso indirizzato, si tratterebbe sempre di persone in parentela stretta col Castellano, ed in ciò precisamente risiede la singolarità del fatto, mentre il filosofo mostravasi a quel tempo nel colmo della sua pazzia. Quanto ai concetti espressi nel Sonetto, vi si trova lodata la bellezza e nobiltà di D.a Anna, se ne vede invocato l'amore, con quegli spasimi a freddo che è maraviglioso come abbiano potuto regnare in poesia tanti e tanti anni senza nauseare: lo stesso si trova egualmente in più composizioni del Campanella, delle quali dobbiamo ancora discorrere, onde si rileva che pure da questo lato egli abbia sacrificato al gusto e alla necessità de' tempi senza esitazione.

Ed eccoci all'ultimo gruppetto di poesie, nelle quali generalmente il pessimo gusto signoreggia sovrano. Le facciamo cominciare dal Sonetto che fra Pietro Ponzio trascrisse senza titolo, ma che mostrasi indirizzato ad un Gentile. Non è dubbio che si tratti qui del Sig.r Francesco Gentile, per conto del quale fra Pietro raccoglieva le poesie del Campanella nel libretto che gli fu poi trovato dagli ufficiali; e possiamo affermare di non aver risparmiato assolutamente nulla per sapere chi fosse questo Sig.r Francesco Gentile, ma pur troppo senza esservi riusciti. Dalle poesie egli apparisce parente di una Sig.ra Giulia Gentile, alla quale il Campanella non manca di scrivere un Sonetto e un Madrigale, innamorato di una Flerida, alla quale il Campanella scrive poesie per conto di lui e poi anche per conto proprio, e spesso e vivacemente: ad istanza di lui ancora il Campanella scrive il Madrigale alla Sig.ra Maria già ricordato qui sopra, e crediamo che per conto egualmente di lui sieno state composte molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello stesso genere appariscono pure indubitatamente scritte dall'autore per conto proprio. Avevamo dapprima pensato che potesse essere Francesco Gentile da Barletta, nipote della Sig.ra Giulia Gentile, presso la quale stava ritirata D.a Ilaria Sifola sposata a D. Andrea de Mendozza figlio di D.a Isabella Marchesa della Valle con grandissimo sdegno di costei (confr. pag. 258): questo D. Francesco, nobile di prim'ordine ed amico delle buone lettere come lo provano due Commedie che di lui ci rimangono, avea potuto venire con la sua zia in Napoli, per placare la Marchesa e cercare un accomodamento nella lite di nullità intentata da lei a proposito del matrimonio di suo figlio. Ma al tempo del quale trattiamo egli doveva essere molto giovane, e la Marchesa trovavasi nel maggior colmo de' suoi furori: abbiamo infatti visto che il povero Nicolò Napolella ne soffrì le conseguenze fino ad una parte del 1602, e i libri parrocchiali del Castel nuovo ci mostrano D.a Ilaria riunita a D. Andrea non prima del 1618. D'altronde fra Pietro Ponzio nel principio di dedica della Raccolta delle poesie lo dice Patrizio Genovese, e il processo dell'eresia ci mostra nel 14 novembre 1600 dato per testimone dal Pizzoni nelle sue difese un D. Francesco di Genova che verosimilmente è il Gentile, inoltre ci mostra dopo il 2 agosto 1601 dato per testimone da fra Pietro nella denunzia contro gli offensori de' frati il Sig.r Francesco Gentile, di cui il Mastrodatti dice, «è stato carcerato e liberato...» etc. (ved. pag. 241). Dovè dunque essere compagno di carcere de' frati, forse uno della famiglia de' Gentili che tenevano Banco in Napoli, del quale Banco esistono tuttora nel Grande Archivio tre libri che vanno dal 1592 al 1599; e ne' libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo egli figura qual padrino in un Battesimo del 18 aprile 1601. Ad ogni modo egli non era persona volgare, e nel Sonetto già citato, dicendosi pazzo, il Campanella gli chiede aiuto per sè e pe' suoi in nome dell'amore che egli porta a Flerida,

«Ond'io m'inchino a lei e per lei ti priego

ch'a lei, et a te, et a noi Gentil ti mostri

il fatal pazzo Campanella aitando».

Ma alla Sig.ra Giulia il poeta chiede nè più nè meno che amore e in un Sonetto la dice

«Gioia, idea, vita, luce, idolo, amore»,

e in un Madrigale ne loda la bellezza al punto, che dichiarandola superiore a Lia e Rachele egli si compiacerebbe di essere schiavo per sette e sette anni. Intanto ad istanza del Sig.r Francesco Gentile scrive un Madrigale per Flerida, forse anche il Sonetto che segue, più probabilmente ancora un altro Sonetto posto nella Raccolta dopo quello indirizzato a lui; e scrive inoltre il Madrigale alla Sig.ra Maria, dal quale si vede che il Gentile si compiaceva di fare il cascante a dritta ed a manca. Vogliamo credere che egualmente per lui egli indirizzi a Flerida un Madrigale, da cui si rileverebbe essere stati ammalati entrambi ed essere ciò accaduto alla fine dell'anno, naturalmente alla fine del 1600; dippiù il Sonetto col quale ne loda i nèi sul labbro e sul ginocchio, da' quali il poeta si lascia trasportare perfino

«. . . . . sul consecrato fonte

dell'immortalitate all'appetito»,

onde poi riesce di comprendere quel Madrigale, in cui si accenna a un certo fiasco fatto e spiegato non senza sufficiente industria; finalmente anche il Sonetto in cui ringrazia Amore, l'altro sull'inestricabile laberinto d'Amore, e poi le Ottave e il Sonetto di sdegno, che dinotano una rottura completa e perfino villana. Ma non siamo sicuri che tutte le poesie amorose dirette a Flerida siano state scritte per conto del Gentile, e una parte di esse ha potuto essere stata scritta per conto dell'autore, massime dopo la rottura anzidetta: è certo d'altro lato che l'autore credè egli pure dilettevoli o piuttosto comodi simiglianti passatempi, onde abbiamo almeno sei Sonetti di relazioni amorose indubbiamente sue, non mancando nemmeno nel titolo di alcuni fra essi indicato specificatamente «l'Autore». Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli trovò distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui indirizzo la Raccolta ci offre un Sonetto; vedremo poi, nel sèguito della nostra narrazione, attestato da lui medesimo in una sua lettera il ricordo di scherzi a' quali certe donzelle lo invitavano dalle finestre, ed attestato dal Gagliardo in alcune sue deposizioni il ricordo di una certa Oriana, o secondo l'uso del paese D. Oriana, nome ingarbugliato che risponde bene a quello di Dianora, la quale abitava sotto la prigione e gli conservava libri e scritti, fornendoli ad ogni sua richiesta mediante una cordicina. La Dianora parrebbe una suora francescana, a giudicarne da' versi co' quali comincia il Sonetto

«Donna che in terra fai vita celeste

sotto la guida di colui che in Cristo

amando trasformossi»:

a lei il Campanella fa ringraziamenti, ma si dichiara nel tempo stesso devoto abbastanza intimo co' versi

«Stella Dian, Ora al mio fragil legno

che solca un mar d'affanni, onde non parte

l'occhio del mio desire e della mente»;

nè ci manca ne' Reg.i Partium la notizia di una «Sore Elionora Barisana», e, ciò che vale dippiù, ne' libri parrocchiali del Castel nuovo la notizia di una «Sore Dianora Barisciana di Barletta». Per questa donna, che potrebbe supporsi appartenente alla famiglia del «torriero» come allora si diceva il guardiano della torre, o per Flerida e altre fanciulle che potrebbero supporsi appartenenti alla bassa famiglia de' Mendozza, egli dovè scrivere i rimanenti cinque Sonetti ne' quali canta il suo intrigo amoroso, un laccio di capelli da lui dimandato ed avuto, un presente di pere inviatogli, un bagno fornitogli in sollievo de' suoi dolori, ed anche una scena erotica abbastanza vivace accaduta a traverso il muro della prigione. Mettendo da parte siffatta scena che i lettori potranno rilevare col loro comodo, notiamo quella singolare dichiarazione che il Campanella fa nel Sonetto sul presente di pere

«Che solo Amor può darci il sommo bene

lo qual filosofando io non trovai»;

notiamo poi con tanto maggiore interesse la circostanza, che l'avvenimento del bagno fornitogli dalla sua donna si deve riferire al tempo che scorse dopo il tormento della veglia, onde il povero filosofo si sentì ristorato ed anzi poeticamente risanato,

«Tolsi l'acqua, applicaila al corpo mio

già fracassato dopo lunga guerra

per gran tormento ch'ogni forte atterra,

del medesmo liquor bivendo anch'io».

Abbiamo dunque un Sonetto composto certamente dopo la veglia, a tempo de' bagni, vale a dire in luglio secondo il costume del paese: ma esso non fu il solo, e possiamo con ogni probabilità aggiungervi anche con precedenza due altri Sonetti indirizzati a un «Sig.r Petrillo»; nè ci trattiene il rinvenirli a capo di tutto il gruppo delle poesie appartenenti al periodo di cui discorriamo, giacchè questo potrebbe significare solamente una speciale distinzione. Dal primo de' due Sonetti questo Sig.r Petrillo apparisce un fanciullo, o più verosimilmente un giovanetto, leggiadro e riservato, che consola il povero filosofo con la sua presenza, e l'eccita a scrivere nuovamente qualche poesia,

«Il vecchio canto a ripigliar m'invita»;

e il filosofo dicendosi pazzo ed incapace di poetare con gusto, apparisce addolorato e affranto addirittura,

«Carme ti rendo d'ogni gusto parco,

ch'esce da bocca di dolcezza lungi,

ch'agli ultimi sospiri è fatta varco»;

ci parrebbe impossibile riferire simiglianti espressioni, e tutto il resto, ad un tempo diverso da quello che seguì immediatamente la veglia. Con l'altro Sonetto il filosofo loda la bellezza del fanciullo e gli comunica eccellenti riflessioni morali, ma continua sempre ad apparire profondamente mesto, ed anche oppresso dal pensiero dei tradimenti che nella vita si patiscono; e chi era dunque questo Sig.r Petrillo? I libri parrocchiali del Castel nuovo ci dànno un po' di luce anche in questa come ce l'hanno data in altre circostanze: vi era un «Petrillo» figlio dello speziale del Castello Ottavio Cesarano e di Polissena Cammardella; nato nel 1583, egli morì nel 1603, ed avea quindi poco più di 17 anni allorchè comparve al filosofo, e doveva essere leggiadro come uno di que' fiorellini i quali, al vederli, fanno temere che ben presto piegheranno il capo. Grande meraviglia ci avea recato il non trovare qualche poesia diretta dal filosofo al suo migliore aiuto, al chirurgo Scipione Cammardella; ma ecco che lo vediamo onorato in persona del nipote, il quale verosimilmente l'accompagnò in taluna delle prime visite e poi più tardi, quando il filosofo era sempre assai sofferente, e in principio tuttora non fiducioso al punto da fargli comprendere la simulazione della pazzia, in sèguito divenuto fiducioso in modo da mostrarglisi un vero e buono sapiente.

Furono queste le poesie che il Campanella compose dal maggio 1600 al 2 agosto 1601, e tutt'al più una sola di esse potrebbe dirsi apocrifa nella Raccolta fattane da fra Pietro, quella intitolata «Sonetto di Horatio di G.» etc.. Sicuramente dopo il detto periodo egli non cessò dal poetare, ed anzi allora appunto compose le maggiori sue poesie, che si leggono nella Scelta pubblicatane più tardi dall'Adami: cercheremo a tempo e luogo di determinare, se sarà possibile, la data almeno di taluna di esse.

Veniamo alle opere alle quali il Campanella attese consecutivamente, e per ora a quelle composte dall'agosto 1601 fin verso la fine del 1602, cioè fino a che si compì il processo dell'eresia. Gioverà qui avvertire una volta per sempre che i fonti migliori, per determinare in un modo meno fallace le date di quanto egli compose negli anni più difficili della prigionia, saranno sempre le sue Lettere del 1606-1607 a' Card.li Farnese e S. Giorgio e al Re di Spagna, alle quali egli annesse l'elenco delle opere fin allora composte; meglio ancora la lettera allo Scioppio, egualmente del 1607, posta come proemio all'«Ateismo» e pubblicata dallo Struvio, nella quale citò ad una ad una con un certo ordine, ma nemmeno con un ordine cronologico esatto, le opere che realmente teneva a sua disposizione e che infatti gli mandò, avendole rivedute, ritoccate, ovvero composte di pianta, e facendo menzione anche di taluna che avea composta e perduta o stava componendo e non potea mandare ancora; inoltre il Memoriale del 1611 al Papa pubblicato dal Baldacchini, al quale fu pure annesso un elenco delle opere, e in generale tutte le lettere del Campanella scritte durante la prigionia. Ma ad un grado limitatissimo potrà servire il Syntagma de libris propriis, pubblicato tanti anni dopo su note confusamente raccolte dal Naudeo, e manifestamente disordinato intorno alle opere scritte nel carcere, come si può rilevare dalle notizie che fornisce il processo dell'eresia, da quelle che forniscono i documenti anzidetti, non che dalla lettura medesima del libro. Pel momento il processo dell'eresia è ancora il fonte certo, su cui si può contare senza riserva, e da esso sappiamo che il 2 agosto 1601 il Campanella già metteva mano a compiere l'Epilogo di Filosofia, o la Filosofia epilogistica.

Rammentino i lettori il manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere del Campanella il 2 agosto, mentre venivano a visitarlo gli ufficiali del Castello. Oggi ancora vi sono in Italia due Manoscritti col titolo di «Epilogo...» o «Epilogo magno di quello che della natura delle cose ha filosofato e disputato fra Thomaso Campanella servo di Dio»: analogamente al manoscritto buttato giù dalla finestra del carcere, l'uno, della Magliabechiana, comincia con le parole, «Perchè teco menar la vita non posso Signore, come il desiderio suo grande della virtù vorrebbe», l'altro, della Casanatense comincia con le parole, «Perchè menar teco la vita non posso Signore» etc.; entrambi finiscono con le parole, «quel che ne fece poi voi lo sapete», alle quali parole nell'esemplare della Magliabechiana succede un epigramma latino in lode del Campanella, e nell'esemplare della Casanatense succede un piccolo numero di brevissime note e postille. L'opera poi in latino, stampata a cura dell'Adami nel 1623 col titolo di «Philosophiae realis epilogisticae partes quatuor», comincia con le parole, «Quoniam tecum vitam ducere, charissime, non datur, ut avidissime cupis» etc., e nella sua 2a parte, che rappresenta l'Etica, finisce con le parole tradotte alquanto liberamente, «quid autem subinde fecerit, historia docet». Come si vede, trattasi qui dell'opera che sappiamo cominciata in Roma verso la fine del 1594 col titolo di «Compendio di Fisiologia», quando il Campanella non potea «menar la vita» con Mario del Tufo cui la mandò, continuata poi in Napoli nel 1598 con l'aggiunta anche dell'Etica. Dopo due mesi dal tormento della veglia, stando sempre a letto, il Campanella già attendeva a rivedere quest'opera e ne meditava il compimento: perduta la copia che ne aveva avuta senza dubbio da Mario del Tufo, è naturale ammettere che se n'abbia procurata un'altra, ma intanto, senza sospendere il suo lavoro, compose gli Aforismi politici e l'Economica, poi ritoccò l'Etica e compose ancora la Città del Sole menando così a termine tutta l'opera. Questi particolari del modo in cui il lavoro fu condotto si rilevano dal Syntagma, e fino ad un certo punto riescono confermati da ciò che mostrano intorno all'opera gli elenchi annessi alle lettere del 1606-1607 ed anche del 1611, come ancora da ciò che mostra il confronto dei Manoscritti in italiano con la parte corrispondente dell'opera stampata in latino. Gli elenchi del 1606-1607 mostrano l'opera col titolo di «Epilogo magno di ciò che ha filosofato» etc., e quello del 1611 la mostra col titolo di «Epilogismo delle scienze naturali e morali e politiche» etc., citando poi separatamente i libri degli Aforismi e della Città del Sole o «De propria Republica»; il confronto degli esemplari manoscritti in italiano coll'opera stampata in latino mostra nell'Etica molte varianti, sebbene vi si serbino interi lunghi tratti della composizione originaria non che la chiusura; e potremmo dare molti altri ragguagli, ma per lo scopo nostro ci pare che queste poche cose bastino. Così l'«Epilogo» o «Epilogo magno», come sono intitolati i Manoscritti della Magliabechiana e della Casanatense, sebbene con titolo rinnovato, rappresentano sempre l'opera quale fu continuata il 1598 in Napoli, e ci manca un manoscritto in italiano con l'Etica nel modo in cui fu ritoccata verso la fine del 1601 nel carcere; abbiamo bensì gli Aforismi e la Città del Sole in italiano separatamente, quali furono composti nel detto tempo ma con precedenza, mancandovi ancora l'Economica. Tutte queste circostanze mostrano in pari tempo che veramente al Syntagma si può aggiustar fede in quanto a' particolari della composizione, se non in quanto alle date, mentre vi si legge: «Scrissi inoltre gli Aforismi politici, che poi distinsi in capitoli, e così composi la scienza politica; e vi aggiunsi l'Economica, utilissima; ed instaurai nuovamente l'Etica secondo la dottrina delle Primalità, e vi posi in ultimo un'idea di Repubblica che chiamo Città del Sole, molto più eccellente della Platonica e di qualunque altra» etc.

Adunque gli Aforismi politici, al numero di 150, furono composti con molta probabilità nel medesimo mese di agosto, sicuramente non più tardi del mese di settembre o ottobre 1601, mentre il povero filosofo stava ancora a letto col corpo lacerato dal tormento della veglia! Di poi fu scritta l'Economica, ed avuta forse un'altra copia dell'«Epilogo» fu rimaneggiata l'Etica. Degli Aforismi intanto molte copie si diffusero, prima che venissero ricomposti in capitoli e tradotti in latino. Se ne hanno tuttora in Napoli, nella Biblioteca nazionale, due copie, una delle quali è la copia già inviata allo Scioppio che ha note e postille autografe del Campanella, con citazioni di altre opere sue posteriori, come la Monarchia del Messia e i libri Astronomici; ce n'è una in Lucca nella Bibl. pubblica (cod. 2618), una in Firenze già nella Magliabechiana ed ora nell'Archivio di Stato tra le scritture Medicee miscellanee, una in Torino nella Bibl. dell'Università; ed anche a Parigi ne pervenne una copia nella Bibl. dell'Arsenale. Le due copie napoletane, al pari della fiorentina, hanno qua e là piccole aggiunte e specchietti in latino per taluni aforismi; ed offrono poi un piccolo garbuglio di distribuzione della materia, onde apparisce un numero di Aforismi un po' minore de' 150, mentre la materia c'è tutta. Si conosce che siamo debitori al D'Ancona della stampa degli Aforismi in italiano, così come furono composti originariamente dal Campanella: egli si potè servire solamente di una copia tratta da due Manoscritti parigini entrambi scorrettissimi, e dovè lavorare di molto a ridurla; le copie napoletane potrebbero ottimamente servire per qualche altra edizione.

Relativamente alla Città del Sole, la più importante per noi, di certo essa non fu composta dal suo autore «avanti che entrasse nel carcere» come è sembrato al Berti: era bensì nella mente e nel cuore di lui in quel tempo, ed anche sulle sue labbra a sprazzi, ma fu posta in iscritto solamente nel carcere, durante il 1602. Con ogni probabilità fu cominciata a' principii del 1602, scorsi i 6 mesi di cura che sappiamo essergli stati necessarii dopo la veglia, quando il suo corpo era tornato florido e il suo spirito trovavasi grandemente confortato; giacchè sostenuta bene la veglia, provata giuridicamente la sua pazzia, egli poteva reputarsi salvo, in forza di quel principio che registrò di poi in una delle note annesse alle sue poesie, cioè che «de jure gentium i pazzi son salvi»; ed oltracciò, vedendo condotto così in lungo il processo dell'eresia, donde un ritardo sempre maggiore nella conchiusione del processo della congiura, dovea trarne la conseguenza che la ragion di Stato, della quale egli ritenevasi vittima, si sarebbe trovata verso di lui già calmata. E per verità, senza ammettere queste rosee speranze, non si potrebbe comprendere il suo ritorno a' cari sogni di un tempo, nel quale doveva allora sentirsi rivivere; non si potrebbe spiegare la sua audacia nel dar fuori, anche nascostamente e in mano di fidi amici, l'idea «della propria Repubblica» come egli l'intitolò di poi nelle sue Lettere a' Cardinali e al Re ed egualmente nel suo Memoriale al Papa; imperocchè grande davvero fu l'audacia sua nello scrivere un libro simile, mentre era in carcere e la sua sorte pendeva tuttora indecisa. Anche i biografi Campanelliani restii ad ammettere che il Campanella si fosse mai spinto a cospirare, segnatamente il Berti, hanno riconosciuto che nella Città del Sole sia stata da lui adombrata la Repubblica che si sarebbe fatta in Calabria, «nella quale esso si riprometteva non poca autorità»; il Nunzio, che tenea sott'occhio al tempo medesimo i processi puramente ecclesiastici come p. es. quello di Squillace, ove erano registrate tante particolarità ammesse poi nella Città del Sole, potea formarsi un criterio gravissimo della colpabilità del Campanella intorno alla congiura e intorno all'eresia, nè occorre dire come dovesse ad ogni modo formarselo il Governo Vicereale, nel caso in cui gli fosse rimasto qualche dubbio intorno alla congiura. Ma l'indole del Campanella era appunto tale, da offrire una pieghevolezza eccessiva ed una temerità a tutta prova. - Il libro, come tutti gli altri finquì detti che vennero a costituire la «Filosofia epilogistica», fu scritto in italiano secondo il costume adottato dal Campanella già da qualche tempo, e fu da lui tradotto in latino più tardi, verso il 1613, quale si vede nella pubblicazione fattane dall'Adami il 1623; più tardi ancora fu ripubblicato egualmente in latino a cura dell'autore ormai libero in Parigi il 1636. Ma si comprende che esso dovè eccitare la curiosità al più alto grado, onde ne furono sin da principio fatte molte copie, delle quali ne rimangono tuttora alcune, sovente annesse agli Aforismi. In Napoli ve ne sono due, una delle quali è la stessa già data allo Scioppio, non corretta dall'autore ma abbastanza buona, e l'altra è d'altra mano e molto buona; una copia ve n'è pure in Roma nella Casanatense, un'altra in Firenze, parte di un codice Riccardiano, un'altra in Lucca parte del codice sud.to della Bibl. pubblica; ed anche in Madrid rammentiamo di aver preso nota di un'altra copia là esistente senza il nome dell'autore. Le copie di Napoli, che abbiamo avuto tutto l'agio di esaminare, ci hanno mostrato due fatti importanti, non ancora avvertiti per quanto sappiamo: 1°, che esse rappresentano la composizione originaria del libro in una forma molto rozza, ma robusta e ad ogni modo caratteristica; 2°, che varii ritocchi successivi furono fatti al libro quando venne tradotto in latino nel 1613, e perfino quando ne fu preparata la ristampa, ciò che deve riferirsi a dopo il 1629. E poichè questo libro offre un saggio notevolissimo delle opinioni politico-religiose riposte dell'autore, meritano di essere ponderate le modificazioni successive introdottevi in tre date diverse, corrispondenti agli anni 1602, 1613, 1629; l'esame di tali modificazioni, mentre rivela l'animo dell'autore nelle dette date, rivela in pari tempo che le opinioni espresse in quel libro non furono da lui abbandonate giammai non ostante tutte le apparenze in contrario, come del resto si desume egualmente dalle Quistioni sull'ottima repubblica scritte in difesa della Città del Sole tanto più tardi, e fino ad un certo punto anche dalla dedica della 2a edizione del libro De Sensu Rerum fatta nel 1637 al Card.l Richelieu, dal quale, niente meno, l'autore disse di attendersi l'edificazione della Città del Sole. Facciamo voti che questo libro, di cui si sono eseguite diverse traduzioni e edizioni, sia pubblicato anche con le varianti delle diverse date suddette. Più edizioni sono totalmente esaurite: l'ultima del Daelli (Bibl. rara, Milano 1863), che abbiamo non ha guari potuto avere, è stata condotta sulla 2a ediz. di Lugano 1850, analogamente a quella più diffusa del D'Ancona, il quale non potè servirsi del codice Riccardiano perchè scorrettissimo. Entrambe quindi rappresentano un volgarizzamento dal latino, e per verità non ritraggono nel miglior modo la fisonomia del Campanella, de' suoi tempi e de' suoi luoghi, come lo farebbe l'italiano originale; basterebbe avere di esso almeno alcuni tratti, e possono sotto tutti i rispetti servire molto bene per una nuova edizione i codici napoletani.

Dopo la Città del Sole il Campanella attese certamente a comporre la sua Metafisica; e conoscendo essere stata questa un'opera voluminosa possiamo ritenere che ebbe a lavorarvi per tutto il resto del 1602. Essa andò poi perduta, almeno per un certo tempo come vedremo, e non avendo altro fonte dal quale trarne maggiori notizie, dobbiamo ricorrere al Syntagma, il quale per fortuna apparisce esatto in tale circostanza. Ecco quanto vi si legge: «Poco di poi a Napoli scrissi una Metafisica in italiano, distinta in tre parti e quindici libri, ove trattai de' principii dell'essere, del conoscere e dell'operare, e posi allora le cause, i principii e le primalità dell'ente, sopra la Necessità, il Fato e l'Armonia escogitati prima da me: e questa ricevè dalle mie mani Geronimo Tufo Marchese di Lavello nell'anno 1603, nè me la restituì più mai». Adunque il Marchese di Lavello ebbe a fargli una visita in Castel nuovo il 1603, ed è verosimile che glie l'abbia fatta ai principii dell'anno, quando il processo dell'eresia era finito, ed anche la sentenza era stata comunicata al Campanella, ciò che vedremo accaduto in gennaio 1603; non sarebbe quindi arrischiato l'ammettere che a tale data la Metafisica fosse stata già menata a termine. Circa il non essergli stata restituita la detta opera, vedremo che egualmente nella lettera del 1607 allo Scioppio il Campanella si dolse di «un Marchese discepolo ingrato» che se la riteneva, e quindi non a Gio. Geronimo, ma al figliuolo di lui che avea dovuto essergli discepolo, il Campanella credevasi in dritto di muover rimprovero; difatti nel Syntagma medesimo si trovano registrate le peripezie sofferte dal libro «essendo morto il Marchese», peripezie le quali con ogni probabilità il Campanella non conosceva ancora allorchè scriveva la lettera allo Scioppio.

Ci fermiamo qui per contenerci nel periodo che ci siamo prefisso. Aggiungiamo solamente che di tempo in tempo il Campanella dovè scrivere ancora altre poesie dopo quelle già menzionate, e fuori ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere eliminata quando si fece la scelta che fu poi pubblicata a cura dell'Adami: intanto, con un poco di buona volontà, si può pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al periodo attuale. Ne indichiamo p. es. una che si rivela del tempo in cui l'autore scriveva la Città del Sole; è il Sonetto annoverato tra' Profetali che ha quella chiusa:

«Se in fatti di mio e di tuo sia il mondo privo

nell'util, nel giocondo e nell'onesto,

cangiarsi in Paradiso il veggo, e scrivo:

E il cieco amor in occhiuto e modesto,

l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,

e 'n fratellanza l'imperio funesto».

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