P.B.S. viii Luglio mdcccxxii
Udimmo in sogno sul deserto Gombo
sonar la vasta búccina tritonia
e da Luni diffondersi il rimbombo
a Populonia.
Dalle schiume canute ai gorghi intorti
fremere udimmo tutto il Mare nostro
come quando lo vèrberan le forti
ale dell’Ostro.
E trasalendo «Odi, sorella» io dissi
«odi l’annuncio dell’enfiata conca?
Forse per noi risale dagli abissi
la testa tronca,
la testa esangue del treicio Orfeo
che, rapita dal freddo Ebro alla furia
bassàrica, sen venne dell’Egeo
al mar d’Etruria».
Quasi fucina il vespro ardea di cupi
fuochi; gridavan l’aquile nell’alto
cielo, brillando il crine delle rupi
qual roggio smalto.
Come profusi fuor dell’urne infrante
parean ruggir nell’affocato cerchio
i fiumi, l’Arno del selvaggio Dante,
la Magra, il Serchio.
Ed ella disse: «Non l’Orfeo treicio,
non su la lira la divina testa,
ma colui che si diede in sacrificio
alla Tempesta.
Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale,
che venne a noi dagli Angli fuggitivo,
colui che amava Antigone immortale
e il nostro ulivo».
Dissi: «O veggente, che faremo noi
per celebrar l’approdo spaventoso?
Invocheremo il coro degli Eroi?
Tremo, non oso.
Questo naufrago ha forse gli occhi aperti
e negli occhi l’imagine d’un mondo
ineffabile. Ei vide negli incerti
gorghi profondo.
E tolto avea Prometèo dal rostro
del vúlture, nel sen della Cagione
svegliato avea l’originario mostro
Demogorgóne!»
Disse ella: «Gli versavan le melodi
i Vènti dai lor carri di cristallo,
il silenzio gli Spiriti custodi
bui del metallo,
il miel solare nella bocca schiusa
le musiche api che nudrito aveano
Sofocle, il gelo gli occhi d’Aretusa
fiore d’Oceano».
Dissi: «Ei ghermí la nuvola negli atrii
di Giove, su l’acroceraunio giogo
la folgore. Non odi i boschi patrii
offrirgli il rogo?
Mira funebre letto che s’appresta,
estrutto rogo senza la bipenne!
Vengono i rami e i tronchi alla congesta
ara solenne.
E caduto dal ciel l’arde il divino
fuoco. Scrosciano e colano le gomme.
Spazia l’odor del limite marino
all’Alpi somme».
Ella disse: «A noi vien per aver pace
il nàufrago che il Mar di gorgo in gorgo
travolse. Altra nel cielo che si tace
anima scorgo.
Placa te stesso e l’ospite! Il mortale,
ch’evocò la gran Niobe di pietra
su dal silenzio e trarre udí lo strale
dalla faretra,
èvochi presso il naufrago silente
la lacrimata figlia di Giocasta,
la regia virgo nelle pieghe lente
del peplo casta,
Antigone dall’anima di luce,
Antigone dagli occhi di viola,
l’Ombra che solo nell’esilio truce
egli amò sola.
Ecco il giglio per quelle morte chiome,
il fiore inespugnabile del nudo
Gombo, il tirreno fior che ha il greco nome
del doppio ludo,
ecco il pancrazio». Io dissi: «No, ’l corremo.
Intatto sia tra l’uno e l’altro il fiore.
Vegli con noi quest’Ombre ed il supremo
lor sacro amore».
(Romena, giorno di ferragosto del 1902)